IL ROMANZO Di fronte al tradimento del marito Massimo, colto in flagrante con la cameriera nel retro del suo ristorante, Ly dia trova solo la forza di voltare le spalle e cercare rifugio nel casale di campagna in cui è cresciuta: il rassicurante nido dove ha cominciato a scrivere i romanzi rosa che l’hanno resa popolare come Black Ly dia. Una volta aperta la porta, però, si rende subito conto che c’è qualcosa di strano: le luci sono accese e la tavola è apparecchiata per tre. In un attimo, il tanto amato rifugio diventa una prigione per Ly dia. Tre malviventi si stanno nascondendo nel casale e non sembrano intenzionati a lasciarla andare. Col passare delle ore la situazione si fa sempre più drammatica e imprevedibile e Ly dia potrà contare solo su se stessa per sopravvivere. L’AUTRICE Angela Rosa vive a Roma, ha studiato Storia dell’Arte e si è diplomata in Cinematografia. L’amore per la buona cucina e il mare l’hanno portata anche in Sardegna, dove ha aperto un ristorante. Scrivere e leggere sono le grandi passioni della sua vita. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo romanzo, Interno 11.
La casa segreta dei castagni di Angela Rosa
© 2015 Libromania S.r.l. Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO) www.libromania.net ISBN 978-88-985-6277-0 Prima edizione eBook giugno 2015 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail
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La casa segreta dei castagni
–1–
Ly dia era in macchina da un’ora quando il cellulare squillò. Se lo aspettava anche se negli ultimi minuti non ci aveva più pensato. Il percorso buio e accidentato l’aveva costretta a concentrarsi nella guida, così per qualche istante aveva smesso di rimuginare sul bastardo, e di domandarsi se e quando l’avrebbe chiamata. Afferrò il telefono e dopo una rapida occhiata ebbe la conferma che era lui. Rifiutò la chiamata e gettò il Nokia sul sedile del passeggero. Ormai era quasi arrivata. Poco prima era uscita dall’autostrada e dopo qualche chilometro di provinciale aveva svoltato nella strada che portava alla sua casa di campagna. Lo sterrato, che attraversava per un lungo tratto i campi coltivati, era pieno di buche e grossi sassi. La piccola vettura da città tremava e sussultava in maniera preoccupante. Dopo una discesa oltrepassò il cancello che segnava l’inizio della proprietà, un ferro contorto e arrugginito privo ormai di qualsiasi funzione. Poi il sentiero riprese a salire, la casa si trovava in cima a una collina. E poco dopo la vide: sempre uguale, solida e massiccia, forse un po’ rozza, eppure con un che di elegante. Il passare del tempo l’aveva segnata, ma continuava a dare l’idea di poter restare in piedi con gran disinvoltura ancora qualche secolo. Guidò lentamente nel giardino e fu come attraversare una stanza enorme dai soffitti altissimi, dipinta nei toni del verde scuro e di nero. A terra aveva un tappeto d’edera e foglie secche, per tetto chiome d’alberi maestosi, mentre un groviglio inestricabile di rampicanti, siepi e arbusti costituiva le pareti. Fermò l’auto e spense il motore, ma esitò a scendere. Stava pensando che era la prima volta che arrivava lì a notte fonda. Tutto, intorno a lei, aveva un aspetto piuttosto desolato e tranne qualche grillo, per nulla disturbato dal suo arrivo, un
silenzio feroce dilagava tra le vigne e i frutteti. Mezza luna rendeva il paesaggio appena visibile e, con quella luce, anche la casa che le era tanto familiare appariva lugubre. Si fece coraggio dicendosi che l’indomani, alla luce del sole, le cose avrebbero avuto l’aspetto di sempre. Scese dalla macchina, prese dal bagagliaio la sacca con i vestiti, la borsa con il computer, e portò tutto sotto la veranda. Quando i tacchi risuonarono sull’impiantito di cemento, quasi in contrappunto, un rapace notturno fece sentire la sua presenza. Ly dia immaginò un paio d’occhi tondi incastonati in un piumino tozzo, poi velocemente tornò indietro a recuperare la borsa, sentendosi vulnerabile in quel momento e anche un po’ a disagio. Di tanto in tanto aveva ancora paura del buio. Aprì la porta e, a tentoni, cercò il quadro elettrico per riattaccare la corrente, ma si bloccò con un braccio sospeso nel buio. Annusò l’aria per togliersi ogni dubbio, ma l’odore era inconfondibile: in casa c’era puzza di sigarette. Le sembrò un fatto stranissimo, a cui non riuscì a trovare una spiegazione logica sul momento. Lei fumava di tanto in tanto, però non tornava in quel luogo da tempo, era impossibile che vi fosse rimasta la puzza da allora. Il cuore cominciò a battere più velocemente, mentre la mente, in cerca di una spiegazione razionale, le forniva una fugace visione di Massimo, il bastardo, che si precipitava lì precedendola per chiederle perdono in ginocchio. Intanto che si chiedeva se fosse possibile il suo naso registrò un altro odore... anzi... un profumo delizioso! Ebbe l’istinto di fuggire, di tornare alla macchina e andare via di lì il più velocemente possibile, e se l’avesse fatto, probabilmente non l’avrebbero fermata. Invece si diresse in cucina, un passo dietro l’altro, allibita e timorosa di scoprire altre stranezze, ma decisa a trovare una spiegazione a tutto quello. Superato l’ingresso il timore si rivelò fondato: cominciò a percepire un bagliore. Provò a credere che fosse la luna, ma in quell’antro angusto non c’erano finestre. Eppure intravedeva le pareti dipinte di un verde sbiadito. Seguì quella luce come ipnotizzata, chiedendosi di continuo da dove provenisse. Somigliava alla luce di una candela, tremolava, era giallognola e tenue. Quando arrivò vide che proveniva dal forno. Dunque la corrente c’era, qualcuno l’aveva riattaccata. E il forno non solo era acceso, al suo interno sfrigolava rumorosamente qualcosa che aveva tutta l’aria di un pollo con le patate! A quel punto era sconcertata. Immobile, sulla soglia della cucina, mosse appena la bocca. “Se crede che mangerò con lui...”
Stava cominciando a infuriarsi quando notò qualcosa che la paralizzò del tutto: il tavolo della cucina era apparecchiato. Per tre. Tre? No, tre era decisamente uno di troppo. A meno che lui non fosse venuto lì con qualcuno, ma anche quello le sembrò impossibile. Eppure c’erano tre piatti, tre bicchieri... Cominciò a contare: tre forchette, tre... Il cellulare suonò di nuovo facendola sobbalzare. Tornò sui suoi passi quasi correndo, più per sfuggire agli inquietanti interrogativi della cucina, che per la volontà di rispondere. Raggiunse l’ingresso dove aveva lasciato le sue cose entrando e lì si bloccò di colpo. C’era un uomo. Teneva in mano il suo telefonino, guardava il display , il viso fiocamente illuminato dalla luce che emanava. Rifiutò la chiamata per lei, poi se lo mise in tasca. “Una chiamata persa” disse. Ly dia assurdamente pensò che fosse un amico di suo marito. Di quel viscido. “Dov’è Massimo?” “Adesso arriva” le rispose andandole incontro.
–2–
Massimo Diana si svegliò senza nessuna voglia di andare a lavorare. Quella notte aveva dormito pochissimo. All’una del mattino era tornato a casa, e come aveva temuto sua moglie non c’era. Aveva fatto un altro tentativo di parlare con lei, ma il suo telefono, che prima aveva squillato a vuoto, era diventato irraggiungibile. Dopo essersi spogliato, guardando nell’armadio, si era accorto che mancavano alcuni vestiti. “Cazzo” aveva sibilato tra i denti. Per essere più sicuro aveva aperto il cassetto della biancheria, ma niente da fare: le sue mutandine non c’erano più. Tutte se le era portate via. Merda, aveva pensato. A quel punto si era trascinato in soggiorno, si era seduto sul divano e aveva acceso la televisione. Era rimasto lì finché non si era fatto giorno e solo allora si era sdraiato su un fianco senza spegnere l’apparecchio. Adesso erano le nove passate, tra meno di due ore doveva essere al ristorante. Di non andare al lavoro non se ne parlava neanche. Sul primo, il telegiornale del mattino blaterò le solite notizie: la borsa che crollava, un pirata della strada, una rapina. Anche Massimo fece le cose di sempre: caffè, doccia, barba. Quando fu pronto, prima di uscire provò a richiamarla, anche se non aveva la minima idea di ciò che le avrebbe detto. Più passava il tempo, più diventava difficile trovare una scusa plausibile per ciò che aveva fatto, e qualsiasi tentativo di giustificarsi suonava oramai ridicolo persino alle sue orecchie. Tuttavia doveva parlarle. Avrebbe improvvisato. Mentre passeggiava nell’ingresso aspettando la linea, aprì il cassetto, dove tenevano alcuni mazzi di chiavi. Non ci mise molto ad accorgersi che mancava quello della casa di Orvieto. Comunque il cellulare era ancora spento o irraggiungibile.
Quella domenica mattina la città andava assumendo in pieno i connotati della stagione estiva. I vicoli del centro, dove si trovava lo Janas, erano un via vai confuso di turisti accaldati. In quel periodo si impadronivano di qualunque cosa Roma potesse offrire loro, aggirandosi pigramente in ogni luogo, senza fretta, forse consapevoli dell’impossibilità di visitare tutto ciò che c’era da vedere, accontentandosi semplicemente di esserci. L’appartamento era vicino al ristorante e Massimo vi si avviò distratto, senza neanche accorgersi che stava andando a piedi quando solitamente prendeva la bicicletta. Passò oltre, ignorandola, una caffetteria con i tavoli all’aperto dove spesso si fermava a fare colazione, e poco più avanti non si accorse nemmeno di un mendicante che gli fece tintinnare sotto il naso un bicchiere con gli spiccioli. Lo superò con uno sguardo indifferente. Stava ripensando al giorno prima. La banalità del cliché in cui era caduto, adesso gli appariva quasi sconcertante, e cogliendo per un momento il lato comico della situazione, si figurò il titolo di un giornale immaginario: “Noto ristoratore sorpreso dalla moglie mentre si fa fare un pompino dalla cameriera”. Riflettendoci non era divertente. L’unica frase che continuava a venirgli in mente come una cantilena, era: che figura di merda... che figura di merda... A ogni modo, pensava, non sarebbe giusto se un’azione così puerile avesse delle conseguenze pesanti. Doveva fare qualcosa in proposito, che cavolo! Aveva cinquant’anni suonati, ed era un imprenditore affermato con una moglie giovane e bella, non si sarebbe fatto rovinare la vita da una cosa tanto stupida. Quando arrivò al ristorante era accaldato, ma entrando ebbe subito una piacevole sensazione di fresco. Lo Janas era un locale antico e i muri spessi lo rendevano tiepido in inverno e mai troppo caldo in estate. Non era grande” venti di tavoli al massimo” e proprio per questo aveva un’atmosfera intima molto apprezzata dai clienti. Dell’arredamento si era occupato personalmente, scegliendo ogni dettaglio con cura. Massimo considerava quel ristorante “la sua creatura”. Per prima cosa andò alla scrivania a vedere se c’erano messaggi per lui, ma non trovò nulla,tranne un paio di prenotazioni. Poi guardò la sala deserta e si chiese dove fossero tutti. Infilò la testa nella porta della cucina e vide cuoco e cameriere che chiacchieravano. “Massì, in sala non c’è nessuno, se entra qualcuno...” scambiò un cenno di saluto col cuoco e richiuse la porta. Dopo restò fermo a riflettere. Guardò l’ora e giudicò che fosse ancora abbastanza presto. Intanto il cameriere l’aveva
raggiunto e si era messo ad apparecchiare. “Vado via per una mezz’ora” gli disse senza preavviso. Massimiliano annuì. Alto e dinoccolato, teneva tra le mani una quantità di forchette e coltelli che posizionava con cura sui tavoli. “Ah, ha chiamato Maggie, prima. Dice che sta male e non viene a lavorare.” Massimo rimase perplesso. Fu sul punto di chiedere spiegazioni, ma poi rinunciò. “Va bene, ti aiuto io oggi, non ti preoccupare.” “E chi si preoccupa.” Fatto qualche passo, si voltò. “Quando ha chiamato?” “Dieci minuti fa.” Solo a quel punto si diresse alla porta. La parete vicino all’entrata era tappezzata di fotografie e ritagli di giornale incorniciati: ritratti di persone famose che avevano mangiato allo Janas. Massimo si era fatto fare dediche e autografi, cedendo a quel pizzico di vanità e ostentazione in cui indulgevano molti proprietari di ristoranti. La sua era una discreta collezione, di cui andava molto fiero. Uscendo diede un’occhiata alla foto di sua moglie. L’avevano ripresa in una posa simpatica mentre mangiava, ma a lei quella foto non era mai piaciuta. Forse per questo l’aveva autografata senza aggiungere una dedica. Massimo andò in cerca di un suo amico poliziotto, nonostante sapesse che raramente stava nel suo ufficio. Ma era disposto a fare quel tentativo. Aveva bisogno di parlare con qualcuno e non gli veniva in mente nessuno che fosse meglio di Gianni. Il commissariato era anche a pochi metri da lì, il che non guastava. Avrebbe potuto raggiungerlo a occhi bendati. A metà tragitto, nonostante si fosse sforzato, non era ancora riuscito a togliersi dalla testa la storia di Maggie che stava male, e improvvisamente, seguendo un impulso, le telefonò. Gli rispose al primo squillo. “Ciao!” fece sorpresa. “Ti hanno detto che ho chiamato?” “Già. Come stai?” “Mal di testa terribile e nausea. Tu invece?” “Così... ho dormito poco...” già non sapeva cosa diavolo dirle. “Vado avanti a caffè.”
Maggie restò in silenzio. Esitò. Poi la fece, la domanda inevitabile: “Tua moglie?” “Oddio, mica lo so se è ancora mia moglie” scherzò. E dopo qualche secondo: “Maggie, senti...” “Vieni a trovarmi più tardi?” Là. Così. Senza tanti giri di parole. Massimo non se l’aspettava. “Così ne parliamo” continuò. “Prometto di rimettermi in sesto e di farti un sacco di caffè.” Sorrideva. Cercava di invogliarlo. Con dosi massicce di caffeina? “Sei carina...” Non sapeva cosa risponderle. Un invito a casa era allettante e nello stesso tempo complicava le cose. Mentre ci pensava, con la coda dell’occhio vide Gianni scendere da una macchina; ne approfittò per dirle che l’avrebbe richiamata. L’ispettore si avvicinò sorridendo, con gli occhi pesti di chi non dorme da troppe ore e i capelli un po’ lunghi tutti arruffati. Giacca sportiva, stivali da motociclista, un orecchino al lobo sinistro. Più che un poliziotto sembrava uno dell’altra parte della barricata. O uno sfacciato play boy. Del resto, un certo ascendente sul genere femminile, il poliziotto ce l’aveva eccome. Le donne si intenerivano e nello stesso tempo si sentivano minacciate: miscela letale. Massimo gli disse che cercava proprio lui. “Com’è?” “Niente. Poi ti dico.” Gianni fece una smorfia. “C’hai una faccia, chef... Senti, salgo un attimo, devo fare una cosa veloce e poi sono libero. Mi aspetti?” L’altro guardò l’orologio. “Non ho molto tempo.” “Ci metto un secondo, promesso.” Fu di parola, tornò poco dopo. Raggiunsero lo Janas e si sedettero a un tavolo in un angolo. Massimiliano aveva finito di sistemare le posate e in quel momento era alle prese con alcune decorazioni. Al centro di ogni tavolo stava mettendo un minuscolo
vasetto con un bocciolo di tulipano. Massimo gli chiese di portare due caffè e mentre aspettavano iniziò a parlare. Prima si passò una mano tra i capelli grigi. Anche se controvoglia aveva smesso di tingerli, Ly dia gli aveva detto di detestare gli uomini con i capelli colorati. “Ho combinato un guaio” disse. Gianni sospirò, forse presagendo di che si trattava. Lo conosceva da sette anni, cioè da quando aveva rilevato il ristorante dal vecchio proprietario. Era diventato un cliente fisso, a volte mangiava lì con dei colleghi, ma più spesso da solo. In un primo momento aveva pensato che Massimo fosse gentile con lui solo perché era un poliziotto, ma col tempo si erano affezionati l’uno all’altro ed erano diventati buoni amici. Nonostante fosse il più giovane dei due, Gianni era più saggio, il lavoro l’aveva reso prudente, ed era riflessivo di natura. Massimo gli parlava dei suoi problemi, trovando conforto nella calma che sapeva trasmettergli. Per lo più c’erano state grane con qualche donna sposata e in un’occasione l’ispettore aveva persino usato la sua autorità per sistemare una faccenda complicata. Da quando si era messo con Ly dia, però, era filato tutto liscio. Arrivarono i caffè. Massimo aspettò che il cameriere si allontanasse e proseguì. “Ho litigato con Ly dia.” Gianni stava soffiando dentro la tazzina. La riappoggiò subito sul piattino, improvvisamente attento. “Cioè, non è che abbiamo proprio litigato... Se n’è andata di casa.” Il cuore del poliziotto prese a battere leggermente più forte. “È successo ieri, qui al locale. Mi ha beccato con un’altra.” Ci risiamo, pensò. “Con chi?” “La cameriera nuova.” “La biondina?” Massimo annuì. “Dai. Ma che avrà, vent’anni?” Strinse nelle spalle. “Mi pare ventitré” si fermò. Sembrava non sapesse come andare avanti. In effetti si vergognava un po’, di quello che aveva fatto, persino con l’amico. Ma Gianni era impaziente. “Vi baciavate?” “No, magari” sorrise debolmente scuotendo la testa. “Peggio, molto peggio.”
L’ispettore aspettò con le sopracciglia inarcate. “Mi faceva...” pollice verso indicando sotto il tavolo. “Uno di quelli... hai capito, dai.” Mentre Gianni sgranava gli occhi stupefatto, Massimo ne approfittò per guardare fuori, nella strada assolata. La scalinata della chiesa di fronte era gremita di ragazzi con degli zaini, in maglietta e calzoncini corti. Pensò che il prete non sarebbe stato contento se fossero entrati con quell’abbigliamento. Stettero in silenzio, finché Gianni non sentì il bisogno di muoversi. “Voglio fumare” disse. “Vieni in ufficio.” L’ufficio, come veniva pretenziosamente chiamato, era uno sgabuzzino senza finestre sul retro del locale. Appena dentro Gianni si accese una sigaretta. Massimo, invece, girò intorno alla scrivania ingombra di fatture bollette e libri contabili per sedersi su una poltrona girevole. Ovunque regnava una gran confusione. In un angolo c’erano delle casse impilate piene di bottiglie di birra vuote. Più in là, uno scopettone con il secchio per lavare il pavimento, era colmo di acqua sporca. Sopra a uno schedario, un tostapane rotto, e accanto una macchinetta per fare il caffè. Il calendario di una farmacia, scarabocchiato di appunti a matita, stava appeso in solitudine su una parete bianca. “Stavo seduto qui” cominciò “era prima del lavoro, saranno state le sette. Maggie è entrata, e guarda... non so dirti nemmeno io come ci siamo arrivati. Mi ha sempre attizzato parecchio, lei lo aveva capito e mi faceva capire che non le dispiaceva. Sta di fatto che a un certo punto me l’ha tirato fuori e ha cominciato. Ci siamo fatti prendere la mano. Poi è entrata Ly dia.” L’ispettore fumava e ascoltava, in piedi appoggiato alla parete. “Perché cazzo è passata al locale non lo so!” sbottò. “Ma che ha fatto quando t’ha visto?” “Niente. Non ha detto e non ha fatto niente, se ne è andata e basta, sai com’è... Da allora non l’ho più vista né sentita. Credo che sia andata nella sua casa di campagna.” “Ma non l’hai inseguita?” “No, e come facevo? Era sabato sera, non potevo andarmene, avevo il locale tutto prenotato. Pure Maggie è andata via.” “L’hai almeno chiamata?”
L’espressione del volto disse: per chi mi hai preso? “Ci ho provato. Prima non mi rispondeva, adesso ce l’ha sempre spento... E poi cosa le dico, dimmi? Non lo so neanch’io quello che devo fare.” Assunse un tono lamentoso: “Queste cose non si aggiustano, Gianni, non si aggiustano più. Uno ci può anche provare, ma è difficile. Con una come Ly dia, poi...” scosse la testa. “Mi pare di capire che non ci vuoi nemmeno provare.” “Ma sì che ci provo. Tu però non la conosci, non sai quant’è rigida su certe cose.” Il poliziotto si fece incredulo. “Rigida? Cazzo, siete sposati da un anno, ti fai beccare con una ragazzina, e il problema secondo te è che Ly dia è rigida?” Rimasero in silenzio per un pezzo. Gianni aspettando che l’amico replicasse in qualche modo, si accese un’altra sigaretta, aggiungendo altro fumo alla nebbia che già aveva invaso l’ufficio. “Forse, oggi, mi vedo con Maggie” disse Massimo di punto in bianco. L’ispettore sentì la sua voce di senza vederlo bene in faccia, avvolto com’era in una nube di fumo. Il suo primo istinto fu di dirgli che era pazzo. Quella frase suonò del tutto assurda alle sue orecchie, specialmente detta in quel momento e con un tono così naturale. Se poi pensava a Ly dia e la paragonava a quella cameriera, non poteva fare a meno di pensare che al suo amico fosse andata qualche rotella fuori posto. Tuttavia represse il primo impulso. Cercò di farlo ragionare. “Senti, sono stanco morto, ho fatto la notte. E tu pure c’hai una faccia da cadavere. Riposiamoci e parliamone più tardi, che ne dici? Quella Meg, lì, come si chiama...” “Maggie.” “... mica scappa.” Sorrise. “Si fa chiamare così, ma non è il suo vero nome, in realtà si chiama Immacolata. Buffo, no?” “Sì. Buffissimo.” Massimo ignorò il sarcasmo e si alzò per accompagnarlo all’uscita. Sul marciapiede, sebbene fossero all’ombra di una cappottina, il caldo era soffocante. Gianni gettò la sigaretta fumata a metà e la schiacciò con la punta dello stivale riducendola in briciole. “Credevo fossi innamorato di Ly dia.” È per questo che te l’ho lasciata, idiota. L’altro sembrò riflettere. Guardò la vetrina del locale, il vetro gli trasmise solamente il riflesso della sua figura. In quel momento diede l’impressione di essere
davvero molto stanco. Stava pensando al lavoro, di lì a poco sarebbero arrivati i primi clienti. Quando rispose, aveva la testa già da un’altra parte. “Cercherò di riprendermela, Gianni. Ma non oggi.” Mentre l’ispettore andava a prendere la moto, non poté fare a meno di pensare che forse aveva fatto male a mollare. In fondo Ly dia l’aveva vista lui per primo. Quando era entrata nel ristorante, l’aveva notata subito, ma stava mangiando con il vicecommissario, e non aveva potuto mettersi a fare il cretino con lei, cosa che invece aveva fatto Massimo, non appena si era seduta al tavolo con la sua amica. Con un senso di impotenza e di fastidio l’aveva guardato ronzare intorno alle due donne, ma soprattutto aveva osservato lei, pensando di non aver mai visto una ragazza tanto seducente. Sorrideva spesso, con un’aria maliziosa e timida nello stesso tempo. Un paio di volte ne aveva incrociato gli occhi, ma lei li aveva sempre distolti, e proprio per questo era sicuro che si fosse accorta di lui. “Chi era quella?” aveva chiesto poi. “Chi?” Massimo era sempre distratto. “La mora che stava con l’amica. Quella con i capelli più corti.” “Ah, non lo so. Volevo offrirle il pranzo, ma non ha voluto. Però spero che torni, ha qualcosa quella tipa... l’hai notato anche tu?” Cinque settimane più tardi gliel’aveva presentata come la sua fidanzata. “Non gli creda, non siamo fidanzati” aveva minimizzato lei ridendo. “Ti ho chiesto o no di sposarmi?” “Ma io ho risposto di no!” Sei mesi dopo l’aveva persuasa. Gianni non era andato al matrimonio, perché in quel periodo stava lavorando a un caso difficile. Qualche volta era andato a cena a casa loro, a notte fonda (nonostante facessero due lavori molto diversi, Gianni e Massimo avevano gli stessi strani orari per mangiare), ma poi aveva lasciato perdere, rifiutando gli inviti con delle scuse, perché quando la vedeva non riusciva a smettere di pensare a cosa avrebbe provato nel baciare, almeno una volta, la moglie del suo amico. Era sicuro che Massimo non si fosse accorto di niente, ma non avrebbe potuto dire la stessa cosa di Ly dia, che in effetti qualcosa aveva capito. Dopo aver smesso di frequentarli, un pomeriggio, lei gli aveva telefonato per
chiedergli un appuntamento, pregandolo di non farne parola con Massimo. Lui aveva accettato di corsa, impacciato, senza sapere cosa dire, né come comportarsi, ma pieno di trepidazione. Si erano visti al commissariato e Ly dia gli aveva spiegato subito il motivo del loro incontro, così venne chiarito come mai avesse scelto un luogo tanto poco romantico: si accingeva a scrivere un romanzo, e siccome era una sorta di giallo, aveva bisogno di sapere più cose possibili sulle tecniche investigative della polizia. “Così ho pensato a te. Chi meglio di lui, mi sono detta?” gli aveva spiegato con un sorriso smagliante. Gianni l’aveva guardata cercando di non farle capire quanto si sentisse stupido in quel momento. “Se però non puoi, o per qualsiasi motivo pensi che sarebbe meglio non vederci, ti capisco. Non me la prenderò.” Quella frase allusiva non gli era sfuggita. “Non è che finisco nel tuo libro?” “Ti dispiacerebbe?” “Non ci tengo affatto” intanto pensava. Non sapeva cosa rispondere, prendeva tempo. Alla fine le aveva detto di no, spiegando di essere in un brutto momento e di non avere mai un minuto libero. Una settimana dopo, però, ci aveva ripensato e l’aveva richiamata. Erano stati incontri clandestini, i loro, perché Ly dia non aveva detto a nessuno quello che stava facendo, neanche a suo marito, e Gianni si era sentito strano nel vederla di nascosto per poi parlarle di come si interroga un sospettato, o delle armi che aveva in dotazione. Solo una volta che non si erano incontrati in ufficio, ma in un bar per mangiare un panino, le aveva domandato come stava andando il matrimonio. “Bene” aveva risposto lei. “Essere sposata mi fa ancora uno strano effetto, mi ci devo abituare, credo... Non era una cosa che avevo previsto. Massimo è entrato nella mia vita come un terremoto... l’ha stravolta” aveva fatto una pausa diventando pensierosa. “Nessuno era mai riuscito a farlo, prima.” Gianni aveva annuito. Subito dopo le aveva chiesto se sapeva cosa fosse la balistica.