IL TEATRO ANTICO La commedia greca La tragedia greca Il teatro a Roma Plauto e Terenzio
Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore
14
La commedia greca
La commedia greca
Differenze rispetto al teatro moderno Il teatro oggi
L’antico drama
Organizzazione degli spettacoli
Prima di parlare della commedia antica classica è necessario procedere ad alcune precisazioni, dato che il teatro odierno presenta profonde differenze da quello antico greco e latino. Oggi è forma di intrattenimento – più o meno culturale – da parte di una compagnia di attori che mette in scena un testo, in genere scritto in prosa, non sempre nato apposta per il teatro (nel qual caso viene rielaborato e adattato scenicamente), per un pubblico che assiste, di solito a pagamento, alla rappresentazione teatrale. Questa si definisce tragedia se l’esito degli avvenimenti messi in scena è luttuoso, commedia se è a lieto fine. Nell’antichità invece le opere destinate alla rappresentazione teatrale, dette genericamente «drammi» (dal greco drama «azione»), nascevano come tali, per cui la messinscena e la teatralità erano elementi che caratterizzavano in modo determinante tali testi. Purtroppo non possediamo alcuna documentazione a tal proposito, il che comporta che procediamo all’interpretazione e alla comprensione di questo aspetto su base indiziaria, valutando le fonti a riguardo. Inoltre sia la tragedia che la commedia si presentavano come spettacoli misti di versi (poesia), canto, musica e danza (questi ultimi tre elementi sono per noi irrimediabilmente perduti), strettamente legati a manifestazioni religiose; a tali rappresentazioni, che duravano tutto il giorno, anche per più giorni, si recava tutto il popolo. In Grecia la loro organizzazione era affidata a ricchi ed eminenti cittadini che dovevano provvedere, a proprie spese, all’allestimento dello spettacolo. I poeti che presentavano le opere ricevevano un compenso ed erano in competizione fra loro: al vincitore andava una ghirlanda d’edera e non sappiamo se anche altri premi. Analogamente in Roma gli autori dei testi venivano pagati e gli spettacoli erano organizzati dagli edili i quali, attingendo non solo da finanziamenti statali, ma anche dal proprio patrimonio, ottenevano una popolarità che favoriva la loro ascesa a magistrature più elevate.
Origini della commedia greca Il kòmos
Dioniso
Delle origini della commedia greca sappiamo poco o nulla e già i Greci non avevano più nessuna conoscenza diretta della sua preistoria. La parola sembra composta da kòmos «processione» e odè «canto» e stava ad indicare il «canto della processione». Da ciò Aristotele, lo scrittore più antico (IV sec. a.C.) da cui abbiamo notizie in proposito, ritenne che la commedia fosse nata dalla improvvisazione di chi guidava le processioni falliche (Poetica 4, 48-49); egli la pone così in un ambiente cultuale, forse dionisiaco, legato alla religione agreste e quindi plebea. In base però ad altre testimonianze, qualche studioso moderno mette in discussione la ricostruzione aristotelica e in particolare il legame della commedia con il culto e le feste di Dioniso.
La commedia «siciliana» Epicarmo
Sempre da Aristotele sappiamo che già nel VI-V secolo a.C. in Sicilia si rappresentavano commedie che forse, diversamente da quella che sarà la commedia «attica», erano prive delle parti corali. Il maggior autore fu Epicarmo di cui possediamo solo brevi frammenti,
Forme di arte comica «popolare»
giuntici per lo più per tradizione indiretta (vale a dire attraverso citazioni di altri scrittori antichi posteriori), e pochi restituiti da papiri (tradizione diretta). Tale naufragio ci impedisce di formulare ipotesi sicure sulla struttura delle sue commedie o di ricostruirne gli intrecci, ma gli elementi sono sufficienti ad individuarne alcuni temi e personaggi. Per le sue opere – specie di farse in dialetto dorico – egli attingeva il materiale in parte da eroi ed episodi della mitologia, naturalmente mettendoli in caricatura, in parte dalla vita quotidiana. Un eroe come Eracle ad esempio compare come uno spaventoso e vorace mangiatore: Prima di tutto, solo a vederlo mangiare, morresti di spavento: gli brontola dentro il gorgozzule, gli rumoreggia la mascella, scricchiola il molare, stride il canino, con le nari cigola, gli si agitano le orecchie.
La caricatura degli eroi
fr. 21 = 8; trad. di G. Pascucci
Invece nella presentazione del parassita a un iniziale vanto per la vita che conduce si accompagna una lucida e desolata considerazione sulla sua condizione: Per desinare con chi mi vuole basta che mi si inviti e, con chi non mi vuole, d’invito non c’è bisogno. Là sono il buffo della compagnia, faccio ridere molto, lodo chi offre il banchetto, e se qualcuno poi osa contraddirlo, l’insulto e mi ci sdegno. Così dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza, vado via; e, senza un servo che mi porti la lucerna, muovo, inciampo, tutto solo nel buio; e, se m’incontro con la guardia di ronda, chiedo agli dei una sola grazia, che quelli si contentino di frustarmi, e nulla più. Tornato a casa, mezzo pesto, dormo senza coperte; e non me ne accorgo, sino a che il vino bevuto mi ottenebra la mente.
fr. 35 = 103 b; trad. di B. Marzullo
Compare qui una comicità che si avvale di una finezza psicologica nel delineare il personaggio che sembra preludere quella della futura «commedia nuova». In altri frammenti emerge una tendenza alla riflessione, un atteggiamento etico che si esplica in forma di sentenze ricche di saggezza:
Psicologia e saggezza
Questa è la natura degli uomini: otri gonfiati.
fr. 246 = 228
Il saggio deve prevedere, non pentirsi.
fr. 280 = 242
Queste, raccolte e tramandate in sillogi posteriori, probabilmente furono note poi anche agli scrittori latini.
Forme di arte comica «popolare» Argomenti simili a quelli della commedia di Epicarmo furono trattati nella Magna Grecia anche nelle farse fliaciche (in forma elaborata letterariamente, saranno le «ilarotragedie» di Rintone, del IV-III secolo a.C.), spettacoli popolareschi di cui abbiamo testimonianza in raffigurazioni su ceramiche del VI secolo a.C. In esse vediamo l’immagine di personaggi (i fliaci appunto, tipi di istrioni) che indossano un costume caratteristico con imbottiture sul sedere e sulla pancia e un grosso fallo; da ciò risulta che doveva trattarsi di una forma di comicità grossolana e volgare. Popolare era anche la farsa megarese, in cui parte prevalente dovevano avere lazzi e busse, alle quali alluderà anche Aristofane. In Sicilia, nel V secolo a.C. fiorì un’altra forma di rappresentazione, il mimo, piccola farsa composta in prosa ritmica e recitata forse con accompagnamento di aulo, che si ispirava a scene di vita quotidiana. Ne possediamo vari titoli e scarsi frammenti. Nel più ampio, attribuito a Sofrone (V sec. a.C.), restituitoci da un papiro, sono descritti con realismo e vivacità i preparativi di un rito magico: Deponete qui la tavola, come si trova; tenete in mano un grano di sale e l’alloro presso l’orecchio: ora andate a sedervi presso il focolare. Tu, dammi il
Le farse
Il mimo
Cratere siceliota raffigurante caricaturalmente la vendita del tonno. Forse illustrazione di un mimo del poeta siciliano Sofrone.
15
16
La commedia greca
trad. di R. Cantarella
coltello; e tu porta la cagnetta. Dov’è il catrame? – Eccolo. – Prendi anche la fiaccola e l’incenso. Ora si aprano tutte le porte: e voi, guardate qui e spegnete il tizzone, subito. E state in silenzio, finché io me la sia sbrigata con costei (l’indemoniata?). (Pregando) «O dea, che al banchetto e alle offerte rituali tu prenda parte…».
La Commedia Attica Caratteri generali
Autori e fasi della commedia
La commedia attica era uno spettacolo in parte recitato da attori in costume, in parte cantato, al suono di un flauto, da un coro di danzatori. Costume tipo dell’attore era, agli inizi, una maschera particolarmente espressiva che copriva tutto il viso ed una calzamaglia color carne che lo rivestiva completamente, lasciando fuori solo piedi e mani; sotto ad essa era posta una imbottitura sulla pancia ed una sulle natiche, e un fallo di dimensioni esagerate, messo in evidenza da una tunica particolarmente corta (vedi figure nel vaso del V secolo). In seguito, nella Commedia Nuova, si eliminarono imbottiture e fallo e il costume fu, sempre più, simile all’abito quotidiano, un abito colorato in cui il colore aveva un significato simbolico. I personaggi, anche quelli femminili, erano interpretati solo da attori di sesso maschile, chiamati all’interpretazione di più di un personaggio, le cui caratteristiche il pubblico ricavava appunto dalla maschera. Nel verso di Orazio Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae (Sat. I 4, 1) è indicata la triade dei poeti, Eupoli, Cratino ed Aristofane, che rappresenta la «Commedia Antica» sviluppatasi in Attica, così come fu canonizzata nel periodo ellenistico (III sec. a.C.), secondo una consuetudine propria dei filologi del tempo. Questi divisero la commedia, che aveva ormai forma letteraria, in «Commedia Antica» (seconda metà del V sec. a.C.); «Commedia di Mezzo» (periodo intercorrente fra l’ultima commedia di Aristofane, massimo rappresentante della commedia antica, 388, e la prima di Menandro, 322, e di cui, non possedendo alcun esemplare, sappiamo così poco che c’è chi la ritiene solo definizione di grammatici del II secolo d.C.); «Commedia Nuova» (IV-III sec. a.C.), il cui maggior rappresentante fu Menandro.
La Commedia Antica e Aristofane Vita e opere Aristofane
La Lisistrata
La Commedia Antica aveva uno schema più o meno fisso, anche se non rigido; i temi erano vari: satira politica, parodia mitologica, motivi fantastici, talora intersecantisi fra loro. Della commedia antica direttamente conosciamo l’opera di Aristofane, l’unico di cui leggiamo opere per intero, mentre di Eupoli e Cratino ci sono rimasti titoli e frammenti più o meno ampi. Aristofane visse fra il 445 e il 380 a.C. circa, nel periodo della guerra del Peloponneso (431404 a.C.), quando Atene da grande potenza passò ad un periodo di declino per poi tornare ad avere un ruolo egemone. Della sua produzione ci sono rimaste, oltre a un migliaio circa di brevi frammenti, undici commedie rappresentate, nell’ordine, fra il 424 e il 392, Acarnesi, Cavalieri, Nuvole, Vespe, Pace, Uccelli, Tesmoforiazuse (= Le donne alle Tesmoforie), Lisistrata, Rane, Ecclesiazuse (= Le donne all’assemblea), Pluto. Per le sue opere trasse ispirazione soprattutto dalla realtà contemporanea che trasfigurò e rielaborò fantasticamente dando così vita a rappresentazioni sempre attuali, non condizionate dal tempo, nonostante vivano «del» e «nel» tempo in cui furono scritte: in esse si parla di Atene e della sua grandezza, del malcostume politico e dell’immoralità che minavano quella condizione felice con il conseguente venir meno degli ideali che avevano contribuito a determinarla. Uno dei temi più frequenti, la guerra: contro di essa e chi ne traeva profitto Aristofane si pone con le armi dell’ironia. Nella Lisistrata, ad esempio, si immagina che le donne decidano di prendere in mano la situazione: i grandi guerrieri subito desisterebbero se dovessero fare a meno del sesso! Questa è una parte del dialogo in cui Lisistrata, ateniese, riesce a convince-
La Commedia Antica e Aristofane
re le altre donne greche le cui città sono in guerra: la trovata brillante, l’oscenità che l’accompagna non possono non garantire una comicità travolgente e successo presso il pubblico:
LIS. = Lisistrata; MIR. = Mirrina; CAL. = Calonica; LAM. = Lampito LIS.
Dei padri dei vostri bambini, avete nostalgia? Sono giù al fronte: lo so, il marito lo avete tutte lontano.
MIR.
Mio marito, povera me, sono cinque mesi che è via: su in Tracia, di guardia a Eucrate.
CAL.
E il mio, sette mesi suonati: a Pilo.
LAM.
E il mio, anche se capita in licenza, ripiglia lo scudo e schizza via, come un fulmine.
LIS.
Amanti poi, nemmeno l’ombra. Da che ci hanno tradito i Milesi, l’affare lungo un palmo chi lo ha visto? Una maniera di consolarsi, anche se di cuoio. Vi piacerebbe farla finita con la guerra, assieme a me? Un sistema, forse, l’ho trovato.
CAL.
Perdio, ci sto: dovessi impegnarmi la gonna, e bermi i soldi oggi stesso!
MIR.
Pure io, a costo di farmi spaccare in due, come una sogliola: e farmi fottere a metà!
LAM.
In cima al Taigeto, andrei: a scovarci la pace.
LIS.
Lasciatemi parlare, niente più misteri. Amiche, vogliamo obbligare gli uomini a fare la pace? Dobbiamo rinunciare…
CAL.
A che, parla!
LIS.
Ma lo farete?
CAL.
Lo faremo, dovessimo crepare!
LIS.
Allora: dovremo rinunciare al coso! Mi girate le spalle, eh! Dove andate?! Stupide, storcete la faccia?! Cambiate colore… Guarda, le lacrime! Lo fate o no? Siete indecise?
CAL.
Non ci riuscirei: continui la guerra!
MIR.
Neanche io, accidenti: continui la guerra!
LIS.
Parli così? E facevi la sogliola, un momento fa: ti faresti spaccare in due, dicevi!
MIR.
Un’altra cosa, quella che vuoi: se necessario, preferisco passare in mezzo al fuoco. Sempre meglio che rinunciarci: come lo rimpiazzi, Lisistrata mia?!
LIS.
(a Calonica) E tu?
Cal.
Anche io, preferisco in mezzo al fuoco!
LIS.
Razza di sfondate, che siamo tutte! E non devono scrivere tragedie, su di noi! Non pensiamo che a quello. (Volgendosi a Lampito) Spartana cara, dammi almeno tu il voto: anche se mi rimani solo tu, riusciamo a salvare la baracca, forse.
LAM.
Perdio, che brutto per le donne dormire sole, senza capocchia. Pazienza: serve più la pace!
LIS.
Quanto sei cara: l’unica di tutte!
CAL.
Ma a farne a meno, come dici tu – dio no! –, sarebbe facile arrivare alla pace?
LIS.
E come, perdio! A casa, stiamocene tutte impupazzate, passiamogli nude sotto gli occhi, con camicette trasparenti, depilate fra le cosce. Gli si rizza immediatamente, agli uomini: tentano di saltarci addosso. Noi invece niente, scappiamo! Di corsa farebbero la tregua, sono certa!
Aristofane, Lisistrata vv. 99-155; trad. di B. Marzullo
17
18
La commedia greca
I Cavalieri
Aristofane, Cavalieri, vv. 1152-1198; trad. di R. Cantarella
Da Aristofane sono presi di mira i demagoghi, i politici, di cui denuncia corruzione e impudenza, ma anche altri uomini in vista del tempo, filosofi (Socrate), poeti (Euripide) a cui rifà il verso. L’argomento delle commedie non dà idea della sua arte che sfugge a qualsiasi definizione: sarcasmo, spesso violento, ironia, presa in giro sono i toni della sua comicità che si manifesta in trovate sceniche, episodi, caricature, beffe, trovate, battute, spesso anche oscene. Famosa è rimasta la ridicolizzazione di Cleone nei Cavalieri in cui il demagogo, idolo degli Ateniesi, sotto la maschera di Paflagone, viene detronizzato da un salsicciaio, a lui superiore in… furfanteria! Ecco la scena in cui entrambi, ciascuno con una cesta, cercano di imbonire il popolo:
PAF. = Paflagone; SALS. = Salsicciaio; POP. = Popolo PAF.
O Popolo, io da molto lungo tempo son qui pronto, desideroso di esserti utile.
SALS.
E io da dieci e da dodici e da infinite volte lungo lungo lungo tempo.
POP.
E io da tre volte infinito tempo vi sto aspettando e mi fate schifo tutt’e due, da lungo lungo lungo tempo.
SALS.
(a Popolo) Sai dunque che c’è da fare?
POP.
No, e spiegamelo tu.
SALS.
Lascia partire me e lui dalla linea a parità di condizioni per servirti bene.
POP.
Così va fatto. Partite.
SALS. e PAF. (allineati, per la partenza) Ecco. POP.
(dando il via) Correte dunque.
SALS.
(a Paflagone) Non permetto che tu mi tagli la strada.
POP.
(soddisfatto, fra di sé) Oggi, certo, questi miei adoratori mi faranno molto felice, per Zeus, se non faccio lo schizzinoso.
PAF.
(precipitandosi verso Popolo) Vedi? Sono io che ti porto per primo un seggio.
SALS.
(c. s., offrendogli il suo panchetto) Ma non la tavola: sono io più primo.
PAF.
Ecco, io ti porto questa focaccina impastata con l’orzo di Pilo.
SALS.
E io queste «conchiglie», cavate dalla dea con la sua mano d’avorio1.
POP.
Che dita grandi avevi, o Regina!
PAF.
E io, una polenta di piselli, buona e di bel colore: la rimescolò Pallade in persona, la combattente di Pilo.
SALS.
(protendendo sul capo di Popolo una marmitta, a mo’ di scudo) O Popolo, è evidente che la dea ti protegge: anche ora protende su di te una marmitta piena di brodo.
POP.
Credi tu che questa nostra città sarebbe ancora abitata, se lei non protendesse manifestamente su di noi la pentola2?
PAF.
(a Popolo, offrendo) Questi tranci di pesci te li regala la dea «Terror degli eserciti»3.
SALS.
E la «Figlia del possente Padre» ti regala questa carne cotta nel brodo, e un pezzo di budello, di molletta e di trippa.
1. Si allude alla statua di Atena crisoelefantina, nel Partenone. 2. Si richiama, parodiandola, a una famosa elegia di Solone, poeta del VI sec. a. C. 3. Epiteto, come i due seguenti, di Atena.
La Commedia Antica e Aristofane
POP.
(soddisfatto) Ha fatto bene, ricordandosi del peplo.
PAF.
La dea «dall’elmo di Gorgona» ti prega di mangiare questo sfilatino, perché filino bene le navi.
SALS.
Ma prendi anche questa roba.
POP.
E che me ne faccio, di queste budella?
SALS.
A bella posta la dea ti inviò le coste per le triremi: manifestamente ella protegge la nostra flotta. (Offrendogli una coppa) Tieni, e bevi anche questa mescolanza «tre e due»4.
POP.
(bevendo) Come è soave, per Zeus! E come porta bene quel «tre»!
SALS.
Fu proprio la Tritogenia a interzarlo.
PAF.
(porgendo a Popolo) Prendi dunque da me una fetta di torta grassa.
SALS.
E da me, invece, tutta questa torta intera.
PAF.
(offrendo a Popolo un piatto colmo: verso Salsicciaio) Ma tu non hai da offrirgli carne di lepre: io sì.
SALS.
(disperato, fra sé) Ahimè, donde potrò avere carne di lepre? (Con enfasi) «Trovami, o cuor, qualche ribalderia!»5.
PAF.
(mostrando il piatto d’intingolo a Salsicciaio) Lo vedi questo, disgraziato?
SALS.
Poco m’importa: (guardando lontano) ecco che arrivano verso di me certi ambasciatori con borse piene di danaro.
PAF.
(deponendo il piatto e precipitandosi) Dove, dove?
SALS.
Che te ne importa? Lascia stare gli stranieri! (Afferra il piatto di Paflagone e lo offre a Popolo.) O Popoluccio, vedi la lepre che ti porto?
4. Fa riferimento alla mescolanza dei forti vini di Grecia, composta di tre parti di acqua e due di vino. 5. Parodia tragica.
Particolarmente riuscito poi il personaggio di Diceopoli (il cittadino giusto) degli Acarnesi che, campagnolo furbo e attento al proprio benessere, privo di ideali ma pieno di buon senso, esasperato dai danni e lutti provocatigli dalla guerra fra Sparta e Atene, conclude privatamente una tregua; accusato poi di tradimento, perora la causa della pace non lasciandosi ingannare dalla propaganda dei guerrafondai e riesce, da buon parlatore e «attore» quale era diventato alla scuola di Euripide, a dimostrare l’assurdità della guerra. Ad Euripide Aristofane spesso allude, sia rimproverandogli il tipo di personaggi che metteva in scena, sia parodiandone lo stile: la ripresa di parole o versi in contesti differenti e paradossali, la loro citazione fatta in modo distorto e messa in bocca a personaggi di infimo rango, doveva suscitare grande ilarità nel pubblico. Di grande effetto scenico appare, nelle Nuvole, la caricatura di Socrate, «che partecipa di tutte le stramberie che il pregiudizio popolare associava con gli intellettuali e che tiene una scuola in cui si può imparare come giustificare, anche davanti ad un tribunale, imbrogli e violenze» (F.H. Sandbach); Socrate, assimilato ai sofisti (di cui invece era avversario), è così presentato: vive con i suoi discepoli in una casetta chiamata «il Pensatoio»:
Le Nuvole
Ci abitano uomini che, con i loro discorsi, ti persuadono che il cielo è un forno che si trova intorno a noi, e noi siamo i carboni. E se uno li paga, gli insegnano ad aver la meglio con le parole, a ragione o a torto. Poco dopo si apre la scena e, all’interno del Pensatoio, compaiono i discepoli in atti di profonda esagerata meditazione, mentre Socrate è in alto, in una cesta sospesa al soffitto. Parla esponendo la propria sapienza da lì perché
trad. di R. Cantarella
Se stavo a terra, dal basso scrutando le superne cose, nulla scoprivo. Egli è che la terra per forza trae verso se stessa l’umore del pensiero. Parimenti occorre al crescione!
trad. di B. Marzullo
19
20
La commedia greca
Dunque un tipo di commedia, quella di Aristofane, che si comprende e si gusta alla luce della sua rappresentazione: «Il teatro di Aristofane è il teatro in cui le «maschere» comiche hanno la meravigliosa, stupefacente contraddittorietà dell’esistenza umana. Un teatro che si esprime, sul terreno dell’arte, con una fantasia irresistibile, che mischia gag e lirismo, giochi di parole e parodie letterarie, scene inesorabilmente comiche e situazioni di rarefatta fantasia» (Antonucci).
La Commedia Nuova e Menandro Le innovazioni della Commedia Nuova
I contenuti
Menandro
Radicale fu il mutamento dalla commedia antica alla commedia nuova, intervenuto forse gradualmente nella fase della commedia di mezzo, che riguarda contenuti, tipo di comicità, struttura dell’opera. La struttura prevedeva un prologo (sul modello della tragedia euripidea) in cui gli spettatori venivano informati della situazione da cui prendeva le mosse la rappresentazione e la suddivisione in cinque atti, divisi da intermezzi eseguiti dal Coro che, «espressione tipica dell’elemento collettivo», essendo divenuto ora indipendente dall’azione, assume un’importanza decisamente marginale. Gli attori vestivano con gli abiti convenzionali del tempo (il costume non aveva più imbottiture e fallo) ed usavano ancora le maschere, che coprivano tutto il volto, tendenti a mettere in risalto alcune caratteristiche: così ad esempio la maschera per uomini e donne giovani era ben proporzionata, quella per vecchi presentava lineamenti grotteschi, quella per lo schiavo lo rappresentava spesso con i capelli rossi, colorito rubizzo, bocca larga e occhi storti. Anche i colori degli abiti fornivano indicazioni allo spettatore: il colore rosso, ad esempio, era dei personaggi giovani, il bianco dei nobili, il nero di parassiti e lenoni. Scompare la satira politica, la caricatura di personaggi contemporanei nonché l’attacco e l’invettiva diretti; la parodia mitologica, ancora presente nella commedia di mezzo, si conserva solo in qualche allusione. Personaggi ed avvenimenti sono quelli della vita borghese quotidiana. Gran parte del materiale comico era già presente in opere precedenti e i temi vengono spesso ripetuti, talvolta in modo nuovo e con nuove combinazioni: scambi di fratelli somigliantisi, rapimenti di fanciulle, esposizione di neonati, ragazze nelle mani di mercanti senza scrupoli che vogliono farne delle prostitute sono le situazioni di partenza che si risolveranno felicemente per un’inaspettata agnizione, per l’aiuto del servo fedele al padroncino innamorato e così via. In questo tipo di trama i personaggi presenti sono soldati, parassiti, cortigiane, lenoni, vecchi avari, giovani innamorati, schiavi furbi imbroglioni o fedeli, schiavi sciocchi ecc. Difilo, Filemone, Menandro sono indicati dai filologi alessandrini come i maggiori rappresentanti della commedia nuova, tutti e tre largamente imitati poi dai comici latini Plauto e Terenzio. Dei primi due la scarsità dei frammenti ci impedisce di individuarne le caratteristiche, mentre di Menandro (probabile ritratto a fianco) ci sono noti un migliaio di frammenti di tradizione indiretta, parti più o meno ampie di una ventina di commedie; una parte molto ampia (tre quarti o metà) di sei commedie: L’arbitrato, La donna di Samo, La donna tosata, Lo scudo, L’uomo di Sicione, L’odiato; ed una completa: Il misantropo. Le trame sono per lo più quelle della commedia nuova. Abbandonato l’interesse per la cosa pubblica, lasciati da parte gli argomenti tratti dal mito (vi è solo qualche allusione), sulla scena si hanno personaggi ed avvenimenti, pur avventurosi, della vita quotidiana. Li guida Tyche, la dea del caso, di fronte a cui l’uomo è impotente:
Lo scudo, vv. 143-148
TYCHE - Ma dopo essersi procacciato invano noie e molte molestie, dopo essersi fatto conoscere meglio da tutti, che razza di uomo è, ritornerà alla situazione di prima. Non rimane altro da dire se non il mio nome: sono la Fortuna, arbitra di decidere e di disporre tutto.
Centralità dell’uomo
Al centro dell’interesse di Menandro tuttavia non è tanto l’intreccio, pur condotto con abilità e senso scenico, che appare stereotipo – all’evolversi di una situazione data si oppone un
La Commedia Nuova e Menandro
malinteso o un ostacolo, superato il quale l’azione si avvia verso il lieto fine –, ma l’uomo, di cui egli cerca di cogliere pregi e debolezze, pensieri e sentimenti. Da qui la capacità di caratterizzare psicologicamente i suoi personaggi che non appaiono convenzionali, ma ricchi di umanità. A Menandro insomma «preme la scoperta di una verità interiore dell’uomo, che rompa gli schemi della sua anagrafe e riscatti il personaggio comico dalla maniera di uno stereotipo macchiettismo» (D. Del Corno). Così se la figura del servo della commedia conosce in genere ogni astuzia ed è incline all’imbroglio, Davo ne Lo scudo è non solo affezionato e fedele, ma «onesto». In questo modo parla al ritorno dall’Asia, dove crede che il suo padrone Cleostrato sia morto: DAVO - (Sono arrivato. Ma non è) un giorno lieto che trascorro, o padrone, né i miei ragionamenti ora somigliano in qualche modo alle speranze che avevo concepite partendo. Credevo che saresti tornato dalla guerra sano e salvo, ricoperto di gloria, e avresti vissuto per il resto dei tuoi giorni una vita dignitosa, stratego o uomo politico rinomato; credevo che, tornato a casa desiderato, avresti maritato tua sorella, per la quale eri partito, con un uomo degno della tua posizione. Per la mia vecchiaia speravo, in cambio dell’affetto, un riposo dalle lunghe fatiche. Ma ora te ne sei andato, ci sei stato incredibilmente strappato; ed io, il tuo pedagogo, o Cleostrato, son tornato qui, recando questo tuo scudo, che non fu capace di salvarti mentre tu lo avevi assai spesso salvato: eri un uomo coraggioso, quant’altri mai.
Lo scudo
vv. 1-18
E così poco dopo a Smicrine, un avaro vecchio zio di Cleostrato: DA. = Davo; SMI. = Smicrine SMI.
E tra i morti vedesti lui caduto?
DA.
Riconoscerlo con assoluta certezza non era possibile: per quattro giorni erano rimasti a giacere per terra e avevano i volti tumefatti.
SMI.
E allora come fai a saperlo?
DA.
Giaceva con lo scudo accanto; nessuno dei nemici lo aveva preso, ridotto in pezzi com’era. Il nostro egregio comandante ci impedì di piangere i morti uno per uno, prevedendo che la raccolta delle ossa di ciascuno avrebbe arrecato una gran perdita di tempo. Fece raccogliere i cadaveri tutti insieme e in massa li fece bruciare; seppellitili in fretta, tolse subito il campo. Noi ci dirigemmo dapprima a Rodi e, rimasti lì qualche giorno, prendemmo il mare a questa volta. È tutto.
SMI.
Hai detto di avere con te seicento monete d’oro?
DA.
Sì.
SMI.
E vasellame?
DA.
Sì, per un peso all’incirca di quaranta mine, non di più, o erede!
SMI.
Come? Credi forse, dimmi, che io ti faccia tali domande per questo? Per Apollo! E il rimanente fu saccheggiato?
DA.
Sì, quasi tutto, tranne quello che io avevo preso all’inizio. Ecco, qui ci sono mantelli, vestiti e t’appartiene pure questo stuolo di servi che vedi. Non mi curo più di queste cose; doveva vivere lui!
vv. 68-90
Anche la figura del miles gloriosus, solitamente sbruffone, in Menandro conosce altra coloritura perché colpito dal sentimento dell’amore: così ne La donna tosata, è l’amore che guida il soldato Polemone nelle sue manifestazioni di gelosia e disperazione e nelle sue azioni; il soldato lascia il posto all’uomo, innamorato e trepidante:
La donna tosata
POLEMONE - Non so che dire; tranne che vorrei impiccarmi. Glicera mi ha lasciato, mi ha lasciato, capisci? Se pensi che sia fattibile – tu sei suo amico, le hai parlato tante volte prima – va’ da lei, portale un’ambasciata, te ne supplico.
vv. 254-259; trad. di G. Paduano
Allo stesso modo ne L’odiato, Trasonide, pur avendo in possesso, perché preda di guerra, la giovane Crateia di cui è innamorato, non vuole averla con la forza e, restituitala sponta-
L’odiato
21
22
La commedia greca
neamente, la chiede in moglie al padre con parole che rivelano carattere e comportamenti ben lontani da quelli del soldato fanfarone: vv. 258-268; trad. di F. Sisti
TRASONIDE - È giunto poco tempo fa, dici, il padre di Crateia? Adesso potrai vedermi divenire il più felice o il più disgraziato degli uomini. Se non gli vado a genio e non mi dà sua figlia in legittime nozze, Trasonide è spacciato. Speriamo che non accada. Andiamo dentro. Non è più tempo di fare congetture, ma bisogna sapere con certezza. Timoroso e tremante entro in casa; l’animo, Geta, non mi presagisce nulla di buono; son pieno di timori. Ma tutto è meglio anziché stare a fantasticare.
L’Arbitrato
Anche ne L’Arbitrato, la commedia ritenuta il capolavoro di Menandro, non manca l’elemento di «umanizzazione» dei personaggi: concordemente viene giudicata la figura più riuscita del teatro menandreo quella dell’etera Abròtono, che, diversamente dall’etèra tradizionale, sfacciata e intrigante, appare generosa e disinteressata. La trama della commedia, come si può evincere dal riassunto, contiene gli elementi tradizionali: Panfile sposa Carisio che, poco dopo il matrimonio, parte per un lungo viaggio. Al ritorno viene a sapere dal suo servo Onesimo che la moglie gli ha affidato, da esporre, un bimbo che ella ha partorito dopo soli cinque mesi dal matrimonio. Sdegnato ed afflitto, Carisio abbandona la moglie e prende con sé la citarista Abròtono. Al padre di Panfile, Smicrine, arrivato in città perché in ansia per la sorte della figlia e della dote, si avvicinano, chiedendogli di fare da arbitro (da qui il titolo) nella loro contesa, il pastore Davo e il carbonaio Sirisco. Questa la causa della lite: il pastore Davo ha trovato un neonato e l’ha affidato, da allevare, al carbonaio Sirisco, senza però dargli i gioielli, oggetti di riconoscimento, che il bimbo portava con sé; Sirisco li reclama per permettere in futuro il riconoscimento da parte dei genitori, Davo glieli nega. Smicrine decide che questi vadano al bimbo e quindi a Sirisco. Mentre egli li osserva e li enumera, è avvicinato da Onesimo che fra essi riconosce un anello del suo padrone smarrito durante una festa di donne e, sospettando che il padre sia quindi il suo padrone, se lo fa consegnare. Abròtono, venuta a conoscenza dell’accaduto, ricorda di aver partecipato alla festa, durante la quale una fanciulla aveva subito violenza da un giovane in stato di ubriachezza ed architetta un piano per scoprire, prima di rintracciare la fanciulla, se il padre è veramente Carisio.
vv. 335-362; trad. di F. Sisti
ON. = Onesimo; ABR. = Abròtono ON.
Che si deve fare, dunque?
ABR.
Vedi un po’, Onesimo, se ti piace la mia idea. Attribuirò a me il fatto e andrò dentro da lui con questo anello.
On.
Spiega bene quel che vuoi dire. Mi sembra di cominciare a capire.
ABR.
Vedendomi l’anello, mi chiederà dove l’ho preso. «Alle Tauropolie – dirò io – quand’ero ancora vergine», e attribuirò a me tutto quello che è capitato alla ragazza. Di queste faccende sono abbastanza esperta.
ON.
Certamente, meglio di chiunque altro!
ABR.
Se la faccenda lo riguarda…
ON.
(interrompendola) Bene, bene!
ABR.
(continuando) …subito sarà spinto a darmene la prova e, ubriaco com’era, mi dirà lui tutto per primo, senza riflettere; e io confermerò tutto quello che dirà, senza anticipare nulla, per paura di sbagliare.
ON.
Benissimo, per il Sole!
Abr.
E per non sbagliare, dirò le solite cose svenevoli: «Come fosti impudente e ardito!».
ON.
Benone!
ABR.
«Con che forza mi gettasti a terra! Che bel vestito ci rimisi, povera me!» dirò. Prima, però, voglio andare dentro quella casa a prendere il bambino, a compiangerlo, a baciarlo, e voglio chiedere alla donna, che lo ha, dove l’ha preso.
ON.
Per Eracle!
ABR.
E alla fine dirò: «Ecco, ti è nato un bambino!», e gli mostrerò il trovatello.
La Commedia Nuova e Menandro
ON.
Un’idea veramente astuta e maliziosa, Abròtono!
ABR.
Quando avremo accertato tutto nei particolari e si proverà che il padre è lui, con calma cercheremo la ragazza.
Grazie a questo piano si scopre che il padre del bambino è proprio Carisio; Smicrine vorrebbe che Panfile lasciasse il marito ma ella ne giustifica la colpa e non cede. Abròtono riconosce in Panfile la fanciulla violentata; rinunciando a sfruttare la situazione a suo vantaggio, le rivela la verità in un colloquio privato, mentre Carisio, che ha ascoltato di nascosto i discorsi fra il suocero e la moglie, pentito del proprio comportamento, si riconcilia con Panfile.
Nel Misantropo indimenticabile è la figura di Cnemone: vecchio contadino bisbetico, dal comportamento «asociale», vive con la figlia, l’unica persona con cui parla, rifiutando ogni contatto umano: ma, nel momento del bisogno (è caduto in un pozzo), il comportamento solidale e rivelatore di ricca umanità del giovane Gorgia, figlio della donna che lo ha sposato in seconde nozze, che egli ha sempre respinto, gli fa cambiare visione del mondo: «Cnemone non muta il mondo, ma il mondo muta lui, portandolo al riconoscimento dell’errore compiuto nella valutazione dei rapporti umani» (G. Paduano). Ecco i versi in cui è descritta da uno dei personaggi la sua indole prima, e quelli in cui egli stesso fa autocritica:
Il Misantropo
GORGIA - È il vertice assoluto della cattiveria. Le sue sostanze arrivano all’incirca a due talenti; i suoi campi se li coltiva da solo, senza nessuno che lo aiuti; senza un servo di casa né un bracciante del posto o un vicino, insomma solo. Per lui il massimo piacere è non dover vedere nessun uomo. Per lo più quando lavora tiene con sé la figlia, e parla con lei sola; con nessun altro lo fa volentieri. Dice che la darà in moglie solo quando troverà un genero del suo stesso carattere.
vv. 326-337, 711-747; trad. di G. Paduano
CNEMONE - L’unico errore è forse stato quello di credermi il solo autosufficiente, di non aver bisogno di nessuno. Ora che ho visto da vicino la morte rapida, imprevedibile, ho capito che sbagliavo. Bisogna avere sempre vicino qualcuno che ti possa dare un aiuto. Ma, per Efesto, sono stato messo fuori strada dal vedere il modo di vivere degli altri, i loro calcoli, l’attenzione esclusivamente rivolta al guadagno. Non avrei mai pensato che ci fosse fra tutti una persona capace di fare il bene altrui. Questo era l’ostacolo che avevo davanti. Solo Gorgia ora mi ha dato con i fatti la prova di essere un uomo generoso. Io non lo lasciavo neppure avvicinare alla mia porta; non l’ho mai aiutato, non gli ho mai dato neppure una parola di saluto, una parola gentile… eppure mi ha salvato. Un altro avrebbe detto, e con ragione: «Non mi vuoi nella tua casa? E io non ci vengo. Non mi hai mai fatto un piacere? E neanche io lo faccio a te». Che c’è, ragazzo? Se muoio – e credo proprio di sì, sto male – e anche se sopravvivo, ti adotto come mio figlio. Tutto quello che ho, fa conto che sia tuo. Ti affido mia figlia, trovale un marito. Io non potrei farlo neanche se fossi sano; nessuno mi piacerebbe. Quanto a me, se vivo, lasciatemi vivere come mi piace. E anche il resto curalo tu al posto mio; hai senno abbastanza, grazie agli dei. Del resto, è giusto che sia tu ad occuparti di tua sorella. Dalle in dote metà dei miei beni; l’altra metà deve servire al mantenimento mio e di tua madre. Figlia mia, aiutami a sdraiarmi: parlare più del necessario non è da vero uomo. Però devi sapere ancora una cosa, poche parole a proposito del mio carattere. Se tutti fossero come me, non ci sarebbero tribunali, né prigioni, né guerra, e tutti si acconterebbero di poco. Ma a voi piace più questo modo di vivere. E allora, comportatevi come vi pare, e il vecchio bisbetico se ne va fuori dai piedi. Nelle sue commedie Menandro dunque approva il comportamento dei suoi personaggi quando è improntato a fiducia nell’umanità e filantropia, mentre la nega a chi non riesce a far proprie le virtù della vita privata richieste a ciascuno, «riservando il ridicolo per gli avidi, i tronfii, gli insinceri, e per i padri che hanno dimenticato cosa vuol dire essere giovani» (F.H. Sandbach). Ma il ridicolo è messo in luce da sottile ironia, da umorismo; nulla – né situazioni, né battute, né imprevisti – provoca riso irrefrenabile; il tono di Menandro è quello dell’umorismo, non della comicità travolgente.
23
24
La commedia greca
La generale atmosfera morale, in cui sono inseriti personaggi e situazioni, sottolineata da numerose espressioni dal carattere sentenzioso, contribuirà alla fortuna delle sue commedie nei secoli a venire, maggiore di quella attribuitagli dai suoi contemporanei. Menandro sarà infatti autore prediletto dai commediografi latini attraverso i cui rifacimenti sarà noto alla commedia europea tradizionale che si modellerà secondo le linee strutturali e tematiche da lui istituite.
Origini e caratteri della tragedia greca
La tragedia greca
Origini e caratteri della tragedia greca Oltre al teatro comico, fiorisce in Grecia nei secoli V e IV a.C. la tragedia. La democrazia ateniese, conferendo al popolo il potere di decisione, dava implicitamente rilevanza al dibattito, alla persuasione tramite la parola. Gli spazi per la creazione del consenso erano, oltre a quelli consacrati alle adunanze politiche, le festività civili e religiose come le Grandi Dionisie celebrate ad Atene in marzo e in aprile, durante le quali avvenivano, nel segno di Dioniso (il Bacco dei Latini), gli agoni drammatici. Si trattava di una festa della polis avente carattere politico-religioso, prima ancora che ludico. Tutte le spese per l’allestimento (costumi, maschere, ingaggi per gli attori, ecc.) erano sostenute dalla polis. Rilevante era la dimensione agonistica: ogni tragediografo si esibiva nella gara presentando tre tragedie e un dramma satiresco (tetralogia). Una giuria sceglieva il vincitore. La tragedia affonda le radici nel ricco substrato antropologico delle festività religiose, dei culti degli eroi locali, dei rituali agrari. Al mondo contadino e dionisiaco – ma Dioniso è patrono della fertilità in genere, quindi anche di quella dei campi – riporterebbe l’etimologia del termine: «canto del capro», con riferimento alla mascheratura caprina dei seguaci di Dioniso. In base alla «teoria aristotelica» la tragedia sarebbe nata dal ditirambo (canto in onore di Dioniso) trasformato in dialogo tra il capocoro (corifeo) e il coro. Secondo il filosofo Friedrich Nietzsche la tragedia rifletterebbe il conflitto, nello spirito greco, tra il momento apollineo della solarità, razionalità e quello dionisiaco dell’irrazionalità, ebbrezza, animalità. La tragedia era la rappresentazione scenica mediante attori (prima due, poi tre) di un’azione (drama) attraverso la recitazione, la musica, la danza. Al prologo iniziale (recitato da uno o più personaggi) seguiva una párodo (canto d’ingresso del coro) e una serie di episodi separati tra loro da stásimi (canti del coro). La sezione conclusiva era l’ésodo o «uscita». Il coro, che rappresentava i cittadini della polis, dialogava coi personaggi per bocca del corifèo. I soggetti della tragedia sono tratti dal mito, cioè dalla remota storia sacra dei Greci. Che cos’è il mito? «I miti sono narrazioni tramandate dalla tradizione, perché contengono valori importanti per la comunità o perché costituiscono racconti di particolare rilevanza narrativa» (Howatson). Se si riferiscono a personaggi reali che hanno operato in luoghi reali e riportano gli eventi in forma abbastanza realistica (ad esempio le vicende dei sette re di Roma) si possono definire leggende. I contenuti del mito sono vari e possono riguardare l’origine del mondo e della Terra, le forme del culto, le istituzioni degli uomini. Hanno carattere «aperto», nel senso che si prestano a essere narrati secondo varie versioni e ad accogliere mille inserimenti e variazioni. Costituiscono l’antefatto della storiografia (a partire dalle genealogie mitiche di dei e eroi), ma anche della scienza e della filosofia (a partire dai grandi miti cosmologici). Le maggiori fonti mitiche sono per noi Omero, Esiodo, ma anche i poeti ellenistici come Callimaco, per i quali il mito, per lo più ripreso in una variante poco nota, diviene un ornamento prezioso della narrazione. Le Metamorfosi di Ovidio furono il maggiore veicolo di trasmissione del patrimonio mitico antico nei secoli. La forma del sapere collettivo dei preistorici. Come sostiene l’antropologo Altan, l’esperienza mitica è fondamentale per le popolazioni antiche e preletterate, immuni dagli effetti indotti, nei ceti colti, dal razionalismo greco, e presso le quali le operazioni canoniche del pensiero definito razionale (classificazione, numerazione, spazialità, temporalità, causalità) assumono connotati diversi da quelli assunti nella tradizione occidentale. L’affermazione del pensiero razionale ha comportato che il mito divenisse sinonimo di menzogna. Il termine mythos, originariamente non antitetico rispetto a logos (con cui poteva coesistere nel composto mythologia, «complesso di racconti»), in seguito agli sviluppi della filosofia greca diviene l’opposto del logos o discorso razionale, e il mito è confinato nella sfera del-
Un portato della democrazia
Attore tragico che sorregge una maschera. Cratere del IV sec. a.C. Würzburg, Museo von Wagner.
Le origini
La struttura della tragedia
Il mito
25
26
La tragedia greca la pre-razionalità, anzi dell’irrazionalità, considerato antitetico alla scienza, retaggio di tempi oscuri dominati dalla paura e dalla superstizione. In realtà, secondo le vedute più recenti, il mito era la forma del sapere collettivo dei popoli preistorici. Nel loro orizzonte culturale «il patrimonio di sapere collettivo, economico, tecnologico, politico, sociale e religioso in cui si articola la cultura, si manifesta globalmente come mitologia, nella quale sono ancora fra loro indistinte quelle forme che storicamente assumeranno un significato autonomo nelle diverse specializzazioni disciplinari proprie della cultura in senso moderno occidentale» (C. Altan). Esiste una mitologia romana? Manca ancora un serio tentativo per definire quale sia la funzione del mito nella cultura romana, più banalmente, quali siano i miti romani. L’idea prevalente è che, per il suo carattere concreto, la religione latina fosse interessata a definire la sfera d’azione di ciascun dio venerato in quanto capace di intervenire in un dato settore della vita pratica, ma non possedesse miti teogonici (riguardanti la nascita delle varie divinità). Questi miti deriverebbero dalla Grecia ed avrebbero solo un carattere letterario, anche se di grande rilevanza, al punto che la mitologia greca è un ingrediente fondamentale, costitutivo e non meramente esornativo, della letteratura latina. In questa prospettiva quella romana sarebbe una «cultura senza mito» o, meglio, una cultura fondata su miti altrui, frutto di invenzioni letterarie posteriori. Recentemente l’archeologo Andrea Carandini ha sostenuto che la tradizione leggendaria romana presenta nuclei di verità ai quali la ricerca archeologica può fornire un riscontro. Il racconto delle origini romane, in particolare il mito della fondazione ad opera di Romolo, non sarebbe il semplice ricalco di miti greci, ma avrebbe una consistenza autonoma rispetto alla mitologia greca (A. Carandini, Archeologia del mito. Emozione e ragione fra primitivi e moderni, Einaudi, Torino 2002).
I contenuti
La catarsi
I contenuti della tragedia, di grande rilevanza antropologica, concernono il destino dell’uomo, le sue colpe e responsabilità, il rapporto col dio ora dispensatore di giustizia ora invidioso e inspiegabilmente ostile verso il genere umano. Il mondo della tragedia è conflittuale e oppone l’uomo all’uomo o al dio, le leggi ancestrali della vendetta alle leggi della polis, la civiltà del diritto codificato a quella tribale pre-giuridica. I personaggi, in preda a sentimenti e passioni elementari come l’ambizione, l’eros, l’avidità, infrangono le leggi della natura, della polis, o di entrambe. E la gravità dell’infrazione è spesso indipendente dalla responsabilità soggettiva. Così Edipo, che senza saperlo viola la legge del sangue uccidendo il padre e congiungendosi alla madre, pagherà la pena dell’incesto e del parricidio e la maledizione si propagherà anche ai suoi discendenti. La tragedia, in quanto promossa dallo stato (i contenuti erano selezionati dall’arconte eponimo, che sceglieva anche la compagnia degli attori), aveva una precisa funzione pedagogica nei confronti della collettività. Tale funzione è assolta esplicitamente dal coro, che commenta col canto l’azione drammatica, ponendola in relazione col sistema dei valori condivisi dalla comunità civica. Ma prima ancora che attraverso il commento del coro, la funzione educativa era nel forte coinvolgimento emotivo degli spettatori, che secondo Aristotele aveva un valore liberatorio (catarsi): proiettandosi nel dramma il pubblico viveva in prima persona le passioni (pathémata) degli eroi e il mito, pur conservando la sua funzione paradigmatica, entrava in rapporto dialettico con la realtà presente, diveniva lo spunto per un dibattito attuale.
Eschilo La vita
Di nobile famiglia, nato nel 526 a Eleusi (sede di un celebre santuario dell’Attica), è l’interprete più schietto della «fase eroica» della storia di Atene. Combatte nelle guerre persiane. Divenuto famoso, è in Sicilia alla corte di Ierone I di Siracusa, ritorna di nuovo ad Atene e poi si ritira definitivamente in Sicilia, dove muore a Gela nel 456. L’epitaffio composto per sé non fa cenno alle qualità poetiche, ma solo alle virtù militari: Eschilo di Euforione Ateniese questa tomba ricopre, defunto qui nella feconda Gela. Del suo valore può dire la selva gloriosa di Maratona e quello che bene lo sa, il Mido dalle lunghe chiome.
I Persiani
Alla guerra a cui Eschilo ha partecipato è dedicata la prima tragedia, i Persiani. La sconfit-
Eschilo
ta di Serse nella battaglia navale di Salamina (480 a.C.) è rivestita della luce stessa del mito. La vittoria dei Greci è interpretata in senso religioso come punizione divina dell’arroganza (hybris) ed empietà del re persiano. Di qui il senso pedagogico dell’opera che non si configura come ricostruzione di un pezzo di storia contemporanea, bensì come impegno a cogliere tra le vicende gli aspetti più rivelatori del destino dell’uomo, quelli che toccano le corde più intime del cuore e rivestono un più profondo e universale valore umano. Il proposito principale è di svelare il significato metastorico dell’evento, di cogliere un principio che consenta di orientare il comportamento dei cittadini secondo un sistema di valori condiviso. All’arcaica divinità bizzarra e incomprensibile nei suoi interventi si sostituisce un dio, Zeus, che punisce gli uomini in base alle colpe commesse, secondo un’etica che sembrerebbe ammettere il libero arbitrio del cittadino e valorizzarne la responsabilità individuale, la misura, la religiosità. La vittoria dei Greci è frutto del loro valore, ma anche del favore di Dike (Giustizia) e di Zeus, sotto la cui protezione hanno piamente affrontato il nemico, fidando nella libertà e nel diritto. Nondimeno permane il contrasto drammatico tra una forza fatale che agisce al di sopra degli uomini e la loro personale eticità. La tragedia eschilea mostra di continuo come gli uomini non siano liberi, spesso le loro azioni raggiungano l’effetto contrario a quello sperato, dominati come sono da una forza superiore e misteriosa. Ciò è evidente nei Sette contro Tebe, che apparteneva a una trilogia di cui due tragedie (Laio, Edipo) sono perdute. Sui fratelli Etèocle e Polinìce, figli di Edipo e nipoti di Laio, ricadono gli effetti della colpa di questo, che ha generato Edipo contro il divieto di Apollo di procreare, pena la distruzione di Tebe. Edipo, divenuto inconsapevole assassino del padre e sposo della madre, quando scopre l’atroce verità si accieca e si condanna all’esilio. La maledizione si trasmette ai due fratelli, figli dell’incesto, impegnati in una guerra fratricida per dividersi l’eredità paterna e destinati a uccidersi l’un l’altro spegnendo la loro stirpe maledetta: il genos si dissolve, ma Tebe è salva. Se Edipo, soggettivamente, è innocente, Laio era solo parzialmente colpevole. Infatti l’ordine d’Apollo lo obbligava a scegliere tra due doveri contrastanti, cui non poteva sottrarsi: quello di salvare la polis e quello di perpetuare il genos, cellula primordiale della società arcaica. Etèocle a sua volta non può sottrarsi al dovere d’essere un fratricida e ne è pienamente consapevole: «Quando un dio ti colpisce con un male non ti è possibile evitarlo» (v. 719). Anche il re Pelasgo delle Supplici è posto di fronte a un’alternativa drammatica. A lui si sono rivolte per avere protezione le cinquanta figlie di Danao che rifiutano le nozze con i cugini egizi. Il dilemma è questo: rifiutare l’aiuto incorrendo nell’ira di Zeus o procurare una guerra sanguinosa alla propria città. Pelasgo si consulta democraticamente con i cittadini riuniti in assemblea e con loro decide di accordare la protezione alle fanciulle. I nuclei etico-civili proposti alla riflessione dello spettatore sono il significato del matrimonio, il diritto d’asilo e soprattutto il valore delle assemblee dei cittadini (in forma di «democrazia diretta») come base per assumere decisioni importanti per la collettività. PELASGO
Non posso promettervi nulla ora; bisogna che prima mi consulti con tutti i cittadini;
SUPPLICI
Ma tu sei il padrone, non dipendi dal giudizio di nessuno.
PELASGO
No, l’ho già detto: io non posso fare nulla senza il popolo, per quanto potere io abbia; non voglio che la gente mi rinfacci di avere mandato in rovina la città per onorare delle straniere.
Anche il protagonista dell’Agamennone – che con Coefore e Eumenidi costituisce l’unica trilogia giuntaci (la cosiddetta trilogia dell’Orestea rappresentata nel 458 a.C.) – s’era trovato di fronte a un’alternativa drammatica: scegliere tra il sacrificio della figlia Ifigenia, di per sé empio ma necessario per il proseguimento della spedizione a Troia, e la rinuncia all’impresa che pure era voluta dagli dei (per punire la colpa di Paride che aveva rapito Elena). Al ritorno del re da Troia, la moglie Clitennestra, per vendicare l’uccisione di Ifigenia, lo uccide su istigazione dell’amante Egisto. Vendicatore del padre s’erge il figlio Oreste che tru-
I Sette contro Tebe
Le Supplici
vv. 398-401
La trilogia dell’Orestea
27
28
La tragedia greca
cida la madre e, in quanto matricida, è perseguito dalle Erinni fino al momento in cui ottiene l’assoluzione davanti al tribunale d’Atene. A monte degli orrendi delitti, nucleo generatore delle vicende che insanguineranno la casa degli Atridi, c’è la rivalità feroce tra Atreo e Tieste. Questi aveva insidiato al fratello la moglie e il regno ed era stato da Atreo punito con la cena nella quale gli erano state imbandite le carni dei suoi figli. Ecco il passo in cui Cassandra, la profetessa figlia di Priamo che Agamennone ha portato con sé da Troia, prevede l’imminente uccisione del re voluta da Clitennestra e, deterministicamente, riconnette quest’ultimo crimine alla serie degli assassinii familiari della famiglia degli Atridi («casa odiata dagli dei … mattatoio di uomini, suolo inzuppato di sangue»), macchiata all’origine dall’orrrore dell’antropofagia («il pianto di bambini sgozzati, le carni arrostite, mangiate dal padre»). vv. 1072-1342; trad. di G. Paduano
Oreste, seduto con la spada ancora in mano, è giunto supplice all’oracolo di Delfi. Apollo lo sovrasta con un porcellino per proteggerlo e garantire l’espiazione del delitto. Davanti stanno le Erinni, risvegliate dalla Pizia (sacerdotessa di Delfi). Vaso del 390-380 a.C. Parigi, Musée du Louvre.
CA. = Cassandra; CO. = Coro Ahimè! Apollo, Apollo! CA. CO. Perché gemi invocando Apollo? Non gli appartiene il lamento funebre. Ahimè! Apollo, Apollo! CA. Ancora invoca con cattivo augurio il dio che non ha parte nel canto di dolore. CO. CA. Apollo, dio delle strade1, Apollo, il tuo nome vuol dire «dio della mia distruzione». Dove mi hai portato? A quale casa? Alla casa degli Atridi. Se non te ne rendi conto, te lo diciamo noi. È la verità. CO. CA. Ah! dunque a una casa odiata dagli dei, complice di tanti assassinii familiari […] un mattatoio di uomini, un suolo inzuppato di sangue. La straniera sembra un segugio; cerca le piste della strage. CO. CA. Mi appello a queste testimonianze: il pianto di bambini sgozzati, le carni arrostite, mangiate dal padre. CO. […] conosciamo bene la fama della tua arte profetica, ma qui non vogliamo indovini. Ahimè, che cosa si sta pensando? Quale nuovo immenso dolore si sta preCA. parando in questa casa? incurabile, intollerabile dalle persone care, e il soccorso è lontano. Non riusciamo bene a capire questi vaticini; gli altri li sappiamo bene: tutCO. ta la città li grida. CA. Che cosa fai, sciagurata? Prepari il bagno a tuo marito… ma come dire la fine? Presto, sarà presto: le mani si protendono l’una dopo l’altra! CO. Non capiamo ancora; da questi enigmi restiamo smarriti come dinanzi ad oracoli ciechi. […] Ora l’oracolo non guarderà più dai veli come una giovane sposa; si slanCA. cerà spirando lucido verso il sole nascente e alla luce ribollirà come un’onda, ancora più grande di questo male. Vi dirò tutto senza enigmi e voi mi sarete testimoni che sono stata un buon segugio nel ritrovare le tracce delle storie antiche. Mai questa casa viene abbandonata da un coro di voci concordi, infauste, che non dicono il bene; per essere più ardito ha bevuto sangue umano, e resta nella casa e non si può scacciarlo, lo stuolo delle Erinni familiari. E rimanendo qui cantano l’inno della prima colpa e, una per una, il disgusto e l’ostilità per chi ha violato il letto del fratello. Sbaglio forse, o colpisco nel segno come un buon arciere? Sono forse una falsa profetessa che importuna bussando alle porte? Rendetemi testimonianza giurando, che io conosco le colpe antiche di questa casa. CO.
Ma come un giuramento, anche saldo, potrebbe dare rimedio? Però è strano che tu, straniera, cresciuta al di là del mare, abbia detto tutto come se fossi stata presente.
1. Agyiéus, un antico epiteto che ha riscontro nelle statue dedicate ad Apollo sulle strade.
Eschilo
CA.
Apollo profeta mi ha assegnato questo compito.
CO.
Forse perché preso dal desiderio amoroso, pur essendo dio?
CA.
Prima avevo vergogna a dirlo.
CO.
Tutti, quando le cose vanno bene, sono più scostanti.
CA.
Lottò per avermi, effondendo tutta la sua seduzione.
CO.
E vi siete amati, avete avuto figli?
CA.
Gliel’avevo promesso; ma l’ho ingannato.
CO.
Eri già posseduta dall’arte profetica?
CA.
Già vaticinavo ai miei concittadini i loro mali.
CO.
E non ti ha colpito la collera di Apollo?
CA.
Sì; dopo la mia colpa non riuscivo più a persuadere nessuno.
CO.
Noi sì; a noi i tuoi oracoli sembrano veri.
CA.
Ahimè, di nuovo il travaglio della profezia mi sconvolge, intonando il suo canto […]. Guardate quei ragazzi che siedono nel palazzo, simili a forme di sogno: sono ragazzi uccisi dai loro congiunti – le mani piene di carni, il pasto di loro stessi, e mostrano il peso orrendo delle loro viscere, che il padre ha gustato. E di ciò qualcuno medita vendetta, vi dico: un leone imbelle acquattato nel letto che aspetta il ritorno del mio padrone – sì, perché io devo sopportare la schiavitù. Il capo della flotta, il conquistatore di Troia, non sa che cosa prepara per sua cattiva sorte la lingua della cagna che ha sposato e che così lungamente ha detto la propria gioia, nascosta come Ate. Tale è la sua audacia, una donna assassina di un uomo! Come potrei chiamare il mostro? Anfesibena, o Scilla che abita sugli scogli, rovina dei naviganti – […] lei che contro i suoi spira odio inflessibile? Quale grido ha lanciato l’audace, come per una vittoria in battaglia, mentre sembrava gioire del ritorno e della salvezza. E se non vi convinco, è lo stesso: che importa? Verrà ciò che deve venire: lo vedrete ben presto e direte, con pietà, che sono profetessa sin troppo veridica.
CO.
Abbiamo capito che parli della cena di Tieste, e abbiamo orrore e paura di sapere altro, verità e non fantasie. Sul resto non possiamo che andare alla deriva, a precipizio.
CA.
E allora vi dico che vedrete la morte di Agamennone.
CO.
Taci, sciagurata!
CA.
Ma a ciò che dico non c’è nessun rimedio.
CO.
Sì, se avvenisse; ma speriamo che così non sia.
CA.
Mentre voi pregate, c’è chi pensa ad uccidere.
CO.
Quale uomo compirà questa angoscia?
CA.
Siete molto lontani dal mio vaticinio.
CO.
Non ho capito come compirà il fatto.
CA.
Eppure parlo la lingua greca.
CO.
Anche gli oracoli di Delfi sono detti in greco, ma non si capiscono.
Il peso delle maledizioni, la catena inestricabile dei delitti e delle conseguenti vendette da cui scaturiscono nuovi delitti genera il travaglio dei personaggi e del poeta stesso, che rilegge il patrimonio mitico alla luce dei nuovi valori di moderazione e saggezza cui s’ispira l’ideologia della polis democratica. Di qui anche il valore pedagogico nei confronti del pubblico, sottoposto al «violento favore» di una sofferenza che purifica e conduce alla
La dimensione pedagogica
29
30
La tragedia greca
saggezza. Ma perché resti uno spazio per l’insegnamento morale e civico, Eschilo deve ridurre lo strapotere della Necessità (Anánke) e del Fato cieco (Tyche), che renderebbero l’uomo del tutto irresponsabile, fino a farli quasi coincidere con la Giustizia divina. Di qui il monito a non commettere il male, che semina male («funesta messe di morte viene dal campo della colpa»), e ad agire per il bene, in quanto l’uomo è responsabile delle proprie azioni: Agam. 750-772; trad. di A. Rostagni
Un vecchio detto è in voga tra i mortali: che la prosperità, giunta ad alto compimento, si riproduca e non già muoia senza figli, e dalla buona fortuna per l’appunto esca il gemoglio di insaziabile sventura. Diversamente dagli altri invece io solo penso così: che l’empietà altra empietà suole partorire, simile al proprio seme, mentre nelle case dei giusti sempre domina una sorte di bella discendenza. Antica ingiuria nuova ingiuria procrea in casa degli empi, ora o poi, quando sia giunto il giorno prefissato.
Prometeo incatenato
Rappresenta la vicenda altamente simbolica del titano ribelle Prometeo, che dona agli uomini il fuoco e le arti contro il volere di Zeus. Il re degli dei punisce duramente il trasgressore, che in tal modo diverrà il simbolo della ribellione a ogni forma di tirannide. Questo Zeus arcaico e invidioso del benessere degli uomini è parso in contrasto col dio di giustizia della tragedia eschilea, e ha indotto alcuni a dubitare della paternità di Eschilo. Ma non è escluso che nel corso della trilogia (che doveva comprendere anche il Prometeo liberato e il Prometeo portatore di fuoco) Zeus si riconciliasse col Titano. Riportiamo della parte iniziale della tragedia il momento in cui Prometeo, da Zeus incatenato alle rocce del Caucaso, canta la propria sofferenza davanti al Coro delle Oceanine (figlie di Teti, madre di Achille) intervenute ad esprimere la loro simpatia: PRO. = Prometeo; CO. = Coro
vv. 88-192; trad. di G. Paduano
PRO.
Cielo divino venti alati veloci, fonti dei fiumi, sorriso innumerevole delle onde marine, terra, madre universale: voi invoco, e il globo del sole che tutto vede: guardate che cosa subisco, dio degli dei! Guardate quali infamie mi straziano, quale tempo smisurato dovrò soffrire. Queste infami catene il nuovo capo degli dei ha trovato contro di me. Ahimè, piango il dolore presente e quello che verrà, e mi chiedo dove deve compiersi il termine di queste angosce. Ma che dico? Ben chiaramente io conosco il futuro e nessun male mi potrà giungere improvviso. Devo sopportare meglio che posso la sorte destinata, sapendo che non c’è forza che valga a lottare contro il potere della necessità. Ma non mi è possibile né tacere né svelare il mio destino. È per aver dato ai mortali un dono che mi trovo incatenato a queste necessità: ho dato la caccia alla fonte segreta del fuoco che sta dentro una canna, ed è maestra agli uomini di tutte le arti, e massima loro risorsa. In pena di questo errore sono inchiodato e legato sotto il cielo. Che cos’è questo suono, quest’odore senza luce, divino, umano o mescolato d’entrambi? Chi viene a questa roccia estrema per vedere le mie pene, o per che altro? Guardatemi, il dio infelice e prigioniero, il nemico di Zeus, odiato da tutti gli dei che frequentano la corte di Zeus, per troppo amore verso gli uomini. Ahimè, che cos’è questo suono di uccelli che sento vicino? Il cielo sibila di veloci battiti d’ali. Tutto ciò che si avvicina mi fa paura.
CO.
Non temere: è amico questo nostro stuolo che a gara, con ali veloci, è giunto a questa roccia, dopo aver persuaso a fatica nostro padre. Ci hanno portate i rapidi venti, quando l’eco del rumore del ferro attraversò la profondità delle nostre grotte e allontanò il ritegno dai nostri occhi: a piedi nudi balzammo sul carro alato.
PRO.
Figlie della feconda Teti e dell’Oceano che circonda tutta la terra col suo corso instancabile, guardate con quali catene sono legato alla roccia, e svolgo una non invidiabile guardia. Ti vediamo, Prometeo: una nube di paura piena di lacrime ha invaso i nostri occhi a vedere il tuo corpo essiccarsi alla roccia, legato da ignominiose
CO.
Sofocle
PRO.
CO.
PRO.
CO.
PRO.
catene. Ma nuovi signori dominano l’Olimpo e con nuove leggi Zeus governa senza misura, facendo sparire nel nulla ciò che prima era immenso. Oh mi avesse scagliato al disotto dell’Ade che inghiotte i morti, nel Tartaro infinito, e là mi avesse legato con catene indissolubili, che né un dio né nessun altro potesse godere alla vista. Ora sono scosso dai venti del cielo, e la mia sofferenza rallegra i miei nemici. Ma quale dio può essere così duro di cuore da rallegrarsi di questo? Chi non soffre con te le tue pene, tranne Zeus? Sempre nell’ira la sua mente è inflessibile, e doma i figli di Urano, e non cesserà fin quando il suo cuore sarà sazio, o qualcuno in qualche modo gli avrà tolto il suo potere inespugnabile. Eppure di me, per quanto così umiliato nelle catene, il signore dei beati avrà bisogno, perché gli sveli un nuovo disegno che lo può privare dello scettro e degli onori. Ma non mi incanterà coi ritornelli suadenti, e non parlerò neppure per paura delle più dure minacce, prima che mi abbia sciolto dalle selvagge catene e riparato l’offesa. Tu sei duro, non cedi ai dolori più aspri e troppo liberamente parli. Una paura penetrante turba il nostro cuore; temiamo per il tuo destino, dove potrai trovare un termine e un riparo dalle angosce: è indomabile il carattere, inaccessibile il cuore del figlio di Crono. Oh, lo so bene che Zeus è duro ed ha con sé la giustizia, eppure diventerà morbido, quando avrà ricevuto quella ferita, calmerà l’indole inflessibile, cercherà con me armonia e amicizia, quanto me ne avrà desiderio.
Sofocle Nato nel 497 a.C. da famiglia abbiente nel demo attico di Colono, Sofocle vive l’intero periodo che va dalla guerra persiana a quella peloponnesiaca. È legato all’ambiente culturale nel quale operano gli intellettuali più in vista del tempo (il filosofo Protagora, lo storico Erodoto, lo scultore Fidia) negli stessi anni in cui ad Atene vivono Socrate, Gorgia, Anassagora. Ideologicamente vicino a Pericle, partecipa attivamente alla vita politica ateniese ricoprendo incarichi importanti, civili e militari. Muore novantenne ad Atene, città di cui secondo il suo biografo «fu amantissimo» nel 406 a.C. Tra le innovazioni apportate da Sofocle nel teatro la più rilevante sembra riguardare la rappresentazione, nella trilogia, di tragedie di argomento diverso l’una dall’altra. Ciò consente di mettere meglio a fuoco i singoli personaggi (in tutte le tragedie il titolo coincide col nome del protagonista), piuttosto che le tematiche generali. Queste sono in parte le stesse del teatro eschileo (centralità di Zeus e Dike, empietà dell’hybris, eredità della colpa) ma filtrate attraverso la soggettività dei personaggi. Inoltre Sofocle conferisce maggiore vivacità all’azione scenica aggiungendo un terzo attore (tritagonistés) ai due normalmente impiegati da Eschilo. Porta a quindici (da dodici) il numero dei coreuti e, come riferisce sinteticamente Aristotele, «aggiunge la scenografia» (Poet. 1449a 15). Anche di Sofocle ci sono giunte sette tragedie di argomento mitico, tratte dal ciclo troiano e dalla saga tebana. Solo per tre di esse è possibile indicare la cronologia. L’Aiace (450-440 a.C.) rappresenta il suicidio dell’eroe vittima dell’ingiusto giudizio che ha assegnato a Odisseo, invece che a lui, le armi di Achille. Accecato dall’ira massacra un gregge scambiando gli armenti per i capi argivi. Tornato in sé, per riscattare l’onore da questa impresa dai risvolti grotteschi, decide in base al codice eroico di «morire bene», vista l’impossibilità di «vivere bene». In una spiaggia deserta si getta sulla spada, dopo avere maledetto gli Atridi e pregato Zeus di accordagli un’onorata sepoltura. Centrale nel dramma è il rapporto con la divinità, viziato dalla tracotanza (hybris) del protagonista che ritiene inutile l’ausilio divino: «Anche un uomo dappoco è capace di vincere con l’aiuto degli dei; io posso farne a meno e confido solo in me stesso, per ottenere la gloria» (vv. 767-69).
La vita
Innovazioni tecniche
Aiace
31
32
La tragedia greca
Antigone
vv. 441-520; trad. di. G. Paduano
L’orgoglio dissennato – che contravviene al comandamento delfico della moderazione e sembra influenzato dalla tesi sofistica secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose» – non può che generare la punizione divina. All’arroganza folle e smisurata di Aiace si oppongono la saggezza e la moderazione di Odisseo, che riesce a convincere i fratelli Atridi a consentire la sepoltura dell’eroe. L’Antigone (442 a.C.) è il dramma della figlia di Edipo punita da Creonte con la morte per avere infranto il divieto di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice. Per la trasgressione, Antigone è murata viva in una caverna, dove si uccide insieme col suo promesso sposo Emone, figlio di Creonte. La tragedia, che ha ispirato vari rifacimenti nella letteratura europea (Alfieri, Anouilh), oppone due trasgressioni: quella di Antigone che viola le leggi dello stato, rappresentate dal divieto di Creonte, e quella di Creonte che viola la norma sacra che impone per tutti il rito della sepoltura. Su un piano più astratto, l’opposizione è tra la legge positiva e la legge naturale, tra il privato cittadino e il potere politico. Entrambi i protagonisti sembrano in buona fede: Creonte difende la stabilità e la credibilità dello stato che uscirebbe compromessa da un cedimento («Non posso contraddirmi di fronte alla città», v. 657; «Non c’è male più turpe dell’anarchia», v. 672). Antigone difende una pratica irrinunciabile nel rituale religioso greco. Ed entrambi, in un serrato dialogo, oppongono con ampio dispiego di strumenti retorico-stilistici di influsso sofistico (anticipazione della euripidea tecnica dei dissói lógoi o discorsi contrapposti) argomentazioni appassionate e cogenti, senza alcuna possibilità di trovare una mediazione. Proponiamo un passo del tesissimo faccia a faccia: CRE. = Creonte; ANT. = Antigone; CO. = coro CRE.
Tu che pieghi a terra il volto, ammetti di aver fatto questa cosa, o neghi?
ANT.
L’ho fatto, e non lo nego.
CRE.
[Alla sentinella] Tu puoi andare dove credi, sei libero da ogni accusa. [La sentinella esce] E tu dimmi, ma in poche parole: sapevi che c’era il divieto di fare quello che hai fatto? Sì. Come potevo non saperlo? Era un editto pubblico. E hai osato trasgredire la legge? L’editto non era di Zeus, e la giustizia che sta accanto agli dei di sottoterra non ha mai stabilito tra gli uomini leggi come queste. Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un essere umano le leggi non scritte, immutabili, fissate dagli dei. Il loro vigore non è di oggi, né di ieri, ma di sempre, nessuno sa quando apparvero la prima volta. Non potevo, per paura di un uomo, rendermi colpevole di fronte agli dei. Certo sapevo di dover morire, ma questo anche senza il tuo editto; e morire prima del tempo, penso che sia un vantaggio per me: chi, come me, vive in mezzo alle sciagure, si può negare che con la morte consegua un profitto? Non è un dolore, dunque, affrontare questo destino, mentre lo sarebbe stato lasciare insepolto il figlio di mia madre. Ti sembrerò folle; ma forse è pazzo chi mi giudica pazza. Si rivela degna figlia di un padre aspro. Non sa cedere alle avversità. Devi sapere che i più duri orgogli sono quelli che più soccombono; il ferro più potente temprato al fuoco si spezza con facilità, i cavalli impetuosi si domano con un piccolo morso. Quando si è sottoposti, non c’è spazio per la superbia. Questa donna è stata capace di commettere una colpa trasgredendo le leggi stabilite, e dopo averlo fatto, questa è la seconda che commette, godendo e vantandosi della sua azione. Se ha potere di farlo impunemente, non sono più io l’uomo, lo è lei. Sia pure, com’è, figlia di mia sorella, più consanguinea di tutti quelli che venerano lo Zeus del nostro focolare, non per questo sfuggirà a una morte infame – né lei né l’altra. Sì, anche Ismene1 accuso di aver tramato questa sepoltura. Mandatela a chiamare; l’ho vista poco fa in casa, che smaniava, fuori di sé. L’animo di chi intriga nell’ombra è il primo a tradirsi. Ma chi più detesto è il colpevole colto sul fatto che si fa bello del suo delitto.
ANT. CRE. ANT.
CO. CRE.
Sofocle
ANT.
Sono nelle tue mani. Voi fare di più che uccidermi?
CRE.
No: questo mi basta.
ANT.
E allora che aspetti? Nessuna delle tue parole mi piace, e anche le mie devono riuscirti sgradite. Quale gloria più grande mi sarebbe potuta toccare che mettere nella tomba mio fratello? E tutti questi mi approverebbero se la paura non gli chiudesse la bocca. Il potere ha molti vantaggi, e tra essi quello di agire e parlare a proprio piacimento.
CRE.
Sei la sola fra i Tebani a pensare a queste cose.
ANT.
No, anche loro la pensano così, ma tacciano per riguardo verso di te.
CRE.
E tu non hai vergogna a distinguerti da tutti?
ANT.
Non è vergogna il rispetto dei propri cari.
CRE.
Ma non era tuo fratello anche quello che è morto contro di lui?
ANT.
Figlio della stessa madre e dello stesso padre.
CRE.
Perché allora rendere al morto onori che lo offendono?
ANT.
Vorrei chiamare Eteocle a testimone: non direbbe così.
CRE.
Sì, se all’altro, all’empio vuoi dare gli stessi onori.
ANT.
Non era uno schiavo, era suo fratello.
CRE.
Ma devastava la nostra terra, ed Eteocle la difendeva contro di lui.
ANT.
Eppure la morte esige queste norme.
CRE.
Ma non è giusto trattare allo stesso modo il buono e il malvagio.
ANT.
Chissà se è questa la giustizia di laggiù!
CRE.
Per un nemico non si può aver affetto, neanche dopo morto.
ANT.
Non sono nata per odiare insieme, ma per amare insieme.
CRE.
E allora scendi sottoterra e il tuo amore dallo ai morti. Finché vivo, una donna non avrà potere su di me.
1. Ismene: sorella di Antigone, che l’eroina aveva cercato invano di convincere a violare con lei l’editto di Creonte.
Il Filottete (409 a.C.) mette in scena la vicenda dell’eroe greco prima abbandonato, poi riconosciuto indispensabile per la conquista di Troia. Neottolemo si reca a Lemno dove Filottete, possessore di un arco infallibile, è stato sbarcato dai compagni, oppresso da una terribile ferita. L’intento è di conquistarsi subdolamente la sua fiducia per farsi consegnare l’arco. Ma, pentitosi, Neottolemo svela l’inganno a Filottete, cerca di convincerlo a tornare a Troia dove potrà ottenere una gloria immortale. Solo il dio Eracle riuscirà alla fine a piegare la volontà dell’eroe. Il motivo dominante sembra essere quello della sofferenza derivante all’individuo dall’esclusione dalla propria comunità. C’è chi ha visto in Filottete – eroe della cui virtù avvertono il bisogno gli stessi che l’hanno emarginato – un’allusione alla figura di Alcibiade, che in quegli anni era in esilio e del quale molti desideravano il ritorno, perché in lui riponevano ogni speranza nella guerra contro Sparta. L’altro motivo, di cui è portatore Neottolemo, è quello della liceità dell’inganno in vista dell’utile, in definitiva del rapporto tra giusto e utile. Si tratta di una questione che opponeva l’etica tradizionale, osservante della giustizia e della lealtà, alle posizioni della Sofistica, che consideravano la frode come strumento dell’azione politica. Il Filottete riflette l’opzione del suo autore per l’etica tradizionale. L’Edipo a Colono, rappresentata postuma nel 401, racconta la morte di Edipo, giunto esule nel sobborgo ateniese di Colono dopo lungo vagabondare. Il vecchio re, cieco e respinto da tutti, giunge alfine nel bosco delle Eumenidi, accolto da Teseo e scompare misteriosamente assunto nel numero degli eroi. Si tratta una tragedia quasi priva d’azione ma ricca di
Filottete
Edipo a Colono
33
34
La tragedia greca
pathos, che si svolge interamente nell’intimo del personaggio, la cui morte si fa poesia di struggente lirismo. In questo Edipo che serenamente si accinge al trapasso, certamente si proiettava il novantenne tragediografo ormai pronto a concludere la propria esistenza nello stesso luogo in cui muore il suo personaggio più caro, nell’argenteo bosco di Colono, di cui è cantata la serenità dolce e pura: vv. 668-687; trad. di A. Rostagni
Sei giunto, o forestiero, a questa sede nutrice di cavalli, la più bella contrada della terra, l’argenteo Colono, dove più fitti sospirano gli usignuoli canori nelle verdi convalli, fra l’edera cupa e l’impenetrabile fogliame del Dio, ricco d’innumerevoli frutti, immune dal sole, dai venti, dalle tempeste. Qui sempre dedito all’orge Bacco viene errando, circondato dalle ninfe che l’hanno nutrito. E sempre, ogni giorno, sotto la celeste rugiada germoglia in bei grappoli il narciso, consacrato a far ghirlande per le grandi Dee, e il croco dalle dorate pupille. Né mai scemano, le fonti insonni del Cefiso che serpeggiando scorre…
Trachinie
Sono le donne di Trachis (in Tessaglia) rappresentate dal Coro, con le quali Deianira, moglie di Ercole, dialoga nel corso dell’azione. Dopo una lunga assenza Eracle fa ritorno recando con sé, come bottino di guerra, la bellissima Iole, figlia del sovrano vinto e della quale l’eroe è innamorato. Deianira cerca di riconquistare l’amore del marito ricorrendo a quello che crede essere un talismano, mentre è un terribile strumento di morte dal quale Eracle verrà ucciso tra spasmi atroci. Deianira, quando scopre il suo atroce errore, si uccide. Eracle, prima di morire, capisce che con la propria morte si avvera una profezia ricevuta nel santuario di Dodona. Il senso d’ineluttabilità che regna nella vita dell’uomo è il nucleo tematico della tragedia, che da questo punto di vista prelude all’Edipo re. Risale agli anni tra il 425 e il 410 e ha per argomento il mito tebano che narra il parricidio e l’incesto di Edipo. Considerata da Aristotele come la vetta dell’arte tragica, è forse l’opera teatrale più famosa del mondo. Freud assunse il protagonista a emblema di un presunto conflitto della psiche umana: l’attrazione sessuale che un figlio proverebbe per il genitore di sesso opposto. Edipo re di Tebe, successore di Laio di cui ha sposato la moglie Giocasta, è impegnato in un’inchiesta volta a scoprire le cause di una terribile peste che affligge la città. L’indagine mette a nudo una verità agghiacciante: l’origine dei mali è Edipo stesso, il quale senza saperlo ha ucciso Laio, che era suo padre, e sposato la propria madre. Per tali nefandi crimini, di cui è soggettivamente innocente, Edipo sprofonda in un abisso di disperazione, si acceca e condanna se stesso all’esilio. Tralasciando la questione delle valenze simboliche di Edipo sul piano psicoanalitico, antropologico, ecc., diciamo solo che la vicenda terribile del re di Tebe è soprattutto paradigmatica dell’onnipotenza degli dei. Questi possono a loro piacimento tessere nella vita dell’uomo una trama di coincidenze, di eventi apparentemente fortuiti in grado di rendere oggettivamente colpevole un comportamento innocente e d’un tratto mandare in rovina anche l’uomo fino a quel momento più fortunato. Il messaggio profondo della tragedia sembra coincidere con uno dei precetti fondamentali dell’etica e della religione arcaica, espresso in questo commento del Coro:
Edipo re
vv. 1189-1196
Quale uomo mai otterrà una felicità che gli consenta di illudersi di non subire mai una caduta? Tenendo presente il tuo esempio, proprio il tuo, sventurato Edipo, nulla dei mortali posso stimare felice. Edipo è soprattutto emblema della vita dell’uomo, effimera e fortuita, «evento casuale» secondo Solone (I 32) che in questa definizione sintetizza molte analoghe formulazioni dell’etica greca arcaica, tutte opposte alla nuova visione antropocentrica dei Sofisti, in base alla quale «l’uomo è la misura di tutte le cose». Proponiamo il momento cruciale del dialogo tra Edipo e Giocasta, durante il quale dalle precisazioni della donna riguardo al luogo, al tempo, alle modalità dell’assassinio di Laio emerge l’agghiacciante verità:
vv. 698-830; trad. di G. Paduano
GIOCASTA Per gli dei, signore, di’ anche a me: da dove nasce un’ira così grande?
Sofocle
EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA
EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO GIOCASTA EDIPO
Te lo dirò; ti rispetto più di costoro. La causa è Creonte1, e i complotti da lui orditi. Parla, se puoi chiarirmi la disputa. Dice che sono io l’assassino di Laio. È sua scienza, o l’ha saputo da qualcun altro? Ha mandato avanti quell’indovino intrigante; così personalmente non ha responsabilità di nulla. Stammi a sentire; puoi facilmente tranquillizzarti. Impara che non c’è uomo che possieda veramente l’arte profetica. E te ne darò la prova con poche parole. Venne un tempo a Laio un oracolo, da parte, non dirò di Apollo, ma dei suoi ministri; che il suo destino era di morire per mano di un figlio, un figlio suo, e mio. Invece si sa che è morto a un crocicchio, ucciso da banditi; quanto al figlio, non passarono tre giorni dalla sua nascita che lo legò per i piedi e lo fece gettare da mani estranee su un monte impervio. E così Apollo non diede compimento alla sua parola; né quello diventò parricida, né Laio ebbe la sorte tremenda che temeva, di essere ucciso dal figlio. Eppure questo avevano detto le profezie… perciò non te ne curare. Ciò che il dio ritiene utile cercare lo mostra apertamente da solo. Quale smarrimento, quale turbamento del cuore mi prende a sentire queste tue parole! Qual è l’affanno che ti sconvolge! Mi è parso di sentirti dire che Laio è stato ucciso ad un crocicchio. Così si diceva, e si dice ancora. E in che luogo sarebbe successo? Nella Focide, dove si incontrano la strada che viene da Daulia e quella di Delfi. Quanto tempo è passato? La notizia è arrivata in città poco prima che tu venissi a prendere il potere in Tebe. O Zeus, che hai deciso di fare di me? Cosa ti preoccupa, Edipo? Non chiedere nulla; ma descrivimi qual era l’aspetto di Laio e la sua età. Era alto, col capo un po’ bianco; l’aspetto… non molto diverso dal tuo. Me infelice! Credo che senza saperlo ho scagliato contro me stesso spaventose maledizioni. Che dici, signore? Non oso guardarti. Ho paura, una terribile paura che Tiresia2 veda fin troppo chiaro. Ma ancora meglio puoi spiegarle tu le cose, aggiungendo un altro particolare. Tremo, ma risponderò a quello che mi chiedi. Andava con una piccola scorta o con un largo seguito, come un principe? Cinque in tutto, compreso un araldo, e un solo carro. Ahimè, è tutto chiaro. Chi vi ha detto queste cose? Un servo che è stato il solo a salvarsi. Si trova ancora in casa?
1. Creonte: è il cognato di Edipo, già da lui inviato a consultare l’oracolo di Delfi. 2. Tiresia: indovino di corte, ha già rivelato la terribile verità, che Edipo si rifiuta di accettare pensando a un complotto ordito ai propri danni da Tiresia e Creonte.
35
36
La tragedia greca
GIOCASTA No; appena tornato, con Laio morto e il potere nelle tue mani, m’implorò, mi supplicò di mandarlo in campagna, a pascolare le greggi, il più lontano possibile dalla città. L’ho accontentato; avrebbe meritato una ricompensa ben maggiore di questa. EDIPO Si può farlo venire qui, subito? GIOCASTA Sì, ma perché lo vuoi? EDIPO Ho paura di averle dette fin troppo, le ragioni per cui desidero vederlo.
Elettra
La vicenda presentata è la medesima delle Coefore di Eschilo e dell’Elettra di Euripide, ma in Sofocle tutta l’attenzione è sull’eroina, anche se il matricidio è materialmente compiuto da Oreste. Dopo un violento alterco con la madre Clitennestra, alla quale rimprovera l’uccisione del padre Agamennone e la convivenza adulterina con Egisto, Elettra riceve la falsa notizia della morte del fratello Oreste, fatta diffondere da Oreste stesso per cogliere di sorpresa la madre e il suo amante. Ma poi due fratelli si incontrano e insieme attuano il piano del matricidio. È soprattutto la tragedia dell’odio di Elettra, un odio viscerale, totale, senza riserve. È lei la vera matricida, che nel momento culminante dell’azione esorta il fratello a colpire più volte.
Euripide La vita
L’opera
Alcesti
Medea
Euripide nacque ad Atene nel 484 a.C., entrò in contatto con l’ambiente intellettuale – legato alla politica periclea e segnato dal razionalismo sofistico – di Sofocle, Erodoto, Anassagora, Protagora. Tuttavia mantenne una posizione defilata, anche per una personale scarsa disponibilità al rapporto con la gente, pubblico compreso, dal quale non fu mai molto amato (riportò solo cinque vittorie, una postuma, nonostante avesse scritto oltre novanta tragedie). Verso la fine della vita si ritirò ospite del re Archelao in Macedonia, dove concluse i suoi giorni nel 406 a.C. In cinquant’anni d’attività Euripide compone oltre 90 tragedie. Ne restano 18 intere (ma il Reso è quasi certamente spuria) più un dramma satiresco, il Ciclope. Alcesti accetta di morire al posto del suo sposo, Admeto re di Tessaglia. La donna muore, ma Eracle, lottando contro Thanatos (la morte) la riporta al marito. Agli spunti lirici della parte di Alcesti si contrappongono momenti quasi comici nelle parti di Admeto e Eracle. Per questo motivo il dramma fu rappresentato come quarta tragedia al posto del dramma satiresco. Soprattutto premeva ad Euripide in questa tragedia atipica porre una questione di principio: doveva o no Admeto consentire il sacrificio della moglie? Creare un dibattito – innescato dal teso confronto tra i personaggi (secondo la tecnica sofistica dei dissoi logoi o discorsi contrapposti) – era lo scopo fondamentale del nuovo teatro euripideo problematizzante e intellettualistico. Abbandonata da Giasone, Medea vede infrangersi la propria esistenza e si vendica uccidendo non solo la rivale ma anche i figli avuti da Giasone. Mentre nell’Orestea la giustificazione del sacrificio di un congiunto era pubblica – Ifigenia era immolata alla «ragion di stato», Clitennestra all’integrità della stirpe – Medea uccide il proprio sangue per un motivo personale, privato: il suo risentimento di donna tradita e umiliata. Ma proprio per questo il suo personaggio diviene paradigmatico dell’emarginata condizione femminile dell’Attica: «Combatterei tre battaglie, in luogo di partorire anche una sola volta» (v. 251). Così la sua atroce vendetta «finisce per apparire come l’esplosione incontrollabile di oscure forze represse quando queste siano sollecitate oltre certi limiti» (G. Donzelli). Un’altra questione offerta al pubblico dibattito riguardava la relazione col «diverso», adombrata nelle parole sprezzanti con cui il greco Giasone rinfaccia a Medea la sua condizione di «barbara» (cioè di non greca, infatti Medea proveniva dalla Colchide). Riportiamo il passo in cui Medea prende la risoluzione terribile di uccidere i propri figli.
Euripide
MEDEA - O Zeus, e Giustizia figlia di Zeus, e luce del Sole! Mie care, ora vi dico che otterrò sui miei nemici una fulgida vittoria, e già ne ho intrapreso la strada: ora davvero ho speranza che sconteranno i loro delitti. Quando più mi trovavo in difficoltà, è apparso quest’uomo, porto dei miei progetti, e a lui attaccherò la gomena nella mia nave; sì, andrò nella città e nella rocca di Pallade Atena. Ora vi dirò tutti i miei progetti: ascoltate, anche se non sarà piacevole per voi. Manderò qualcuno dei miei servi da Giasone a chiedergli di venire da me; e quando sarà qui gli dirò parole morbide; che anch’io sono d’accordo, che è giusto il matrimonio principesco che fa, abbandonandomi – vantaggioso e saggiamente pensato. E lo pregherò che i miei figli possano restare; oh non perché pensi di lasciarli in una terra ostile, in preda alla violenza dei nemici, ma per uccidere con un inganno la figlia del re. Li manderò a portare i miei doni alla sposa, chiedendo di non andare in esilio: un peplo sottile e una corona d’oro: quando li avrà indossati, morrà malamente, lei e chiunque la tocchi, del veleno con il quale ungerò i doni. E su questo basta così; ma piango al pensiero di ciò che dovrò compiere dopo. Ucciderò i miei figli: non c’è nessuno che può impedirmelo. E quando avrò sconvolto tutta la casa di Giasone, lascerò questa terra, via, lontano dal sangue dei miei figli amatissimi, dopo aver osato l’azione più empia di tutte. No, non è tollerabile, amiche mie, farsi deridere dai propri nemici. E sia: che mi serve vivere? Non ho una patria, non ho una casa, non ho riparo dai mali. Ho sbagliato quando ho lasciato la casa paterna, dando ascolto alle parole del Greco che ora, con l’aiuto del dio, mi pagherà le sue colpe. Non vedrà più vivi i figli che ha avuto da me, e dalla nuova sposa non potrà averne: è destinata a morire malamente per il mio veleno. Nessuno mi giudichi debole, o sciocca, o remissiva: tutt’al contrario: benigna agli amici e terribile per i nemici. Chi vive così ha la gloria più grande.
vv. 764-810; trad. di G. Paduano
Fedra, moglie di Teseo, prova un’insana, irrefrenabile passione per il figliastro Ippolito. Respinta, si uccide denunciando falsamente d’essere stata da lui insidiata. Maledetto dal padre, il giovane muore travolto dai cavalli del cocchio, dopo avere perdonato il padre informato dalla dea Artemide, scesa ex machina. Centrale è lo studio della passione erotica che, repressa, acquista una forza dirompente, incontrollabile. Di qui il problema etico se l’uomo sia responsabile o meno delle proprie azioni. L’opzione della protagonista è per il libero arbitrio: «Non sono convinta che gli uomini compiano il male perché vi siano portati per natura: sappiamo ciò che è bene, ma non lo mettiamo in pratica, o per pigrizia o perché al bene preferiamo qualche altro piacere» (vv. 377 ss.). Ecco il passo cruciale della bruciante rivelazione dell’amore per Ippolito, fatta da Fedra alla nutrice:
Ippolito
NU. = Nutrice; FE. = Fedra; CO. = Coro
vv. 343-372; trad. di G. Paduano
NU.
Ancora non so quello che voglio sapere.
FE.
Ahimè, come vorrei che dicessi tu quello che devo dire io!
NU.
Io non sono un’indovina per conoscere i tuoi segreti.
FE.
Che cos’è quella cosa che dicono «amare»?
NU.
La cosa più dolce, figlia mia, e più dolorosa insieme.
FE.
Io ne conosco soltanto il dolore.
NU.
Che dici? Tu ami, figlia mia? E chi?
FE.
L’uomo che nato dall’Amazzone1…
NU.
Ippolito!
FE.
Tu lo dici, non io.
1. Ippolito era figlio di un’amazzone, il cui nome varia secondo le diverse versioni del mito: Antiope, Melanippe, Ippolita.
Medea trafigge un figlio. Da un’anfora del 330-320 a.C. Parigi, Musée du Louvre.
37
38
La tragedia greca
NU.
Ahimè, figlia mia, che hai detto. Mi hai ucciso. Mie care, non resisto, non posso sopportare di vivere. È un giorno nemico, e nemica la luce che vedo. Voglio gettare il mio corpo, abbandonare la vita. Addio, non sono più. Anche le persone sagge e virtuose, non per loro volere, ma amano il male. Afrodite non è una dea, ma qualcosa di più grande, Afrodite che ha distrutto lei e me e questa casa.
CO.
Hai sentito, ahimè, hai sentito la regina dire cose indicibili, sciagure penose. Vorrei morire, cara, prima di trovarmi nel tuo stato d’animo. Ahimè, infelice; compiango il tuo dolore, le pene che possiedono gli uomini. Sei perduta; il tuo male è venuto alla luce. Che cosa ti aspetta in questo giorno? Qualche cosa di inaudito accadrà nella casa: è fin troppo chiaro dove si spegne la tua sorte, voluta da Afrodite, sventurata figlia di Creta!
Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride
Nel primo dramma Agamennone offre la figlia Ifigenia in sacrificio ad Artemide, per consentire la partenza col vento favorevole alla flotta greca, che è alla rada nel porto di Aulide. Con eroica devozione filiale la fanciulla accetta d’essere immolata nell’interesse della spedizione. Ma viene salvata da Artemide che la sostituisce sull’ara sacrificale con una capretta. Nel secondo dramma Ifigenia diviene, per volere di Artemide, sacerdotessa di un culto cruento che prevede l’uccisione di stranieri. Tra questi giungono Oreste, fratello di Elettra, e l’amico Pilade. Di essi solo uno potrà salvarsi. Dopo una nobile gara tra i due giovani, ciascuno dei quali vorrebbe morire al posto dell’altro, Elettra riconosce il fratello proprio nel momento in cui sta per ucciderlo, ed entrambi riescono a mettersi in salvo. Ancora la polemica contro la religione tradizionale caratterizza i due drammi. Dall’Ifigenia in Aulide riportiamo il monologo di Agamennone dopo l’annuncio che la fanciulla sta arrivando, ignara, come per una festa nuziale. «Nell’arrivo della figlia Agamennone riconosce la voce del dio, che è “più abile di tutte le mie abilità” e determina la resa del sentimento etico e razionale nei confronti di una realtà soverchiante» (G. Paduano). In tal modo il monologo «non si trova più ad essere la sede di uno scontro tra forze interiori che ha come posta in palio l’effettiva decisionalità, ma il luogo dove si prende coscienza della propria inefficacia ad intervenire sulla realtà».
vv. 415-468; trad. di G. Paduano
MESSAGGERO - Signore di tutti i Greci, Agamennone, vengo a portarti tua figlia, quella a cui in casa davi il nome di Ifigenia. L’accompagna la madre, la tua Clitennestra, e tuo figlio Oreste, perché tu abbia la gioia di vederlo, giacché da tanto tempo sei lontano da casa. Hanno percorso una strada lunghissima e ora rinfrescano i piedi delicati nelle limpide acque di una fonte; e anche le cavalle: le abbiamo lasciate libere nell’erba dei prati, per farle mangiare. Io sono corso avanti per preavvisarti. Ormai l’esercito sa (la fama è volata rapida) che è giunta tua figlia, e tutti accorrono per vederla. Gli uomini fortunati sono famosi e osservati dagli altri uomini. E dicono: «Si sta preparando un matrimonio, o che altro? oppure il re Agamennone ha fatto venire sua figlia solo perché ne aveva nostalgia?». E altri dicono: «Consacrano la fanciulla ad Artemide, signora di Aulide: ma chi la prenderà in moglie?». Orsù, prepara i canestri per la cerimonia, coronatevi il capo, e anche tu, re Menelao, intona l’imeneo. Risuoni per la casa il flauto e il battito dei piedi. Questo che sorge è un giorno beato per la vergine.
Agamennone, presso l’altare sacrificale, leva il coltello sulla figlia Ifigenia. A sinistra e a destra Apollo e Artemide osservano il sacrificio. Secondo una versione del mito rispecchiata anche da Euripide nella tragedia Ifigenia in Aulide, Ifigenia si sta trasformando in una cerva, che Artemide sostituisce alla vittima umana. Da un vaso conservato a Londra, British Museum.
AGAMENNONE - Sì, sì, ma entra in casa: il resto andrà bene, come vorrà la sorte. [Esce il messaggero.] Ahimè, infelice, che dire? da dove cominciare? In quali catene della Necessità sono caduto? Un dio si è insinuato, ed è stato più abile di tutte le mie abilità. L’origine umile dà qualche vantaggio: possono piangere, loro, e dire tutto. Invece chi è nobile di nascita ha queste infelicità. Abbiamo la dignità a guida della nostra vita, e siamo schiavi della folla. Ho vergogna a piangere, ma ho vergogna anche a non piangere, giunto in questa grandissima sventura. E sia; ma che dirò alla mia sposa? Come l’accoglierò? quale sguardo getterò su di lei? Oltre alla disgrazia, è una rovina per me che lei venga senza essere chiamata. Eppure giustamente ha accompagnato sua figlia, per celebrare le sue nozze e darle l’aiuto più caro: ma qui scoprirà la nostra colpa. E l’infelice vergine… ma che dico vergine?, presto la sposerà Ade – quanta pietà di lei! già la sento supplicarmi:
Euripide
«Mi vuoi uccidere, padre? Possa tu celebrare nozze come le mie, tu e chi ti è caro». E lì vicino Oreste griderà cose incomprensibili, ma facendosi bene capire: è ancora così piccolo! Oh, come mi hanno distrutto gli amori di Paride con Elena, causa di tutto questo! Svolge la stessa vicenda dei Sette contro Tebe di Eschilo. Alla lotta fratricida tra Etéocle e Polinice fa seguito il suicidio di Giocasta e l’esilio di Edipo. Il dramma si caratterizza per una grandiosità epica insolita. Euripidea è l’adozione di particolari inediti e strani del mito (inversione dei ruoli tradizionali di Eteocle e Polinice: attaccato al potere il primo, pacifista il secondo). Eracle uccide Lico, che in sua assenza gli aveva usurpato il regno. Era, eterna nemica dell’eroe, lo fa impazzire: in un raptus di follia uccide moglie e figli. Tornato in sé vorrebbe suicidarsi, ma Teseo lo convince a recedere dal proposito, dimostrandogli che ogni colpa del suo atto è da attribuire agli dei. La critica al mito e agli dei della tradizione letteraria, fatta in particolare nel discorso di Teseo, sembra l’elemento caratterizzante del dramma. Stessa vicenda delle Coefore di Eschilo e dell’Elettra di Sofocle, delle quali tuttavia rappresenta il rovesciamento antieroico. La figlia di Agamennone, priva di grandezza, vive in campagna sposata con un contadino, che le vuole bene e la rispetta. Nella seconda parte del dramma, è svolta la trama tradizionale dell’Orestea: Elettra insieme col fratello Oreste uccide la madre Clitennestra e il suo amante Egisto. Come nell’Eracle il mito è abbassato, i personaggi eroici sono figure quotidiane e borghesi, ben lontane dalla visione eroica e aristocratica di Eschilo e Sofocle. A spingere al matricidio l’Elettra euripidea non è tanto un motivo etico di portata generale (difesa del genos, senso di giustizia) quanto la frustrazione personale della donna costretta a un tenore di vita inadeguato al suo status. Trama romanzesca, in questo «dramma ad intreccio». Menelao ritrova la «vera» Elena – quella di Troia era solo un simulacro, secondo la versione data da Stesicoro nella Palinodia – mentre sta per sposare il re d’Egitto. I due si riconoscono e si danno a una fuga avventurosa, che sembra preludere alla trame del romanzo greco. Ancora un esempio di rielaborazione e abbassamento del mito secondo una prospettiva laica e razionalista. Ancora spunti antimilitaristi: «Folli, voi che cercate gloria in guerra con armi e scontri, escogitando un rimedio da stolti alle miserie umane» (vv. 1151 ss.). Analoga complessità d’intreccio è nell’Oreste, che rappresenta il momento in cui il matricida è giudicato e assolto dal tribunale di Argo. Nelle Eraclidi Demofonte, re di Atene, rifiuta di consegnare al re di Argo Euristeo, che li perseguita, i figli di Eracle che hanno chiesto la sua protezione. Il rifiuto provoca la guerra, vinta da Atene. Euristeo, condotto in catene e processato, è condannato a morte per volere di Alcmena, madre di Eracle, nonostante l’opposizione dei cittadini. Grato a questi per il tentativo di salvargli la vita, Euristeo lascia loro un oracolo secondo il quale, se egli verrà sepolto nel tempio di Atena, proteggerà la città. Centrale sembra il tema politico propagandistico di Atene città ospitale e protettrice dei deboli. Di argomento analogo alla precedente sono le Supplici. Le madri dei guerrieri argivi caduti nella guerra contro Tebe chiedono la restituzione dei corpi dei congiunti. Tebe rifiuta, Teseo re di Atene s’intromette difendendo le ragioni delle argive ed entrando in guerra con Tebe. Lo scontro è vinto da Atene e i corpi possono avere sepoltura. Ritornano i motivi presenti nelle altre tragedie della guerra (Eraclidi, Ecuba, Supplici, Troiane): dalla condanna della violenza alle allusioni antispartane, agli spunti celebrativi della democrazia e liberalità ateniesi. Ecuba moglie di Priamo, ormai prigioniera di Agamennone, perde due figli: Polissena, sacrificata sulla tomba di Achille per consentire il ritorno della flotta greca, e Polidoro, ucciso dal re di Tracia Polimestore al quale era stato affidato. Colmata in tal modo la misura dei lutti famigliari, la furia femminile di Ecuba esplode irrefrenabile, confrontabile solo con quelLa morte di Polissena, sacrificata sulla tomba di Achille. Con le mani legate al petto, è mantenuta orizzontale da Antifate e Aiace Oileo, mentre è Neottolemo, in quanto figlio di Achille, a infilarle la spada nella gola. A sinistra assistono Diomede e Nestore, mentre a destra Fenice, il saggio precettore di Achille, volge le spalle in evidente segno di dissenso. Da un vaso del 565-550 a.C. Londra, British Museum.
Fenicie
Eracle
Elettra
Elena e Oreste
Eraclidi
Supplici
Ecuba
39
40
La tragedia greca
Troadi
Andromaca
Ione
vv. 1391-1442; trad. di G. Paduano
la di Medea. Acceca Polimestore e uccide i suoi figli. La guerra e le sue ragioni sembrano il motivo centrale della tragedia. Alla madre che cerca di salvare Polissena dall’inutile sacrificio, Ulisse risponde: «Anche nei nostri paesi ci sono vecchie madri sventurate come te, e mogli che hanno perduto mariti coraggiosi … rassegnati» (vv. 322 ss.): un invito, questo, rivolto agli Ateniesi stessi da un decennio impegnati in una guerra sanguinosa. Come la precedente, mette in scena gli orrori della guerra troiana: l’assegnazione delle prigioniere ai crudeli vincitori, il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille, il delirio di Cassandra, l’uccisione di Astianatte, figlio di Ettore. La vedova di Ettore ha un figlio da Neottolemo (figlio d’Achille), al quale è stata assegnata come schiava e concubina. Per questo è minacciata dalla gelosia della sposa di quello, Ermione. È un’altra tragedia dedicata allo studio dei sentimenti femminili. Due donne a confronto: una giovane e bella ma immatura e viziata, che vive istericamente la propria sterilità; una matura, resa saggia e flessibile dagli eventi drammatici vissuti. Creusa incontra, dopo anni, il figlio Ione avuto da Apollo e che ora è addetto alla cura e manutenzione del tempio paterno. È un dramma d’intrigo, che anticipa le trame della Commedia Nuova e del romanzo di cui ha già gli elementi narrativi topici: seduzione (di Creusa da parte di Apollo in un incontro occasionale), abbandono del «figlio della colpa» (Ione, lasciato in una grotta), riconoscimento (Creusa e Ione si ritrovano dopo anni). Come nel romanzo greco c’è il predominio della Tyche, che anche in Euripide è solo il caso fortuito, senza implicazioni religiose. Proponiamo la scena clou dell’anagnórisis o rivelazione nella forma che sarà resa canonica dalla Commedia. IO. = Ione; CRE. = Creusa IO. CRE. IO. CRE.
IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO.
Ecco che il coperchio della culla1, per volere divino, non è invecchiato, non c’è muffa. Eppure tanto tempo è passato da quando è stato chiuso! Che cosa vedo? Quale visione insperata! Taci. Non tacerò; non rimproverarmi. Questo che vedo è il cesto dove ti ho esposto, figlio mio, appena nato, nella grotta di Cecrope, accanto alle Grandi Rocce2. Anche se dovessi morire, lascio l’altare. Prendetela! Il dio l’ha fatta impazzire, e ha lasciato le statue sacre. Legatele le braccia. Uccidetemi pure, ma voglio abbracciare questo cesto e i suoi segreti, e te. Ma è vergognoso! Le sue parole mi imprigionano. Ti ritrova l’amore di chi ti vuol bene. Tu mi vuoi bene? Ma se tramavi per uccidermi! Sei mio figlio, ciò che ogni genitore ha di più caro. Smetti di imbrogliarmi. Ti ho in mia mano. Questo, questo è ciò che desidero, figlio mio. Questo cesto è pieno, o vuoto? Ci sono le fasce nelle quali ti ho esposto. Puoi elencarmele, senza vederle? Se non so dirtele, accetto di morire. Parla: la tua audacia mette sgomento. Guardate il tessuto che ho fatto, ancora bambina. Cos’è? Le ragazze tessono tante cose!
1. Si tratta della culla contenente le fasce in cui Ione è stato trovato neonato, dopo l’abbandono. 2. Grandi Rocce: grotta nei pressi dell’Acropoli.
Caratteri del teatro di Euripide
CRE. IO. CRE. IO. Cre. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE. IO. CRE.
IO. CRE.
Non è perfetto: stavo ancora imparando. Che cosa rappresenta? Non riuscirai a ingannarmi in questo modo. Al centro del ricamo, una Gorgone. O Zeus, qual è il destino che mi dà la caccia? Orlata di serpenti, come nell’egida. Ecco il tessuto. Così ritroviamo l’oracolo del dio. Vecchio lavoro della mia giovinezza! Hai altro da aggiungere, o indovini soltanto questo? Serpenti dorati, alla maniera antica, dono di Atena che vuol fare crescere i bambini in questo modo, a imitazione dell’antico Erittonio3. E a che serviva questo gioiello? Era una collana per il neonato, figlio mio. Sì, c’è. Ma desidero ancora sapere una terza cosa. Ti ho messo attorno una corona d’ulivo, che Atena per prima introdusse sulla nostra montagna: se c’è, non deve aver perso il suo verde, perché è nato dall’olivo sacro e fiorisce ancora. Mamma mia carissima, sono felice di vederti, di baciare il tuo volto felice. Figlio, luce più lucente del sole per una madre (il dio perdonerà), ti ho tra le mie braccia, ti ho ritrovato contro ogni speranza, quando ormai credevo che abitassi nella casa di Persefone.
3. Erittonio, figlio della Terra e di Efesto, fu affidato al re d’Atene Cecrope in un cesto pieno di serpenti.
L’argomento è la punizione di Penteo, re di Tebe, fatto a brani durante le orge bacchiche per essersi opposto all’introduzione del rito di Diòniso. La tragedia è stata variamente interpretata: come il segno di un’adesione tardiva dell’autore ormai vecchio ai riti dionisiaci oppure, all’opposto, come espressione della sua avversione per ogni forma di superstizione e entusiasmo mistico. Non si deve dimenticare che questa tragedia, rappresentata postuma, era stata scritta per il pubblico macedone, legato ai riti folclorici della fertilità. Dramma satiresco e unico esemplare integro di questo genere, rappresenta il celebre episodio odisseico del Ciclope accecato da Ulisse. Di dubbia autenticità, il Reso tratta un episodio secondario della guerra di Troia, l’incursione nottura di Diomede e Odisseo nell’accampamento nemico.
Baccanti
Ciclope Reso
Caratteri del teatro di Euripide Sebbene sia contemporaneo di Sofocle, il teatro di Euripide riflette meglio l’evoluzione culturale del mondo attico nella seconda metà del V secolo, segnato dalla sofistica, dalla lezione di Socrate, dalla radicalizzazione democratica, dal clima generato dalla guerra del Peloponneso. Il mito perde la funzione paradigmatica che aveva in Eschilo e Sofocle. Eroi e dei subiscono un abbassamento borghese rispecchiando i sentimenti, i disagi, le debolezze, i condizionamenti della gente comune, degli strati sociali emarginati (a cominciare dalla donna). «È come se il favoloso mondo mitico non potesse resistere all’impietoso fascio di luce che lo esplora e che rivela una realtà in cui l’uomo comune finisce per riconoscere le proprie miserie, incertezze, ambiguità» (G. Donzelli). L’abbassamento del mito – che si pone sulla linea di contestazione degli dei della tradizione poetica iniziata da intellettuali come Senofane – non significa rinuncia alla ricerca di un principio divino, di un criterio ordinatore nel caos dell’esistenza. Ma nonostante l’uso frequente del deus ex machina – la discesa di una divinità che risolve le cose umane – man-
La «modernità»
Una concezione laica
41
42
La tragedia greca
La centralità dell’uomo
Declino della polis
L’antimilitarismo
ca in Euripide un dio che punisca secondo giustizia e amministri gli eventi in base a un positivo criterio etico. «Che cos’è un dio? Che cosa non è? Esiste alcunché di intermedio?», si domanda un personaggio dell’Elena. È chiara comunque la polemica, già senofanea, contro la religione antropomorfa tradizionale. Nell’Ifigenia in Tauride la protagonista afferma, a proposito della dea Artemide: «Non posso ammettere i suoi capricci: uno che tocchi il sangue o una donna incinta o un cadavere lo allontana dagli altari, e lei gradisce sacrifici umani. No, la sposa di Zeus, Leto, non può avere partorito tale follia! Penso piuttosto che gli uomini sanguinari di questa contrada abbiano proiettato sulla dea la loro miseria morale. Nessun dio credo che sia cattivo» (vv. 380-391). Manca in Euripide l’intenzione di proporre modelli umani di tempra eroica. Dominano il relativismo che dimostra come non vi sia nulla che non si possa ricondurre al suo contrario, la critica laica e spietata che sottopone a revisione ogni aspetto della tradizione. Domina il pessimismo. Una qualche positività è rintracciabile solo nell’uomo in quanto tale, nelle sue risorse schiettamente umane, a prescindere dalla sua condizione sociale: la dedizione maritale di Alcesti, quella filiale di Ifigenia, l’amicizia tra Admeto e Eracle nell’Alcesti e tra Oreste e Pilade nell’Ifigenia in Tauride. La polis non è più il centro della vita dell’individuo. Elettra vive in campagna, Ione preferisce alla vita logorante di Atene quella semplice e tranquilla nella pace del santuario delfico. Dello stesso Euripide si diceva che avesse composto i suoi drammi in una grotta sul mare di Salamina, isolato dal tumulto di Atene. Il desiderio d’evadere nello spazio e nel tempo è espresso frequentemente dai personaggi euripidei (di qui anche il carattere avventuroso e romanzesco di talune trame). Lo storico Erodoto, contemporaneo di Euripide, scrive che in quei tempi era del tutto sopito lo spirito che aveva sorretto lo sforzo ateniese a Salamina e a Maratona. La guerra non si spiega più come nei Persiani di Eschilo all’interno di un progetto etico-politico, è solo il segno dell’insensatezza umana (vedi l’apostrofe antimilitarista dei vv. 1151 ss. dell’Elena citati sopra o il grido di Ecuba: «Basta con i morti!», v. 278).
Origini del teatro comico a Roma
Il teatro a Roma
Origini del teatro comico a Roma Il teatro a Roma, nelle sue forme letterarie quale noi lo conosciamo, nacque debitore nei confronti del teatro greco, come quasi tutta la letteratura latina, in particolare delle origini (III sec. a.C.). Non bisogna tuttavia pensare che fosse solo teatro di imitazione o che avesse scarsa importanza nella vita quotidiana dei Romani anche se, indubbiamente, fu il frutto di un’elaborazione artistica nata dall’esigenza di adeguarsi al livello di cultura dei Greci, che avevano già espresso in diverse forme scritte una letteratura, tra cui appunto testi teatrali, nota in tutto il bacino mediterraneo. Con la tradizione teatrale greca la cultura romana entrò in più stretto rapporto dopo la vittoria su Pirro a Benevento (275 a.C.) e sui Cartaginesi in Sicilia, ma già precedentemente, nel periodo arcaico, i Romani avevano avuto contatti con la civiltà greca attraverso i commerci con le città della Magna Grecia e relazioni, dovute alla vicinanza geografica, con il popolo dell’Etruria con cui da tempo i Greci erano in rapporti commerciali. Questi sono documentati dalla scoperta qui, come nel Lazio e in Roma stessa, di ceramiche di importazione greca, di fattura risalente al VIIVI secolo a.C. Mediante tali contatti probabilmente entrarono non soltanto manufatti artigianali, ma anche «tradizioni orali greche, particolarmente mitiche, che verosimilmente non dovettero prescindere da una certa conoscenza, a livello di diffusione orale, di canti epici e lirici della poesia greca» (B. Gentili). Sarà tuttavia la produzione del libro e il commercio librario iniziati più tardi in Grecia, verso la fine del V secolo a.C., che favoriranno il diffondersi, pur lento, ma sempre maggiore, dei testi greci fuori dalla madrepatria; finché, nel periodo ellenistico (III secolo a.C.; ricordiamo che fu di allora l’istituzione di biblioteche), si può affermare che la conoscenza della letteratura greca, pur se, probabilmente, in forma di antologizzazione, era ormai un fatto acquisito. Spettacoli teatrali tuttavia esistettero in Roma ben prima della loro letterarizzazione. Come si può ricavare dal tempo che i Romani vi trascorrevano, al teatro in Roma fu sempre riconosciuta una grande importanza. Ma quando parliamo di teatro delle origini non dobbiamo pensare né a un luogo predefinito, né a testi scritti che venivano rappresentati; l’idea che i Romani ne avevano è molto diversa da quella dei nostri tempi, data anche l’importanza che attribuivano alla musica e alla messa in scena, maggiore rispetto al testo stesso. Si può affermare dunque che «lo spettacolare», sotto diverse forme, fu una delle categorie essenziali di Roma. Nella civiltà romana la percezione teatrale non si limitava al chiuso orizzonte della scena. «Tutto può divenire spettacolo: i dibattiti giudiziari, le lotte della guerra civile, una giovane donna addormentata o l’esecuzione di un criminale. Questo perché il teatro non è la rappresentazione del reale, ma un diverso sguardo sulla realtà e che la derealizza. Inversamente se il reale può essere percepito come spettacolo perché il tea-
Rapporti col teatro greco
La circolazione libraria
Importanza dell’elemento spettacolare
43
44
Il teatro a Roma
ETÀ ARCAICA
Feste, cerimonie, riti
I fescennini
Le occasioni pubbliche
I vari tipi di ludi
tro non è una immagine senza vita di questo reale, c’è una efficacia della parola teatrale e della messa in scena che fa dello spettacolo l’aiuto della politica e della retorica» (F. Dupont). È a questo senso della teatralità, parte integrante della cultura latina, che bisogna riportare la compresenza di momenti solenni e momenti carnevaleschi in diverse circostanze della vita dei Romani, in particolare nelle festività. Potevano aversi rappresentazioni teatrali ad esempio in occasione del trionfo dell’imperator, o del funerale di importanti personaggi. In queste occasioni, come in quella del matrimonio, si prevedevano cerimonie con un complesso rituale legato ad elementi religiosi; ad esso si accompagnavano processioni (pompae) con danze e canti per lo più di tenore comico. Nel primo caso gli scambi di battute erano su virtù e vizi del trionfatore; nel secondo la lamentatio funebris fungeva da elogio del morto; nel terzo il canto di versi licenziosi aveva funzione apotropaica-propiziatoria. Questi, che avevano evidenti richiami alla fertilità (il che ci fa comprendere l’oscenità insita in essi), avevano lontana origine in usanze contadine, secondo quanto ci testimonierà Festo, grammatico latino del II secolo d.C. Infatti frequenti divertimenti con danze e scambi di battute dovevano avvenire durante le feste agricole che ricorrevano nei momenti più significativi dell’attività dei contadini (tali, ricordiamolo, furono sostanzialmente i Romani del tempo arcaico), semina, raccolto, vendemmia e così via. Di questi vivaci e licenziosi scambi di battute, insulti, detti versi fescennini, che abbiamo già avuto occasione di trattare a proposito delle forme preteatrali, ci dà una testimonianza Orazio nella satira che abbiamo analizzato (vedi sopra, p. 5), ma anche nell’Epistola II 1, 145 ss., parlando di usanze presenti nell’antico mondo contadino, simbolo di un tempo felice in cui l’uomo, pago del poco, conservava sani costumi e religiosità. Come s’è detto, l’etimologia della parola ci riconduce da un lato alla città etrusca di Fescennia, dall’altro a fascinum, «malocchio», ma anche «oggetto ridicolo e indecente» e «membro virile». Oltre ad occasioni «private», che riguardavano cioè momenti della vita di un individuo, di feste a cui comunque, attraverso la processione, partecipava la collettività, ve ne erano numerose di «pubbliche», legate per lo più a feste di carattere religioso, durante le quali venivano sospese le attività pubbliche. I Romani vi allestivano giochi di vario genere, manifestazioni, all’origine, destinate a divertire gli dei: corse di cavalli, combattimenti di animali, gare di atleti. Queste pubbliche feste, che avevano un nucleo di cerimonie religiose, erano i cosiddetti ludi, «tradizionalmente e inadeguatamente tradotti come “giochi”» (F.H. Sandbach). «Adottare nuove forme spettacolari era come adottare nuove preghiere da rivolgere agli dei: ringraziarli in maniera degna dei benefici ricevuti (ad esempio dell’ingente bottino tratto dalla conquista di una città nemica), per ottenerne, con rinnovata efficacia, la protezione (contro un popolo ostile, contro una pestilenza, contro i pericoli della discordia intestina)» (G. Chiarini). Amando moltissimo i giochi, a cui dedicavano il tempo dell’otium, i Romani ne moltiplicarono nei secoli le occasioni. Ai primi, più antichi ludi Romani, la maggiore festa della latinità istituita nel 367 a.C. in onore di Giove Ottimo Massimo che aveva luogo in settembre, si aggiunsero nel 238 i ludi Florales, che cadevano a fine aprile inizio maggio, durante i quali invece che atleti, come nei ludi circensi di cui erano una specie di parodia, si esibivano prostitute in gare, danze, spogliarelli e mimi dal carattere particolarmente licenzioso; nel 220 i ludi plebei dedicati a Giove, che cadevano in novembre; nel 212 i ludi Apollinares in onore di Apollo, che si svolgevano
Forme di rappresentazioni «popolari»
in luglio; nel 204 i ludi Megalenses dedicati alla Magna Mater in aprile. Alla sfera dei giochi appartenevano anche, non unica forma di spettacolo dunque, gli spettacoli teatrali, chiamati ludi scaenici, distinguendosi con questa denominazione il luogo, la scaena, in cui si esibivano gli artisti. «Per tutta la durata della civiltà romana, tanto sotto la repubblica quanto sotto l’Impero, il tempo passato al teatro da parte di un cittadino medio è grandissimo, soprattutto se lo si confronta con ciò che accadeva in Grecia. In effetti, se i ludi si dividono fra il circo e il palcoscenico, per lungo tempo i giorni consacrati a quest’ultimo furono più numerosi di quelli consacrati al circo. Sotto la repubblica si contano 55 giorni di ludi scenici ufficiali su 77 giorni di ludi. Sotto l’Impero ci sono circa 101 giorni di ludi scenici su circa 165 giorni di ludi» (F. Dupont). Da questi sono esclusi gli spettacoli gladiatòri che non facevano parte dei giochi. Non durante tutti i ludi si avevano rappresentazioni teatrali; molti di questi le ospitarono in un secondo momento: ad esempio i ludi Romani, qualche anno dopo la loro istituzione, nel 364 a.C., furono rifondati, con l’aggiunta di un giorno ai tre rituali (Livio VI 42, 12), e si decise che fossero festeggiati annualmente, a ricordo della pace fra patrizi e plebei; solo da allora furono scaenici. Numerose erano le occasioni dunque per assistere a spettacoli scenici. Loro germe i Romani ritennero i versi fescennini «dialogo scherzoso di pagliacci in occasione della festa del raccolto», divenuti poi evento con ricorrenza annuale. Come s’è già accennato i Romani posero la nascita degli spettacoli scenici nel 364 a.C. In quell’anno, racconta Tito Livio, storico del periodo augusteo, scatenatasi una pestilenza, per placare gli dei i Romani istituirono dei ludi scaenici, «una novità per quel popolo bellicoso, che non aveva conosciuto fino ad allora nessuno spettacolo se non il circo». Chiamarono dall’Etruria dei danzatori che ballarono al suono di un flauto, con aggraziati movimenti, secondo l’usanza etrusca, «senza canti, senza mimiche rappresentazioni». I giovani Romani cominciarono ad imitarli, ma in aggiunta si scambiarono scherzi e spiritosaggini «in rozzi versi» a cui accordarono i movimenti. Questa nuova forma artistica, chiamata satura (da immaginare forse come una serie di sketch, «scenette slegate d’argomento vario», una specie del nostro «varietà»), determinò la nascita di una tradizione teatrale in Roma che andrà pian piano trovando la sua definizione grazie anche all’influsso di altri elementi stranieri, in particolare greci. Sempre secondo la testimonianza dello storico Livio, fu poi Livio Andronico che per primo passò dalle saturae alle commedie a soggetto delle quali era autore ed attore allo stesso tempo.
Ludi etruschi con attore mascherato (phersu = persona); sec. VI a.C. Tarquini, Tomba degli Auguri.
I ludi scaenici
La satura
Forme di rappresentazioni «popolari» Nel clima festoso precedentemente descritto, in cui risulta evidente la «popolarità» delle manifestazioni, si comprende bene come fossero possibili influssi di altre culture con cui i Romani erano venuti a contatto, forme di imitazione di realtà simili – l’importante era rispettare lo spirito giocoso e burlesco – che avevano più o meno casualmente conosciuto. Anticamente dovevano essere rappresentati tipi di farsa o brevi scenette divertenti: oltre alle rappresentazioni burlesche dei fliaci, di cui abbiamo già parlato, l’atellana e il mimo. Da Atella, città osca della Campania situata fra Capua e Napoli, con grande probabilità, prese il nome l’atellana, sicuramente già nota a Roma nel II secolo a.C, che co-
L’Atellana
45
Il teatro a Roma
ETÀ ARCAICA
46
Il mimo
noscerà una forma scritta, letteraria, solo più tardi, nel I secolo a.C. Farsa relativamente breve, tale tipo di spettacolo si basava su un nucleo di personaggi di repertorio dai caratteri fissi che avevano ruoli definiti e che indossavano maschere grottesche. Dai titoli e dai pochi frammenti che possediamo riusciamo a ricavare quattro o cinque nomi, Maccus, Bucco, Pappus, Dossenus, Manducus, di personaggi che sono da pensare come «clown volgari e ghiottoni, le cui caratteristiche animali erano tali da poter divertire un uditorio primitivo e rusticano, pronto a ridere anche della ghiottoneria e dell’ubriachezza, dei giochi rumorosi e delle battute oscene» (W. Beare). Quanto alla loro tipizzazione, sono state avanzate ipotesi che poggiano per lo più su elementi indiziari di autori tardi e non sono quindi sempre dimostrabili con certezza: in base ad esse Macco sarebbe «stupido» o «mangione ingordo»; Buccone, se è da collegare a bucca, significa «mascellone», ma non sappiamo con certezza se per indicare avidità, stupidità o millanteria; così Pappo, indicando la corrispondente parola greca «nonno», potrebbe essere il «vecchio avaro e innamorato» o il «vecchio scemo», ruolo che riveste nei frammenti letterari in nostro possesso; Dosseno, secondo alcuni studiosi che ne fanno derivare il nome da dorsum = gobba e ritengono che i gobbi fossero ritenuti popolarmente astuti, sarebbe il personaggio del «matto furbo»; Manduco sarebbe il «masticatore», un orco con enormi mascelle. Delle origini del mimo di sicuro sappiamo poco o nulla. C’è chi ritiene che sia stato importato dalla Grecia, dove era stato elaborato letterariamente, in prosa ritmica, da Sofrone nel V secolo a.C. Dovette essere una forma di intrattenimento popolare che si svolgeva in occasione di festività e ogniqualvolta e ovunque si potevano attirare degli spettatori. Come nei nostri spettacoli di piazza, intrattenimenti di diverso genere venivano proposti dagli artisti: fra questi ve ne erano alcuni dotati di particolare abilità nel gestire e nell’arte dell’espressione facciale, che rappresentavano anche piccole scene di vita quotidiana. Dunque, come indica il nome stesso, questa forma di rappresentazione, di tipo farsesco, voleva «imitare» la vita reale; suo obiettivo il puro e semplice divertimento, il mimicus risus. Gli attori recitavano su improvvisazione e, diversamente che nell’atellana, senza maschera; le parti femminili erano sostenute da donne. Caratterizzato da oscenità, conservò sempre un carattere licenzioso, arrivando ad offrire come elemento di attrattiva anche esibizione di nudi femminili, cosa che, come si è detto, avveniva nei ludi Florales, festa durante la quale l’esecuzione dei mimi era lo spettacolo centrale. Col tempo divennero sempre più importanti il canto e soprattutto la danza.
Livio Andronico L’influsso della Magna Grecia
Sulla commedia latina, come si è detto, dovettero influire le forme popolari di rappresentazione di cui abbiamo parlato. Ma essa nasce con una sorprendente maturità artistica: a questa contribuirono sicuramente la conoscenza non solo del teatro della Magna Grecia e della Sicilia, ma anche delle tecniche drammaturgiche e delle strutture metriche del teatro ellenistico. Non è casuale che i primi tentativi di scrittura di commedie furono compiuti da autori nativi della Magna Grecia: Livio Andronico, di Taranto, da cui fu condotto a Roma nel 272 a.C., Nevio di Capua, nato nel 275 a.C., e, più tardi, Ennio di Rudie, cittadina fra Brindisi e Taranto, nato nel 239 a.C. Si tratta di fabulae palliatae, commedie cioè di ambiente greco (da pallium che indicava il mantello portato dai Greci). Condotto schiavo a Roma in seguito alla sconfitta di Pirro, e quindi alla conquista di
Livio Andronico
Taranto da parte di Roma, Livio Andronico svolse qui attività di insegnamento. Fu ed è considerato l’iniziatore della letteratura latina, avendo introdotto in Roma la cultura greca attraverso le traduzioni – da intendere come rielaborazioni artistiche di modelli greci – dell’Odissea, di tragedie e di commedie. Fu il primo, come ci attesta Cicerone (Bruto, 72), a far rappresentare un’opera teatrale (fabula) «l’anno prima che nascesse Ennio», cioè nel 240, data d’inizio dunque, per gli antichi, del teatro letterario latino. Con lui nasce «il primo grande traduttore della cultura occidentale, un traduttore che, nonostante il suo sperimentalismo di iniziatore, possedeva già tutti gli strumenti di una tecnica complessa e consapevole, che si giovava non solo degli apporti specificamente letterari della cultura ellenistica, ma anche e soprattutto della sua esperienza di uomo di teatro attento alle esigenze e alle richieste del pubblico» (B. Gentili). Delle sue opere teatrali, tragedie (per le quali trasse gli argomenti soprattutto dal ciclo troiano) e commedie, possediamo soltanto titoli ed alcuni frammenti per tradizione indiretta. Gladiolus («Lo spadino»), Ludius («L’attore»), Verpus («Il circonciso»?) sono i titoli che ci sono stati tramandati. Restano solo sei versi, e non tutti interi, per cui nulla è possibile ricostruire di tali opere, che dovettero comunque attingere ai modelli della commedia nuova. Eccone qualche esempio:
Livio Andronico
adfatim edi bibi lusi ho mangiato a crepapelle, ho preso la sbornia e ho fatto l’amore
(fr. 4)
Non sappiamo chi sia il personaggio che pronuncia queste parole né in quale commedia; appare un tipo di comicità che ricorda il Plauto dei Menecmi dove (vv. 1141 s.), pur nella diversità del lessico, è presentata una situazione analoga: prandi perbene / potavi atque accubui (“mi sono rimpinzato ben bene, mi sono sbronzato e sono andato a letto con quella donnina”). In questo frammento: pulicesne an cimices an pedes? Responde mihi. dimmi: di pulci, di cimici o di pidocchi? c’è forse la risposta alla smargiassata di un miles che si vantava di aver fatto fuori un gran numero di nemici con il suo gladiolus: si tratterebbe di quel tipo di miles gloriosus, soldato vanaglorioso e fanfarone già presente nel teatro greco e che diventerà protagonista di una commedia di Plauto, che da lui prenderà il titolo. Livio Andronico ebbe dunque il merito di aver intrapreso una strada che condurrà al grande Plauto. Ci sono giunti nove titoli, che dovevano essere adattamenti di tragedie greche del V secolo a.C. L’inclinazione all’austerità, che riscontreremo in particolare nella traduzione dell’Odissea (vedi p. 98), faceva sì che Livio privilegiasse la tragedia rispetto alla commedia, in particolare la tragedia di tipo euripideo. Questa doveva riuscire più gradita al pubblico romano sia per la ricchezza degli effetti musicali sia per il tipo di vicende rappresentate, truculente, inclini all’orrido, ricche di incesti, adulteri, parricidi. Delle tragedie di ambientazione greca – dette coturnatae dal coturno (alta calzatura degli attori tragici greci) in opposizione alle praetextae, di ambiente romano (da praetexta, toga romana) – restano solo pochi frammenti (41) per lo più di un solo verso. Il poco che si legge attesta un’elevata qualità letteraria, nonostante il severo giudizio di Cicerone (Brutus 18, 71) che considerava i drammi di Livio Andronico grezzi e privi d’interesse. I titoli Achilles, Aegisthus, Equos Troianus, Hermìona, Aiax mastigophorus rivelano la
La traduzione
Le commedie
Gladiolus (fr. 1)
La produzione tragica
I titoli delle tragedie
47
48
Il teatro a Roma
preferenza per il ciclo troiano, più congeniale ai Romani dato anche il legame tra questi miti e il leggendario fondatore della stirpe italica, Enea. Gli altri titoli (Ino, Andromeda, Tereus, Danae) suggeriscono l’interesse per l’elemento patetico e romanzesco.
ETÀ ARCAICA
Frammenti delle tragedie di Livio Andronico. Due frammenti dall’Aegisthus. La tragedia doveva narrare l’orrida vicenda della famiglia degli Atridi. Clitennestra, insieme con l’amante e usurpatore del trono di Micene Egisto, uccide il marito e legittimo regnante Agamennone, quando questi ritorna da Troia. Sette anni dopo Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, vendica il padre ammazzando Egisto e la madre. I due frammenti che presentiamo sono relativi al ritorno dei Greci da Troia (Pergama):
Nam ut Pergama accensa et praeda per participes aequiter partita est …
Infatti quando Pergamo fu incendiata e il bottino fu diviso in parti uguali tra i partecipanti …
Tum autem lascivum Nerei simum pecus ludens ad cantum classem lustratur
Allora il guizzante, camuso gregge di Néreo s’accosta alla flotta saltando al ritmo del canto (dei marinai)
Allo stile elevato epico-tragico concorrono: • espressioni solenni come Pergama (che metonimicamente designa Troia dalla sua rocca), la perifrasi lascivum Nerei pecus per indicare i delfini, considerati come il gregge del dio marino Néreo; • il ricorso all’allitterazione: Pergama … praeda … participes … partita; lascivum … ludens; cantum classem. Un frammento dall’Aiax mastigophorus. «L’Aiace armato di frusta» doveva narrare il dramma di Aiace che, dopo la morte di Achille, ne vorrebbe le armi. Ostacolato dall’astuto Ulisse, Aiace impazzisce e si uccide. Ecco l’amara considerazione che Teucro, fratello di Aiace, fa sull’ingratitudine umana.
praestatur laus virtuti, sed multo ocius verno gelu tabescit
si offre lode al valore, ma assai più celermente del gelo a primavera essa si scioglie
Oh! come rapidamente svanisce tra gli uomini la gratitudine verso questo morto! (Sofocle, Aiace, vv. 1266-1267) Il confronto col verso dell’Aiace di Sofocle illumina la tecnica di «traduzione» seguita da Livio e dai Romani in genere, adattatori piuttosto che traduttori. Qui Livio si affranca dall’originale, generalizzando il commento di Teucro, che assume una valenza gnomica assoluta. Un frammento dall’Equos Troianus. «Il cavallo Troia» doveva narrare la vicenda del famoso inganno, messo in atto dall’astuto Ulisse, che consentì ai Greci di espugnare Troia.
da mihi hasce opes quas peto, quas precor porrige, opitula
Dammi l’aiuto che chiedo, che supplico, aiutami, soccorrimi.
L’invocazione rivolta a un dio è una sequenza lirica (in cretici: – ∪ – ) e attesta l’interesse per il modello euripideo, che accresceva lo spazio destinato alle monodie. Si notino i tratti della lingua arcaica, che già abbiamo considerato nelle manifestazioni preletterarie delle origini: parallelismi (quas peto, quas precor), frequenza dell’allitterazione e delle figure di suono in genere: opes … peto … precor … porrige … opitula.
Il teatro di Nevio Le palliatae
Contemporaneo di Livio Andronico, di poco più giovane, Nevio compose come lui un’opera epica in versi saturni, il Bellum Poenicum, tragedie di argomento greco (cothurnatae) e di argomento romano (praetextae; in questo tipo fu il primo) e scrisse fabulae palliatae, commedie di ambientazione e costume greco (il nome viene da pallium, il mantello indossato dai Greci).
Il teatro di Nevio
A lui Terenzio (Andria, prologo, VII 3) fa risalire la pratica della contaminatio, tecnica compositiva che prevedeva l’inserimento, nella trama di una commedia presa come modello, di una o più scene tratte da altra commedia, dello stesso o di diverso autore. Qualche studioso non esclude che fosse già di Livio Andronico; più probabilmente si tratta di un «fenomeno che non va considerato come una innovazione di Nevio e neppure come un fatto tipico del teatro romano, ma piuttosto come una delle forme nelle quali si esplicò il teatro ellenistico. In sostanza la contaminazione si inserisce naturalmente in quella concezione per così dire antologica dello spettacolo che fu alla base delle esecuzioni dei tragodoi, che presentavano al pubblico, in spettacoli strumentali e vocali, selezioni tratte da uno stesso dramma» (B. Gentili). Del suo teatro comico risulta difficile esprimere un giudizio, dato che ci sono rimasti 35 titoli e poco più di 130 frammenti, anche se da questi si può trarre qualche elemento. Diversamente dalla Commedia Nuova e dagli altri commediografi latini sembra che non mancassero nella sua opera teatrale attacchi a personaggi in vista del suo tempo, che ricordano la libertà della Commedia Antica di Aristofane.
La contaminatio
Etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose, cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus praestat, eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit.
fr. 86 Traglia; trad. di A. Traglia
Allusione ai contemporanei
Anche colui che compì spesso gloriose e grandi imprese, le cui azioni ora sono in pieno rigoglio, che solo domina sugli uomini, lui suo padre condusse via dalla casa di una sua amante coperto del solo mantello. Qui, come ci informa Gellio che ci ha tramandato questi versi, sembra vi fosse l’allusione ad un’avventura giovanile di Scipione Africano che, scoperto dal padre in casa di un’amante, fu costretto ad allontanarsi in tutta fretta senza neanche essersi rivestito completamente. La scena è tipica della commedia: un giovane viene condotto via dall’amante da un padre severo; data la fama del personaggio, l’allusione appare irriverente, segno della libertà con cui Nevio portava sulla scena i grandi personaggi del suo tempo. D’altronde nei suoi versi insistente sembra il motivo della libertà: libera lingua loquemur ludis [Liberalibus
Il motivo della libertà
con lingua libera parleremo nei [giuochi in onore di Libero
e forse in ego semper pluris feci… potioremque habui libertatem [multo quam pecuniam
io ho sempre tenuto in maggior [considerazione… ed ho preferito la libertà [molto più che il danaro
Di quest’ultimo frammento c’è però chi dà una diversa interpretazione e pensa che queste parole siano pronunciate da un figlio al padre il quale desidera che sposi una donna ricca. Non dovette d’altronde mancare in Nevio il motivo dello scontro fra figli e padri, proprio della Commedia Nuova: i figli cercano di spassarsela, i padri cercano di vigilare sulla loro condotta, attenti al danaro scialacquato in tali situazioni. Con queste parole, nella commedia Il trifallo, un padre minaccia il servo che, evidentemente, aiuta il suo padroncino: Si umquam quicquam filium [rescivero
Se vengo a sapere qualche cosa di [mio figlio,
Trifallo
fr. 80 Traglia; trad. di A. Traglia
49
50
Il teatro a Roma
ETÀ ARCAICA
argentum amoris causa sumpse [mutuum, extemplo illo te ducam, ubi non [despuas.
che ha preso in prestito del danaro [per scapricciarsi con le donne, subito ti manderò là dove non [potrai neanche sputare.
Tarentilla
Nel frammento che segue, tratto da La ragazza di Taranto (Tarentilla), così, con una solenne paternale, si conclude il momento della riconciliazione fra padri e figli:
fr. 73 Traglia; trad. di A. Traglia
Primum ad virtutem ut redeatis, [abeatis ab ignavia, domi patres, patriam ut colatis [potius quam peregri probra.
Per prima cosa, che ritorniate sulla strada della virtù, abbandonando [quella dell’ozio, e che standovene in casa vostra abbiate cura dei genitori e della patria, piuttosto che pensare a praticare il vizio [fuori della vostra città.
Sempre tratto dalla Tarentilla riportiamo il più ampio e il più noto dei suoi frammenti. Con grazia e vivacità espressiva vengono descritte le arti di seduzione e civetteria di una fanciulla: fr. 62 Traglia; trad. di A. Traglia
La produzione tragica
Quasi pila in coro ludens datatim dat sese e [communem facit. Alii adnutat, alii adnictat, alium [amat, alium tenet. Alibi manus est occupata, alii [pervellit pedem; anulum dat alii exspectandum, [a labris alium invocat, cum alio cantat, attamen alii suo [dat digito litteras.
Come al gioco della palla, si porge dandosi a vicenda e si [concede a tutti: a uno fa cenni, a un altro ammicca; fa l’amore con uno, tiene stretto un [altro; ha la mano occupata con uno, un altro stuzzica col piede; a uno fa ammirare l’anello, a un altro parla con il movimento delle [labbra; mentre canta con uno, a un altro [traccia lettere col dito.
Come ha scritto Traina, «per gustare il vivacissimo quadro ed evitare l’innaturale sovrapporsi di tante immagini contemporanee, dobbiamo risolvere la girandola dei verbi in coppie antitetiche, separate dalla dieresi (come le prime due) o dalla fine del verso, e tuttavia legate dal ricorrere di alius: la civetta passa da una coppia all’altra sempre illudendo due uomini alla volta». La prima originalità di Nevio tragico sta nell’aver scritto delle praetextae, cioè delle tragedie di ambientazione romana: Romulus, Lupus («La lupa»), Clastidium, le prime due sulla leggenda di Romolo e Remo, la terza sulla vittoria del Romani presso Casteggio nel 222 a.C. Scrisse anche cothurnatae che riprendevano le trame dei tragici greci. Al filone troiano appartenevano Equos Troianus (titolo comune anche a Livio), Iphigenia, Andromacha, Hector proficiscens («Ettore che parte», probabilmente per il duello con Achille). Ad altri filoni mitici rinviano Danae, Aesiona, Lycurgus. In quest’ultima tragedia – che narra del mitico re di Tracia che si oppose a Dioniso e fu da questo punito – sono presenti influenze dionisiache, connesse con la diffusione in Italia dei culti misterici di Dioniso (noto ai Romani come Bacco o Libero), repressi col Senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a.C.
Frammenti delle tragedie di Nevio. Dal Lupus.
Vel Veiens regem salutat Vibe Albanum Amulium
Vel Vibe di Veio saluta il re di Alba Amulio
Il teatro di Ennio
Il verso appartiene al dialogo tra Amulio (re di Alba e zio di Romolo e Remo) e il re di Veio. Nota l’allitterazione (Vel Veiens … Vibe; Albanum Amulium). Dal Clastidium.
Vita insepulta laetus in patriam redux
Senza avere perduto la vita nel sepolcro, lieto, [reduce in patria
Il verso – un senario giambico di notevole forza espressiva – è probabilmente riferito a Marco Marcello, il generale che guidava i Romani a Clastidium. Si noti in particolare il gusto arcaico per la perifrasi ardita e complicata: vita insepulta = vivus. Dal Lycurgus.
Ducite eo cum argutis linguas mutas quadrupedis
Conducete là quei quadrupedi mugolanti con lingua canora
Pergite Tyrsigerae Bacchae, Bacchico cum scemate.
Continuate, Baccanti che porta il tirso, Baccanti che porta il tirso, con ispirazione (?) bacchica.
Namque ludere ut laetantis inter sese vidimus Propter amnem, aquam creterris sumere [ex fonte [… Pallis patagiis crocotis malacis mortualibus.
Giacché, appena le vedemmo giocosamente [scherzare fra loro Presso il fiume e attingere acqua con secchi… vestite di vesti lunghe, colletti, sottili vesti gialle, [molli vesti nere. (trad. di E.V. Marmorale)
Gli animali che muggiscono nel primo frammento sarebbero le baccanti di Dioniso e mutus avrebbe il valore onomatopeico di «fare mu», dunque «muggire», «mugolare» in preda a una frenesia bestiale (Traglia). Si notino nel terzo frammento la leggerezza e la sensualità della scena delle ragazze che giocano al fiume, rivestite di veli trasparenti color croco. Dal Danae.
Desubito famam tollunt, si quam solam videre [in via.
Subito le tolgono il buon nome, se hanno visto [una donna sola per strada.
Il verso è citato dal grammatico Nonio (IV sec. d.C.) in un contesto in cui si critica la troppa libertà femminile.
Il teatro di Ennio Fra i numerosi generi letterari a cui Ennio si dedicò – epica, tragedia, poemetti di argomento filosofico, satira (vedi p. 105) – non manca neppure quello della commedia. Non fu questo tuttavia l’ambito in cui dovette maggiormente distinguersi, se già gli antichi con Volcacio Sedigito, grammatico probabilmente del II secolo a.C., gli assegnarono il decimo e ultimo posto nell’elenco dei poeti comici. Terenzio ci dice che, come Nevio e Plauto, usò la contaminatio nelle sue commedie. Di queste ci rimangono quattro brevi frammenti soltanto e due titoli: Caupuncula «La ragazza dell’osteria» e Pancratiastes «L’atleta del pancrazio» (il pancrazio è un genere di lotta in uso presso i Greci). A quest’ultima appartiene il seguente verso, in cui la situazione è analoga a quella di tante altre commedie: qualcuno entra in scena e bussa violentemente alla porta di casa:
Due titoli di commedia
Quis est qui nostris foribus tam [proterviter (facit iniuriam?)?
fr. 3 Traglia; trad. di A. Traglia
Chi è che con tanta prepotenza [(maltratta?) la nostra porta?
Facit iniuriam non è presente nel frammento così come ci è pervenuto, ma è stata avanzata questa integrazione sulla base dell’esistenza di un verso quasi uguale in Plauto. Della commedia enniana di più non sappiamo e dunque non molto possiamo dire.
Pancratiastes
51
52
Il teatro a Roma
ETÀ ARCAICA
La produzione tragica
Il modello euripideo
La magniloquenza
La traduzione
Più che nella commedia Ennio s’impegnò nella tragedia con grande successo, al punto da divenire il modello indiscusso in questo genere fino all’età imperiale. Restano una ventina di titoli di cothurnatae e un ampio numero di versi, citati soprattutto da Cicerone, ammiratore di Ennio tragico. Alcuni titoli, già toccati da Livio Andronico e da Nevio, rinviano al ciclo troiano: Achilles, Aiax, Alexander (cioè Paride), Andromacha aechmalotis («prigioniera»), Hècuba, Iphigenia, Medea, Euménides, Hectoris lytra («Il riscatto di Ettore», cioè della sua salma), Aiax (ispirata all’omonima tragedia di Sofocle), Thyestes messa in scena nel 169, cioè nell’anno della morte dell’autore. Come per Nevio, non mancavano le praetextae, di cui restano i due titoli Ambracia, Sabinae. La prima celebrava la presa di Ambracia da parte di Marco Fulvio Nobiliore (189 a.C.), la seconda rievocava un episodio della storia romana delle origini, il famoso «ratto» escogitato da Romolo. Il tragediografo greco più presente è Euripide, con cui Ennio condivide il patetismo e il sentimentalismo, la simpatia (sympatheia) per i personaggi soprattutto femminili, l’attitudine visionaria e l’interesse per l’esperienza onirica. Euripidei sono anche la predilezione per l’argomentazione sottile, il gusto per l’approfondimento psicologico e «la patologia dell’animo» (Jaeger), l’interesse filosofico che si traduce in frequenti riflessioni e massime sul destino umano. In questo esempio tratto dall’Aiax, il padre di Aiace accoglie con l’imperturbabilità del saggio la notizia della morte del figlio: Ego cum genui tum morituros scivi Io, quando ho generato (i miei figli), fin [et ei eri rei sustuli; da allora sapevo che sarebbero morti, praeterea ad Troiam cum misi ob e in vista di questo li ho allevati; [defendendam Graeciam, inoltre, quando li inviai a Troia scibam (= sciebam) me in mortifeper difendere la Grecia, [rum bellum, non in epulas mittere. sapevo di mandarli ad un guerra [esiziale, non ad un banchetto. Quintiliano sottolineava in particolare la dimensione retorica: «Egli … si avvicina … al genere oratorio per lo stile ed è concettoso e gnomico, quasi come un maestro di filosofia, e in grado di reggere il confronto, nel far parlare e rispondere i suoi personaggi, con qualunque oratore famoso; e d’altro canto, meraviglioso in tutti gli effetti, egli eccelle in particolare in quelli che si basano sulla compassione» (Inst. or. X 1, 67-68, trad. di F. Faranda). In effetti è vistoso l’impiego di artifici retorici propri dello stile sublime (allitterazioni, antitesi, parallelismi, giochi di parole, ecc.), funzionali alla resa di passioni esasperate e sconvolgenti. La magniloquenza in vista di un effetto di grandiosità è evidente in questa «traduzione» di un verso di Euripide. La semplice apostrofe «donne di Corinto» del tragediografo greco in Ennio si amplifica pomposamente così: Quae Corinthum arcem altam habetis, matronae opulentae optimates, «O voi che tenete l’alta rocca di Corinto, matrone potenti e nobili». La resa di questi versi della Medea illumina il senso della «traduzione letteraria», che è sostanzialmente aemulatio, gara col modello. In questo passo della Medea l’adattamento del testo euripideo non mira alla nobiltà tragica, ma corrisponde a un’esigenza di chiarezza espositiva:
Euripide
Ennio
O se la nave Argo non avesse mai attraversato le azzurre Simplegadi, verso la terra dei Colchi, né mai fosse stato troncato il pino nella valle del Pelio!
Oh se l’abete reciso dalla scure non fosse mai caduto nel bosco del Pelio e non avesse mai di là preso l’avvio, fin dall’inizio, la nave che ora chiamano Argo. Questa recava il fiore degli Argivi …
Il teatro di Ennio
Mentre in Euripide la nutrice di Medea inverte l’ordine cronologico, presentando la nave in mare prima d’aver parlato della sua costruzione (taglio del bosco), Ennio ristabilisce la successione naturale degli avvenimenti, probabilmente per agevolare la comprensione al suo pubblico poco esperto di mitologia greca. Riportiamo di seguito due celebri «monodie», che anche in età successiva rappresentavano il cavallo di battaglia degli attori tragici più famosi. Frammenti delle tragedie di Ennio. Da Alexander - Il sogno di Ecuba.
Mater gravida parere se ardentem facem visa est in somnis Hecuba, quo facto pater rex ipse Priamus somnio mentis metu perculsus, curis sumptus sospirantibus exsacrificabat hostiis balantibus. Tum coniecturam postulat pacem petens ut se edoceret obsecrans Apollinem quo sese vertant tantae sortes somnium. Ibi ex oraclo voce divina edidit Apollo puerum primus Priamo qui foret postilla natus temperaret tollere; eum esse exitium Troiae, pestem Pergamo.
La madre Ecuba, quand’era incinta, sognò di partorire una fiaccola ardente; allora il re stesso, mio padre Priamo, ebbe gran timore e in preda all’affanno faceva sacrifici di belanti pecore. Poi, cercando pace, chiese ad Apollo la spiegazione, supplicandolo di svelargli il senso di quella visione presaga. Allora dal suo oracolo Apollo con voce divina disse che Priamo doveva evitare di crescere il primo figlio che gli fosse nato: egli sarebbe stato la fine di Troia, la rovina di Pergamo.
Lo stile è magniloquente ed elaborato in vista di effetti drammatici e patetici. Nota in particolare: • le molte allitterazioni (mentis, metu; sumptus, suspirantibus; postulabat, pacem, petens; sortes somnium; puerum, primus, Priamo; temperaret, tollere); • la ripetizione di due espressioni sinonimiche exitium Troiae, pestem Pergamo (Troia e Pergamum sono la stessa cosa), con effetto di intensificazione patetica; • l’abbondanza di lessico tecnico della religione: metu, exsacrificabat (il prefisso ex- rende la scrupolosa osservanza del rito), hostiis, coniectura, obsecrans, sortes, oraclo, divina, edidit, tollere (comune anche alla lingua del diritto: il sollevare il neonato esprime l’assunzione di paternità); • l’onomatopea balantibus. Dall’Andromacha aechmalotis - La disperazione di Andromaca.
Ex opibus summis opis egens Hector tuae, quid petam praesidi aut exequar, quove nunc auxilio exili aut fuga freta sim? Arce et urbe orba sum. Quo accidam, quo [applicem, cui nec arae patriae domi stant, fractae et [disiectae iacent, fana flamma deflagrata, tosti alti stant parietes deformati atque abiete crispa … O pater o patria o Priami domus! Saeptum altisono cardine templum; vidi ego te, adstante ope barbarica, tectis caelatis laqueatis auro ebore instructam regifice. Haec omnia vidi inflammari, Priamo vi vitam evitari, Iovis aram sanguine turpari.
Caduta da somma fortuna, del tuo sostegno, [Ettore, privata, dove cercare, dove trovare scampo o quale aiuto in fuga o in esilio per rifugio? Non ho più la città che mi difende, [dove riparare, dove gettarsi, se son crollati in patria gli antichi altari, ruderi smozzicati a terra, e i templi sono incineriti dal fuoco e le alte pareti annerite e sfigurate e le travature corrose. O Patria, o padre, o casa di Priamo, tempio cinto di porte altisonanti, io ti vidi levata in esotico fasto, con i tuoi tetti scolpiti e l’oro e l’avorio in mole regale. Tutto questo io vidi dato alle fiamme, a Priamo a forza strappata la vita, l’altare di Giove macchiato di sangue. (trad. di G. Giannotti)
53
ETÀ ARCAICA
54
Il teatro a Roma
La monodia (o canticum), in cui la moglie di Ettore piange la sua nuova condizione di prigioniera di guerra di Neottòlemo, figlio di Achille, era considerata da Cicerone «Un magnifico passo poetico, assai commovente per il contenuto, la forma, il ritmo» (Tuscul. III 46). Il carattere patetico e sentimentale di quest’«aria» da melodramma romantico è conseguito con vari artifici. Segnaliamo in particolare: • l’apostrofe accorata rilevata dall’anafora di O e dall’allitterazione O pater o patria o Priami domus!; • la serie delle interrogative retoriche (quid petam praesidi aut exequar, quove nunc/ auxilio exili aut fuga freta sim?) che sottolineano l’incerto futuro di Andromaca; • la descrizione impietosa della distruzione presente messa a confronto con lo splendore passato (tectis caelatis laqueatis/ auro ebore instructam regifice); • le figure di suono: allitterazioni (fana flamma deflagrata, O pater o patria o Priami, vi vitam evitari, ecc.); paronomasie (auxilio exili; urbe orba); • la metonimia altisono cardine, indicante la porta i cui cardini cigolano dall’alto, dove altisonus è coniato sul modello dell’omerico hypsechés (detto dei cavalli «in alto nitrenti»); • le neoformazioni come regifice, avverbio coniato da Ennio.
Cecilio Stazio Il commediografo
Plòkion e Plocium
fr. 333 Koerte; trad. di A. Traina
Fra Plauto e Terenzio visse e scrisse palliatae Cecilio Stazio. Nativo della Gallia – forse di Mediolanum (Milano) – fu portato schiavo a Roma dopo la conquista della Gallia Cisalpina e qui svolse la sua attività di poeta drammatico. Scrisse solo commedie, delle quali ci sono pervenuti quarantadue titoli, latini e, in maggior numero, greci, oltre a trecento versi. La perdita della sua opera, che ci impedisce di definirne le caratteristiche, ci appare tanto più grave se pensiamo che fu considerato dagli antichi il maggiore fra gli autori di palliatae: così lo giudicò Volcacio Sedigito nel suo canone dei dieci migliori autori comici; così Cicerone nel De optimo genere oratorum, nonostante lo definisca (ad Att. VII 3, 10) malus auctor Latinitatis in rapporto alla lingua; così lo giudicò Seneca (De brev. vitae 2, 21); tuttavia, forse per il confronto da parte del pubblico con il contemporaneo Plauto, dalla comicità più «pirotecnica», stentò a trovare la via del successo, che raggiunse tardi grazie all’aiuto di un attore di grido del tempo, Ambivio Turpione, il quale continuò a mettere in scena le sue commedie, nonostante gli insuccessi iniziali. La sua importanza nella storia della commedia latina dovette essere maggiore di quel che si può evincere dalla lettura dei frammenti rimastici. Innovatore nella tecnica, quasi sicuramente non fece uso della contaminatio, pratica seguita da Plauto prima e poi nuovamente da Terenzio, attenendosi al modello (di preferenza Menandro) per l’intera commedia. Figura di trapasso, come Plauto dovette avere il gusto della battuta e una certa vivacità ritmica, mentre anticipò Terenzio per il processo di una maggiore ellenizzazione della commedia, introducendo sulla scena romana un teatro attento alla caratterizzazione e alla psicologia dei personaggi. Interessante, per individuare le trasformazioni apportate al modello, il confronto fra un passo del suo Plocium («La collana») e il Plòkion di Menandro presente in Gellio (V 2, 4) che ce lo ha tramandato. Così Menandro pone sulla scena un vecchio marito che si lamenta della brutta e ricca moglie: è il topos dell’uxor dotata diffuso soprattutto nella commedia: Fra due guanciali potrà dormire ora la bella ereditiera. Ha compiuto una bella azione, degna di fama: ha cacciato di casa, come voleva, quella che le dava ombra, perché tutti volgano gli sguardi al volto di lei, Cròbile, e sia ben chiaro che è lei la mia padrona. Certo, con l’aspetto che s’è fatto, è proprio il caso di dire: «Un’asina fra le scimmie!» Voglio passare sotto silenzio la notte che fu il principio di tanti guai. Ahimè, aver sposato Cròbile anche se portava in dote dieci talenti, lei che ha un naso lungo una spanna.
Cecilio Stazio
E poi, come si può sopportare la sua insolenza? No, per Giove Olimpio e per Atena, non lo si può affatto. Una servetta servizievole in men che non si dica cacciarla così di casa. Chi porterà al suo posto? Così Cecilio Stazio rielabora l’originale: È proprio disgraziato chi non può sopportare di nascosto la propria sventura: e così, anche se stessi zitto, mia moglie con la sua bruttezza e col suo modo di comportarsi mi fa la spia. Essa tranne la dote, ha tutto ciò che non vorresti: chi ha senno imparerà da me, che libero vivo in schiavitù, come un prigioniero di guerra, pur essendo la città e la rocca in salvo. Essa con la forza mi priva di tutto ciò che mi piace, mi vuole quasi morto. Mentre bramo ardentemente la sua morte, vivo come un morto fra i vivi. Disse che io di nascosto da lei me la intendevo con la mia serva, di ciò mi accusò: mi ha tanto rotto la testa con pianti, preghiere, insistenze e rimproveri, che alla fine l’ho venduta. Ora sono sicuro che con le sue amiche e parenti sta facendo questo discorso: «Chi di voi, nel fiore degli anni, fu capace di ottenere dal proprio marito quella stessa cosa che sono riuscita a fare ora da vecchia, cioè privare mio marito dell’amante?». Questi saranno i pettegolezzi della riunione di oggi: io disgraziato sono straziato dalle chiacchiere. La situazione è la stessa, così come i motivi del lamento del marito: la moglie fa sì che, contro i desideri e il volere di lui, una giovane e servizievole servetta venga allontanata. Ma i modi e i toni sono completamente diversi: in Menandro il lamento del marito si risolve in un breve racconto, accompagnato da parole di commento, di ciò che ha fatto la moglie; in Cecilio Stazio, che usa una comicità più diretta, che ricorda Plauto, il marito si lamenta sulla scena: la sua vita coniugale è una vera e propria disgrazia; la moglie, vivacemente descritta in piccole scene quotidiane, diventa protagonista; sembra di sentirla questa donna, prima nei suoi discorsi con il marito, tirannica e insistente, poi trionfante con le amiche. Nella particolare attenzione per l’aspetto della pubblica umiliazione, dell’offesa alla dignitas cui lo espone il pettegolezzo della moglie si può cogliere, come è stato notato, l’impronta romana. Più vicino a Terenzio sia per il tono riflessivo sia per l’interesse dei rapporti fra padri e figli appare invece Cecilio nel frammento che segue, tratto da «I compagni di gioventù» (Synephebi): il protagonista, un giovane innamorato, rovesciando la situazione più tipica della commedia, sembra lamentarsi di avere un padre comprensivo e liberale, che, con il suo atteggiamento, gli toglie il gusto della trasgressione! Chi è innamorato cotto e in bolletta non può desiderare di meglio che avere un padre bisbetico, spilorcio, insomma una peste, uno che non ti voglia bene e non si curi affatto di te. Fargli sparire un’entrata, sfilargli un credito con una ricevuta falsa, tendergli un ricatto coi buoni servizi d’un servo birbante: che soddisfazione! Non c’è cosa che ti dia gioia quanto scialacquare il denaro fatto fuori a un padre sordido! Ma il padre mio, ma te ne rendi conto? Che gusto c’è a prenderlo in giro, a metterlo nel sacco? Vale la pena escogitare una trappola a suo danno?… È inutile: è così indulgente da prevenire ogni trama, ogni colpo ch’io sia capace di architettare! Vicino allo spirito della commedia nuova e precursore di Terenzio, Cecilio appare anche in una pensosità che si riflette in alcuni versi, sentenze che rimasero celebri. Un paio di esempi:
fr. 143 Ribbeck; trad. di G. Guardì
Synephebi
Ribbeck 199 ss.; trad. di E. Paratore
55
Il teatro a Roma
fr. 266 Ribbeck
Saepe est etiam sub palliolo [sordido sapientia
Spesso anche sotto un sordido [mantelluccio vi è saggezza
fr. 265 Ribbeck
Homo homini deus est, si suum [officium sciat
L’uomo, se conosce il suo dovere, è [per l’uomo un dio
dove, con atteggiamento di pensiero ben diverso da quello di Plauto, che aveva detto (Aulularia 495) lupus est homo homini, egli riprende «il concetto stoico della divina razionalità del cosmo, che affratella gli uomini e ne santifica i rapporti (homo homini deus), per chi sia conscio di ciò che è l’uomo e di questa coscienza si faccia una norma di vita (officium)». «Nel compromesso ceciliano fra innovazione strutturale e tradizionalismo stilistico si celava la contraddizione che portò alla fine della palliata: la necessità, cioè, di ritornare a Plauto per ritrovarvi il più genuino, popolare filone della comicità che rischiava di estenuarsi in finezze di dramma borghese, e, nello stesso tempo, l’impossibilità di rinunziare alle conquiste psicologiche e formali dell’arte terenziana» (A. Traina).
ETÀ ARCAICA
56
Pacuvio La vita
Le opere
La sperimentazione linguistica
Marco Pacuvio, di famiglia osca, nacque a Brindisi intorno al 220 a.C. Visse a Roma un’esistenza forse agevolata dalla parentela con Ennio, di cui era nipote. Dello zio illustre subì l’influenza culturale e da lui fu introdotto negli ambienti ellenizzanti, in particolare nel «circolo» scipionico. Praticò con successo anche la pittura, al punto che era famoso ancora ai tempi di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.) un suo quadro nel tempio di Ercole. Morì a Taranto, quasi novantenne, intorno al 130 a.C. Scrisse tragedie cothurnatae, di cui restano circa quattrocento versi. Ecco alcuni tra i titoli più famosi: Chryses, Hermìona, Niptra («Il bagno», durante il quale la nutrice Euriclea identifica, nel finto mendico, Ulisse) tratte da Sofocle; Armorum iudicium («La contesa delle armi», tra Aiace e Ulisse) da Eschilo; l’Aitìopa, Atalanta, Pèntheus da Euripide che fu il modello preferito. E ancora: Ilìona, Medus, Periboea, Teucer. Si ha notizia di una praetexta, il Paulus, dedicata a Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna (168 a.C.) e rappresentata durante il trionfo seguito alla vittoria o durante i giochi funebri in onore del vincitore (160 a.C.). Cicerone considerava Pacuvio il massimo autore scenico romano, ne lodava lo stile accurato (De orat. 36) considerandolo più elegante di quello di Ennio. A un effetto di preziosismo concorrono la predilezione per le varianti meno note del mito, il gusto per il particolare erudito, i neologismi spericolati per i quali sarà criticato da Lucilio e altri. Diamo tre esempi di questa sperimentazione lessicale consistente nel coniare nuovi composti sul modello della lingua epico-tragica greca: repandirostrus incurvicervus «col muso volto all’insù, il collo ricurvo», detto del delfino; flexamina «che piega il cuore» calco del gr. psychagogikós «che guida l’anima». Questa struttura linguistica (aggettivo/ radice verbale + sostantivo) priva di paralleli in latino non avrà alcun seguito nella tradizione letteraria e simili forzate innovazioni verranno criticate da grammatici e puristi. Pacuvio per primo applica la tecnica della contaminatio alla tragedia, ad esempio fondendo nel Chryses elementi dell’omonima tragedia di Sofocle con elementi dell’Ifigenia Taurica di Euripide.
Pacuvio
All’atmosfera tragicamente cupa, di genere horror, contribuiscono i soggetti angosciosi, le visioni orripilanti di esasperato espressionismo (apparizioni spettrali, cadaveri insepolti, tempeste sconvolgenti, ecc.), i colpi di scena, gli «effetti speciali». In particolare Pacuvio sfrutta le risorse della suspence ottenuta attraverso dilazioni dello scioglimento finale, riconoscimenti, sorprese. Come Ennio, anche Pacuvio riecheggia i temi del razionalismo greco ed euripideo. In particolare nel Chryses, ora presenta il cielo come il principio spirituale che anima l’universo (vedi il passo riportato sotto), ora disquisisce sul concetto di fortuna, ora polemizza contro gli indovini, gente che merita solo d’essere udita, non ascoltata (magis audiendum quam auscultandum censeo).
Gli effetti speciali
Il razionalismo euripideo
Frammenti delle tragedie di Pacuvio.
Iliona, vv. 227-231 D’Anna - Lo spettro del figlio. Lo spettro di Deifilo, erroneamente ucciso dal padre Polimestore, appare in sogno alla madre Iliona e reclama, in un linguaggio crudo e a tratti orrorifico, la sepoltura. Cicerone, al quale dobbiamo la citazione del frammento, testimonia che questa scena ad effetto anche ai suoi tempi suscitava grande emozione nel pubblico. Orazio (Serm. II 3, 60) racconta che l’attore Fufio, mentre interpretava la parte di Iliona in questa scena, si addormentò, poiché era ubriaco, e nessuno riuscì a svegliarlo.
Mater, te appello, tu quae curam somno [suspensam1 levas 1 neque te mei miseret , surge et sepeli1 natum [tuum prius quam ferae volucresque … neu relinquias sic meas sireis2 denudatis [ossibus per terram sanie delibutas3 foede divexarier4. 1. 2. 3. 4.
Madre, ti invoco, tu che allevii l’affanno [interrompendolo col sonno e non provi compassione per me, alzati e [seppellisci tuo figlio, prima che fiere e uccelli … e non consentire che i miei resti semirosi, con [le ossa messe a nudo, in putrefazione, siano turpemente dispersi.
somno suspensam … mei miseret … surge et sepeli: allitterazione. sireis: = siveris, perfetto congiuntivo sincopato di sino. delibutas: da delibuo, cfr. gr. léibo. devexarier: infinito presente passivo di forma arcaica (= devexari).
Teucer, vv. 367-374 D’Anna - Una tempesta. La descrizione è un pezzo di bravura, ricca di effetti sonori.
Profectione laeti piscium lasciviam intuemur nec tuendi satias1 capere nos potest. Interea prope iam occidente sole inhorrescit [mare, tenebrae conduplicantur, noctisque et nimbum [occaecat nigror, flamma inter nubes coruscat, caelum tonitru [contremit, grando mixta imbri largifico subita [praecipitans cadit, undique omnes venti erumpunt, saevi existunt turbines, fervit2 aestu pelagus. 1. satias: = satietas. 2. fervit: = fervet.
Lieti per la partenza osserviamo i giochi dei [delfini e non possiamo saziarci di guardarli. Ma ecco che, presso il tramonto del sole, il [mare s’increspa, le tenebre si fanno più fitte e il nero della notte [e dei nembi ci acceca; fra le nubi balenano i fulmini; il cielo trema per [i tuoni; grandine, mista e pioggia dirotta, si rovescia [d’improvviso; i venti irrompono da ogni lato; s’imbattono [raffiche crudeli; il mare ribolle di flutti. (trad. di G. D’Anna)
57
58
Il teatro a Roma
ETÀ ARCAICA
Chryses, vv. 131-133 - Il principio di tutte le cose. Il passo rappresenta la risposta alle parole polemiche del razionalista contro la divinazione. L’armonia e l’ordine del mondo rendono questo conoscibile e interpretabile da chi conosce i segreti della Natura.
Quidquid est hoc, omnia animat format alit [auget creat sepelit recipitque in sese omnia omniumque [idem est pater indidemque eadem aeque oriuntur de integro [atque eodem occidunt.
Qualunque cosa sia, tutto anima, informa, [alimenta, fa crescere, crea, seppellisce e raccoglie in sé; lo stesso essere è [il padre di tutto e parimenti dallo stesso luogo le stesse cose rinascono e nello stesso luogo vanno a finire. (trad. di G. D’Anna)
Accio La vita
Le opere
I contenuti
Nacque a Pesaro intorno al 170, di famiglia di liberti. Visse nella cerchia aristocratica che faceva capo a D. Giunio Bruto. A questi dedicò, per celebrare la sua vittoria sui Lusitani (138 a.C.), la tragedia Brutus che narrava la cacciata dei Tarquini ad opera dell’omonimo avo di Bruto. Non ancora trentenne gareggiò con l’ottantenne Pacuvio. Al vecchio tragediografo che giudicava «dura e acerba» una sua opera, il giovane autore avrebbe risposto orgogliosamente che l’ingegno acerbo può maturare, mentre quello che nasce maturo subito marcisce. Fu ammirato dai letterati delle età seguenti come campione di stile magniloquente e gravità oratoria. Le sue tragedie, come anche quelle di Pacuvio, continuarono ad essere rappresentate fino a tutta l’età augustea. Quintiliano lo considerava il massimo autore scenico (10, 1, 97). Morì intorno all’85 a.C., dopo aver conosciuto Cicerone e avere con lui discusso di argomenti letterari. Scrisse i Didascalica, opera di storia letteraria in nove volumi; un libretto di carmi licenziosi intitolato Sotadica; degli Annales non diversi da quelli di Ennio (vedi p. 100). Ma di queste opere non resta nulla. Soprattutto compose tragedie d’imitazione greca. Ecco alcuni tra i 45 titoli pervenutici: Atreus, Armorum iudicium, Amphitruo, Antigone, Aegisthus, Andromeda, Mirmidones, Bacchae («Le Baccanti»), Prometheus, Medea, Melanippus, Meleager, Tereus, Phoenissae, ecc. Scrisse anche due praetextae: il già ricordato Brutus e il Decius seu Aeneadae («Decio, cioè i discendenti di Enea») che celebrava il volontario sacrificio (devotio) di Decio Mure nella battaglia di Sentino (295 a.C.). Di tutta la produzione tragica rimangono circa 700 versi. Come Pacuvio, anche Accio predilige i contenuti truculenti e orripilanti, le trame inquietanti. Nel Tereus, Procne serve per cena al marito Tereo, che ha violentato la cognata, la carne del figlio. Una particolare attenzione è dedicata – in tempi di aspri sommovimenti sociali: siamo nell’età dei Gracchi – alla figura del tiranno (Atreus, Tarquinio il Superbo nel Brutus). Legato all’aristocrazia, Accio doveva considerare i Gracchi pericolosi demagoghi aspiranti alla tirannide, vera insidia per il governo dei boni, cioè dei nobili: vigilandum est semper, multae insidiae sunt bonis (fr. VIII Dangel). È rimasta celebre la formula oderint, dum metuant «mi odino, purché mi temano», tratta dall’Atreus, al punto che in seguito fu considerata la sintesi del programma politico del dèspota crudele e insicuro. Secondo Svetonio, Caligola «ripeteva sempre il celebre verso tragico oderint, dum metuant» (Vita Cal. 30). Seneca, nel Thyestes, avrà ben presente la versione acciana di questo cupo mito, nel quale la brama del potere, complicata da un’insana passione amorosa, è rappre-
Accio
sentata nella forma agghiacciante di un odio fraterno culminante in un episodio di cannibalismo. La trama di Atreus doveva essere la stessa del Thyestes di Seneca: Atreo, spinto da un insanabile odio per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa e usurpato il regno, si vendica in un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. L’Atreus, che svolgeva una vicenda già trattata in tragedie perdute di Sofocle e Euripide, è un esempio di come l’opera scenica di Accio, ma il discorso vale anche per Pacuvio, attualizzasse i vecchi miti della tragedia attica. L’adattamento al contesto italico di quei contenuti – non solo mitici ma anche filosofici e morali (in quegli anni cominciavano a sentirsi anche a Roma i primi influssi dello stoicismo e dell’epicureismo) – implicava la loro rivitalizzazione. Di ciò era consapevole Cicerone, che quando critica l’operato dei Gracchi cita Accio e la massima oderint, dum metuant, convinto com’è che nell’Atreus fossero adombrati i rivolgimenti sociali di quegli anni. Questa capacità, che ebbe la tragedia latina, di rispecchiamento nei confronti dell’attualità spiega anche la sua maggior longevità rispetto alla commedia. Le vicende della gente comune inscenate dai comici non interessavano più il pubblico. Il quale, invece, nei conflitti feroci dei grandi del mito (Atreo, Tereo, Penteo, Licurgo) proiettava gli scontri sanguinosi dei grandi della repubblica, la loro brama di potere. E la distanza nello spazio e nel tempo dei paradigmi mitici non ostacolava la lettura proiettiva, anzi favoriva la riflessione critica proprio in quanto quegli scenari erano privi di riferimento immediato alla contemporaneità. Lo stile è di ricercata finezza, talora perfino manierato (ingeniosus secondo Cicerone, Pro Plan. 59). Il linguaggio è forte (animosus secondo Ovidio, Am. I 15, 19), adeguato al vigore dei contenuti e alla grandezza dei personaggi, che dominano prepotentemente la scena. Alla solennità concorrono il periodare ampio, l’impiego di figure di suono, il cumulo degli attributi, come in questa invocazione al Sole delle Phoenissae, che è una «traduzione letteraria» dell’omonima tragedia euripidea: Sol qui micantem candido curru [atque equis Flammam citatis fervido ardore [explicas, quianam tam adverso augurio [et inimico omine Thebis radiatum lumen ostentas [tuum?
O Sole, che col tuo carro luminoso e i cavalli veloci estendi la corrusca fiamma con fervido ardore, perché con così contrario auspicio e presagio ostile mostri a Tebe i raggi della tua luce?
Anche in Accio abbonda l’allitterazione, in età arcaica comune strumento di intensificazione patetica: Egredere, exi, ecfer te, elimina urbe! «Esci, va fuori, allontanati dalla città» (Phoenissae). Sulla linea tracciata da Ennio e Pacuvio, Accio continua la sperimentazione linguistica condotta con gli strumenti sofisticati del linguista-filologo. Abbondano i neologismi come obscuridicus (obscurus + dico «che parla oscuramente»), inenodabilis (in + enodabilis da nodus, «inestricabile»), miseritudo (invece di miseria). Rilevante appare, nei frequenti discorsi condotti con logica stringente, l’influsso della scuola retorica asiana, forse frequentata dall’autore che in gioventù si era recato a Pergamo. Con Pacuvio e Accio, due artisti legati alla leadership aristocratica del tempo, la figura professionale dell’autore scenico salì nella considerazione sociale, prendendo
L’attualizzazione della tragedia greca
La lingua, lo stile
vv. 581-584 Ribbeck
L’ascesa sociale del tragediografo
59
ETÀ ARCAICA
60
Il teatro a Roma
le distanze dal teatrante comico. Scrivere tragedie non è disdicevole neppure per i nobili, al punto che in seguito Giulio Cesare e lo stesso Augusto si cimentano in questo genere letterario. Questo è anche un effetto dell’ellenizzazione e del consolidarsi di una letteratura scritta, che contribuirono alla nascita della figura dell’intellettuale. Accio, tragediografo – e inoltre linguista, filologo, critico letterario – ne è un esempio, anche per la coscienza che ebbe della propria affermazione sociale. Secondo il poeta satirico Lucilio si sarebbe fatto erigere nel tempio delle Muse una statua che lo ritraeva molto più imponente di quanto non fosse in realtà. Consapevole della propria grandezza, non rendeva omaggio neppure ai colleghi più prestigiosi del Collegium poetarum, come il grande tragediografo Giulio Cesare Strabone: Valerio Massimo, Facta III 7-11; trad. di L. Rusca
Quando Giulio Cesare, al massimo della sua gloria e potenza interveniva a una riunione di poeti, Accio non si levava mai in piedi, non perché disconoscesse la maestà del personaggio, ma perché nel confronto dei talenti sullo stesso piano letterario egli si riteneva alquanto superiore.
Frammenti delle tragedie di Accio. Un odio inestinguibile - Atreus, vv. 198-201 Ribbeck. La trama dell’Atreus è stata riferita sopra. Il frammento appartiene probabilmente alla parte iniziale della tragedia, nella quale Atreo progetta la propria vendetta nei confronti del fratello Tieste.
Iterum Thyestes Atreum adtrectatum advenit; iterum iam adgreditur me et quietum suscitat. Maior mihi moles, maius miscendumst malum, qui illius acerbum cor contundam [et comprimam.
Di nuovo Tieste stuzzica e provoca Atreo; di nuovo, mentre è quieto, l’aggredisce. Più gravi insidie tenderò, di mali macchinerò una serie senza fine per scacciare quell’animo protervo. (trad. di A. Resta Barrile)
L’irrompere di una passione amorosa - Tereus, vv. 636-639 Ribbeck. Tereo, re di Daulia in Focide, violenta la cognata Filomela, poi le strappa la lingua e la segrega fuori dalla città. La donna riesce ad inviare alla sorella Procne, moglie di Tereo, una tela su cui è ricamata la vicenda di cui è stata vittima. Procne si vendica imbandendo a Tereo le carni dei loro figli. Il frammento fissa il momento in cui Tereo s’innamora di Filomela.
Tereus indomito more atque animo barbaro conspexit eam: hinc amore vecors flammeo depositus facinus pessimum ex dementia configit
Come verso di lei levò lo sguardo, Tereo perfido e barbaro s’accese d’insano amore; e disperato e folle un orrendo delitto osò tramare. (trad. di A. Resta Barrile)
La prima nave - Medea vv. 391-402 Ribbeck. Il frammento, tratto dalla Medea sive Argonautae e conservatoci da Cicerone (De natura deorum II 35, 89), descrive l’ammirazione di un pastore che vede la nave degli Argonauti, la prima che mai abbia solcato il mare.
tanta moles labitur fremebunda ex alto ingenti sonitu et spiritu; prae se unda volvit, vortices vi suscitat; ruit prolapsa, pelagus respergit, reflat. Ita dum interruptum credas nimbum volvier, dum quod sublime ventis expulsum rapi
Una mole così grande scorre fremendo dall’alto mare con immenso fragore [e sbuffi; davanti a sé le onde rivolge, vortici [con violenza suscita, ricadendo precipita, il mare di spruzzi [cosparge, sbuffa. Sicché ora crederesti che un nembo interrotto rotoli, ora che un macigno in alto sia scagliato [e portato via dai venti
Accio
saxum aut procellis, vel globosos turbines existere ictos undis concursantibus; nisi quas terrestres pontus strages conciet aut forte Triton fuscina verrens specus subter radices penitus undanti in freto molem ex profundo saxeam ad caelum eruit.
o dalle procelle, oppure che siano turbini [vorticosi spinti da onde tra loro cozzanti; a meno che il mare non provochi disastri [sulla terra, oppure per caso Tritone, sconvolgendo [col tridente gli antri dal profondo degli abissi del mare in tempesta, non scagli al cielo la massa di macigni dalle [profondità. (trad. di V. D’Antò)
Il sogno di Tarquinio il superbo - Brutus, praetextae 17 ss. Ribbeck. Tarquinio il Superbo riferisce un sogno a un indovino, che lo interpreta come segno di un rivolgimento politico: il passaggio dalla monarchia alla repubblica per opera di Giunio Bruto, antenato dell’omonimo protettore del poeta.
Poi che, giunta la notte, affidai il corpo al riposo, placando nel sonno le mie membra stanche, mi parve in sogno che un pastore sospingesse verso me un gregge lanuto di straordinaria bellezza; da esso furono scelti due arieti fratelli, ed io ne immolai uno, il più bello. E il suo fratello puntò le corna, si scagliò su di me, e da quel colpo fui fatto cadere; poi, disteso per terra gravemente ferito, supino osservai in cielo un grandissimo, stupefacente prodigio: l’infiammato disco raggiante del sole si dileguava in una direzione mai vista, verso destra … O re, quel che in vita gli uomini usan fare, quel che pensano, curano, vedono e che da svegli compiono ed operano, se tutto questo accade in sogno a qualcuno, non fa meraviglia; ma non a caso gli dèi offrono inaspettatamente un tale prodigio. Perciò guarda che colui che tu stimi senza senno, come un animale, non abbia l’animo ben munito di saggezza, e non ti scacci dal regno: quello che t’è stato mostrato del sole rivela che avverrà per il popolo un mutamento di governo assai prossimo. Esito felice ne venga al popolo! Giacché, che l’astro possente abbia vòlto il suo corso da sinistra a destra, è un meraviglioso augurio di somma grandezza per lo stato romano. (trad. di I. Mariotti)
Armonia marina, vv. 569-573 Ribbeck. Il frammento è un pezzo di bravura, giocato com’è sulla resa fonosimbolica dei suoni dei flutti che s’infrangono contro gli scogli.
Hac ubi curvo litore latratu unda sub undis labunda sonit … simul et circum magna sonantibus excita saxis saeva sonando crepitu clangente cachinnat.
Qui, dove sull’arco della spiaggia urla e rimbomba l’onda che scorre sull’onda … e intanto Eco dalla dolce voce, eccitata dai risonanti scogli tutt’attorno, manda squillanti scrosci di risa. (trad. di I. Mariotti)
Abbiamo messo in evidenza grafica solo alcuni giochi fonici: • allitterazioni: litore latratu, saxis saeva sonando, crepitu clangente cachinnat; • paronomasia, gioco di parole: unda …undis labunda, sonit …sonantibus … sonando.
61
62
Plauto e Terenzio
ETÀ ARCAICA
Plauto e Terenzio
Due personalità artistiche diverse Il riso come categoria antropologica
Svago e riflessione
È soprattutto grazie ai nomi di Plauto e Terenzio che la commedia latina ha conosciuto successo e fama che si è protratta nei secoli, lasciando un’impronta che possiamo dire indelebile. Le forme del comico d’altronde, rispecchiano un modo di cogliere la realtà per deformarla e farne oggetto di riso, e obbediscono, al di là di ovvie costanti presenti presso tutti i popoli, a modalità non uguali presso tutte le civiltà; in poche parole: non tutti ridiamo «di» e «per» le stesse cose. Il riso dunque rivela i tratti più caratteristici di una cultura andandosi così a definire come «categoria antropologica». Orbene nella commedia latina di Plauto e Terenzio noi ritroviamo per lo più lo stesso tipo di comicità, gli stessi strumenti, linguistici e non, gli stessi tipi di riso, che nascono dalla vita reale, di oggi, gli stessi «mezzi artistici con cui la commedia elabora il materiale della vita». Senonché, pur con analogie ed elementi di fondo simili, molto differenti appaiono le personalità artistiche dei due commediografi. L’opera di ognuno riflette due diversi momenti storici e climi culturali: nella commedia di Plauto prevale il desiderio di svago da parte di un pubblico di massa dopo la vittoria della prima guerra punica; in quella di Terenzio, il bisogno di riflessione sui nuovi modelli etici e culturali che si andavano imponendo a Roma dopo le vittorie in Grecia e in Oriente. Si ha così con il primo una commedia imperniata su una comicità immediata ottenuta con una «deformazione buffonesca» di situazioni e personaggi; con il secondo un tipo di spettacolo che cerca di cogliere caratteri di un’umanità universale: nella vita quotidiana messa in scena da Terenzio «emozioni ed impulsi prevalgono sullo scintillio dell’intelligenza e mentre Plauto esalta la mente dell’uomo, Terenzio ne ammira il cuore, la delicatezza dei sentimenti, la ragionevole e mansueta indulgenza» (I. Mariotti). Di conseguenza nell’influsso del teatro comico latino sul teatro occidentale, Plauto sarà modello per le opere di teatro comiche, Terenzio modello del «dramma borghese».
Plauto La vita Chi era Plauto?
Della vita di Plauto sappiamo veramente poco. Perfino il vero nome è stato ricostruito relativamente di recente (ai primi dell’Ottocento), in seguito alla scoperta del Palinsesto Ambrosiano in cui risulta che il nome del poeta era Tito Maccio Plauto e non già Marco Accio Plauto come fino ad allora si era creduto in conseguenza di un’erronea divisione delle lettere, avvenuta già agli inizi del Medioevo, di Maccius in M. Accius. Dati sicuri sembrano essere soltanto il luogo di nascita, Sarsina, sull’Appennino tosco-romagnolo (nell’antichità in Umbria, oggi in Romagna), e la data di morte, avvenuta, secondo la testimonianza di Cicerone, nel 184 a.C. Le altre notizie sono frutto di ricostruzione da parte della critica che ha passato al vaglio i da-
Plauto
ti forniti dagli antichi stessi. La data di nascita, approssimativa, è ricavata da una notizia di Cicerone che riferisce che Plauto scrisse lo Pseudolus da senex; calcolato che la senectus per i Romani comincia a 60 anni, e che lo Pseudolus fu rappresentato nel 191 a.C., Plauto dovette nascere prima del 250 a.C. Quanto alle notizie fornite da Varrone (I sec. a.C.), secondo le quali, tra l’altro, egli, giovane al seguito di una compagnia teatrale, in seguito alla perdita dei suoi beni, sarebbe stato costretto a girare la macina presso un mugnaio, la critica moderna ritiene che siano invenzioni biografiche tutte riconducibili ai contenuti delle sue commedie, da cui fantasiosamente sarebbero state tratte. Degna di fede invece sembra la notizia che egli abbia lavorato per il teatro anche prima di conoscere il successo, forse come attore. Di ciò sarebbe conferma il nome Maccius, da collegare con Maccus, nota maschera delle atellane (mentre l’etimologia del cognomen Plautus, forma romanizzata del corrispondente umbro Plotus, di difficile comprensione già per gli antichi, come si legge in Quint. I 4, 25, equivarrebbe a «dalle orecchie pendenti» o «dai piedi piatti»). Scrisse e mise in scena palliate, commedie cioè di ambientazione greca; di tutta la sua produzione noi abbiamo ventun commedie (di cui una, la Vidularia, mutila). In realtà non sappiamo quante ne scrisse, dato che già nel II secolo a.C. gliene venivano attribuite circa centotrenta; di esse alcune erano certamente imitazioni che circolavano sotto il nome di Plauto probabilmente per garantire loro il successo, data la predilezione del pubblico per questo autore. Fu Varrone che nel I secolo a.C., sul fondamento di un criterio puramente stilistico, distinse le fabulae dubbie e spurie da quelle riconosciute da tutti come autentiche.
Le opere Questi i titoli e, in breve, le trame delle commedie di Plauto che non sappiamo in quale ordine furono scritte (né siamo in grado di ricostruirlo): («Anfitrione»). La commedia prende il titolo dal personaggio di Anfitrione, nome del re tebano di cui Giove assume le sembianze per insidiarne la moglie, approfittando della sua assenza; complice è Mercurio che, a sua volta, prende l’aspetto di Sosia, servo del re. Dopo una serie di equivoci, ineusaribile fonte di comicità, Anfitrione placa la sua ira accettando l’onore di aver avuto come rivale Giove stesso. («La commedia degli asini»). Il ricavato della vendita di alcuni asini serve ad un giovane per il riscatto della fanciulla di cui è innamorato. Il padre lo asseconda ed egli riuscirà a ciò con l’aiuto di astuti servitori. («La commedia della pentola»). Si tratta di una pentola piena d’oro nascosta sottoterra da un vecchio avaro che teme di esserne derubato. A questo motivo si intreccia quello degli amori contrastati di due giovani che, con l’aiuto del servo, riescono ad ottenere il consenso al matrimonio da parte del padre della giovane, che altri non è se non il vecchio avaro. («Le Bacchidi»). Due giovani amici sono innamorati di due cortigiane, sorelle gemelle (da cui la commedia trae il titolo); la perfetta somiglianza genera fraintendimenti e intrighi. Nel finale i rispettivi padri si recano a casa delle ragazze per ricondurre i figli sulla retta via, ma vengono sedotti anch’essi dal fascino delle fanciulle. È l’unica commedia di cui possediamo, almeno in parte, il modello greco, il Dis exapatòn («Il doppio inganno») di Menandro. («I prigionieri»). Un vecchio padre cerca di ritrovare e riscattare il figlio catturato in guerra dai nemici; per fare ciò compra due prigionieri nemici, con l’intento di fare
Una vita vissuta per il teatro
Cratere fliacico pestano (IV sec. a.C.) raffigurante Giove, Alcmena e Mercurio che saranno protagonisti dell’Amphitruo di Plauto.
Amphitruo
Asinaria
Aulularia
Bacchides
Captivi
63
64
Plauto e Terenzio
ETÀ ARCAICA
Casina
Cistellaria
Curculio
Epidı˘cus
Menaechmi
Mercator
Miles gloriosus
Mostellaria
uno scambio. Non solo riesce a riavere il figlio, ma ritrova anche l’altro che gli era stato rapito quando era piccolo, scoprendo che è uno dei due suoi prigionieri. («La fanciulla del caso»). Si tratta di una trovatella contesa fra padre e figlio, entrambi innamorati di lei; ciascuno escogita, per averla, di farla sposare ad un marito compiacente, scelto fra i propri servi. La sorte favorisce il padre che viene però beffato in quanto trova nel letto invece della fanciulla desiderata un uomo travestito. La ragazza, scoperta di nascita libera, sposa il giovane innamorato. («La commedia della cestella»). Una fanciulla, abbandonata alla nascita in una cestella con alcuni piccoli giocattoli, viene allevata da una cortigiana. Divenuta una giovinetta, non può sposare, perché illegittima, il giovane che, riamata, ella ama. L’interessamento di un servo fa sì che si scopra, grazie a quei giochi, la vera identità della fanciulla che può così sposare il suo innamorato. («Il gorgoglione»). La commedia trae il titolo dal personaggio del parassita, vorace come il gorgoglione, verme roditore, parassita del grano. Per aiutare il suo giovane padrone, innamorato di una fanciulla che è stata rapita da bambina ed ora è tenuta in casa da un lenone, il servo crapulone raggira il soldato che vuole riscattarla per sé estorcendogli la somma destinata per il riscatto. Dopo una serie di intrighi e di imbrogli si scopre che la fanciulla è di nascita libera e sorella del soldato che la concede dunque in isposa al giovane innamorato. («Epidico»). Epidico è il nome del servo protagonista della commedia che, con i suoi astuti raggiri, favorisce gli amori del giovane padrone. Questi, innamorato di una suonatrice, riesce a farla riscattare al vecchio padre, grazie ad Epidico che gli fa credere che è frutto di una sua vecchia relazione. Poi però tornerà dalla guerra innamorato di una bella prigioniera tebana che, ancora con l’aiuto di Epidico, sarà acquistata con il danaro estorto ad un usuraio: la situazione è ingarbugliata, ma tutto si risolve perché si scopre che la prigioniera è sorella del giovane; egli tornerà così al primo amore. («I Menecmi»). Si tratta di due gemelli che non si conoscono perché uno dei due si è smarrito da bambino. Arrivato per caso nella città in cui abita l’altro, a causa della somiglianza e dell’omonimia dei gemelli nasce una serie di equivoci, fonte di continua comicità. Alla fine i due fratelli si riconoscono (agnitio) e insieme tornano a casa. («Il mercante»). Un padre e un figlio si innamorano della stessa fanciulla che il giovane aveva portata a casa dopo un viaggio d’affari a Rodi. Il padre cerca di ingannare il figlio: sottrae la ragazza e la fa custodire, all’insaputa del figlio, da un vicino di casa. Ma la cosa viene scoperta e il vicino, persuaso dal proprio figlio, riconsegna la fanciulla al giovane. («Il soldato fanfarone»). La commedia prende il titolo più che dal protagonista, che appare essere Palestrione, il servo architectus al cui impegno è dovuto ogni stratagemma, dal personaggio a cui sono diretti tutti i suoi inganni, perpetrati allo scopo di liberare la fanciulla, che tiene presso di sé contro la su volontà e di congiungerla al suo innamorato, facendo leva sulla sua ben nota vanità: il miles Pirgopolinice. («La commedia del fantasma»). La commedia trae il titolo da mostellum, per monstellum, diminutivo di monstrum, «fantasma». Un giovane, approfittando dell’assenza del padre, si dà alla bella vita e sperpera gran parte del patrimonio spassandosela con un amico e due allegre ragazze. All’inatteso ritorno del padre il servo, per coprire il padroncino, cerca di impedirgli di entrare in casa; a tal fine inventa che la casa è infestata dai fantasmi e che quindi il figlio ha dovuto andare a vivere in campagna; a questo seguono altri inganni e alla fine, quando la beffa sarà scoperta, il compagno di baldoria del giovane riesce a placare l’ira del padre, offrendo di pagare i debiti del figlio.
Plauto
(«Il persiano»). Un astuto ed audace schiavo, per aiutare un suo amico, schiavo anch’esso, innamorato di un’etèra, si traveste da persiano e riesce con i suoi raggiri ad imbrogliare il lenone che possiede la ragazza. («Il piccolo cartaginese»). È la storia di un ragazzo cartaginese che è stato rapito da piccolo ed allevato da un ricco signore in Etolia. Innamorato di una giovane vicina, cerca, con un intrigo, di riscattare dal lenone lei e la sorella che il lenone tiene presso di sé. Giunge un cartaginese a cercare le sue due figlie che gli erano state rapite da bambine e riconosce nel giovane un proprio nipote e nelle fanciulle le sue figlie. Gli innamorati riescono così a sposarsi. («Pseudolo»). Pseudolo è il nome del servo che, con le sue trovate geniali, riesce a sottrarre al lenone Ballione la ragazza amata dal suo giovane padrone ed in più anche dei soldi; la caratterizzazione del lenone, rapace e senza onore, e la magistrale trama degli inganni e delle trovate del servo ne fanno una delle più apprezzate commedie di Plauto. («La gomena»). Con l’aiuto di una rudens viene recuperato un bauletto contenente oggetti utili al riconoscimento di una fanciulla rapita da un lenone e naufragata poi presso Cirene. Lì viene aiutata da un vecchio di cui risulterà essere la figlia. Potrà così sposare il suo giovane innamorato a cui il lenone l’aveva prima promessa e poi sottratta. («Stico»). Un vecchio padre insiste con le figlie, entrambe maritate, perché abbandonino le case dei rispettivi mariti, assenti da tre anni da casa, partiti per cercare fortuna. Ma esse si mantengono fedeli finché i tre uomini non tornano arricchiti. Stico è il nome del servo che ne annuncia il rientro. («Le tre monete»). La commedia prende il titolo dalla somma data a un sicofante per un raggiro architettato a buon fine. Mentre il padre è lontano, un giovane scioperato dissipa il patrimonio familiare arrivando a vendere perfino la casa; risolve ogni cosa un amico del padre, artefice del benevolo raggiro, a cui egli, prima di partire, aveva affidato i suoi figli. («Truculento»). Una cortigiana, con l’aiuto della sua ancella, con raggiri ed inganni riesce a sfruttare contemporaneamente tre amanti; la commedia prende il titolo dal nome del servo di uno dei tre, che si dichiarava nemico giurato di tutte le donne e voleva salvare il giovane padrone dalle arti di seduzione dell’etèra, ma alla fine è piegato anch’esso. («La commedia del baule»). L’unico lungo frammento di questa commedia che possediamo parla del riconoscimento di un giovane.
Caratteristiche della commedia di Plauto Rappresentata in concomitanza di particolari feste religiose, come d’altronde tutti gli spettacoli teatrali, la commedia vedeva un grande afflusso di gente; il pubblico era costituito prevalentemente dal popolino (schiavi, mercanti, contadini, soldati, cortigiane) che desiderava soprattutto buttarsi alle spalle i pensieri della quotidianità e divertirsi; e a questo fine è costruita la commedia di Plauto che rappresenta un mondo vivo e attuale deformato naturalmente dalla caricatura e dalla beffa e quanti altri elementi potessero contribuire a creare comicità. Non vi sono elementi di satira sociale e politica: la nobilitas è assente (d’altronde la struttura della società romana impediva qualsiasi forma che potesse risultare irrispettosa verso la classe dominante); protagonisti sono gli stessi spettatori che, trasferiti sulla scena, imparano a «contemplarsi dall’esterno e ridere delle proprie virtù… » (A. Traina).
Persa
Poenulus
Pseudolus
Rudens
Stichus
Trinummus
Truculentus
Vidularia
65
66
Plauto e Terenzio
ETÀ ARCAICA
La contaminatio
Tipologia dei personaggi
L’originalità di Plauto e il rapporto con i modelli greci
Prendendo come modello la commedia greca nuova, la néa, i cui principali rappresentanti furono Menandro, Difilo e Filemone, Plauto «traduce» o riporta da uno o più esemplari motivi che intreccia variamente fondendoli in una nuova opera dall’impasto stilistico uniforme; questo modo di operare, detto contaminatio, non fu del solo Plauto, ma proprio di tutta la commedia arcaica latina, ed era considerata prassi così «normale» che veniva spesso dichiarato al pubblico quale era l’opera originale da cui si era attinto. La nea offriva spunti per intrecci che poggiavano essenzialmente su due elementi: il raggiungimento di un «bene» (spesso una donna) ed il riconoscimento di un personaggio creduto erroneamente altra persona. Ma a Plauto non interessa l’elemento «sorpresa», al punto che già nel prologo descrive lo sviluppo dell’azione. D’altronde, come afferma Bettini, «la produzione del déjà vu, la ripetizione del noto in letteratura o in altre forme di comunicazione artistica, ha una sua funzione…, risponde a certi bisogni collettivi che sfuggono però alla contingenza degli eventi storici (anche importanti) con cui noi tendiamo a caratterizzare un’epoca, che stentano ad iscriversi nella ristretta specificità della struttura ideologica in cui si crede di riconoscere, talvolta, il carattere di un’età o di un gruppo sociale… Il teatro di Plauto doveva risultare partecipe di quell’attualità più profonda che è costituita, in definitiva, dalla sostanza antropologica e culturale della società». Sulla scena l’attore (sembra anche ai tempi di Plauto) portava la maschera che doveva essere l’elemento di riconoscimento del personaggio rappresentato; ciò era un segno della «fissità» del personaggio e nello stesso tempo la favoriva: dunque nel sarsinate anche i personaggi obbediscono ad una tipologia già esistente nella nea: il vecchio, i giovani innamorati, il soldato vanaglorioso, il parassita, l’avaro, il lenone, il servo furbo. Quest’ultimo risulta senz’altro il preferito da Plauto, quello che, con la sua geniale inventiva, tira le fila della commedia, tanto che è stato identificato con il poeta stesso. Uno dei problemi più dibattuti dalla critica riguarda l’originalità di Plauto e i suoi rapporti con il modello greco; notevoli le difficoltà a riguardo, dato che manca in genere la possibilità di un diretto confronto a causa della perdita degli originali greci. Per un lungo periodo si è praticamente negata l’originalità plautina, ritenendo di doverla giudicare in base ai contenuti delle commedie; spia ne sarebbe stata proprio la pratica della contaminatio. Oggi si è giunti alla sua rivalutazione, avendo compreso che essa non consiste in novità di intrecci o in approfondimento psicologico dei personaggi; Plauto non cerca la coerenza dell’azione e sposta il suo interesse su elementi diversi da quelli che caratterizzavano i suoi modelli; è su questi che bisogna concentrare l’attenzione per individuare la diversa costruzione che fece della commedia. Molti di essi riguardano la struttura dell’opera da rappresentare: rispetto alla commedia nuova greca non si ha più la divisione in atti, ma un drama continuum; numerose parti, destinate alla recitazione nell’originale greco, vengono trasformate in cantica, parti cioè scritte in metri lirici destinate al canto, che fanno parte dell’azione; per questo «la palliata è uno spettacolo paragonabile all’opera buffa italiana o, meglio ancora, al Singspiel tedesco (progenitore nobile dell’operetta) del tardo Settecento, con vere e proprie arie, duetti, terzetti… »(C. Questa). Caratteristica propria dell’opera plautina va considerato anche l’ampliamento dei monologhi (e talora di dialoghi) in cui viene sviluppata la possibilità comica partendo da allusioni a realtà romane e con giochi di parole tipicamente latini che non potevano essere presenti nell’originale greco. Dunque, per dirla con il Conte, «il comico originale di Plauto sta nel contatto fra la materia dell’intreccio – che Plauto riprende dai Greci, con maggiore o minore fedeltà – e l’aprirsi di “occasioni” in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa “lirismo comi-
Plauto
co”, secondo la felice formula di M. Barchiesi», occasioni che egli, con la sua fantasia e con il suo italum acetum, sfrutta sapientemente in una esaltazione della vita e del suo aspetto più gaio che consentiva agli spettatori spensieratezza e divertimento.
Lo stile Le considerazioni sulla lingua e soprattutto sullo stile di Plauto si intrecciano inevitabilmente con quelle sulla sua originalità, dato che, come si è visto, è soprattutto questo l’elemento di maggior peculiarità dell’opera plautina. La lingua di Plauto, come la lingua di tutta la commedia latina arcaica è essenzialmente, soprattutto nelle parti dialogate, riproduzione della lingua parlata, anche se, come vedremo, entro certi limiti. È dunque importante testimonianza di tale tipo di lingua, che rispecchia più direttamente rispetto alla raffinata commedia di Terenzio; nel contempo è anche testimonianza di uno stadio precedente a quello della lingua letteraria classica la cui sistemazione avverrà più tardi, nel II-I secolo a.C. e che vedrà un arricchimento semantico, soprattutto per i termini astratti, obbediente ad esigenze diverse da quelle di uno spettacolo popolare come la commedia e, nel complesso, un orientamento verso lo stile alto. Non va trascurato tuttavia che quella di Plauto è anche testimonianza di una lingua poetica in fieri che usa nei metri dei cantica espressioni più elevate. Balza agli occhi come caratteristica della lingua parlata la spiccata preferenza per la coordinazione che risulta tratto distintivo anche della lingua arcaica: esempio significativo è la formulazione dell’interrogativa indiretta con il verbo all’indicativo invece che al congiuntivo come in epoca classica, spia di un precedente stadio della lingua in cui prevaleva la paratassi sulla ipotassi. Sul piano morfologico sono evidenti forme di lingua arcaica: la desinenza in -om = -um; la forma in -ier per l’infinito presente passivo; l’uso di -u- per -i- (ad esempio maxume per maxime). Sul piano lessicale si caratterizzano come tratti di lingua colloquiale il frequente uso del diminutivo, quello dei verbi intensivi e frequentativi, più espressivi delle rispettive forme semplici, l’uso di grecismi che, poiché erano intesi dal pubblico, erano evidentemente entrati nell’uso comune. Talvolta però prende il posto del sermo familiaris un linguaggio elevato più proprio della tragedia con stilemi del linguaggio sacrale e giuridico; ciò accade quando il poeta vuole determinare un effetto comico attribuendo ad un personaggio un eloquio non coerente con la sua caratterizzazione o con la situazione. Per raggiungere tale effetto Plauto ricorre spesso a neoformazioni. Numerose le parole composte, di invenzione plautina, quali ad esempio vaniloquidorus («cianciafrottole»), nugipolyloquides («raccontaballe»), gerulifigulus («sopportatore-fabbricatore»), dentifrangibula («rompidenti») che hanno l’effetto di aumentare la comicità rincalzata dall’effetto fonico. I giochi di parole più vari e fantasiosi, talora anche triviali, rivelano una capacità di «manipolare» la lingua fuori dal comune, lingua a cui si affida così buona parte dell’effetto comico. Elemento essenziale dello stile di Plauto è la varietà di metri usati (numeri innumeri) che determinarono quella polifonia, considerata unanimemente uno dei tratti caratteristici del sarsinate. Propri delle parti dialogate sono il senario giambico e il settenario trocaico; accompagnati dal flauto erano i settenari e gli ottonari giambici, mentre cantati dovettero essere i sistemi anapestici e trocaici e i brani in cretici e bacchei ed infine quelli formati dalla combinazione e alternanza di più metri. Tuttavia non sappiamo nulla delle musiche che rivestivano tanta importanza in questo genere di spettacolo.
Tratti della lingua d’uso
Gli stilemi
I numeri innumeri
67
68
Plauto e Terenzio
La fortuna
ETÀ ARCAICA
I contemporanei e l’età repubblicana
Gli augustei e gli altri autori latini
Il Medioevo; l’Umanesimo e il Rinascimento
L’età moderna
Postquam est mortem aptus Plautus, Comoedia luget, / Scena est deserta, dein Risus, Ludus Iocusque / et Numeri Innumeri simul omnes conlacrimarunt. «Dopo che Plauto è morto, la Commedia piange, la Scena è abbandonata, e il Riso, il Divertimento e lo Scherzo, i Ritmi innumerevoli sono scoppiati tutti insieme in lacrime». Questo epitafio, chiunque l’abbia scritto, dimostra il successo e la popolarità di Plauto presso i contemporanei che risulta d’altronde evidente dal grande numero di commedie che, abbiamo visto, gli furono attribuite dopo la morte. Raccolte tutte in un solo corpus, furono ben presto (II sec. a.C.) oggetto di studio da parte di grammatici ed eruditi come Accio, Elio Stilone e Volcacio Sedigito, che cercarono di individuarne le autentiche. È però a Varrone, che da Elio Stilone apprese il metodo filologico e l’interesse per gli studi plautini (sua è la frase, secondo Varrone citato da Quintiliano, Musas Plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent), che dobbiamo la determinazione delle commedie sicuramente scritte da Plauto. Anche Cicerone, quando parla di Plauto, mostra di apprezzarne la lingua e lo stile elegante e pieno di spirito. In un periodo in cui regnava l’ideale della raffinatezza dello stile quale quello augusteo Plauto non poteva essere tra gli scrittori più apprezzati: particolarmente severo il giudizio di Orazio che lo accusa di aver cercato solo il guadagno e il successo immediato, che ritiene abbia raggiunto grazie alla rozzezza del gusto dell’età arcaica. Ma rimane l’unico dissenso da un unanime apprezzamento che torna naturalmente in auge presso gli arcaizzanti del II secolo d.C. L’ammirazione di Macrobio e di Girolamo ancora nel IV secolo d.C. testimonia che esso non venne mai meno (in questo periodo vi fu anche un rifacimento, di autore ignoto, dell’Aulularia, il Querolus). La commedia di Plauto non riscosse grande favore nel Medioevo; scarsa la circolazione dei suoi testi in cui non veniva ravvisato quell’intento didascalico e moralistico che si richiedeva anche ad un’opera d’arte. Non lo lesse lo stesso Dante, mentre la sua riscoperta si ebbe a partire dall’età del Petrarca, che lo conobbe direttamente. Oltre a mostrare verso l’opera plautina un interesse filologico, il XV secolo portò nuovamente sulla scena i testi delle commedie di Plauto, e in genere della commedia antica, che circolarono così e si diffusero presso le corti rinascimentali. Tale consuetudine continuò nel XVI secolo che vide anche numerose imitazioni e rifacimenti; nasce in questo secolo il teatro comico in Europa, e Plauto, insieme con Terenzio, ne fu un vero e proprio archetipo. Vengono ripresi trame, motivi e personaggi, ma è «un Plauto emendato della sua scoppiettante comicità plebea e della sua straordinaria vivacità espressiva» (G. Monaco). Tra il Cinquecento e il Settecento l’opera di Plauto ispirò la maggior parte dei commediografi non solo in Italia, ma anche in Inghilterra, in Francia e in Germania. Per citare solo i maggiori ricordiamo, fra gli italiani, Machiavelli, che nella Clizia riprende la Casina, e Ariosto che nella Cassaria si rifà alla Cistellaria; fra gli inglesi, Shakespeare che ricorda gli equivoci nati dalla somiglianza dei Menaechmi nella sua The Comedy of errors («La commedia degli errori»); fra i francesi, Molière che ha presente il personaggio del vecchio avaro Euclione dell’Aulularia ne L’avare («L’avaro») e l’Amphitruo nella commedia che ne riprende anche il titolo, Amphitryon, e Corneille che ridipinge il personaggio di Pirgopolinice del Miles gloriosus nella sua L’illusion comique, trasferendone le caratteristiche in Ma-
Terenzio
tamoro, capitano smargiasso; fra i tedeschi, Lessing che traduce i Captivi, e Kleist. Qualche motivo e tipo di personaggio giunge anche nella musica di Mozart: attraverso Beaumarchais, autore del Mariage de Figaro, rielaborato dal librettista Da Ponte e in quella di Rossini attraverso Sterbini, che scrisse il libretto per la sua opera Il Barbiere di Siviglia: Figaro, che cerca di «liberare» una fanciulla per poterla fare andare sposa al suo innamorato, non può non ricordare le situazioni del teatro plautino e il personaggio del servo che si adopra con ogni astuzia per la felicità del suo padroncino. Nell’Ottocento si affievolì l’influenza del teatro di Plauto su quello del tempo, mentre gli studi conoscevano un approfondimento che è andato via via crescendo in una sempre maggiore rivalutazione della sua opera e della sua comicità. Muta la considerazione della produzione artistica e segno ne è il ricorrere, da parte degli scrittori, «all’uso del pastiche, del montaggio, della rielaborazione critica di opere altrui. Brecht, per esempio, si può dire che non abbia fatto altro…». È in questo che rivive Plauto nell’arte moderna: sono assenti le situazioni e i personaggi della commedia plautina, ma molti aspetti sia della tecnica teatrale (voce fuori campo che rompe l’illusione scenica e coinvolge direttamente il pubblico) sia della rielaborazione di testi precedenti ricordano Plauto e il suo modo di far teatro. «L’arte moderna, insomma, vivendo in grandissima parte di critica, assomiglia molto, nella pratica di rielaborazione, all’arte classica romana, che motivi storici (l’egemonia della cultura greca) e lo stesso sviluppo della civiltà romana pose tutta, da Plauto a Seneca, sotto il segno della rielaborazione ingenua, parodistica o critica di volta in volta» (L. Codignola). Non mancano comunque, oggi, neppure le rappresentazioni delle sue opere: una ricca tradizione, in questo senso, si ha a Siracusa nel cui teatro l’Istituto Nazionale del Dramma antico manda in scena opere di autori greci e latini. Il Miles gloriosus, ad esempio, è stato rappresentato (nella traduzione di M. Scàndola) nel 1967 a Parma, nel ’68 a Milano e a Terni, nel ’70 a Camporgiano e a Roma, nel ’71 ad Albiano Lagro e nel ’72 ad Aosta e a Roma.
Dall’Ottocento alla contemporaneità
Terenzio La vita Le notizie sul commediografo Publio Terenzio Afro dipendono dalla Vita Terenti di Svetonio, che il grammatico Elio Donato (IV sec. d.C.) premise al suo commento. Da questa si desume che era di stirpe libica (ne fa fede il cognome Afer) ed era giunto a Roma come schiavo. Presto fu manomesso dal suo padrone C. Terenzio Lucano che, per la sua bellezza e intelligenza (ob ingenium et formam), gli aveva dato un’ottima istruzione e il proprio nome. Entrò nell’ambiente filellenico di Lelio e degli Scipioni (cum multis nobilibus familiariter vixit, sed maxime cum Scipione Africano et Caio Laelio) e dai critici malevoli fu accusato di essere il prestanome dei suoi potenti protettori. Esordì come autore di commedie, imitate quasi tutte da Menandro, nel 166 a.C. con l’Andria, che prima della rappresentazione sarebbe stata letta non sine magna ... admiratione dall’anziano e autorevole commediografo Cecilio, cui gli edili l’avevano sottoposta per un giudizio. Del 163 è l’Heautontimorùmenos («Il punitore di se stesso»), del 161 l’Eunuchus e il Phormio, del 160 gli Adelphoe («I fratelli») rappre-
Un liberto africano bello e colto
Un poeta del «Circolo degli Scipioni»
69
ETÀ ARCAICA
70
Plauto e Terenzio
Una morte emblematica
Terenzio raffigurato in un codice, Roma, Biblioteca Vaticana (Codice Vaticano latino 3868).
sentata in occasione dei ludi funebri di L. Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, protettore di Terenzio ed esponente di grande spicco del filellenismo; nello stesso anno si riuscì finalmente a rappresentare con successo anche l’Hècyra («La suocera»), che già per due volte (la prima nel 165) non si era potuta condurre in porto per le intemperanze del pubblico. La biografia svetoniana assegna la morte del poeta non ancora venticinquenne (nondum quintum atque vicesimum annum egressum) al 159. Dunque sarebbe nato nel 184 a.C. (o 195 secondo altri codici di Donato, che hanno quintum atque trigesimum). La morte sarebbe avvenuta durante un «viaggio di studio» in Grecia1 – dove Terenzio s’era recato per perfezionare la conoscenza dell’opera di Menandro – in un naufragio o per il dolore d’aver perduto nuove commedie tratte dai modelli greci: «Non aveva ancora compiuto venticinque anni ... partì da Roma e non vi tornò più ... Narra Quinto Cosconio che egli morì in mare, mentre ritornava dalla Grecia con la traduzione di centootto commedie di Menandro. Altri sostengono che sia morto in Arcadia ... di malattia o perché preso dallo sconforto d’aver perduto i bagagli, che aveva spedito prima in una nave, e insieme ad essi le sue ultime commedie» (Svet. Vita Terentii). Una morte davvero emblematica per il poeta più rappresentativo di quel «Circolo degli Scipioni» che nel corso del II secolo a.C. giocò un ruolo fondamentale nel processo di ellenizzazione della cultura latina.
Le opere
Manoscritto dell’Andria (Milano, Biblioteca Ambrosiana).
Andria
Hècyra
Scene dall’Hecyra, da un manoscritto conservato alla Biblioteca Ambrosiana.
Di Terenzio restano sei commedie con le relative «didascalie», notizie ufficiali registrate nell’archivio di stato indicanti l’autore, il titolo, l’originale greco imitato, le circostanze e la data della rappresentazione, il direttore artistico, il primo attore e il compositore delle musiche. L’ Andria è sul modello dell’omonima commedia di Menandro, «contaminata»2 con la Perinthia dello stesso autore. Panfilo, già fidanzato con la figlia di Cremète, s’innamora di un’orfana, Glicerio (è questa la ragazza di Andro, che dà il titolo alla commedia). Quando Cremète sa del legame sentimentale di Panfilo, s’oppone alle nozze di questo con la propria figlia. Si viene però a sapere che Glicerio è una figlia di Cremète, dispersa in un naufragio. L’«agnizione» o riconoscimento finale scioglie l’intricata vicenda: Panfilo può sposare la figlia di Cremète, che non s’oppone più, e Glicerio sposerà un suo vecchio spasimante. L’ Hècyra nasce dalla contaminazione dell’Hècyra («La suocera») di Apollodoro di Caristo con gli Epitrèpontes («L’arbitrato») di Menandro. Panfilo durante una notte brava viola una fanciulla senza neppure vederla in volto. Sposatosi, scopre che la moglie Filumena sta per dare alla luce un figlio frutto della violenza subita da uno sconosciuto in una festa notturna. Vuole separarsi dalla moglie gettandosi nelle braccia di Bacchide, una cortigiana d’animo generoso e delicato, ma proprio questa gli rivela che l’ignoto stupratore di sua moglie altri non è che lui stesso. Caduto l’equivoco, ritorna l’armonia familiare. La commedia ruota attorno al personaggio di 1. Il «tour culturale» in Grecia sarà dopo Terenzio una tappa obbligatoria nella formazione dei Romani colti. 2. La «contaminazione» consiste nell’introdurre nella trama di una commedia, modellata su un dato originale greco, scene tolte da un’altra commedia.
Terenzio
Sostrata, suocera di Filumena e madre di Panfilo: donna di nobile saggezza, pronta a tirarsi in disparte per appianare le incomprensioni tra il figlio e la nuora. Il modello dell’Heautontimorùmenos è la commedia omonima di Menandro. Il titolo significa «Il punitore di se stesso», con riferimento all’inflessibilità con cui Menedemo si è autocondannato a lavorare duramente la terra. L’opprime il rimorso di aver ostacolato il figlio Clìnia nel suo amore per una fanciulla d’umile stato, spingendolo ad arruolarsi come mercenario in Asia. Ma dopo breve tempo Menedemo apprende da Cremète – suo vicino e amico, il quale sempre l’aveva esortato ad una pedagogia della comprensione, non del rigorismo – che Clìnia è tornato. Ora Menedemo è pronto ad accogliere il figlio con affetto maturo e a consentirgli di sposare la fanciulla amata. Coup de théâtre finale: com’è rivelato da una provvidenziale anagnòrisis («riconoscimento»), la fanciulla è figlia di Cremète, esposta appena nata. L’ Eunuchus contamina la commedia omonima di Menandro con il Kolax («L’adulatore») dello stesso autore. Perno dell’azione è la meretrice Taide, che tiene sulla corda il soldato Trasone, goffo ma generoso nei doni, e il giovane Fedria, bello, gentile e innamorato. Presso Taide vive una fanciulla orfana, di cui s’innamora perdutamente Cherea, fratello di Fedria, al punto che s’introduce, con la complicità dello schiavo Parmenione, in casa di Taide, nei panni variopinti di un Eunuco. Grazie al travestimento, Cherea ottiene di essere adibito alla custodia della giovane. Il lieto fine è garantito e nessuno esce scontento: Fedria ottiene Taide, Cherea sposa l’orfana, che si rivela di origine libera e di buona famiglia ateniese, e anche il soldato smargiasso trova nell’allegra brigata un contentino nelle sviolinate di un adulatore che sta ad incensarlo, sotto sotto beffeggiandolo. Il Phormio ha per modello l’Epidicazòmenos («Il pretendente») di Apollodoro di Caristo. Due cugini, Fedria e Antifone, amano rispettivamente una meretrice e una brava fanciulla creduta orfana. L’astuto parassita Formione riesce, con uno stratagemma, a far sì che il tribunale stesso imponga ad Antifone di prendersi la ragazza (che poi risulterà essere figlia illegittima di Cremète, padre di Fedria), e a trovare il danaro per riscattare dal lenone la cortigiana amata da Fedria. Il modello degli Adelphoe è l’omonima commedia di Menandro, contaminata con una scena presa dai Synapothnèskontes di Difilo. Demea ha due figli, Ctesifone e Eschino. Il primo vive in campagna ed è stato educato spartanamente dal padre rigido e autoritario. Il secondo vive in città, affidato allo zio Micione, che l’ha allevato come un figlio vero, amorevolmente, con larghezza, forse viziandolo. Sono a confronto due pedagogie: quella dell’intransigenza e del rigore, quella liberale al limite della permessività, basata sulla comprensione e l’indulgenza. Eschino, che deve sposare una ragazza povera da cui sta per avere un figlio, inspiegabilmente rapisce una cortigiana rischiando di mandare a monte il proprio matrimonio. Demea, che già prima considerava il ragazzo un poco di buono rovinato dal lassismo di Micione, trova la conferma dei suoi principi educativi. Ma vien fuori che Eschino ha compiuto il rapimento per conto del fratello. Così Ctesifone, ritenuto tutto casa e podere, si rivela scapestrato quanto Eschino, che però è più ricco di doti umane: è sincero con il padre adottivo, generoso e pronto a tutto pur di giovare al fratello. Demea riconosce – almeno così pare – d’essersi illuso sulla virtù educativa del rigorismo e promette di adottare per il futuro metodi permissivi. Ma neppure Micione con la sua pedagogia illuminata potrà cantar vittoria, perché ogni eccesso, ogni deviazione dal «giusto mezzo» – questa è l’ideologia prevalente in Terenzio – è da evitare.
Heautontimorùmenos
Personae dell’Heautontimorùmenos (Milano, Biblioteca Ambrosiana).
Eunuchus
Phormio
Adelphoe
71
72
Plauto e Terenzio
Il «Circolo degli Scipioni» e l’ideale dell’humanitas
ETÀ ARCAICA
L’ellenizzazione della cultura latina
Il «Circolo degli Scipioni»
L’humanitas
Una rivoluzione culturale
A Pidna nel 168 a.C. – due anni prima del debutto di Terenzio con l’Andria – L. Emilio Paolo concludeva la guerra macedonica, unendo di fatto la Grecia a Roma. Narra Plutarco che egli chiese per sé, dell’enorme bottino di guerra, solo la biblioteca del re Perseo, che fu lui a inaugurare il costume, che sarà poi una tappa canonica nella formazione del Romano colto, del viaggio d’istruzione in Grecia e che educò i figli alla maniera greca, in particolare affidando a Polibio, lo storico greco ammiratore della costituzione repubblicana di Roma, l’istruzione del figlio diciassettenne Publio Cornelio Scipione Emiliano. Dopo che il giovane, il futuro distruttore di Cartagine e Numanzia, ebbe conosciuto Polibio, venuto a Roma nel 167 fra gli ostaggi della Lega Achea, gli divenne intimo amico, al punto che, come ricorda lo storico stesso, «non si staccò più dal suo fianco e si dimostrò pronto a trascurare ogni altra cosa piuttosto che la sua compagnia» (St. XXXII, 9). Forse proprio in quei lontani colloqui con l’Emiliano Polibio ha maturato le riflessioni sulle cause dell’ascesa dell’impero romano, sui rapporti di Roma con i popoli assoggettati. Forse in quelle appassionanti discussioni prendeva corpo l’ideologia dell’impero basata sul convincimento che il potere è più efficace se si fa amare, se è temperato, illuminato: per dirla con Terenzio, che trasferirà i termini del dibattito sul piano pedagogico, che «sbaglia di grosso chi crede sia più forte o stabile l’autorità imposta con la forza di quella vincolata dall’amicizia» (Adelphoe 65-67). Attorno all’Emiliano si raccolsero poi altri intellettuali greci e romani che costituirono il cosiddetto «Circolo degli Scipioni», che ebbe nel II secolo a.C. un ruolo di punta nel favorire l’assimilazione da parte dei Romani di aspetti fondamentali della cultura greca e nel promuovere una sintesi equilibrata tra le due civiltà. Tra questi, oltre a Lelio, Terenzio, Lucilio, c’era il filosofo Panezio di Rodi, che attraverso la dottrina stoica fornì il fondamento teorico della virtus romana, rielaborando alla luce degli ideali romani di vita attiva e impegnata concetti di matrice greca: il prépon o decorum, cioè quel che s’addice nelle circostanze della vita, innumerevoli, cangianti, che richiedono flessibilità e senso del relativo; e ancora, la magnanimità, la benevolenza verso gli altri uomini, il cosmopolitismo, la misura in tutti i campi (politico, etico, estetico), il senso della dignità di ogni ruolo sociale per quanto umile. Questi valori sono in certo modo riassunti nell’ideale dell’humanitas. Il termine, semanticamente complesso, indica da un lato «benevolenza», «gentilezza d’animo», «mitezza», «affabilità»; dall’altro «educazione letteraria, filosofica ecc.» intesa come tratto specifico dell’uomo rispetto agli altri animali o dell’uomo reso humanus et politus dalla sua cultura rispetto agli indocti et agrestes. Nella prima accezione corrisponde al greco philantropìa, nella seconda al greco paidèia. Terenzio esemplifica assai bene soprattutto il primo dei due valori nella figura di Micione degli Adelphoe o in quella di Cremète dell’ Heautontimorùmenos, che motiva la sua disponibilità a stare ad ascoltare le pene del vicino di casa, che quasi non conosce, per pura e semplice solidarietà umana: homo sum: humani nihil a me alienum puto. Dunque, in nome di un legame che esiste tra tutti gli uomini, proprio e solo perché sono uomini: creature di per sé amabili, come scrive Menandro: «Com’è amabile l’uomo, quando è uomo!». Ne deriva un diverso modo di concepire i rapporti interpersonali, tra padre e figlio, tra padrone e schiavo, una differente maniera di rapportarsi alla donna, ai subalterni, alle popolazioni sottomesse, ai «diversi»; che poi diversi non sono, se si guardano con più ampio senso d’umanità e si comincia a capire che l’umanità è una. Ne deriva anche la necessità di temperare, senza rinnegarle, le aspre virtù tradi-
Terenzio
zionali – la gravitas, la dignitas, l’auctoritas – non facilmente conciliabili con la gentilezza e la cordialità espansiva della nuova visione filantropica. Ma non si deve neppure pensare che nell’humanitas si compendi un sistema di valori prevalentemente importati dalla Grecia. Panezio ha certamente contribuito alla precisazione di questo ideale morale, «ma il concetto di humanitas è romano, non greco: nei Greci, cittadini del mondo, come in Menandro, l’etica della filantropia muove dalla coscienza pessimistica dei limiti e della precarietà della nostra condizione; nei Romani cittadini dell’urbs – e anche in uno schiavo romanizzato come Terenzio – l’humanitas è il frutto di una fiducia nei valori positivi dell’uomo e nelle sue capacità realizzatrici. Da una parte, una tradizione avvezza a confrontare la realtà con un ideale di perfezione irraggiungibile – l’uomo che si misura con il divino –, una società in decadenza, una cultura estenuata da secoli di mirabili conquiste dell’arte e dell’intelletto; dall’altra parte, un pratico operare nell’ambito dell’esperienza concreta – l’uomo che si misura con gli altri uomini –, uno strenuo ideale di vita, una società in piena espansione economico-politica e culturale. Di questa società romana, che Polibio e Panezio rivelano ai Romani stessi, sono interpreti e insieme ispiratori Scipione e Lelio, Terenzio e Lucilio» (I. Mariotti).
L’humanitas, ideale romano
La novità dei Prologhi In Plauto il Prologo indicava il modello greco imitato, ma soprattutto narrava l’antefatto, spesso anticipava informazioni sullo sviluppo e lo scioglimento, mettendo gli spettatori in grado di capire la trama. Invece in Terenzio il Prologo costituiva uno «spazio dell’autore» che serviva a rispondere alle critiche degli avversari, in particolare di un poeta comico minore, tale Luscio Lanuvino. Così i Prologhi di Terenzio sono un documento della polemica letteraria del tempo, ma anche una concisa lezione di tecnica teatrale. In particolare i suoi detrattori criticavano il ricorso alla contaminatio3, consistente nell’incrociare in un unico testo modelli letterari differenti. Eppure questo procedimento, ribatte Terenzio nel prologo dell’Andria, era stato seguito da autori illustri come Nevio, Plauto, Ennio. Ma l’accusa doveva riguardare l’uso spericolato che della contaminatio fa Terenzio, il quale rielabora in piena libertà la trama dell’originale greco, manipolando autonomamente le parti, inserendo nuovi spunti o scene tratte dallo stesso autore o anche da autori diversi. Anche lo stile era oggetto degli strali degli avversari: uno stile considerato opaco e incolore in confronto con la sanguigna vitalità plebea dei versi di Plauto. E questa critica era condivisa dal grande pubblico, che alla commedia psicologica terenziana, riflessiva e statica (stataria, come la definisce l’autore nel Prologo dell’Heautontimorùmenos) preferiva la tradizionale farsa plautina, fondata sugli effetti grossolani e sull’azione movimentata: una commedia motoria (come la chiama Donato nel suo commento), che Terenzio disprezza considerandola oltretutto lesiva della dignità dell’attore, costretto sempre a rappresentare urlando la parte del servo che corre. Terenzio stesso ricorda nel secondo Prologo dell’Hècyra che, in occasione delle prime due rappresentazioni di questa commedia, gli spettatori abbandonarono il teatro per uno spettacolo di gladiatori e funamboli, che si svolgeva nei parag3. Terenzio usa questo termine nell’accezione etimologica (contaminatio viene da contaminare, «porre insieme») che non implica il senso negativo, assunto successivamente, della mescolanza eterogenea lesiva della qualità originaria dei singoli componenti.
Un nuovo tipo di Prologo
La contaminatio
73
74
Plauto e Terenzio
ETÀ ARCAICA
Un prestanome dei potenti?
gi. D’altronde il fatto stesso di trasformare il Prologo in un momento di dibattito letterario presuppone da un lato un pubblico raffinato, interessato a problemi di poetica e tecnica compositiva, dall’altro un tipo di autore non distante dal poeta-filologo alessandrino, intellettuale e aristocraticamente lontano dal volgo. Un’altra accusa, dalla quale Terenzio si difese – per la verità senza troppa energia – nel Prologo degli Adelphoe, fu quella di non produrre farina del suo sacco ma di accettare la sostanziosa collaborazione di potenti patrizi, che agivano clandestinamente per non screditare il nome del casato: insomma di essere solo un prestanome di homines nobiles, tradizionalmente identificati con Scipione Emiliano e C. Lelio.
Il rapporto con i modelli greci e le innovazioni rispetto a Plauto Menandro e Apollodoro
Traduzione, imitazione emulazione
I Prologhi terenziani fanno luce sull’ardua questione del rapporto con i modelli greci. Terenzio attinge per quattro delle sue palliatae4 ad opere non conservate di Menandro, per le due restanti ad opere parimenti perdute di Apollodoro di Caristo5. Fino a che punto Terenzio ha imitato o tradotto o rielaborato gli originali? E che cosa significava ai suoi tempi imitare, tradurre, rielaborare? Erano attività distinte l’una dall’altra? Che margine lasciavano alla creatività individuale? Cicerone afferma che gli autori drammatici Ennio, Pacuvio, Accio non eseguivano traduzioni letterali, ma adattamenti miranti a rendere il vigore espressivo dell’originale. Anch’egli dichiara di attenersi a quel criterio, che così sintetizza: «Ho reso i testi non come un semplice traduttore (interpres) ma come uno scrittore (orator), rispettando i concetti con le stesse figure di parole e di pensieri, ma impiegando termini confacenti alle nostre consuetudini. Non ho ritenuto di dover tradurre parola per parola (verbum pro verbo), ma ho conservato il valore e il significato delle parole (genus omnium verborum vimque servavi). Infatti ho pensato che si dovesse restituire al lettore non già il numero, ma il peso delle parole» (De opt. gen. orat. 5, 14). Dunque, la traduzione «come trasposizione e comunicabilità tra culture» (B. Gentili), come resa dei valori semantici e stilistici dell’originale nel rispetto della genuina latinità. Ma anche la traduzione come creazione autonoma rispetto all’originale del quale essa non costituisce un furtum (un plagio) – come spiega Terenzio nel Prologo dell’Adelfoe (v. 13) – e col quale, anzi, entra in rapporto di aemulatio. Nei Prologhi Terenzio rivela una concezione del tradurre non diversa da quella di Cicerone, il quale, peraltro, elogia Terenzio per aver riprodotto perfettamente Menandro, con i suoi pregi di eleganza e di buon gusto. Per Terenzio le trame, i personaggi, le situazioni del modello greco, in quanto imitazione della vita, sono res nullius, patrimonio comune, come il mito per i tragici. Individuale è solo la forma (oratio ac stilus, Andria 12): se questa è nuova l’opera è nuova, non essendoci differenza tra creare e ricreare in forma nuova. E non c’è solo aemulatio con gli origina4. Omologa alla distinzione, fatta nell’ambito della tragedia, tra fabula cothurnata (d’argomento greco, cosiddetta dal coturno, calzare alto di tipo greco) e fabula praetexta (nella quale gli attori indossavano la toga praetexta dei magistrati romani) era quella, nel campo comico, tra fabula palliata e fabula togata: la prima (recitata da attori indossanti l’himàtion, mantello greco che i romani chiamavano pallium) imitava gli autori attici ed era d’ambiente greco; la seconda era d’ambiente romano. 5. Vissuto a cavallo tra il IV e il III secolo a.C., cittadino ateniese, ha scritto 47 commedie delle quali restano pochi frammenti disposti sotto dodici titoli.
Terenzio
li, ma anche con i traduttori precedenti. A chi l’accusa di plagio per aver attinto da un testo di Menandro precedentemente utilizzato da Nevio e da Plauto, Terenzio risponde: «Ascoltate in silenzio cercando di rendervi conto di ciò che vuol essere il mio Eunuchus» (Eun. 45). Quanto ai contenuti e alle trame, Terenzio segue gli schemi tipici della Commedia Nuova6. Ci sono i soliti intrecci complicati da equivoci, inganni, riconoscimenti, i soliti amori ostacolati e poi coronati dal matrimonio. Anche la tipologia dei personaggi varia di poco: senes irosi e avari, adulescentes innamorati di cortigiane e orfane, servi ora fedeli ora (ma meno spesso che in Plauto) faccendieri sfrontati, mezzani avidi, parassiti intriganti, soldati spacconi. Nulla di nuovo, dunque, anche perché sul piano dei contenuti, avverte Terenzio, «non esiste niente, che non sia già stato detto» (Eun. 41). Le innovazioni rispetto a Plauto sono in parte le stesse attuate dalla Commedia Nuova rispetto alla Commedia Attica Antica. Mentre Plauto spesso rompe l’illusione scenica con improvvisi ed espliciti accenni alla situazione teatrale («... Ti concedo il perdono ... per non allungare di più questa commedia che è già lunga», Casina 1004-1006), Terenzio rifiuta, tranne per i Prologhi e gli Epiloghi, il «metateatro», cioè il teatro nel teatro, in omaggio al principio, di grande rilevanza nella cultura letteraria e filosofica d’età ellenistica, della verosimiglianza. Egli mira a coinvolgere il pubblico in senso educativo, vuole che questo raccolga il messaggio morale della commedia. Perché ciò accada occorre che gli spettatori si immedesimino, dimentichino il carattere fittizio dei fatti, che perderebbero la loro efficacia formativa se fossero riguardati come una parentesi ludica, come una sospensione giocosa della realtà. Di qui il carattere di «forma chiusa», di costruzione unitaria e compiuta che ha la commedia di Terenzio rispetto alla plautina, «aperta» e disorganica proprio perché priva di un messaggio. Sempre in ossequio al principio della verosimiglianza è l’ambientazione totalmente greca e il rifiuto d’ogni intrusione romana, a differenza del teatro plautino dove i Greci sparlano dei Greci, i magistrati possono essere pretori o edili e l’Acropoli d’Atene è il Campidoglio. Più verosimili, se non proprio realistici, sono anche i personaggi di Terenzio, il quale rifiuta quell’intensificazione caricaturale e comica che impediva al personaggio plautino di prendere corpo e credibilità. Bisogna dire però che i personaggi terenziani, in quanto portatori di un messaggio etico, non sono neppure essi personalità compiute, ma caratteri, cioè esemplari di un’umanità universale, creazioni di una cultura informata all’ideale dell’humanitas. Come i personaggi di Menandro, che s’ispirava alla trattatistica etica di filosofi come Teofrasto (autore di un’operetta intitolata Caratteri), anche quelli di Terenzio non hanno precisi contorni individuali, sono tipi umani spersonalizzati, nati sì dall’imitatio vitae, ma per esemplificare l’«essere umano». Sullo sfondo comune dell’humanitas vari tipi umani, non uomini 6. La Commedia Nuova – della quale Menandro (342-291 a.C.) è il principale rappresentante – fiorisce tra IV e III secolo a.C., in un’Atene ormai «città storica»: centro culturale di richiamo ma ormai privo di valore politico, dove rimane, a far le spese della commedia, solo la vita attuale della città osservata nei vari aspetti umili e borghesi. Affine alla prosa, alla scienza, alla filosofia, la Nuova è la forma di dramma borghese auspicata da Aristotele nella Poetica: non interamente tragica e non interamente comica. La soppressione, rispetto all’Antica, dei canti corali conferisce al nuovo genere comico il tono dell’ordinaria conversazione mentre, sul piano dei contenuti, alla vita pubblica si sostituisce la privata. Non più il dibattito sui grandi temi politici che agitavano gli animi della collettività trasformandosi in egregie gesta, bensì i fatti umili di ogni giorno colti in modo naturalistico e positivo.
Gli stessi contenuti della Nuova
75
76
Plauto e Terenzio
ETÀ ARCAICA
Un linguaggio più «quotidiano»
Dalla farsa lirica al «dramma borghese»
interi, vengono fatti agire come se appartenessero al medesimo strato sociale e culturale: tutti egualmente humani et politi, tutti indistintamente caratterizzati da quello che Rostagni chiamava il bon ton delle commedie terenziane. All’esigenza di realismo corrispondono anche, come vedremo, le scelte in sintonia con i modelli menandrei di uno stile pacato e dialogico, di un linguaggio medio più «quotidiano» e «verosimile» di quello plautino, che invece, perseguendo l’obiettivo opposto di innalzare il quotidiano nella sfera dell’inconsueto e del paradossale, è denso di elementi iperbolici, ora scurrilmente plebeo ora grottescamente teso verso altezze epiche o liriche. Un altro aspetto della medietas stilistica di Terenzio, che lo avvicina a Menandro e lo contrappone a Plauto, è l’uniformità metrica e la soppressione quasi totale delle parti cantate. All’«opera lirica» plautina subentra il «dramma borghese» più prosaico e piano di Terenzio: «un momento centrale nell’evoluzione, già avviata da Menandro, dello spettacolo greco, geneticamente irrazionale e dionisiaco, verso il realismo del dramma occidentale» (H. Haffter).
Lo stile al servizio dell’universalismo etico I giudizi di Cicerone e di Cesare
Il lectus sermo
Un linguaggio «verosimile»
È utile partire dai giudizi attribuiti da Svetonio (Vita Terentii) a Cicerone e a Cesare: «Cicerone nel Prato lo loda così: “Tu pure, o Terenzio, che unico, con temperati affetti (sedatis vocibus), con eletto linguaggio (lecto sermone) ci presenti Menandro, tradotto e interpretato in lingua latina, esprimendoti con grazia e tutto dicendo con dolcezza ...”. E anche Giulio Cesare: “Tu sei posto tra i sommi, o Menandro a metà (o dimidiate Menander), e meritatamente, amatore del puro linguaggio (puri sermonis amator). Oh se ai tuoi scritti soavi si fosse aggiunto il vigore, affinché la tua forza comica (virtus comica) risplendesse ed eguagliasse per pregi quella dei Greci, né per questo rispetto giacessi spregiato! Solo ciò mi dispiace, e mi dolgo che ti manchi, o Terenzio!”». In che senso il linguaggio di Terenzio è un lectus sermo, cioè selezionato? Intanto nel senso di «censurato». Come nota A. Traina, in sei commedie incentrate su vicende amorose, la parola «bacio» figura due volte in tutto. Non si parla di sesso né di corpi. Neppure di gozzoviglie alimentari: un servo plautino che ha accesso alla dispensa si esprime così: «... mi ha affidato il supremo potere mangereccio. Dei immortali, ora sì che gli troncherei il collo alle groppe di porco! Che moria per i prosciutti, che strage per il lardo! che pappata di poppa di scrofa, che rovina per la cotenna ...» (Capt. 901 ss.), mentre il suo collega terenziano è un tecnico che dà disposizioni ai collaboratori: «Pulisci gli altri pesci, Dromone: quell’anguilla così grossa lasciala guizzare un po’; quando arriverò io la dilischeremo» (Adelf. 376 ss.). In Terenzio quasi non esistono gli insulti: la liberatoria filza d’ingiurie plautina («O melma ruffianica, letamaio pubblico impastato di sudiciume, zozzone, svergognato, traditore, fuorilegge, rovina della gente, sparviero voglioso e invidioso dei nostri soldi, procace, rapace, strappace ...», Persa 446 ss.) diviene in Terenzio – le rare volte che per estrema concessione al divertimento del pubblico si rassegna a ricalcare i moduli di una comicità «bassa» – nulla più che un fermo avvertimento: «Sarà meglio che tu non faccia tanto baccano qui davanti a casa. Se continui a darmi fastidio, ti farò trascinare dentro, e prenderai tante frustate da morire» (Adelf. 181 ss.). Ma perché un linguaggio «censurato»? In primo luogo per esigenza di verosimiglianza: «Nella vita quotidiana di Roma non si è certo tanto imprecato, giurato, maledetto, né si sono pronunciate tante parole grosse come accade sulla scena plautina» (Haffter).
Terenzio
All’esigenza di verosimiglianza si lega quella della medietas, della moderazione dei sentimenti (sedati motus), dell’universalismo etico. Il vero a cui vuole essere simile il personaggio di Terenzio non è quello individuale ma quello universale. Di qui la ricerca di uniformità, di qui l’intento di rappresentare ciò che accomuna i personaggi e non ciò che li differenzia, tralasciando comportamenti, gesti, espressioni linguistiche troppo individuali e perciò stesso non riferibili ad un modello ideale di humanitas, non riconducibili alla sostanza più profonda e universale dell’essere uomo. Di qui la necessità di un lectus sermo, di un eloquio signorile improntato al riserbo, alla reticenza, al decoro, depurato di ogni particolarismo: una lingua «nata sotto l’egida sostanzialmente negativa della buona educazione, sotto il ritegno, sotto l’ordine ... perché doveva tener conto del fatto che essa non solo era destinata ai cittadini romani di antica data, ma doveva diventare mezzo di comunicazione per quanti, dal territorio ogni giorno più ampio dello stato romano, venivano in Roma e si davano alle lettere» (G. Devoto). Non stupisce poi che questa lingua, che in parte si identifica con la varietà sociale del latino parlato dalle classi urbane colte e bene educate, sembrasse incolore e priva di virtus comica, troppo idealizzata rispetto ai gusti del pubblico romano, che a questo linguaggio filosofico e colto, denso di espressioni astratte e generalizzanti, improntato a una brevitas che prelude all’oratoria scarna ed essenziale degli Atticisti, certo preferiva l’abundantia plautina con i suoi pirotecnici giochi verbali e i cumuli torrentizi di termini «bassi», corposi, carichi di vigore plebeo. La selezione del materiale linguistico era anche in funzione della conformità al genere della commedia, che richiede uno stile misurato, piano e discorsivo, adatto al dialogo, alla pura oratio (Heaut. 46). All’avversario che, come lo stesso Cesare, gli rimprovera il tono dimesso e lo scarso vigore (tenuis oratio et scriptura levis, Phormio 5) Terenzio risponde ribaltando l’accusa: «Forse costui – dice – mi rimprovera di non mettere in scena, come fa lui, giovani sognanti cerve che fuggono, piangono e chiedono aiuto». Queste forzature tragiche e paratragiche, non estranee neppure al teatro di Plauto, sono secondo Terenzio inconciliabili con il decorum (il prepon, in greco), perché violano le leggi del genere letterario facendo agire e parlare i personaggi in situazioni non richieste dalla commedia.
Un linguaggio «universale»
Un linguaggio conveniente al genere
La fortuna Dell’ostilità del grande pubblico romano di fronte ai contenuti impegnati e allo stile pacato di Terenzio abbiamo già riferito, ricordando in particolare l’insuccesso dell’Hècyra. Nella graduatoria dei comici più apprezzati fatta intorno al 100 a.C. da Volcacio Sedìgito, Terenzio figura solo al sesto posto, dopo Cecilio, Stazio, Plauto, Nevio, ma anche dopo i minori Licinio Imbrice e Atilio. Tuttavia le commedie di Terenzio continuarono ad essere rappresentate anche dopo la sua morte, ma soprattutto furono lette e studiate, apprezzate specialmente da intellettuali raffinati come Cicerone e Cesare, dei quali abbiamo riportato i giudizi (vedi p. 76): entrambi ne lodano il linguaggio puro, che costituisce la base della lingua letteraria dei secoli successivi. Però Cesare lo considera un «mezzo Menandro», scrittore elegante ma commediografo privo di virtus comica. Anche Orazio loda l’ars, la ricercatezza formale di questo poeta che anticipa nel clima scipionico quell’ideale del labor limae, che con più consapevole e raffinata esigenza critica affermeranno i letterati dell’età augustea, Orazio in primis. E se ai letterati augustei parranno non sufficientemente limati Terenzio e i poeti scipionici,
L’antichità
L’influsso su neoteroi e augustei
77
ETÀ ARCAICA
78
Plauto e Terenzio
è pur vero che una linea ideale collega quelli a questi: la linea che, inaugurata dall’Umanesimo di Terenzio e del «Circolo degli Scipioni», arriva ai poeti del circolo di Mecenate passando attraverso l’esperienza dei poetae novi. Questi ultimi, certo ben più scaltriti in fatto di rifinitura stilistica e cesellatura del verso, rivelano d’essersi formati anche alla scuola di Terenzio. È condivisa da molti studiosi l’ipotesi che il celebre Odi et amo di Catullo derivi da questi versi dell’Eunuchus7: Eun. 70-73
o indignum facinus! nunc ego et illam scelestam esse et me miserum sentio: et taedet et amore ardeo, et prudens sciens vivos vidensque pereo, nec quid agam scio. Che comportamento vergognoso! Ora capisco che lei è una disgraziata e io un infelice: non ne posso più, ma brucio d’amore e, lucido e cosciente, vivo e consapevole muoio e non so che fare.
Un modello scolastico
Gli autori cristiani e il Medioevo
L’Umanesimo e il Rinascimento
L’influsso sul teatro moderno
Dunque, Terenzio divenne presto modello di latinitas, di un linguaggio semplice e «naturale», tenuto sempre nei limiti della correttezza, della misura. Fu il primo esempio di classicismo, e l’esemplarità stilistica unita al carattere «edificante» dei contenuti concorsero a farne un modello scolastico per secoli. Ancora alla fine del Settecento Alfieri decideva di tradurre Terenzio. Nel IV secolo il grammatico Evazio lodava la riforma teatrale terenziana, consistente nel dare alla commedia il carattere della forma chiusa, unitaria, eliminando ogni rottura metateatrale: «quel difetto ben frequente di far parlare l’attore col pubblico, rompendo l’illusione scenica (quasi extra comoediam)». Nel IV secolo, in piena fioritura di studi eruditi, il grammatico Elio Donato commenta cinque commedie (manca Il punitore di se stesso). La scarsa considerazione di cui Terenzio godette presso Frontone, Gellio, Apuleio e gli arcaizzanti in genere trovò un contraltare nei padri della Chiesa, che lo apprezzarono per i valori etici, per la moderazione dei sentimenti, non di rado fraintendendolo nell’intento di scoprirvi segni premonitori dei valori cristiani. Così Girolamo leggeva Terenzio ai fanciulli nelle scuole e Sant’Agostino era affascinato dal verso famoso e interpretabile in mille modi: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Poco prima dell’anno 1000 la suora sassone Rosvita (Hrotsvitha) compose sei commedie in prosa ritmica adattando ad un nuovo contenuto d’ispirazione cristiana la trama delle commedie terenziane. Tutto il Medioevo dedicò commenti a Terenzio. Nel Purgatorio dantesco Stazio lo cita per primo tra i comici: «dimmi dov’è Terenzio nostro antico, / Cecilio e Plauto ...» (vv. 97-98). In età umanistica e rinascimentale l’humanitas di Terenzio riacquista la sua valenza classica, laica e pagana. Frequenti furono i commenti, i volgarizzamenti, gli adattamenti poetici e le biografie del poeta – una ne scrisse anche Petrarca – raccolte di massime, alcune delle quali divenute proverbiali e ancora attuali: lupus in fabula (Adelf. 537), quot homines tot sententiae (Phorm. 454). Anche Boccaccio studiò Terenzio e lo giudicò superiore a Plauto. Machiavelli, che già nella sua Clizia aveva imitato la Casina di Plauto, ci ha lasciato una traduzione dell’Andria. Successivamente l’influsso di Terenzio sui commediografi moderni è ben riconoscibile, se pur meno vistoso di quello di Plauto, e talora interessa anche la struttura e
7. Cfr. A. Minarini, Studi terenziani, Patron, Bologna 1987, p. 61.
Terenzio
l’articolazione degli intrecci, come nel caso dell’introduzione della doppia coppia di innamorati con doppio matrimonio finale: un’innovazione (presente in tutte le commedie tranne l’Hècyra) che ritroviamo nel teatro rinascimentale ed elisabettiano. Nel corso del XVI secolo – che segna la nascita del teatro letterario moderno in Europa – Terenzio viene imitato, tradotto in prosa e in versi per gli spettacoli di corte. Purtroppo non ci sono arrivate le traduzioni che ne fece l’Ariosto per il teatro degli Estensi. Le opere di Terenzio furono tra le prime ad essere divulgate dopo l’invenzione della stampa, soprattutto in Francia, dove Montaigne ebbe modo di lodare Le bon Terence, mignardise et grâces du language latin: un riconoscimento di amabilità e dolcezza (mignardise) che riprende il giudizio ciceroniano (omnia dulcia dicens). Nel Seicento Molière imitò il Phormio e gli Adelphoe rispettivamente nelle Fourberies de Scapin e nell’ École des maris. Ma già un secolo prima (1579) in Francia un certo Larivey aveva imitato, attraverso un’Aridosia di Lorenzino de’ Medici, gli Adelphoe per contrapporre, in un’opera intitolata Les esprits, diversi modi educativi. Anche in tempi recenti Terenzio è stato visto come un modello di perfezione e di stile. Della traduzione alfieriana abbiamo già detto. In tempi romantici, quindi d’esaltazione della passione, è logico che non si apprezzasse troppo la «freddezza» e la moderazione dei sentimenti di Terenzio. J. La Bruyère, riecheggiando il giudizio di Cesare, lo considera un poeta grande solo a metà, con peculiarità complementari a quelle di Molière: «Una sola cosa è mancata a Terenzio: essere meno freddo. Com’è puro, esatto, levigato, elegante! Che caratteri, i suoi! Una cosa sola è mancata a Molière: evitare il gergo e i barbarismi, scrivere con purezza. Che fuoco! Che candore! Che fonte d’intelligente arguzia! Che imitazione dei costumi! Che immagine e che frusta del ridicolo! Ma quale uomo si sarebbe potuto fare con questi due comici!»8. Alla fine dell’Ottocento uno spirito variamente colto come C.-A. Sainte-Beuve esprime la sua ammirazione così: «Terenzio è il poeta della giovinezza: tutto presso di lui si riporta volentieri ad essa. Le sue scene d’innamorati sono deliziose. Nessuno meglio di lui ha compreso l’incanto dei bisticci e delle rappacificazioni, le tenerezze più vive dopo i furori [...]. Terenzio forma la gioia e la delizia degli spiriti delicati ed equilibrati, che non amano il riso folle, che amano un riso moderato che s’accompagni ai pianti e che non escluda il sorriso». Nel primo Novecento, il masochismo di Menedemo, il padre che punisce se stesso dell’Heautontimorùmenos, rivive nel titolo di un’operetta di Gozzano, il cui titolo, Totò Merùmeni, è storpiatura giocosa di quello terenziano e menandreo: si tratta di una metafora dell’intellettuale moderno, arido, complicato e, appunto, tormentatore di se stesso. Ma è probabile che Gozzano, piuttosto che direttamente a Terenzio, guardasse a Baudelaire, che un cinquantennio prima aveva scritto un componimento intitolato Héautontimorouménos, di analoga tematica: «Io son la piaga e il coltello, / la guancia e la percossa! / Sono la vittima e il boia, / lo slogatore e le ossa! / Sono il vampiro del mio cuore ...» (Les fleurs du mal, 83). In tempi più recenti l’americano Thornton Wilder si è ispirato all’Andria in un suo romanzo, La donna di Andro (1930), dove i temi «edificanti» terenziani sono rivissuti 8. Questa citazione di La Bruyère, come pure quelle seguenti di Sainte-Beuve e di T. Wilder sono tratte da: I. Lana, A. Fellin, Antologia della letteratura latina, Le Annali, Firenze 1965, vol. 1, pp. 267, 268, 366.
Il Romanticismo
Il Novecento
79
ETÀ ARCAICA
80
Plauto e Terenzio
in chiave moderna. In questo breve passo la protagonista ripensa al giovane Panfilo, la cui filantropia si tinge di colori precristiani: «Sono felice perché amo questo Panfilo, Panfilo l’ansioso, Panfilo lo sciocco. Perché qualcuno non sa dirgli che non è necessario soffrire tanto per questa vita? [...] Egli pensa di non riuscire. Pensa che è inadeguato alla vita, ad ogni passo. Lasciate che riposi qualche volta, o voi Olimpici, dall’aver pietà di coloro che soffrono. Lasciate che impari a guardare dall’altra parte. Questo è qualche cosa di nuovo nel mondo, questa preoccupazione per gli inetti e per i naufraghi».