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LA COMUNICAZIONE DEL MADE IN ITALY di Maria Angela Polesana
Il titolo di questa mia breve riflessione rimanda a un tema piuttosto complesso, nel senso che credo a chiunque di noi si interroghi sulla specificità della comunicazione del Made in Italy, sub specie pubblicitaria, manchino dei riferimenti chiari per poterne tracciare le caratteristiche, le peculiarità: la comunicazione del Made in Italy, di fatto, è abbastanza «frammentata». La memoria, nel tentativo di definirne le caratteristiche, si perde in una sorta di labirinto di voci incapaci di raccontare una vera storia, di costruire un discorso, di realizzare un testo coerente e coeso. Mentre invece non vi è alcun dubbio che una corretta comunicazione del sistema-Paese, in luogo del caotico affollarsi di messaggi, di iniziative e di eventi che non fanno sistema, e finiscono per elidersi, potrebbe portare un contributo importante. Come fare? Pensando al Made in Italy come se fosse una marca. Del resto l’efficacia di cui ha dato prova la marca nella sfera commerciale e dei consumi l’ha resa desiderabile e utile per altri «enunciatori» che hanno adottato e adattato la logica di marca ai loro bisogni. «Il principio di funzionamento astratto della marca, ciò che chiamiamo forma-marca [è] un principio
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astratto di gestione del senso»7. Un’affinità, quella tra marca e Paese, tale da essere praticata, anche in senso contrario, ossia quale metafora per spiegare il funzionamento della marca medesima. Evidenti le analogie tra marca e territorio: dalla capacità di produrre significazione, a quella di nutrirsi e di arricchirsi di simboli, di sviluppare narrazioni (si ricordi inoltre l’importanza dei miti fondativi e della produzione letteraria8 per la costruzione dell’identità di una nazione9) e di generare identità. La metafora della marca-territorio diventa efficace per sottolineare la complessità dell’area che una marca deve presidiare con forza al fine di imporsi sui mercati. «Il territorio della marca è un territorio di comunicazione perché produce identità e articola valori coesi e fondanti. Accedervi significa entrare in un processo di narrazione di cui personaggi, fatti, intrecci, simboli e cultura incarnano una precisa concordanza, una unitarietà distintiva. In definitiva una profonda sintonia interna»10. Un esempio per tutti è la marca Barilla che, attraverso la sua comunicazione, ha incarnato i valori tipici dell’italianità quali la famiglia, i sentimenti genuini, le relazioni autentiche, la cultura, l’arte, l’italian way of life. Barilla dunque come sinonimo di qualità e di italianità. Come plesso di valori intangibili tipici del Mediterraneo11. Perché dunque, considerate le effettive somiglianze tra marca e nazione (pur nella consapevolezza della ne7 A. Semprini, La marca postmoderna. Potere e fragilità della marca nelle società contemporanee, FrancoAngeli, Milano 2006, p. 9. 8 Cfr. H.K. Bhabha, Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997. 9 Cfr. M. Ferraresi, «Interpretare la marca Nazione», in M. Lombardi (a cura di), Il dolce tuono. Marca e pubblicità nel terzo millennio, FrancoAngeli, Milano 2000, pp. 265-266. 10 G. Fabris, L. Minestroni, Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca di successo, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 352 (corsivo mio). 11 Cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996.
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cessità di «aggiustare il tiro», dal momento che la nazione, come ben ricorda Ferraresi, è molto più complessa della marca12) non si va oltre fino a gestire l’immagine del nostro Paese proprio come se fosse una marca? Come abbiamo appena evidenziato, uno dei vulnus della marca Made in Italy è in primis la gestione «confusa» che la caratterizza, da cui discende un altro importante elemento di debolezza ossia l’incapacità di sintonizzarsi con lo Spirito del Tempo, l’incapacità di evolvere13 al mutare del contesto socioculturale ed economico. In particolare, il periodo storico in cui viviamo è segnato dall’impatto delle nuove tecnologie che hanno azzerato le distanze spazio temporali, viviamo nel «world is flat» di Friedman14 che ha visto l’affermarsi di nuovi competitor sui mercati mondiali, dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ai MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia) che hanno rimesso in discussione vecchi equilibri e hanno determinato un riassetto dei mercati. Un palcoscenico globale in cui ogni Paese deve «competere» con gli altri per la sua fetta di consumatori, di turisti, di investitori, di imprenditori, di eventi ecc. nonché per guadagnarsi l’attenzione dei maggiori media, dei popoli e dei governi degli altri Paesi e per farlo deve non solo offrire una produzione di qualità ma anche saper comunicare un’immagine attraente. La globalizzazione dunque ha consentito la crescita e lo sviluppo dei Paesi cosiddetti emergenti ma si è anche fatta vettore di un grande contagio: ha diffuso in tutto il mondo la Grande crisi, iniziata nell’ottobre del Cfr. M. Ferraresi, Interpretare la marca Nazione, op. cit. Per una analisi della natura evolutiva della marca cfr. A. Semprini, La marca postmoderna, op. cit., e M. Ferraresi, I linguaggi della marca. Breve storia, modelli, casi, Carocci, Roma 2008. 14 Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma 1999. 12
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2008 con il tracollo finanziario nei mercati immobiliari statunitensi15. Nello specifico, il mercato interno italiano, segnato dalla crisi e dalla politica di austerità, che hanno pesato negativamente sugli investimenti esteri, ha fatto registrare un calo di questi ultimi del 58%16; ha visto un drastico calo dei consumi che ha costretto alcune aziende a ridimensionarsi o a chiudere con conseguente contrazione dell’occupazione. Il tutto a formare l’affresco di un Paese in una situazione di sofferenza nonché, indubbiamente, di emergenza sociale. Diverso appare invece lo stato di salute del nostro Paese a livello internazionale. Infatti, secondo l’Indice FortisCorradini, elaborato dalla Fondazione Edison, in circa un migliaio di prodotti l’Italia è ai primi tre posti al mondo per valore dell’attivo di bilancio commerciale e, secondo il Trade Performance Index dell’UNCTAD/WTO, seconda solo alla Germania per numero di migliori piazzamenti nelle classifiche di competitività di quattordici macrosettori del commercio internazionale. Cfr. L. Gallino, Italia in frantumi, Laterza, Roma-Bari 2006. Secondo l’ultimo rapporto del Censis (giugno 2014), «la cattiva reputazione dell’Italia ha determinato un calo pari al 58% degli investimenti stranieri. Occupiamo il 65° posto nel mondo per procedure, tempi e costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi di costruzione, risolvere una controversia giudiziaria. L’Italia si è distinta per la perdita di attrattività verso i capitali stranieri. Nonostante sia ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d’Europa e la quinta nel mondo, il nostro Paese detiene solo l’1,6% dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8% della Spagna, il 3,1% della Germania, il 4,8% della Francia, il 5,8% del Regno Unito. A fare la differenza è la reputazione, elemento decisivo per riuscire ad attrarre investitori, purtroppo l’Italia ha un deficit reputazionale accumulato negli anni a causa di corruzione diffusa, scandali politici, pervasività della criminalità organizzata, lentezza della giustizia civile, farraginosità di leggi e regolamenti, inefficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture carenti». Fonte: http://www.censis.it/7?shadow_ comunicato_stampa=120963. [03.09.2014] 15
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91 L’Italia rimane un Paese in cui è difficile fare impresa, dove oltre a una macchina burocratica elefantiaca e spesso inefficace […] intervengono fattori sistemici come il pesante debito pubblico, le infiltrazioni criminali in molti comparti produttivi, l’economia in nero, gli investimenti esigui in ricerca e sviluppo, il ritardo persistente di molte aree del meridione, le disuguaglianze generalizzate nella distribuzione della ricchezza. Di fronte a queste oggettive difficoltà l’Italia è però anche un Paese che riesce a esprimere quasi 1.000 prodotti (946 per l’esattezza) per i quali siamo ai primi tre posti nel mondo per saldo commerciale attivo17.
Per contrastare dunque la tesi «declinista» che racconta, sia all’estero che in Italia, di un inarrestabile declino, senza che vi siano realmente i dati per affermarlo, è nato il manifesto Oltre la Crisi. L’Italia deve fare l’Italia, realizzato da Fondazione Edison, Unioncamere e Symbola e presentato a Roma nell’ottobre del 2013: per rispondere a chi sostiene che il Paese ha perso competitività, dimostrando che, in realtà, l’Italia non è affatto un Paese senza futuro. Questa errata percezione nascerebbe da un clima di pericolosa confusione. «C’è confusione tra gli addetti ai lavori, e tra gli osservatori e gli investitori stranieri, inclini a fare proprio questo giudizio infondato. Tutto ciò, ovviamente, porta grave detrimento alla nostra immagine internazionale»18. Si tratta cioè di un’immaG. Cito, A. Paolo, Italia caput mundi. I segreti delle imprese che per «fare» usano la testa, Etas, Milano 2014, pp. 2-3. 18 «Quello che da questa confusione non emerge, invece, sono due tendenze molto positive: due ponti lanciati verso il futuro che fanno carta straccia delle profezie negative, e indicano una rotta, la via per restituire coraggio e convinzione agli italiani. La prima. L’Italia non è una delle vittime della globalizzazione, anzi: ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola e ‘sincronizzandola’ con le nuove richieste dei mercati. Abbiamo saputo costruire valore aggiunto in settori – quelli tradizionali del Made in Italy: il tessile-abbigliamento, le calzature, i mobili, la nautica – 17
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gine incrinata da una percezione falsata dello stato di salute di un Paese indubbiamente in sofferenza, sotto alcuni aspetti, ma ancora vivo e vitale come dimostrano le numerose medie e piccole aziende attivamente presenti sul mercato globale. Diventa quindi indispensabile agire sulla percezione di tutti gli stakeholders della marca Italia a cominciare proprio dai suoi «abitanti». Sarebbe dunque utile lavorare su di un elemento, fondamentale nella strategia di identità competitiva19, rintracciabile nella in cui ci davano per spacciati a causa della concorrenza dei Paesi emergenti. E abbiamo creato nuove specializzazioni, come nella meccanica – oggi di gran lunga il settore più importante per surplus commerciale con l’estero – nei prodotti innovativi per l’edilizia, nei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli e nella chimica-farmaceutica. Si spiega così il fatto che nel 1999 il nostro Paese era quinto nell’UE-27 per saldo commerciale normalizzato nei manufatti, e nel 2012 è salito al terzo posto. La seconda tendenza: proprio grazie a questa nuova specializzazione – mentre la recessione globale e l’austerità facevano crollare la nostra domanda interna, e con essa PIL e occupazione – le imprese italiane hanno registrato eccellenti performance sui mercati internazionali. Tra ottobre 2008 e giugno 2012 il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese (Eurostat). Nel 2012 siamo stati tra i soli cinque Paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) ad avere un saldo commerciale con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari (per i manufatti non alimentari). Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale) nel 2011 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 946 casi. Se puntiamo la lente sui Paesi extra UE – i mercati più promettenti, quelli su cui si deciderà il futuro del commercio mondiale – questa Italia ‘in declino’ è il secondo Paese dell’UE, dopo la Germania, per surplus commerciale nei manufatti non alimentari (con un attivo di 63 miliardi di euro nel 2012). Mentre, appunto, sul mercato domestico domanda e produzione crollavano per ragioni che, evidentemente, nulla hanno a che vedere con la competitività delle imprese. Non solo l’export sfata i luoghi comuni sbandierati dalla propaganda declinista». Oltre la Crisi. L’Italia deve fare l’Italia, manifesto a opera di Symbola (Fondazione per le Qualità Italiane), Union-Camere, Fondazione Edison, 15 ottobre 2013, in http://www.symbola.net/html/article/ManifestoOLTRELACRISI. [05.09.2014] 19 Cfr. S. Anholt, L’identità competitiva. Il branding di nazioni, città, regioni, Egea, Milano 2007.
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creazione di uno spirito di nazionalismo positivo tra la popolazione malgrado le sue differenze sociali, culturali, politiche, economiche, etniche, linguistiche e territoriali. Vi sono fattori di tipo culturale, sociale e politico riferibili all’immagine del Paese che pesano negativamente sul Made in Italy e tra questi anche la mancanza di una vera identità nazionale, ovvero il prevalere di un orgoglio di tipo individuale, personale e quasi mai collettivo20. «Il ritardo dell’Italia non ha ragioni economiche, ma è motivato dal proprio carattere antropologico […]. In una stagione difficile di ripensamento è stata privilegiata la rappresentanza degli umori e la battaglia identitaria attraverso il rinserramento leghista, o la visione provinciale del capitalismo personale, senza capire che l’unica strada era invece quella della sfida innovativa e cosmopolita»21. Lo sviluppo internazionale dell’economia italiana risente della difficile conciliazione tra geografia dello Stato e geografia della Società22, il che significa che anche in situazioni in cui dovrebbe emergere in modo estremamente compatto il sistema-Italia, le diverse parti che lo compongono non riescono a raccordarsi efficacemente attorno a un unico progetto Paese. In tutto questo gioca un ruolo centrale la reputazione del brand in cui potersi riconoscere. Ovviamente la reputazione (ora fragile come dimostra l’ultimo rapporto del Censis23) di un Paese comprende molti più elementi rispetto a quelli dei prodotti e delle aziende, tuttavia la 20 C.A. Pratesi, Il marketing del Made in Italy: nuovi scenari e competitività, FrancoAngeli, Milano 2001. 21 F. Morace, B. Santoro, Italian Factor. Moltiplicare il valore di un Paese, Egea, Milano 2014, p. 168. 22 Cfr. G. Della Loggia, L’identità italiana, il Mulino, Bologna 1998. 23 http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=120963. [03. 09.2014]
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metafora conserva la sua utilità poiché lavorare in termini di marca significa per il nostro Paese applicare la stessa visione strategica, gli stessi criteri di rigore, la stessa attenzione al cliente, la medesima sistematicità nella costruzione identitaria e nella messa a punto dei benefit e degli attributi, che caratterizzano l’approccio delle grandi imprese al mercato. La marca Italia può essere equiparata alla Corporate di una grande Azienda che disponga di una molteplicità di marchi ciascuno dei quali può mutuare, dall’immagine della Corporate, valenze e avalli. Papadopolous e Heslop24 sottolineano come i Paesi non differiscono molto dalle grandi imprese: un Paese è una «grande impresa» che produce molti prodotti, non un singolo «prodotto». Come tale, ha bisogno di una strategia di posizionamento commerciale basato sulle sue competenze essenziali, che oggi provengono non tanto dalle materie prime o dai bassi costi di produzione in sé, ma soprattutto dalle persone, dalle idee, dagli approcci e dagli stili di conduzione degli affari. Per esempio, le competenze della Svizzera (accuratezza, affidabilità ecc.) sono trasferibili e applicabili in modi differenti alle diverse «linee di prodotti» del Paese, come il turismo, i servizi bancari o le esportazioni di orologi di lusso e di formaggi di alta qualità.
Come le grandi imprese utilizzano strumenti di rilevamento della percezione del loro marchio, così anche lo Stato deve dotarsi di un sistema di monitoraggio della reputazione Paese, per meglio pianificare le proprie politiche di promozione e intervenire per correggere eventuali distorsioni. È necessario sviluppare una strategia N. Papadopoulos, «Country Equity and Country Branding: Problems and Prospects», in Journal of Brand Management, IX (4/5), 2002, pp. 294314. 24
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nazionale di branding Paese (come si è fatto recentemente in Francia). Si rende dunque necessaria, in questi anni segnati da un cambiamento radicale nelle gerarchie commerciali e produttive del mondo, una riflessione sulle modalità con cui il nostro Paese deve affrontarlo. Il che conduce inevitabilmente ad affrontare il tema del «cos’è» il Made in Italy e di quali contenuti debba farsi veicolo affinché il sistema-Paese possa avere la considerazione che merita nelle decisioni di acquisto dei consumatori nel mondo. Cosa sia il Made in Italy è difficile stabilirlo poiché in troppi, come abbiamo già in precedenza evidenziato, si occupano della sua gestione, dall’ICE al Governo, dalle Ambasciate alle Regioni a Confindustria, producendo un incastro di iniziative che creano soltanto entropia. A tal punto che se «Made in Italy è il marchio di un grande concetto di fascinazione, lo è anche di un grande insieme di non-definizioni»25. Manca cioè una vera cabina di regia tale da gestire la marca Italia in maniera coerente agendo innanzitutto su quegli stereotipi nazionali che alimentano il Made in Italy ma che, come del resto tutti gli stereotipi, hanno spesso una scarsa aderenza al vero, non hanno reali riscontri oggettivi essendo sovente il prodotto della storia e solo talvolta capaci di riflettere realmente il presente. Tuttavia è con questi che, comunque, è necessario confrontarsi poiché rappresentano una sorta di carta di identità che accompagna il prodotto italiano nel mondo, facilitandone l’accesso o, viceversa, ostacolandolo. Manca un vero disegno strategico e manca anche uno R. Perrone, Una classifica dei prodotti top a marchio «Made in Italy», in http://www.ninjamarketing.it/2014/05/22/made-in-italy-migliori-prodotti-italiani/. [07.09.2014] 25
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statuto del Made in Italy, spesso usato parassitariamente (il caso del «parmesan» docet) per prodotti «clonati», prodotti che di italiano hanno soltanto il nome: è il fenomeno del cosiddetto italian sounding che, soprattutto nel food, acquista contorni angoscianti considerata la pericolosità per la salute di certi «falsi». Il problema della contraffazione26 è ormai cronico e investe le più disparate categorie merceologiche. A tal fine possono svolgere un’azione efficace il marketing e il branding utilizzando il linguaggio e le immagini per dar vita a importanti cambiamenti (si pensi, ad esempio, alle campagne sociali contro il fumo, per le cinture di sicurezza, per la raccolta della spazzatura. Una serie di gocce che pian piano erodono la roccia, che lentamente ma inesorabilmente scalfiscono dapprima, fino poi a cancellare, abitudini pericolose o scorrette). L’emergenza di questo fenomeno richiederebbe un intervento urgente per l’attribuzione di Made in Italy rigorosamente circoscritta a prodotti le cui materie prime e i cui processi di lavorazione appartengono per intero, o in larghissima parte, al nostro Paese: negli Stati Uniti, ad esempio, l’attribuzione del Made in USA è strettamente regolamentata. «Nonostante la grande visibilità dei marchi contraffatti, che troviamo sui vari marciapiedi, probabilmente è il Made in Italy del cibo il più colpito dai prodotti falsi. Sui giornali compaiono ormai periodicamente segnalazioni di falsi prodotti italiani»27. E un settore come quello agroalimentare testimonia anche, ahimè, dell’incapacità del nostro Paese di presiSi veda, a tal proposito, il rapporto dell’OCSE, Il fenomeno della contraffazione e il suo impatto sul Made in Italy, in http://www.ice.gov.it/statistiche/Contraffazione_def.pdf. [06.09.2014] 27 A. Bucci, «Il Made in Italy nell’alimentazione», in A. Bucci, V. Codeluppi, M. Ferraresi (a cura di), Il Made in Italy, Carocci, Roma 2011, p. 73. 26
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diare efficacemente gli spazi di credito che, da tempo, ci concedono i consumatori a livello internazionale. Da tempo la desiderabilità della cucina italiana è universalmente riconosciuta e si concretizza nell’apertura di ristoranti, pizzerie in tutto il mondo oltre che nella presenza di prodotti italiani su tutti i mercati internazionali. Piatti come la pizza e la pasta (con i vari sughi, dal pomodoro semplice al pesto, all’olio e parmigiano) sono probabilmente i più conosciuti al mondo oltre, naturalmente, alla ciotola di riso. A questi occorre aggiungere i cibi già pronti al consumo e cioè principalmente la gamma dei salumi (dal prosciutto crudo a quello cotto, ai salumi) e quella dei formaggi (dal parmigiano alla mozzarella, per citare i più noti e utilizzati). Siamo inoltre il Paese produttore delle migliori qualità di olio di oliva al mondo, prodotto italiano per antonomasia nell’immaginario di tutto l’Occidente. Ma l’incapacità degli italiani a pensare e agire globalmente, a creare imprese globali in grado di competere con i grandi mercati mondiali ha portato alla cessione di molti marchi del food a grandi imprese straniere. «Questa incapacità di fare impresa globale – che ha impoverito l’Italia di alcuni dei marchi più famosi28 – è presente anche in altri settori ed è una caratteristica italiana e non europea»29. Ecco allora che l’espresso italiano, il cappuccino e il «marocchino» sono stati portati nel mondo non da un’azienda italiana 28 «Fra le grandi multinazionali globali (Nestlé, Unilever, Kraft, CocaCola, McDonald’s ecc.) troviamo soltanto due ‘italiane’, Barilla e Ferrero e pochissime altre. Altri nomi noti italiani che troviamo anche all’estero – Buitoni, Motta, Galbani, Perugina, Santa Lucia, Locatelli, Carapelli, San Pellegrino, Berio ecc. – sono da decenni proprietà di multinazionali straniere. Tuttavia i loro prodotti conservano gelosamente il nome e anche l’immagine italiani, a conferma di un elemento importante e cioè che utilizzare una marca italiana premia», A. Bucci, Il Made in Italy nell’alimentazione, op. cit., pp. 64-65. 29 Ivi, p. 67.
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ma da un americano, Howard Schultz, che ha aperto migliaia di Starbucks nel mondo ispirandosi ai bar italiani. Per non parlare di Pizza Hut, un’azienda americana di fast food, che ha industrializzato la pizza. O della«mozzarella che è ormai così poco Made in Italy che molti ristoranti americani inseriscono orgogliosamente nel menù home made mozzarella»30.