L aS i n i s t r a i v i s t a
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale N.4 – APRILE 2014 ISSN 2282-‐3808 Direttore responsabile: Alfonso Marino Vice-‐direttore: Marco Armiero Redazione: Carlo Verdino Luogo di pubblicazione: Napoli/Italia -‐ Editore e proprietà: Associazione Transeuropa Piazza Carolina 10, 80132 Napoli (IT) Presidente: Marcello Chessa
INDICE EuroMemo Group. European Economists for an Alternative Economic Policy in Europe ………………………………………………………………………….………………………. pag. 3 Francesco Vignarca. Europa senza pace …………………………….……………..….… pag. 7 Francesco Garibaldo. L’Europa e l’industria ……………………………………....... pag. 10
Enrico Beniamino De Notaris -‐psichiatra. Leda Marino -‐ studentessa in psicologia. Il paradosso tautologico degli errori degli ebrei erranti ………………….…. pag. 18 Enric Llopis. La maggioranza delle rivoluzioni ha avuto come origine il peso del debito come detonatore …………………………………………………………………….… pag. 29 Steve Early. Salviamo i nostri Sindacati. Coraggio di lottare, coraggio di vincere? …………………………….……………….. pag. 35
André Sapir. France and Germany must both change economic strategy.
More balanced strategy is crucial to help peripheral countries and ensure the sustainability of the euro area ……………………………………………………………. pag. 45 Alfonso Marino. Elezioni, Europa: lo spettacolo della crescita, il PIL, i PIGS. Che
sarà della mia vita, chi lo sa? ……………………………………..………………………... pag. 46 Stefania Barca. Taranto: another 1ST of may is possible… on the right to be environmentalist ..……………………………………………………….………………….….. pag. 58
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EuroMemo Group. L’ Europa divisa. Un’alternativa radicale alle politiche dell'Unione Europea. EuroMemorandum 2014. SINTESI Introduzione L'Unione Europea (UE) è in condizioni di uscire dalla recessione, ma alcune parti d'Europa sono ancora in depressione; la disoccupazione è particolarmente elevata nei paesi periferici della zona euro e non dovrebbe ridursi sensibilmente nel prossimo futuro. Le pesanti politiche di austerità hanno generato una profonda polarizzazione sociale in Europa e hanno indotto un processo di ristrutturazione industriale in cui si è rafforzata la posizione della Germania e degli altri paesi del Nord, mentre si è indebolita la posizione produttiva dell’Europa meridionale. La crisi ha determinato anche una significativa trasformazione della distribuzione del reddito. Nella maggior parte dei paesi esterna al “core” dell'area dell'euro i salari reali sono diminuiti, in maniera più intensa nella periferia dell'area dell'euro e in gran parte dell'Europa orientale. Allo stesso tempo, la gerarchia tra gli stati membri è mutata, con la posizione della Germania e degli altri Stati del Nord che si è rafforzata, mentre la posizione degli Stati del Sud si è indebolita e in ampi settori la politica economica di Bruxelles è quella che vale in realtà. Le attività della Commissione europea sono sempre caratterizzate da un grave deficit democratico e da una mancanza di trasparenza. Decisioni chiave sono prese in riunioni a porte chiuse senza dover rispondere ai parlamenti nazionali o al Parlamento europeo, dove potenti lobbies possono esercitare notevole influenza. In un certo numero di paesi i partiti di destra -‐ in alcuni paesi raggruppamenti neo-‐fascisti -‐ sono stati in grado di capitalizzare la diffusa disaffezione nei confronti dell'Unione europea e delle politiche che Bruxelles impone agli Stati membri. 1. Politica fiscale e monetaria La recessione economica nell'UE è in via di soluzione ma la produzione è ancora al di sotto dei livelli del 2008 e la situazione è nettamente caratterizzata in molti paesi da elevata disoccupazione e da riduzione dei salari reali. La fase acuta della crisi finanziaria è stata superata, ma il sistema finanziario resta molto fragile e le banche hanno nel 2013 ancora ridotto i prestiti. Le politiche fiscali fortemente restrittive imposte a molti Stati membri ha reso ancora più difficile soddisfare i rigorosi obiettivi di contenimento del deficit. Mentre la BCE ha stabilizzato le banche con circa 1.000 mld di euro con prestiti triennali in incondizionati, continua ad essere vietato il credito ai governi. Dato la rigida adesione dell'UE ai principi neoclassici, sono i salari che devono sostenere l’intero peso dell’aggiustamento. I salari reali stanno registrando una contrazione in alcuni paesi, e ciò sta sostenendo le pressioni deflazionistiche che stanno dilagando in gran parte dell'Europa. Piuttosto che ricorrere a maggiore austerità, la politica del governo dovrebbe concentrarsi su iniziative di sostegno dell'occupazione per promuovere la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente desiderabili. L'impatto regressivo dei tagli alla spesa pubblica dovrebbe essere
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evitato e andrebbe rafforzata l’istruzione pubblica e la sanità. Andrebbero finanziari maggiori livelli di spesa invertendo la tendenza degli ultimi 20 anni di continui tagli delle imposte. Il bilancio europeo deve tendere al 5% del PIL dell'UE in modo da avere un impatto significativo sulla produzione e sull'occupazione. Il finanziamento dei disavanzi pubblici andrebbe mutualizzato attraverso l'emissione di obbligazioni in euro emesse dall’insieme dei paesi in modo che la speculazione non possa concentrarsi sui paesi più deboli. L’attuale situazione del debito pubblico in diversi Stati membri non è sostenibile; il debito non può essere completamente rimborsato per cui andrebbe sottoposto ad un audit per determinare quali debiti sono legittimi e quali dovrebbero essere annullati. La pressante compressione dei salari andrebbe sostituita da una più diffusa contrattazione collettiva. Un aumento regolato dei salari può contribuire al superamento della debolezza della domanda interna in Europa oltre a garantire una maggiore giustizia sociale. Al fine di combattere la disoccupazione e creare condizioni in cui la vita delle persone non siano dominati dal lavoro salariato, la settimana lavorativa normale andrebbe riportata verso le 30 ore senza perdita di retribuzione. 2. Politica finanziaria e bancaria Cinque anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, la crisi finanziaria e bancaria dell’UE non è ancora risolta. Nella maggior parte dei paesi dell'Unione, il sistema bancario si presenta ancora fragile, nonostante l'enorme quantità di liquidità fornita dalla BCE. La situazione del settore bancario è molto critica in alcuni paesi come la Spagna. A metà del 2012, la Commissione ha proposto la Banking Union (BU) come un nuovo progetto europeo per risolvere la crisi. A dispetto della sua struttura ambiziosa, la BU non cambia il paradigma dominante del settore bancario in Europa. Le riforme proposte dal rapporto Liikanen sul sistema bancaria rafforzano il ruolo delle banche universali nella UE, invece di spingere per una rigida separazione tra retail banking e investment banking. Le riforme sollevano anche interrogativi sulla democrazia e la governance nell'Unione europea in quanto aumentano il ruolo della BCE, che diviene il meccanismo unico di vigilanza sulle banche. Nonostante la BCE sia in parte responsabile per la profonda crisi del debito sovrano nella zona euro, in quanto si rifiuta di prestare direttamente ai governi sul mercato primario. La lentezza e la debolezza delle riforme finanziarie è stata aggravata dalla forte influenza che la lobby finanziaria è riuscita a contrastare una regolamentazione efficace. Le istituzioni europee dovrebbero perseguire con chiarezza l’obiettivo di ridurre il peso della finanza nell'economia. Le attività speculative dovrebbero essere vietate. Le banche commerciali devono essere isolate dai mercati finanziari e dovrebbero concentrarsi sul proprio core business: il credito al settore non finanziario. La direttiva sulla Financial Transactions Tax proposta dalla Commissione deve essere rapidamente attuata. La BCE dovrebbe essere sottoposta ad un effettivo controllo democratico e dare priorità agli obiettivi sociali ed ecologici. 3. La governance nell'UE L'entrata in vigore del Trattato di stabilizzazione, coordinamento e governance e la direttiva 'Two Pack' segnalano che la politica economica nei paesi della zona euro è ora assoggettata al pieno controllo centrale. Anche se i poteri dei parlamenti degli stati membri sulla politica economica sono stati radicalmente ridotti, non vi è alcun corrispondente aumento dei poteri del Parlamento 4
europeo. La moltiplicazione dei rozzi vincoli aritmetici sulla spesa pubblica e sull'indebitamento è probabile che sia tanto poco funzionale in futuro quanto analoghe esercitazioni lo sono state quasi sempre in passato. Queste regole semplicistiche esprimono una sfiducia per le democrazia e una sovrastima della capacità dei processi di mercato di stabilizzare la vita economica. La retorica della competitività utilizzata dai leader europei per giustificare sia l’impostazione restrittiva della politica economica, sia la incalzante pressione sugli Stati membri più deboli ha anche la funzione di limitare il controllo democratico sull'economia. Le restrizioni legali in materia di politica economica sono ormai così pesanti che efficaci politiche alternative impongono sia l'abrogazione delle nuove misure di governance che il loro esplicito assoggettamento alle altre priorità, l'occupazione, la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale. 4. L’imposizione fiscale La rilevanza economica e politica dell’imposizione fiscale è diventata sempre più evidente da quando la crisi in Europa ha inciso con più forza sulle finanze della maggior parte degli Stati membri e quindi la vita dei loro cittadini. I gruppi di difesa globali e regionali che si occupano di questioni di giustizia in materia di fiscalità e di questioni fiscali, hanno un seguito crescente all'interno delle società civili europee, rafforzate dalla denuncia di una diffusa evasione fiscale da parte delle multinazionali e dei ricchi. In risposta sia alla crescente indignazione dei cittadini europei per l’evasione su scala industriale degli obblighi fiscali e per l'emorragia delle entrate pubbliche a causa della recessione e della stagnazione, i governi europei hanno dato maggiore enfasi al contrasto dell'evasione fiscale e dalla “concorrenza fiscale sleale”. La Commissione europea, con il forte incoraggiamento del Parlamento europeo, ha approvato una serie di riforme fiscali volte ad accrescere la trasparenza delle relazioni fiscali transfrontaliere. Queste riforme comprendono lo scambio di informazioni secondo la Direttiva europea sul Risparmio fiscale, l'istituzione di una base imponibile consolidata comune e, all'interno dell'area dell'euro, una imposta sulle transazioni finanziarie. Mentre tali iniziative sono le benvenute nel confuso panorama dei sistemi fiscali europei, esse saranno insufficienti a porre termine alle politiche fiscali ‘beggar – thy -‐ neighbor’ (scaricare le difficoltà sui vicini) che sono proseguite durante la crisi attuale e che certamente non contribuiranno ad una inversione di tendenza nella crescita delle disuguaglianze di reddito e della povertà in Europa. Solo una radicale armonizzazione delle imposte dirette basata sulla loro progressività che interessi tutti gli Stati membri, la rimozione dei regimi di fiscalità “piatta” nell’Europa centrale e orientale e la convergenza delle aliquote fiscali a livello europeo potranno garantire la sopravvivenza di una cultura della solidarietà sociale nella regione. 5. Occupazione e politica sociale La crisi finanziaria ed economica ha avuto un impatto sociale profondamente regressivo per molte persone in Europa per l’alto tasso di disoccupazione, la povertà e per molti giovani la perdita di un futuro. Secondo gli ultimi dati, nell’UE un quarto della popolazione europea è in condizioni di povertà e un ottavo della sua forza lavoro è disoccupata. I livelli di disoccupazione
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giovanile sono particolarmente inquietanti: per l'intera UE è uno su quattro, mentre nei paesi colpiti dalla crisi del sud come Grecia, Spagna e Italia si sale a uno su due o uno su tre. L'elevata disoccupazione e la povertà hanno indebolito la posizione negoziale della forza lavoro nei confronti dei datori di lavoro e questo si è riflesso in condizioni di lavoro più precarie: uno su cinque contratti nell'Unione europea sono a tempo determinato e i lavori a orario ridotto e a part-‐ time involontario sono aumentati dall'inizio della crisi. La risposta UE non è riuscita a fornire le risorse per attenuare l'impatto della povertà e della disoccupazione giovanile. Le sue stesse istituzioni, quale la DG per l’occupazione, gli affari sociali e l'inclusione, non sono state in grado di monitorare e sostenere gli Stati membri che si vivono una sempre più profonda crisi economica e sociale. Le istituzioni dell'UE dovrebbero, come misura immediata, valutare l'impatto sociale causato dai tagli alla spesa che essa ha imposto agli Stati membri. Essa dovrebbe quindi fornire un sostegno nei settori chiave, in particolare per l'assistenza sanitaria, e assicurare il necessario supporto per bambini e giovani che stanno subendo il peso della disoccupazione e della povertà. Per proteggere la popolazione attiva dalla crescente ondata di condizioni di lavoro precarie, i sussidi dei programmi di assicurazione sociale dovrebbero essere estesi con urgenza a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro tipo di contratto. L'UE dovrebbe inoltre avviare iniziative legislative per adeguare la legislazione del lavoro europea in linea con un mercato del lavoro in rapida evoluzione. 6. La politica industriale L'urgenza di una politica industriale in Europa comincia ad essere riconosciuta dalla Commissione Europea. Ma le sue proposte restano confinati al quadro ristretto della politica di concorrenza orientata esclusivamente agli obiettivi di performance a breve termine del mercato. Si rende necessaria una alternativa capace di collegare l'obiettivo di performance industriale a lungo termine con l’interesse per una trasformazione socio-‐ecologica. Questo dovrebbe coinvolgere sei grandi dimensioni: (1) a livello europeo, un piano di investimenti pubblici per la ricostruzione socio-‐ecologica al fine di stimolare la domanda europea, (2) una inversione di tendenza rispetto alla grave perdita di capacità industriale in Europa, (3) l'urgente riorientamento verso nuove attività ambientalmente sostenibili, a conoscenza intensiva, ad elevata competenza e salario, (4) il rovesciamento della politica di intense privatizzazioni degli ultimi decenni e un intervento pubblico a sostegno di nuove attività a livello comunitario, nazionale, regionale e locale; (5) l'impostazione di un diverso tipo di “sicurezza” in termini di disarmo, di maggiore coesione e di minori squilibri all'interno dell'UE e dei singoli paesi, e (6) la creazione di un nuovo importante strumento di politica per la trasformazione ecologica dell'Europa. Le attività specifiche che potrebbero essere coinvolte da questa nuova politica industriale comprendono: (a) la tutela dell'ambiente e delle energie rinnovabili, (b) la produzione e la diffusione delle conoscenze, le applicazioni delle TIC e le attività di web-‐based, (c) i servizi alla salute, al benessere e alle attività di cura, (d) il sostegno alle iniziative per dare soluzioni socialmente ed ecologicamente sostenibili alle questioni alimentari, mobilità, edilizia, energia, acqua e rifiuti. 7. Il partenariato UE-‐USA nel commercio e negli investimenti transatlantici 6
Negli ultimi anni l'Unione europea ha negoziato numerosi accordi commerciali bilaterali. Questo è stato superato dall’annuncio nei primi mesi del 2013 che l'UE e gli USA avevano deciso di avviare negoziati per un accordo commerciale bilaterale, il cosiddetto Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). L'accordo proposto non è destinato solo a ridurre le tariffe tra i due maggiori blocchi commerciali dell'economia mondiale, ma il suo scopo primario è quello di smantellare e/o armonizzare le normative in settori quali l'agricoltura, la sicurezza alimentare, gli standard tecnici dei prodotti, i servizi finanziari, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e gli appalti pubblici. Questione centrale sarà anche la liberalizzazione e la protezione degli investimenti. La Commissione europea, sulla base di studi prodotti, sostiene che l'accordo promuoverà la crescita e l'occupazione nell'Unione europea. Gli effetti economici del TTIP sono, tuttavia, insignificanti. I guadagni in termini di reddito sono stimati a meno dell'1% del PIL dell'UE e saranno realizzati gradualmente nel corso di un decennio. L’aumento dei costi in termini di disoccupazione e dell’adattamento alla liberalizzazione del commercio sono sottovalutati o trascurati del tutto. La deregolamentazione prevista dall’accordo commerciale minaccia la salute pubblica, i diritti del lavoro e la tutela dei consumatori. La soluzione proposta per regolare le controversia investitore-‐ Stato privilegia i diritti degli investitori a scapito dell’autonomia della politica pubblica. Il TTIP non è altro che un attacco frontale al processo decisionale democratico nell'UE. Sono urgenti delle necessarie e profonde revisioni nell’agenda dei negoziati. Al momento, è molto dubbio se l'accordo commerciale produrrà dei benefici netti, economici e sociali, per i cittadini europei. Una valutazione dell'impatto globale attraverso dettagliati studi sulle molte questioni critiche e una rottura radicale con la mancanza di trasparenza che le caratterizza sono i primi passi essenziali per il necessario dibattito democratico sul TTIP. Traduzione a cura di sbilanciamoci.info. Il testo della sintesi italiana e il rapporto Euromemorandum 2014 nella versione inglese sono scaricabile dal sito http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Le-‐ alternative-‐per-‐un-‐altra-‐Europa-‐21363. La traduzione italiana uscirà presto come e-‐book per la serie Gli Sbilibri.
The full text of the EuroMemorandum draws on discussions and papers presented at the 19th Workshop on Alternative Economic Policy in Europe, organised by the EuroMemo Group, from 20-‐ 22 September 2013 in London. If you wish to receive the full text of the EuroMemorandum 2014. The deepening divisions in Europe and the need for a radical alternative to EU policies please send and email to
[email protected]. For more information on the EuroMemo Group, please contact us or look up our website at: www.euromemo.eu
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Europa senza pace di Francesco Vignarca -‐ coordinatore nazionale rete per il disarmo
Nel cammino di lavoro che attende i movimenti disarmisti e pacifisti credo che la tappa europea sia ineludibile e fondamentale. In tale passaggio una riflessione profonda sulla possibilità di una difesa comune delle nazioni facenti parte dell'Unione è cruciale. A prima vista ciò potrebbe apparire anche un po' strano: come mai dei movimenti che si richiamano alla nonviolenza e a un disarmo complessivo (con prospettiva di eliminazione degli eserciti) dovrebbero cercare di razionalizzare e rendere più efficace la risposta armata europea? Qualcuno potrebbe obiettare e chiedermi un motivo sensato del perché, in definitiva, dovremmo spostarci dalla nostra posizione che chiede un'eliminazione completa delle armi. La considerazione che ci deve indurre a fare questo passo deriva da un'analisi dei processi storici: nessuna trasformazione si può realizzare con immediatezza e per tutto, soprattutto per le cose più importanti, c'è ovviamente bisogno di un percorso di trasformazione. Certo bisogna stare attenti, perché il rischio di diventare solo strumentali e funzionali a una miglioramento di efficacia di una risposta ai problemi del mondo che non ci piace e sempre dietro l'angolo. D'altro canto arroccarsi solo in posizioni ideali che non possono giocarsi nella concretezza quotidiana e fattiva delle trasformazioni sociali rischia di essere altrettanto, se non peggio, inefficace. In questa fase storica solo allargando la base di sostegno le nostre proposte, quindi cercando questo sostegno anche al di fuori di chi parte da una posizione vicina, possiamo provare ad avere un minimo di successo. Nell'ottica dunque di un "transarmo" che porti al disarmo completo che è nei nostri sogni l'unificazione anche europea della difesa può essere davvero un passo decisivo. Partendo da questa prospettiva, criticabile ma che mi pare avere un certo senso, ritengo essere due le direttrici per le quali uno sforzo anche del mondo della nonviolenza verso una ridefinizione della difesa militare europea possa essere sensato ed importante. Da un lato c'è ovviamente la questione finanziaria ed economica: in questo periodo di crisi una razionalizzazione comune in seno all'Unione Europea delle risorse utilizzabili per la difesa di stampo classico potrebbe comportare un ritorno molto importante. Abbiamo già notato in altri lavori come siano gli stessi think tank "mainstream" a sottolineare questa opportunità. Secondo un recente rapporto Bertelsmann Stiftung (“The Fiscal Added value of Integrated European Land Force”) ridurre anche solo di un terzo il numero dei soldati pronti a partire in missione da parte di tutti gli eserciti europei comporterebbe un immediato risparmio di circa 9 miliardi di euro di spesa complessiva. Un'altra recente ricerca, condotta dallo IAI (Istituto Affari Internazionali) e dal titolo “I costi della non-‐Europa della difesa”, ha invece mostrato come un percorso di razionalizzazione dell’esercito europeo verso un’unica forza avente i medesimi livelli di standard ed efficienza delle Forze Armate 8
USA (prese come punto di riferimento operativo-‐militare) permetterebbe un risparmio fino ad anche 120 miliardi di euro complessivi (di cui fino ai 14 per la sola Italia). Numeri certamente non banali e che possono avere un senso più ampio del mero conteggio contabile, anche agli occhi di chi ipotizza un percorso diverso di difesa. Che sempre di più deve diventare una parola da "recuperare" e non lasciare al solo ambito militare. Non dobbiamo contribuire a pensare che "Difesa" significhi in automatico forze armate ed intervento di matrice violenta. Oggi noi pensiamo che il miglior modo di difendere i cittadini e le cittadine, anche quelli europei ovviamente, sia potenziare maggiormente gli investimenti che garantiscono davvero la preservazione ed il miglioramento della loro vita. Sono quindi le politiche di salute, istruzione, lavoro, welfare ad essere l'orizzonte di difesa che dobbiamo valorizzare e costruire. E lo si fa meglio con maggiori fondi a disposizione… Per cui, riprendendo le stime del Global Peace Index elaborato dall’Institute for Economics and Peace, si può considerare come il costo complessivo per il contenimento della violenza su scala sociale (cioè totale di attività economica legato alle conseguenze o alla prevenzione della violenza, sia intesa contro le persone che contro la proprietà) sia stato nel 2012 pari a 9.460 miliardi dollari. Una cifra che corrisponde all’11% circa del PIL mondiale. Mettendo in atto strategie per eliminare o almeno ridurre tale fardello si libererebbero ingenti risorse positive: anche solo con una riduzione di circa il 50% della violenza si potrebbe ripagare il debito del terzo mondo (oltre 4000 miliardi di dollari), reperire fondi sufficienti per costruire un meccanismo europeo di stabilità (circa 900 miliardi) e finanziare la somma aggiuntiva richiesta per ottenere il costo annuale degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Non male come "difesa civile alternativa" derivante anche dalla risistemazione continentale di quella classica. L'altra direttrice che mi pare interessante è di natura invece più politica. Ritengo infatti che la costruzione di una politica di sicurezza e difesa comune non possa andare avanti da sola, ma necessiti di una parallela evoluzione della sfera di politica estera dell'Europa. Che non appaia paradossale: sono gli stessi vertici militari a fare spesso la medesima richiesta. Se da un lato infatti è impossibile pensare ad una difesa senza aver individuato chi difendere e quali minacce bisogna contrastare (anche se l'Italia è un tale situazione da anni) dall'altro non è nemmeno possibile andare a definire tutte queste cose senza chiarire "chi" si è e quali siano gli interlocutori esterni ad una territorialità politica ben definita. Per cui la carta della politica estera è fondamentale in tutti questi aspetti, e a mio parere contribuirebbe anche a rafforzare il percorso unificatore di risparmio che abbiamo già visto in tutta la sua rilevanza. Ma c'è di più. Tutti questi sforzi noi li dobbiamo fare nella prospettiva tratteggiata all'inizio di questo scritto, cioè come un passaggio intermedio e non come un risultato finale che ci potrebbe solamente "imbrigliare" in una strada di mera maggiore efficienza. I movimenti per la pace ed anche per il disarmo di tutto il continente hanno infatti da tempo sviluppato anche delle proposte e dei percorsi alternativi per quanto riguarda la risoluzione -‐ o meglio la trasformazione nonviolenta -‐ dei conflitti. Sia che si tratti di conflitti al di fuori dell'Europa sia che si tratti di conflitti, economici e sociali in particolare, all'interno dei suoi stessi confini. Sviluppare perciò una
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politica estera nuova, più comunitaria che più legata a dimensioni non particolari ma continentali, potrebbe a questo punto essere maggiormente ricettiva anche nei confronti di quest'alternativa. Un'alternativa che non è solo ideale, ma che ha già visto diverse sperimentazioni soprattutto sui temi relativi agli interventi civili di pace (esplicati in particolare con lo strumento dei corpi civili di Pace). Ci vogliamo almeno provare?
L’Europa e l’industria di Francesco Garibaldo
Dove siamo1? 1. Il peso dell’industria manifatturiera L’industria manifatturiera ha contribuito alla formazione del PIL dei 27 paesi della UE per circa il 15% nel 2012, in calo dal 18% del 2000. La produzione manifatturiera è fortemente concentrata in alcuni paesi che tutti assieme raggiungono circa il 70%: la Germania, per un quarto, seguita dall’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Spagna. Il resto è distribuito in quote sotto il 5%2; nel corso degli anni si è prodotto uno spostamento del baricentro manifatturiero dell’Europa verso Est grazie agli investimenti esteri diretti (IDE) verso i dodici paesi allora nuovi entranti. Il contributo al PIL di ciascun paese da parte della manifattura è, infatti, sopra la media UE in quindici paesi è tra quelli ci sono Germania (al quinto posto) e Italia (al tredicesimo), mentre non ci sono Francia, Inghilterra e Spagna. Gli altri 12 sono nell’ordine Romania, repubblica Ceca, Islanda, Ungheria, Slovacchia, Lituania, Slovenia, Austria, Polonia, Bulgaria, Svezia, Finlandia, Estonia. I dodici con l’eccezione dell’Islanda e della Finlandia fanno parte del sistema produttivo tedesco allargato, un sistema nato da un flusso di IDE, molto consistente dal 2001, orientato a creare catene di sub-‐fornitura delle industrie tedesche, la cui logica fu spiegata esaurientemente in un celebre saggio di Sinn3; l’Italia partecipa al sistema industriale tedesco4 in una specifica configurazione, pur essendo anche autonomamente attiva nella creazione di catene di sub-‐ fornitura ad Est. Come hanno osservato Simonazzi e i suoi colleghi (2013)5, citando la Deutsche Bank, la differenza sta nel fatto che la Germania delocalizza tutto meno gli stadi finali della produzione, mentre l’Italia delocalizza l’intero processo. 1 European Commission -‐ Competing in Global Value Chains. EU Industrial Structure Report 2013 2 mia classifica basata sull’ EU Industrial Structure Report 2013, op. cit. 3 Sinn, H-‐W (2006) -‐ The Pathological Export Boom And The Bazaar Effect. How To Solve The German Puzzle. The World Economy, n. 9. 4 imonazzi, A., bGasata inzburg, AE., U and Nocella, G., (2013), -‐ Economic elations 2 Sm ia classifica sull’ Industrial Structure Report 2013, orp. cit. between Germany and southern 3 Sinn, H-‐W (2006) -‐ The Pathological Export Boom And The Bazaar Effect. How To Solve The German Puzzle. The World Economy, n. 9. 4 Simonazzi, A., Ginzburg, A., and Nocella, G., (2013), -‐ Economic relations between Germany and southern Europe. Cambridge Journal of Economics, vol. 37, 2013, pp.653–675. 5 ibidem, pp. 660-‐661 10
2. La composizione dell’industria manifatturiera La conseguenza di tutto ciò è che il ruolo di locomotiva d’Europa, auto-‐attribuitosi dalla Germania, non può essere analizzato solo in termini di equilibrio della bilancia delle partite correnti da un lato e di effetti redistributivi di quote della produzione dalla Germania verso gli atri paesi europei ma in termini anche qualitativi. Si tratta cioè di vedere che tipo di produzione viene delocalizzata e che intreccio si determina tra produzione e commercio di beni intermedi e commercio di beni capitali. Da questo punto di vista è facile vedere che la natura dei processi di delocalizzazione tedeschi, sia come costruzione di catene del valore integrate sia come IDE per creare nuova capacità produttiva finale, fa sì che la composizione produttiva dei sistemi industriali satelliti sia in larga misura determinata dalle esigenze di crescita dell’industria tedesca che è fortemente orientata all’esportazione, quindi a sua volta dipendente dalla dinamica dei consumi dei nuovi paesi emergenti, specificatamente dai consumi opulenti6 di tali paesi. Il complesso d’interazioni tra questi livelli di produzione e di consumo è particolarmente intricato, come la crisi iniziata nel 2007 ha reso evidente7. Il calo dei consumi simultaneo su scala globale ha colpito pesantemente tutta la catena produttiva legata all’export, con arretramenti drammatici confrontabili, come sostiene la Confindustria per l’Italia, con i danni di una guerra (perdita del 25% del PIL e del 15% del potenziale medio manifatturiero italiano con punte oltre il 20% in 14 settori su 22). Questo calo, sino ad ora recuperato, in termini di PIL, solo dalla Germania8, non ha prodotto una modifica del modello, ma solo un effetto di ristrutturazione, con perdita di capacità produttiva, in molti paesi e un ulteriore processo di concentrazione industriale attraverso fusioni e acquisizioni che stanno riprendendo con grande vigore. I paesi europei la cui dinamica manifatturiera è largamente integrata con quella dell’industria tedesca, nel momento del crollo e poi ridimensionamento, hanno scoperto che senza il contributo della domanda interna non possono avere alcuna crescita industriale; ma la deflazione salariale9 e la crescente insicurezza lavorativa, considerate essenziali per sostenere una politica neomercantile, non consentono di sviluppare una significativa domanda interna. La Germania, inoltre, importa, dagli altri paesi europei, i beni che sono di sostegno al suo export – molti beni industriali intermedi -‐, gli altri paesi non sono in grado di fare altrettanto e quindi lo squilibrio delle partite correnti non può essere letto solo in termini quantitativi, ma mette in evidenza un 6 intendo qui per “consumi opulenti” i consumi della cosiddetta nuova classe media globale emergente con un peso numerico particolarmente significativo in Asia. Essi quindi includono non solo i beni di lusso ma la fascia premier dei prodotti di beni di consumo su base industriale . 7 la crisi 2007-‐2013 è composta di due periodi recessivi distinti – si è avuto il temuto double dip – che per l’Italia vanno dal terzo trimestre 2007 al secondo trimestre 2009 e poi dal secondo trimestre 2011 all’ultimo trimestre 2013. Il tracollo dell’export ha riguardato il primo “tuffo”; nel secondo vi è stata una notevole ripresa dell’export. 8 Sul piano manifatturiero i livelli massimi pre-‐crisi sono stati recuperati dai paesi Baltici, e da Polonia, Romania e Slovacchia. 9
A sorpresa il 2013 ha visto un ulteriore episodio di deflazione salariale anche in Germania -‐ Wolfgang Münchau -‐ Europe cannot ignore its def lation problem -‐ Financial Times: 24, febbraio, 2014
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problema di composizione della base industriale; nello squilibrio diretto con la Germania l’Italia non è uno dei paesi più in difficoltà grazie al fatto che, nel Nord, un insieme di PMI, ultra-‐ minoritario in termini di peso complessivo, è riuscito a costruire delle proprie eccellenze di esportazione, autonome dalla Germania10. Gli effetti depressivi della domanda interna hanno riguardato anche la Germania con effetti tutt’altro che trascurabili come dimostrano i dati di chiusura del 2013, relativi al PIL tedesco. Effetti depressivi che nascono non solo dalla deflazione salariale degli ultimi anni ma da una profonda trasformazione del mercato del lavoro e del sistema di Relazioni Industriali11 che ha portato alla creazione di un esercito di sette milioni di lavoratori a basso salario e a vere e proprie sacche di miseria. Il modello neomercantile tedesco, quindi, si è alimentato non solo con le delocalizzazioni degli impianti finali e di larga parte della catena di sub-‐fornitura in paesi con salari più bassi e minori protezioni del lavoro, ma anche dalla segmentazione del mercato del lavoro nazionale. 3. L’integrazione industriale europea Simonazzi e i suoi colleghi (2013)12 hanno dimostrato che i meccanismi di integrazione industriale sono asimmetrici tra la direzione Est Europa e quella Sud Europa. Mentre verso est la progressiva integrazione “ha accelerato un processo di diversificazione produttiva combinata con uno di specializzazione”, l’effetto verso sud è di un “impoverimento della matrice produttiva”, in particolare, è il caso, ad esempio, dell’Italia centrale e meridionale, di “quelle regioni meno collegate alla Germania”. In aggiunta, osservano Simonazzi e i suoi colleghi, la riduzione della capacità di spesa delle famiglie tedesche viene trasferito sugli altri paesi europei attraverso un abbassamento del livello qualitativo dei consumi quotidiani che colpisce l’export di beni di consumo degli altri paesi europei, per l’Italia il caso è quello dei prodotti del tessile – abbigliamento. In sintesi, loro ci dicono, il commercio interno alla Unione Europea è basato su una crescente dipendenza di tutti paesi europei dalla Germani per le importazioni mentre si riduce la loro capacità di esportazione verso la Germania e, nei paesi della periferia, non integrati nel sistema produttivo tedesco, il grado di commercio tra di loro è basso. Aggiungo io che non è difficile vedere che in questa prospettiva l’Italia è spaccata in due: una parte partecipa del sistema integrato, sia pure con un abbassamento progressivo del posizionamento nella catena del valore per i più, mentre l’altra parte partecipa della condizione della periferia. Il dualismo industriale italiano riguarda anche l’area integrata; le aziende, infatti, che hanno retto alla recessione sono quelle che esportano beni industriali intermedi molto specializzati e/o fortemente orientati al cliente (customization) nell’area UE e non, e quelli che sono posizionati in nicchie globali, in genere con prodotti industriali propri -‐ spesso includendo una quota significativa di servizi ad alto valore aggiunto – e come “attori chiave”, cioè nei primi posti di quell’attività. La mia personale valutazione è che su dieci imprese italiane oggi due resistono,
10 rapporto I.T.A.L.I.A geografie del nuovo made in Italy-‐ http://www.symbola.net/html/article/ITALIA, visitato il10 febbraio 2014 11 Garibaldo, F. – La codeterminazione in Germania – in Gianni, A. et al. – La partecipazione dei lavoratori all’impresa. Rapporto per Eni Corporate University a cura della “Fondazione Cercare Ancora”-‐ http://www.francescogaribaldo.it/pubblicazioni, visitato il 18 febbraio 2014 12 Simonazzi, et al. , op. cit. pp. 662-‐664
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una viene acquisita o fusa da/con imprese europee e non, le altre sono in una situazione di assoluta precarietà e incertezza.
4. Technologically Intensive? Ciò detto, occorre stare attenti a come leggere e interpretare i dati. Essi, infatti, sono organizzati e/o interpretati secondo una serie di assunzioni implicite che costituiscono il nocciolo intellettuale duro del pensiero dominante. La prima assunzione è una convinzione radicale che sviluppo voglia dire innovazione, che l’innovazione nasca dalla ricerca di base e si traduca nella disponibilità di alta tecnologia. Coerentemente con questa impostazione il grado d’intensità in R&D, o tecnologica, definito dall’OCSE distingue i settori industriali in quattro categorie13: alta, medio-‐alta, medio bassa, bassa tecnologia. L’utilizzo di questa classificazione ha da molto tempo suscitato riflessioni critiche14. Senza riprendere una discussione teorica ciò che rileva ai fini di questo articolo è che l’intensità tecnologica non è l’unico criterio possibile di innovazione e che quindi l’idea che l’Europa debba focalizzarsi sulle alte tecnologie per compensare la differenza dei costi comparati, più mondanamente di quello del lavoro è un opinione discutibile. In primo luogo queste industrie hanno alti margini di valore aggiunto ma un rapporto tra capitale investito e occupazione molto basso e non possono certamente rappresentare se non che una sezione minoritaria dell’attività economica. In secondo luogo vi sono sempre più evidenti sentieri di innovazione che nascono dalla possibilità di diversificazione/specializzazione verso prodotti più complessi che, ad esempio, includono dei servizi la cui esclusività produce valore. Infatti (John R. Bryson, 2009: 27) afferma: “Gli accademici e i decisori politici hanno iniziato a spostare la loro attenzione dalla visione ristretta della manifattura come fabbricazione verso una nella quale la manifattura include la ricerca e lo sviluppo, le funzioni di progettazione, di marketing e pubblicità, di servizi che sostengono i processi produttivi e un insieme di servizi che sono stati creati per sostenere l’esperienza di un prodotto da parte dei consumatori. I beni manifatturieri devono oggi essere concettualizzati come prodotti che contengono differenti quantità di contributi legati ai servizi; alcuni di questi sono incapsulati nel bene durante il processo produttivo ed altri aggiunti ad un
13 ISIC REV. 3 TECHNOLOGY INTENSITY DEFINITION; OECD Directorate for Science, Technology and Industry 7 July, 2011 Economic Analysis and Statistics Division. http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_SDDS/Annexes/htec_esms_an3.pdf visitato il 18 febbraio 2014 14 Bender, G.; Laestadius, S. (2005) -‐ Non-‐science based innovativeness – on capabilities relevant to generate profitable novelty . in Bender, G., Jacobson, D., Robertson, P. L. (eds) – Non-‐Research-‐Intensive Industries in the Knowledge Economy – pubblicato in Perspectives on Economic Political and Social integration, XI, (1-‐2), special issue
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prodotto completo”15. Vi è, insomma, un’interdipendenza tra servizi e manifattura che può riguardare in modo rilevante le cosiddette industrie mature. Il rapporto dell’UE sull’industria europea non a caso ha un’intera sezione dedicata alle interdipendenze tra manifattura e servizi. Secondo tale rapporto la proporzione da parte di imprese manifatturiere di utilizzo dei servizi intermedi è arrivato al 39% nel 2009 – ma era già del 35% nel 1995 – con una fortissima ricaduta sull’occupazione manifatturiera che nei ventotto paesi è di media superiore al 40%. L’interdipendenza ha diverse sfaccettature, quella che a me interessa mettere in evidenza e quella che nel rapporto della UE viene indicato come “tentativo-‐ da parte delle imprese -‐ di innovare l’utilizzazione dei servizi per migliorare il proprio business, (..) la qualità dei manufatti e l’efficienza dei processi manifatturieri”16. Il numero di aziende interessate è diminuito tra il 2006 e il 2010 – probabilmente a causa della crisi – ma mentre la media UE è scesa dall’11,2% all’8,2%, l’Italia17 è ad un valore di circa il 13% ed è la percentuale più alta assieme al Belgio. Questo aspetto è interessante, non per cantare le glorie del piccolo è bello e del made-‐in-‐Italy, ma per evidenziare che, pur restando per il momento nel paradigma dominante delle produzioni ad alto valore aggiunto, si possono avere risultati importanti non legati alle alte tecnologie e, in alcuni casi, non dipendenti dalle tecnologie, come nel caso dell’abbigliamento non di lusso18. Non si vuole quindi sostenere che non vi debba essere una parte importante dell’industria legata alle alte tecnologie e a produzioni ad alto valore aggiunto ma che questo segmento da solo non consente di mantenere livelli di occupazione adeguati. In qualche misura questo è vero anche per la Germania, bisognerebbe, infatti, considerare la matrice produttiva del sistema produttivo tedesco allargato e si vedrebbe immediatamente che l’intensità tecnologica cambia significativamente. 5. L’integrazione internazionale dell’industria europea Come è ben noto, sia su scala globale sia su scale europea, si sono costruite negli ultimi trent’anni delle vere e propri catene produttive; questo solo fatto rende sempre più precario il criterio di basarsi principalmente sull’analisi delle partite correnti. Diventa essenziale comprendere dove si forma il valore aggiunto e questo si può capirlo solo attraverso un analisi delle diverse configurazioni strutturali prevalenti in ogni industria e dall’analisi della composizione dei flussi di beni e servizi che alimentano tali catene; flussi che talvolta hanno andamenti sequenziali di atti di importazione e di esportazione. È quindi di estrema utilità sia comprendere chi e che cosa esporta verso una catena il cui prodotto finale è rappresenta il consumo o l’export di un altro paese, e chi importa beni intermedi essenziali per completare la sua catena produttiva sia per un consumo finale interno o per l’export. L’analisi andrebbe poi 15 Bryson, J. R. -‐ Hybrid Manufacturing Systems and Hybrid Products: Services, Production and Industrialisation – in Studies for innovation in a modern working environment – Intenational Monitoring – IMA/ZLW & IFU – TWTH Aachen University – Trend Studies, volume 3, p. 27 16 European Commission -‐ Competing in Global Value Chains. EU Industrial Structure Report 2013, p.31 17 per l’Italia manca il dato del 2006 18 vedi il caso Lju-‐Jo di Carpi 14
completata da una valutazione del contributo al valore aggiunto finale delle diverse sequenze19, il che richiede una scomposizione dei prodotti (in inglese product teardowns), purtroppo servizio fornito a pagamento20. Infine sarebbe importante valutare in che misura attività a basso valore aggiunto rappresentino, nel momento in cui diventano una forma di monopolio, un vincolo strategico per la catena produttiva globale. Il grado di integrazione internazionale dell’industria europea viene misurato, globalmente e per paese da un indice – di partecipazione alla global value chain, catena globale del valore, o GVC – che indica sia l’importanza delle importazioni dall’estero di beni intermedi che compongono il suo export (vs), sia quanto il suo export, misurato in valore aggiunto, partecipi a comporre l’export di un altro paese (vsi); infine la somma dei due valori fornisce il grado di integrazione nella catena globale del valore.21 Nell’ordine Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Italia stanno tra il 50 e il 40 % di integrazione delle loro industrie nella catena globale del valore. Sono sopra il 50% tutti i paesi dell’Est appartenenti alla UE, oltre che la Danimarca, l’Austria, la Polonia – in altre parole il sistema produttivo tedesco allargato, e poi l’Islanda, la Lituania, la Spagna, Il Lussemburgo, la Svezia che richiedono spiegazioni specifiche; i paesi del sistema produttivo tedesco allargato hanno un vs mai sotto il 30% , il che indica un mix tra vs e vsi che rappresenta in modo chiaro la natura dell’interscambio sequenziale. Tra questi poi superano il 60% complessivo solo Lussemburgo, Slovacchia, Ungheria, Repubblica Ceca e Belgio ma con una riduzione del peso di vsi rispetto al totale, da attorno al 40% al 33%. Se si guarda alla natura degli investimenti diretti esteri tedeschi, ma non solo, nei vari paesi si riesce abbastanza facilmente a capire che dove si è trattato della costruzione di un vero e proprio stabilimento finale, come nel caso delle automobili e degli elettrodomestici, peserà particolarmente la componente vs, cioè l’importazione di beni intermedi, particolarmente importante nel caso delle automobili; dove invece prevale la parte upstream della catena produttiva sarà vero l’opposto. Nella comparazione internazionale, nel gruppo che sta sopra al 50% ci sono la Corea del Sud, con un vsi sotto al 30% e la Russia, quasi solo vsi, più del 90%; sopra al 60% c’è Taiwan, con un vsi superiore al 40%.
19 un esempio: Jason Dedrick, Kenneth L. Kraemer, Greg Linden (2008)-‐ Who Profits from Innovation in Global Value Chains?A Study of the iPod and notebook PCs. reperibile a http://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=4&cad=rja&ved=0CD8QFjAD&url=http%3A%2F%2 Fweb.mit.edu%2Fis08%2Fpdf%2FDedrick_Kraemer_Linden.pdf&ei=908bUbWoFsXotQblnoDgBQ&usg=AFQjCNG9RwzS nZl3-‐M6NKxbaS90EZX2tJg&bvm=bv.42261806,d.Yms, ultima visita 8 marzo 2014 20 http://www.techinsights.com/ip-‐teardowns/ 21 European Commission -‐ Competing in Global Value Chains.-‐ già citato pp. 84-‐94
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6. L’integrazione endoeuropea Se si distingue concettualmente il commercio in valore aggiunto ( Trade in Value Added-‐ TiVA) dal valore aggiunto nel commercio (Value Added in Trade-‐ VAiT) si può distinguere quanta parte gioca il processo produttivo nell’alimentare l’export. I due concetti sono così definiti: “Il primo rende conto del valore aggiunto di un paese direttamente e indirettamente contenuto nel consumo finale di un altro paese. La domanda tipica sarebbe: ‘Quanto valore aggiunto degli altri paesi è contenuto nel consumo del paese analizzato?’ Il secondo concetto calcola il valore aggiunto contenuto nei flussi lordi di commercio tra due paesi. La domanda tipica sarebbe:’ Quanto parte del valore aggiunto di altri paesi è contenuto nelle importazioni lorde di un paese?’ o ‘ Quanta parte di valore aggiunto straniero le esportazioni lorde di un paese contengono’. Sebbene questi due concetti misurino differenti flussi di valore aggiunto tra paesi noi dimostriamo che un surplus o un deficit commerciale di un paese è lo stesso in entrambi i casi e, inoltre, è eguale al valore netto della bilancia commerciale di quel paese, se misurata in termini lordi.”22 È quindi evidente che quanto più un paese ha un valore alto di VAiT tanto più basso è il contributo produttivo di quel paese al suo export. Le tavole disponibili sul contenuto straniero dei beni finali consumati nella UE ci dicono quale sia la situazione prevalente nella UE: il contenuto di import nei beni finali consumati in Europa che è mediamente dell’11% per i manufatti e del 6% per i servizi, il che indica un ruolo rilevante del processo produttivo. Quei valori medi, scomposti per paese indicano valori molto bassi per i paesi europei più importanti, nell’ordine Italia, Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, per beni manufatti, e Francia, Italia, Spagna Germania, Inghilterra, per i servizi, con uno stacco netto, in questo caso, a favore di Francia e Italia. I valori europei per la manifattura, dal 1995 sono i più bassi rispetto a USA, Corea del Sud e Cina, mentre per gli anni 1995 e 200 sono più alti e nel 2009 uguali al Giappone. In sintesi , con l’eccezione delle industrie petrolifere del carbone, il contenuto interno alla UE dell’export, in termini lordi, era nel 2009 dell’85,6%, quindi la produzione europea per l’export è fondamentalmente realizzata in catene del valore europee, con significative differenze per le industrie di beni finiti -‐ quali le chimiche, le apparecchiature elettriche e i trasporti che sono più globali-‐ e per quelle dei servizi – gas acqua elettricità – Il processo produttivo per settori è largamente auto-‐contenuto.
7. Il modello di riferimento Il discorso si complica se usciamo dal modello dominante, implicito nel rapporto, che indica come strada maestra la via alta di un’economia technological and knowledge intensive con un alto valore aggiunto, in modo tale da vincere la partita della conquista globale delle quote di mercato. Se ci spostiamo da una strategia economica basata su “alti investimenti, alti profitti” nella direzione di un’economia basata su “bassi investimenti [privati], alti consumi, e di pieno 22 R. Stehrer: Trade in Value Added and the Valued Added in Trade. June 2012-‐ the Vienna Institute for International Economic Studies (wiiw)-‐ working paper 81, disponibile a http://wiiw.ac.at/trade-‐in-‐value-‐added-‐and-‐the-‐valued-‐ added-‐in-‐trade-‐p-‐2620.html, ultima visita 8 marzo 2014
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impiego”23 e ambientalmente sostenibile, allora la prospettiva cambia. Parliamo naturalmente non dei consumi odierni. L’una si basa su dei consumi privati opulenti in una società molto ineguale, la povertà in mezzo alla ricchezza. L’altra guarda non solo al livello ma alla qualità sociale dei consumi; quindi a consumi sociali, cioè quei consumi che servono a dare risposta a una serie di domande sociali oggi parzialmente o totalmente insoddisfatte, da quelle legate al benessere psico-‐fisico a quelle legate alla conoscenza. La prima, come le ricorrenti crisi dimostrano, pur sostenendo in forme esasperate, come il boom dell’indebitamento delle famiglie, un consumismo senza fine non riesce a dare stabilità sociale. Ecco allora che senza volere negare l’esigenza di stabilizzare un settore dell’economia ad alta innovazione, anche tecnologica, e ad alto valore aggiunto, il problema diventa quello di sviluppare e qualificare i consumi interni. Si tratta naturalmente di intendersi su cosa si intenda per consumi interni da fare crescere. Il concetto di bisogni e domande sociali o di consumi di natura pubblica, compresi gli investimenti pubblici e le misure di welfare, non basate principalmente su trasferimenti monetari, sono il modello che ho in mente24.
8. Un’ alternativa Sarebbe quindi necessario un approccio completamente nuovo al concetto di crescita economica e quindi di una nuova agenda. Che oltre a rispondere ai requisiti di cambiare il rapporto tra investimenti privati, consumi e reddito e realizzare il pieno impiego sia anche ambientalmente sostenibile. In sintesi il nuovo approccio potrebbe essere così sintetizzato: 1) Affrontare l’alto livello di disoccupazione, specialmente giovanile, attraverso investimenti nelle infrastrutture sociali per dare una risposta ai bisogni sociali, anche, ama non esclusivamente, attraverso programmi pubblici mirati per la creazione di lavoro, e in programmi per attività sociali e ambientali. Questi programmi devono essere progettati per un orizzonte temporale a medio termine, per facilitare la transizione dei giovani disoccupati dalla disoccupazione a un lavoro regolare. I criteri di selezione e assunzione devono essere basati, il più possibile, sulle esperienze e i livelli di istruzione di ciascuno per favorire uno sviluppo professionale personale. 2) Definire a livello europeo degli standard minimi e comuni per la qualità del lavoro, e definire un livello minimo per salari e stipendi, a partire dalle specifiche situazioni nazionali. 3) Sostenere, con il contributo dei “capitali pazienti” e iniziative a lungo termine di uno “Stato imprenditore” 25, l’innovazione della sfera produttiva, nella direzione prima indicata, con l’obiettivo specifico, e le limitazioni conseguenti, della de-‐carbonizzazione delle nostre economie. 4) Definire come criterio prioritario, per ogni di sostegno pubblico a investimenti privati, un alta intensità di lavoro. Il sostegno pubblico nella forma di sussidi alla domanda deve essere fortemente ridotto e ristretto solo al sostegno di nuovi e avanzati prodotti e/o servizi che 23 Minsky, H. P., 2008, Stabilizing an unstable economy, McGraw Hill (1st ed. 1986), p. 329 24 Minsky, H. P., 2008, John Maynard Keynes, McGraw Hill (1st ed. 1975) pp. 154 -‐166 25 Mazzucato, M. – The Entrepreneurial State. Debunking Public vs. Private Sector Myths-‐ Anthem Press, 2013 – traduzione italiana in corso presso Laterza.
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sostengano il processo di de-‐carbonizzazione, come lo sviluppo di nuove modelli di mobilità (servizi e veicoli). 5) In conclusione la sfera economica sarà fatta di due settori e modi di produzione: uno ad alta intensità di lavoro, grazie a specifici investimenti e politiche pubbliche, ed uno ad alta intensità di capitale, sostenuto dagli investimenti privati ma con specifiche regolazioni sociale e ambientali.
Il paradosso tautologico degli errori degli ebrei erranti di Enrico Beniamino De Notaris psichiatra Leda Marino studentessa in psicologia
La situazione della psichiatria in Italia, così come si è progressivamente configurata dall’inizio degli anni ‘60, spinge all’elaborazione di un suo inquadramento storico e politico-‐economico necessario per verificare contingenze e ispirazioni ideologiche estremamente significative. Più nello specifico appare sorprendente il ripresentarsi, nella fase storica attuale, di alcune antinomie presenti già fin dal periodo “eroico” della sperimentazione antiistituzionale che condusse prima alla critica del manicomio, poi alla sua apertura a forme di partecipazione “democratiche”, e quindi al superamento del concetto stesso di custodia difensiva delle devianze. E’ stato un lungo percorso che, come risulta da ampie e documentate relazioni, ha scosso equilibri, che reggevano da decenni, fondati su premesse teoriche conflittuali ma non del tutto antitetiche tra loro: forse è necessario chiarire quale fosse, in quell’epoca appunto e in quel momento storico, lo stato della psichiatria dal punto di vista teorico in Italia. Va sicuramente precisato che la psichiatria, poiché agglomerato di conoscenze e di opinioni molto ipotetiche e poco basate su verifiche “scientifiche”, al contrario delle conoscenze mediche che, per quanto a livelli probabilistici, hanno bisogno di dati in qualche modo evidenti (in seguito questa metodologia sarà denominata “evidence based medicine”), è una disciplina fortemente legata alla “doxa”, e quindi in ultima analisi, alle ideologie predominanti negli altri campi del sapere, della cultura e della politica. Il quadro della metodologia scientifica che veniva a presentarsi al cospetto dei grandi protagonisti della lotta anti istituzionale può descriversi, grossolanamente, come un panorama i cui orizzonti erano rappresentati da orientamenti abbastanza ben identificabili. I MODELLI PSICHIATRICI PREMINENTI NEL DOPOGUERRA ITALIANO
-‐In primo piano è da considerare la massiccia presenza, nello strumentario conoscitivo degli psichiatri dell’epoca, di convinzioni di natura biologistica radicate nel sapere medico che erano trasferite, piuttosto semplicisticamente, al campo della lettura del disagio e della malattia mentale. Nonostante gli scarsissimi progressi delle ricerche e delle sperimentazioni in laboratorio, tuttavia era assunto un paradigma interpretativo improntato all’esistenza di defettualità o 18
malfunzionamenti dell’organo sostanzialmente individuato come “luogo” di principale regolazione del comportamento umano: il cervello. C’è da dire che tale filone di ricerca, nelle sue declinazioni anatomo-‐patologiche, biochimiche, neurotrasmettitoriali, genetiche, molecolari non si è mai esaurito ed è ovviamente un bene che esso continui: se c’è un’evidenza che si deduce dai risultati fin qui conseguiti è che risulta sempre più lampante l’arbitrarietà dell’affermazione di un necessario nesso causale esclusivo tra il dato biologico e la complessità del comportamento umano. D’altronde proprio l’affinarsi e l’evolversi delle tecniche d’indagine inducono alla constatazione della crescente vastità del campo osservato e della relativa limitatezza degli strumenti di ricerca a disposizione di ogni disciplina della scienza. Quest’orientamento metodologico e interpretativo fin dall’’800 ebbe un significato indubbiamente propulsivo: le scoperte della neuropsicologia e della psicologia sperimentale, autonomizzandosi dalla fisiologia che rimaneva comunque la loro radice teorica, costituirono modelli diagnostici adattabili, sia pur parzialmente, anche allo studio clinico e quindi all’inquadramento nosografico della psicopatologia. Inoltre la dilagante epidemia di “Paralisi progressiva” (patologia causata dall’infezione luetica nella terza fase della sua evoluzione clinica), la cui semeiotica psicologica (i sintomi psichici) suggeriva un immediato accostamento fenomenico ad alcune patologie psichiatriche maggiori, come la psicosi delirante, era stata nei primi decenni del novecento fulmineamente importata nel paradigma osservazionale psichiatrico e assunta quale modello da seguire per formulare una diagnosi scientificamente attendibile di “malattia mentale”. Il culmine dell’influenza che tale approccio persegue sarà raggiunto in seguito, alcuni decenni dopo l’epoca che stiamo esaminando, con l’avvento e l’attuale trionfo dell’era psicofarmacologica: infatti negli ultimi anni, e con sempre maggior frequenza, sono le proprietà delle molecole a costituire i modelli nosografici, a configurare cioè la “sindrome” calzante per gli effetti chimici ed il profilo neurotrasmettitoriali di un determinato farmaco. Questo spiega anche come mai fioriscono sempre nuove diagnosi: la ludo-‐patia, la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività in età infantile, la crisi di panico, il lutto complicato, la sindrome da disadattamento sociale etc. etc., centinaia di quadri clinici che però, a ben riflettere, rappresentano più che altro stati emotivi, reattività singolari, modi d’essere, abitudini magari “sconvenienti” o anche “vizi”, con cui siamo quotidianamente a contatto e che prima chiamavamo in altro modo. Ma aver fornito un nome scientifico a queste condizioni esistenziali e umane esplicita la tendenza della ricerca psichiatrica di laboratorio ipotizzata in questo scritto: formulare sempre nuove diagnosi per sfruttare economicamente la sintesi delle nuove sostanze psicoattive. E’ emblematica ora un’ulteriore svolta nella strategia della lotta farmacologica alle dipendenze da alcool e da cocaina: il nuovissimo farmaco26 da prescrivere non rende intolleranti allo
26 Si chiama Nalmefene, il primo farmaco autorizzato per la riduzione del consumo di alcol in pazienti dipendenti.Nalmefene riduce gli effetti di rinforzo dell’alcol, essendo un modulatore del livello dei recettori degli oppioidi.
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stupefacente; il paziente può bere o assumere coca, ma lo farà in misura minore perché parte del piacere che prima gli era procurato dalla sostanza ora gli viene fornito direttamente dalla chimica. Avviene così il ribaltamento della metodologia clinica medica che classicamente prevede un rigoroso percorso che va dall’etiologia alla patogenesi, alla sintomatologia, alla diagnosi e infine alla terapia; ormai molte diagnosi psichiatriche sono formulate invece alla luce dei criteri terapeutici così detti “ex adiuvantibus”, a loro volta desunti dal profilo molecolare del farmaco. Ma tornando al passaggio storico che inizia a imporsi negli anni ’60 del secolo scorso c’è da dire che alle perplessità generali legate alla debolezza costitutiva di una disciplina (la psichiatria) che si proponeva di costituirsi come “soggetto” della ricerca nei confronti di un “oggetto” che tale non poteva definirsi in virtù della sua intrinseca soggettività; alla impossibilità, che già K. Lewin aveva evidenziato, di osservare un campo senza condizionarne gli equilibri, si aggiungeva inoltre la sua sostanziale dipendenza dalla cultura egemone che dettava le chiavi di lettura e le strategie di intervento nei confronti della devianza. Alla radice dell’interpretazione “biologistica” del disagio psicologico si colloca di certo il positivismo scientifico, a sua volta ispirato alle ideologie economiche dominanti che sostenevano la necessità di inserire anche la devianza nelle dinamiche produttive del mercato. Il risultato fu che la malattia mentale divenne in pratica una merce come le altre e poteva così essere “spesa” nel manicomio, o nello studio dello psicoanalista e dello psichiatra. In estrema sintesi ciò che si vuol dire è che l’elemento caratterizzante, che costituisce la cornice razionale dell’organicismo positivista in psichiatria, va individuato nella razionalità dominante tesa alla “produzione”. E infatti in quegli anni si verificò un’impennata della produttività anche nel nostro paese, che conobbe così l’aumento dei consumi e l’espansione dei mercati: ciò contribuì alla necessità di rimodellare i modelli assistenziali in assetti al passo con i tempi. Si affacciavano sulla scena terapeutica i primi psicofarmaci che furono salutati con notevole entusiasmo dalla comunità scientifica e identificata come una svolta epocale perché, ex adiuvantibus appunto, confortavano indirettamente ed abduttivamente27 quelle tesi biologistiche fino ad allora sostenute solo da elementi ed ipotesi che, anche se ben congegnati, non potevano essere oggettivati sperimentalmente. Pur dovendo indubbiamente attribuire ad un vasto movimento il fermento che scuoteva le vecchie istituzioni psichiatriche, movimento innanzi tutto orientato ad una visione critica nei confronti della norma e di conseguenza capace di progettare un’idea di psichiatria che, rompendo i suoi stessi argini, invadeva decisamente altri campi osservazionali e poneva questioni di natura filosofica ed antropologica, tuttavia non si può ignorare il ruolo degli psicofarmaci in quegli stessi
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Contravvenendo così anche ai più elementari dettami della logica induttiva (che consente la generalizzazione dei dati) o deduttiva (che consente di trarre conseguenze necessarie implicite nelle premesse) e fondando una scienza orientata principalmente alla costruzione di un corpus interpretativo fondato su processi sostanzialmente di “abduzione”(che permette di formulare ipotesi esplicative ma con effetti paradossali ad es. “ gli italiani sono esseri viventi, i cavalli sono essere viventi: quindi gli italiani sono cavalli).
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anni,28 allorquando prescritti non per acquiescenza alla logica del mercato o per semplice ma colpevole ignoranza, ma al solo scopo di lenire sofferenze macroscopiche all'interno di una relazione di cura. -‐Altro modello paradigmatico predominante all'epoca cui ci si riferisce, oltre quello biologistico, era costituito dalla psicoanalisi che, in Italia, nonostante il comprensibile ritardo della sua affermazione nella comunità scientifica dell’epoca29, influenzò con crescente, successo le discipline psicologiche, poco a livello delle istituzioni totali e di più forse il mondo accademico; ma soprattutto gli psicoterapeuti privati. Tale crescente successo aveva già iniziato a determinare una netta divisione di classe nell’assistenza psichiatrica: chi poteva permettersi un trattamento psicoterapeutico si affidava alle interpretazioni dell’analista; gli altri venivano immessi nel ciclo produttivo delle istituzioni e delle terapie tradizionali (contenzione, terapie di shock, strategie di “convincimento”, protofarmacoterapia selvaggia etc.). Ma la psicoanalisi, o per meglio dire, gli psicoanalisti ebbero, probabilmente loro malgrado, un altro effetto decisivo: oltre ad orientare l’atteggiamento delle opinioni nell’uomo della scienza influenzarono la “doxa” condivisa da larghi strati di popolazione. Così il malessere umano veniva ad essere sempre più percepito come collocato esclusivamente in luoghi utopici, in istanze psichiche, in rarefatte atmosfere pulsionali ed istintuali che, pur risentendo delle influenze del mondo con dinamiche chiaramente evocate e descritte da Freud, tuttavia contribuirono a “spazializzare” e ad “internalizzare” in qualche modo le nostre fantasmatiche sull’oscuro funzionamento della psiche. 28
La rivoluzione psicofarmacologica dura circa dieci anni. E' probabilmente la trasformazione concettuale e pratica più impetuosa e veloce che la storia della medicina e forse quella della scienza abbiano mai visto. La creazione della psicofarmacologia iniziava nel 1949, quando l'australiano John Cade introduceva il litio come stabilizzante dell'umore nella cura della sindrome maniaco-‐depressiva. Nel 1953, grazie ad una geniale intuizione di Henry Laborit, Pierre Deniker scopriva gli effetti antipsicotici della clorpromazina. Nel 1954, Nathan Kline pubblicava sugli Annals of the New York Academy of Sciences i risultati del suo studio sulla somministrazione della reserpina a 700 pazienti psichiatrici condotta al Rockland State Hospital. Lo stesso anno Frank Berger scopriva il meprobamato, primo ansiolitico. Tra il 1956 e il 1957 iniziava l’era degli antidepressivi; rispettivamente, l’imipramina (primo antidepressivo triciclico) scoperta da Ronald Kuhn, e l’iproniazide (primo inibitore delle monoammino-‐ossidasi) introdotta in psichiatria da Nathan Kline. Ancora un anno più tardi Paul Janssen sintetizzava l’aloperidolo. Ed infine nel 1960 entrava in uso il clordiazepossido, la prima benzodiazepina. Così in soli dieci anni, le fondamenta del sapere psicofarmacologico erano state gettate, gli anni – potremo dire i decenni – successivi, hanno affinato il patrimonio delle conoscenze ed hanno ampliato la gamma e l’armamentario delle molecole a disposizione ma non hanno, sino ad ora, rappresentato un salto paradigmatico (Daniel Bovet). 29 La prospettiva psicoanalitica in Italia fu portata da due operatori sanitari, L. Baroncini del manicomio di Imola, e G. Modena del manicomio di Ancona. Essi la citarono in dei loro saggi scientifici del 1908. Tuttavia fu Trieste la città italiana destinata a restare famosa come la base dei primi pionieri italiani della psicoanalisi, prima del suo dilagare nel resto della penisola. A Trieste si trovava il primo vero psicoanalista italiano Edoardo Weiss (1889-‐1971), che già all'età di 24 anni nel 1913 (si laureò in medicina a Vienna nel 1914) apparteneva all'Associazione Psicoanalitica Internazionale. Non fu lui però il fondatore della Società Psicoanalitica Italiana, che fu invece creata a Teramo da Levi-‐ Bianchini nel 1925. Weiss viene comunque considerato il padre della psicoanalisi italiana perché furono suoi allievi tre psicoanalisti come il cattolico Emilio Servadio, Nicola Perrotti e Cesare Musatti, che hanno formato le successive generazioni di psicoanalisti italiani. Weiss fu invece il promotore della rifondazione nel 1932 della società di psicoanalisi italiana, che fu trasferita a Roma, e della creazione della "Rivista italiana di psicoanalisi", in una situazione diversa che lo vedeva in aperta contrapposizione all'altro grande pioniere italiano Levi-‐Bianchini.
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Coerentemente il traguardo di Freud era infatti la fondazione della psicologia intesa come scienza positiva. Nel tempo e di certo di là delle intenzioni del suo fondatore, certi psicoanalisti operavano nel tentativo di circoscrivere il campo del loro intervento in quei “topoi” descritti da Freud, riducevano progressivamente l’ampio respiro delle intuizioni psicoanalitiche in angusti ambiti micro sociali e, tendenzialmente interpretavano la devianza come il frutto di una vicenda privata, potremmo dire, certo con molta approssimazione, come la conseguenza di una storia di amore deludente. Non va mai confuso però il ruolo culturalmente rilevante, che rimase un’astrazione lontana, dell’analisi con quello retrivo e mercantile di molti analisti, totalmente immersi nella logica del profitto e, ancor con maggior danno, complici di una interpretazione che prestava un attento ascolto alla ricerca della collocazione delle contraddizioni e delle sofferenze umane in quei “topoi” supposti dell’intrapsichico e del privato; ma poca attenzione all’enorme campo antropico, complesso, contraddittorio, fluente, magmatico nel quale il loro stesso divano era immerso. In sintesi si potrebbe affermare che nell’Italia del secondo dopoguerra l’analisi ebbe l’effetto, paradossale rispetto a molte premesse teoriche fondanti, di isolare un campo osservazionale dal resto della società, di renderlo sostanzialmente autonomo nelle sue dinamiche e nelle sue evoluzioni topiche, di astrarre un modello di funzionamento e farne un paradigma esplicativo invadente a sua volta, non come effetto ma come modello interpretativo questa volta, lo stesso campo antropico da cui andava artificialmente distaccandosi. -‐Un’ulteriore ed interessantissima corrente di pensiero, nonostante fosse presente anche all’epoca cui facciamo riferimento in ambiti operativamente poco significativi, tesa alla rifondazione meta-‐ ideologica della psichiatria e basata sulla considerazione dell’esperienza psicotica come una delle tante possibili esperienze umane, influenzò profondamente il successivo movimento anti istituzionale. La fenomenologia psichiatrica, o la psichiatria fenomenologica che dir si voglia infatti, declinava la lettura del mondo psicotico come scompenso tra ragione e contro-‐ragione, e la contro-‐ragione non come sinonimo di non-‐ragione, ma anzi necessaria presenza nella condizione umana come elemento dialettico nei confronti della ragione stessa.30 30 Con l'inizio del Novecento vari movimenti filosofico-‐culturali evidenziano i limiti del positivismo, considerandolo una scienza schematica, astratta, estranea alle problematiche più profondamente umanistiche. In effetti, dalla fondazione razionale di scienze come l'economia, la sociologia e la psicologia si stava ormai decisamente passando all'organizzazione tecnica dell'economia, della convivenza umana, del comportamento psicologico. Il passaggio dalla scienza alla tecnica, avvertito positivamente quando si trattava di ottenere il dominio della natura fisica e biologica, ora viene avvertito come una minaccia, poiché esso ha investito il campo più propriamente "umano". Di qui l'esigenza di mettere in crisi il concetto di ragione scientifica, quella ragione che non sa cogliere l'originalità dell'esistenza umana nella sua individualità e libertà, quella ragione che si limitava a consacrare i fini dominanti della società borghese delle nazioni coloniali di fine Ottocento. Sarà soprattutto l'esperienza catastrofica della I guerra mondiale a favorire la consapevolezza della crisi del modello culturale borghese fondato sul positivismo (la fiducia assoluta nelle scienze, nella tecnologia, nel capitalismo, nell'organizzazione razionale della società). Il movimento fenomenologico prima e l'esistenzialismo dopo (ivi incluso l'ontologismo di Heidegger) furono le correnti filosofiche che tentarono di uscire dall'impasse in cui era caduto il positivismo. L'esistenza umana ora veniva considerata irriducibile a semplice oggetto della ragione scientifica: benché la fenomenologia accentui di più i valori oggettivi di tale esistenza, mentre l'esistenzialismo quelli soggettivi. Il testo fondamentale per comprendere questo periodo storico è quello di Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: "crisi" riconducibile al fatto che tutte le scienze hanno voluto far trionfare una ragione tecnico-‐utilitaristica che ha poi ridotto l'uomo a semplice oggetto tra oggetti. Solo con la riscoperta della ragione filosofica l'uomo potrà diventare soggetto di scienza e artefice della propria storia.
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Husserl, Jaspers, Heidegger, Minkowski, Schneider e molti altri contribuirono a descrivere l’esperienza psicotica come parte del mondo della vita, non come fenomeno patologico per natura quindi, e pertanto mettendo tra parentesi e sospendendo il giudizio sulla questione “diagnostica” e “eziopatogenetica” nelle modalità prospettate fino ad allora dalla psichiatria classica. Solo operando questa sospensione, sfuggendo cioè a ogni tentazione di forzatura ideologica nella lettura degli accadimenti umani, è possibile per la fenomenologia cogliere, in assenza di ogni pregiudizio, le cose nella loro immediata evidenza. Diventava così irrinunciabile, nella prassi dello psichiatra fenomenologico, la dimensione dell’incontro, l’attenzione alle intenzioni dell’altro, la riflessione sul tempo, sullo spazio, sul corpo nella quale si snodano i processi intenzionali, la rinuncia a ogni schema interpretativo precostituito nel quale inserire il fenomeno, la pausa. Le finalità di questo scritto ovviamente non concedono approfondimenti tematici delle correnti di pensiero presenti nell’epoca che si vuole considerare; ma colpisce una singolare sovrapponibilità, che qui si anticipa rispetto ad un ordinato svolgimento della tesi in discussione, tra la fenomenologia considerata nel suo invito alla “sospensione tassonomica” ed il movimento anti-‐ istituzionale degli anni ’60. A chiarificazione di questa coincidenza, si riporta una frase di Franca Ongaro Basaglia, spesso sottovalutata per ciò che riguarda il suo ruolo intellettuale-‐operativo negli anni precedenti e successivi alla promulgazione dell’abusatissima legge 180 (potrebbe qui inserirsi una discussione critica sul ruolo delle donne e dei movimenti di liberazione, che scuotevano le ideologicamente vacue opinioni dell’epoca, se ne fa solo cenno ma non si vuole mancare di opportuna sottolineatura della loro centralità): “E’ ciò che si fa del biologico e dello psicologico a condizionare il destino della gente, più che il biologico e lo psicologico originario”. Si trattava cioè, come si diceva allora, di “mettere tra parentesi la diagnosi”. Indubbiamente molti altri movimenti culturali in ambito psicologico erano presenti e anche con stili vivaci d’interpretazione, basti pensare alle teorie sistemico-‐relazionali31, alla Gestalt32, alle nuove chiavi di lettura offerte dal progressivo affermarsi delle psicoterapie di gruppo, che già implicitamente ed in qualche modo operavano fuori dalla dimensione intimistica propria delle terapie individuali; altre invece battevano strade differenti, tendenzialmente regressive, come il 31 La Psicoterapia sistemico-‐relazionale, sorta negli Stati Uniti a partire dagli anni '50, si basa fondamentalmente sui due modelli teorici da cui trae il nome: quello relazionale e quello sistemico, per cui oggetto principale di osservazione e di intervento non è il singolo individuo ma la relazione tra gli individui in un determinato contesto. Campo privilegiato di applicazione dell'approccio sistemico-‐relazionale è la famiglia, che viene vista come un sistema entro il quale un soggetto che presenta un disagio psicologico è considerato il "paziente designato" che esprime le difficoltà relazionali dell'intero gruppo familiare. 32 La Gestalt può essere considerata una vera e propria corrente di pensiero che ha interessato la psicologia e la psicoterapia, la matematica, la fisica, la pedagogia, la sociologia, la neuropsichiatria, l'arte in genere (in particolare la pittura), e la grafica. Oggi questo termine è fondamentalmente legato a due filoni di ricerca, nati in periodi diversi e con obiettivi diversi: la “Gestaltpsychologie” (Psicologia della Gestalt) o Psicologia della Forma, una corrente psicologica riguardante la percezione e l'esperienza, che nacque e si sviluppò agli inizi del 900 in Germania (nel periodo tra gli anni '10 e gli anni '30) e la Gestalt Therapy o Psicoterapia della Gestalt, una scuola clinica post analitica, nell'ambito delle psicoterapie umanistiche. Se per la psicologia della Gestalt si fa di solito riferimento a Kurt Koffka, il fondatore della psicoterapia della Gestalt viene solitamente considerato Fritz Perls.
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comportamentismo, il cognitivismo, le tecniche cognitivo-‐comportamentali, altri procedimenti improntati nella sostanza a scopi psico-‐educazionali e quindi tendenti ad un ricondizionamento più o meno forzato del paziente psichiatrico, ad una sua “normalizzazione”. A scopo esemplificativo ma emblematico, per ciò che riguarda anche contesti culturali più ampi che volgevano la loro attenzione al mondo della devianza in quei tempi ormai lontani, risulta essere il film “Arancia meccanica”33 che illustra, sia pur filtrato da una lettura spettacolare, le conseguenze potenzialmente terribili di una psichiatria sostanzialmente skinneriana34. IL MOVIMENTO ANTIISTITUZIONALE All’interno del panorama, sia pur così frammentariamente parzialmente descritto, andavano coagulandosi importanti riflessioni critiche sulle istituzioni manicomiali dell’epoca, contributi provenivano dalla sociologia, dalle nuove espressioni artistiche, dal mondo dei movimenti di protesta presenti in molti ambiti politici e culturali, dalla curiosità intellettuale che accomunava varie discipline del sapere, e le spingeva a superare i propri confini per confluire in sguardi ardui e multifocali. Gli impegni pratici della lotta che abbracciò tutto il periodo compreso dai primi anni ’60 fino alla promulgazione della legge 180, e in seguito la tortuosa strada del suo progressivo impatto con la realtà attuativa e le resistenze politiche e ideologiche che a essa si opponevano, non interruppero il necessario impegno teorico che di continuo poneva sempre nuovi problemi. Questi problemi e conflitti non erano solo la prevedibile reazione di tendenze restauratrici sempre presenti nella vicenda di cui si riferisce; molto spesso, infatti, dovendo il movimento anti istituzionale confrontarsi con una epocale sperimentazione che scardinava in pratica tutte le certezze precedenti, si verificavano diatribe interne, divergenze non solo secondarie che contribuirono al sostanziale sfaldarsi del movimento. Contribuì in tal senso anche un prevedibile fenomeno che colse non sempre preparati i protagonisti del cambiamento: da un lato la necessità di gestire comunque le antiche istituzioni manicomiali nella loro progressiva dismissione, dall’altro l’urgenza di prefigurare prima e di organizzare poi i servizi territoriali che nel frattempo dovevano iniziare a svolgere la loro funzione d’assistenza, sia pur in un’atmosfera di “rarefazione” dei paradigmi ma comunque nascenti all’insegna dell’entusiasmo per i segnali d’innovazione, di attenzione umana, di ampliamento dello sguardo sociologico, di multifocalità della ricerca pratica, di dialettica politica. Occorreva, per tutto questo, moltiplicare le capacità di ognuno e prefigurare un operatore della salute mentale in grado di spaziare in molteplici ambiti del sapere, di approfondire i nessi 33 Arancia meccanica (A Clockwork Orange) è un film del 1971 diretto da Stanley Kubrick. Tratto dall'omonimo romanzo distopico scritto da Anthony Burgess nel1962, prefigura, appoggiandosi a uno stile fantascientifico -‐ sociologico-‐ politico, una società votata a un'esasperata violenza giovanile, ma non solo, e a un condizionamento del pensiero sistematico. 34 B.F. Skinner, verso la fine del 1930, cominciò le sue ricerche sul condizionamento operante, seguendo un programma strettamente comportamentista. Skinner era interessato all’osservazione del comportamento e della sua relazione con le contingenze di rinforzo, cioè delle occasioni in cui ad una determinata risposta faceva seguito una ricompensa. L’unica cosa necessaria era mostrare che quando una risposta era seguita da un certo esito, era più probabile che si ripetesse di nuovo.
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operazionali che potevano essere suggeriti dall’approdo a tante e nuove attenzioni per il mondo degli accadimenti umani. Occorreva cioè approfondire la profondissima voragine che si andava aprendo non soltanto alla base della disciplina psichiatrica nel suo complesso; ma anche sotto i piedi degli stessi operatori protagonisti di quel cambiamento epocale. E, ancor più, questa voragine andava a sconquassare la loro annosa tendenza ad adagiarsi su certezze condivise in modo “innocente”, vale a dire acriticamente assunte anche in virtù d’intuibili tornaconti personali e, cosa ancor più rilevante, questa voragine andava intaccando profondamente il senso della loro identità. Sarebbe stato necessario a quel punto, come giustamente sottolinea Piro35, un rovesciamento totale personale per recuperare una condizione “non-‐ I” (non identità-‐non innocenza, nella sua definizione) da parte degli operatori anti istituzionali, una condizione che avrebbe consentito un reale avanzamento della ricerca ed un’evoluzione nella direzione della consapevolezza dell’artificio di ogni presunta pretesa di distacco neutrale e/o di affermazione di identità personale forte. Invece ben presto il movimento anti istituzionale iniziò a ripiegare su se stesso, come un gruppo mitico che celebra la sua decadenza nella glorificazione delle proprie imprese, ed inevitabilmente si espose a gravi e letali pericoli. Volendo schematizzare, per comodità espositiva, si possono rintracciare due filoni predominanti e sussuntivi delle direzioni pericolose che prese il movimento: il sociologismo ingenuo che riduceva il disagio umano a pura conseguenza d’ingiustizie ed oppressioni, che indubbiamente spingono all’esclusione, ma non descrivono se non parzialmente l’accadere e descrivono il singolo come omomorfo al sociale; lo psicologismo di ritorno che introduceva, di soppiatto quasi, temi e metodi propri della psicoanalisi, dell’approccio sistemico-‐relazionale, frammenti della fenomenologia, e altri riferimenti vari in un miscuglio spesso confuso e approssimativo, ma comunque ammantato da uno slancio “umanistico”. Entrambe le linee condividono però un forte tratto in comune: la tendenza a staccarsi progressivamente da ciò che non pertiene loro, a ignorare cioè ciò che non appare come fenomeno registrabile dai propri strumenti, quindi a considerare sempre più labili e inutili le altrimenti necessarie connessioni con il “non pertinente”. La prima tendenza, il sociologismo, che nei suoi tratti estremi e largamente minoritari si attestava su posizioni antipsichiatriche, finì per incoraggiare atteggiamenti di sostanziale disinteresse nei confronti dell’“incontro” con il paziente, e spesso sconfinava nella così detta “gestione” del paziente e dei servizi, o nella lotta politica tout court. La seconda produsse un progressivo riflusso che spinse verso la riassunzione di un ruolo dirigenziale, tecnicistico, accademico, quando non verso comodi e fiorenti studi privati: metafore, oltre che di una presa di posizione reazionaria e scientista, anche di una posizione ideologica mercificante. Una non trascurabile causa di questa grande onda di riflusso, che senza dubbio alcuno ha avuto innumerevoli origini, fu la mancanza di un salto teorico-‐pratico che consentisse di adeguare le
35 Piro S: Critica della vita personale, in particolare pp 13-‐19, 1995 ed. “La Città del Sole, 1995, Napoli
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intuizioni antiistituzionali alle condizioni concrete, che nel frattempo andavano turbinosamente mutando di direzione e di senso. Anche nei servizi territoriali in cui la gestione attenta e la rigorosità del funzionamento garantivano ottimi risultati quali la drastica riduzione dei trattamenti sanitari obbligatori (TSO), il dispiegarsi di una serie di attività di riabilitazione (altra parola ambigua che meriterebbe riflessioni ulteriori), la puntuale presa in carico dei pazienti etc., andò mancando pian piano la scintilla da cui era partita la critica alla psichiatria e la prefigurazione di nuove modalità di intervento. Venne meno cioè una certa capacità di approfondire e arricchire i temi emersi nel corso della lotta per la definitiva chiusura dei manicomi: mentre, infatti, allora s’individuava chiaramente il nesso e la radice comune tra la metodologia scientifica e le strategie di mercato, col trascorrere del tempo questa ricerca essenziale progressivamente andò scolorendosi quasi del tutto. In un certo senso ci si accontentò della razionalizzazione e della pianificazione, entrambe ovviamente necessarie ed irrinunciabili, senza operare però nella direzione di una vera e propria “prassi trasformazionale”, senza compiere il passo verso l’aldilà della psichiatria.. Così come la legge 180 aveva “dimenticato” gli ospedali psichiatrici giudiziari (fu dimenticanza o necessaria mediazione politica volta comunque a ottenere la scomparsa dei manicomi?), così il movimento a poco a poco dimenticò che “La depsichiatrizzazione e la depsicologizzazione dell’occidente sono momenti necessari quanto lo fu la demanicomializzazione, quanto lo è la lotta al totalitarismo dell’ideologia psicofarmacologica”.36 “Nel mondo la psichiatria ha assunto così una forza enorme, perché in tutto coincide con le strutture proprie del capitalismo più avanzato: essa è globalizzata, volta al profitto industriale,basata su un sistema di asservimenti scientifici falsi o deformati o usati tendenziosamente, negatrice sostanziale e senza rimedio di ogni senso della sofferenza, di ogni insegnamento della crisi, di ogni possibile trascendimento della gettatezza, di ogni autentico mutamento del destino, di ogni prassi di mutuo-‐aiuto, di ogni possibile empowerment della gente che sta male, di ogni speranza nella sorte delle singolarità avvolte dalla sofferenza.”37 Si riporta questo passo fondamentale del pensiero di Sergio Piro, probabilmente l’esponente di maggior curiosità scientifica ed acume ideologico della generazione che animò gli anni della lotta anti istituzionale, per indicare la parte mancante nel cammino delle successive generazioni di psichiatri, democratici o alternativi che dir si voglia. Ed inoltre, sempre dalla relazione specificata nella nota 11, si riportano le tre tesi fondamentali lì esposte: 1) La riforma psichiatrica italiana del 1978 ha prodotto in quasi tutto il paese, le dislocazioni amministrative e le strutture previste dalle leggi nazionali e regionali…tutto ciò era del tutto necessario, ma non è in alcun modo sufficiente. 2) Disporre di strumenti giuridici innovativi o di strutture operative a tipologia fortemente innovativa per la salute mentale non ha significato – in gran parte d’Italia – lo sviluppo di una pratica integrale dei diritti, l’affermarsi del primato della cura, il rifiuto definitivo delle pratiche violente, degradanti, lesive, distruttive, abbandoni che caratterizzavano il manicomio e che caratterizzano anche oggi gran parte della pratica psichiatrica 36 Piro S. Trattato della ricerca diadromico-‐trasformazionale, p. 354, ed. La Città del Sole, Napoli, 2005 37 S. Piro: Contributo allo studio della restaurazione del manicomio in Italia (4/6/2006)
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italiana…continua a prevalere in Italia una condizione di maltrattamento di massa dei malati mentali e delle persone sofferenti. 3) …uno schieramento progressista non garantisce in alcun modo una ripresa dell’attuazione integrale della pratica dei diritti e dello sviluppo della cura. Queste parole fotografano in maniera impietosamente precisa il punto esatto nel quale il movimento antiistituzionale ha arrestato il suo percorso dialettico-‐critico e ha concentrato le sue energie sul mantenimento di alcune posizioni, quasi compiacendosi delle capacità e della intelligenza operazionale dimostrata. LA PROPOSTA DEL LABORATORIO BANCHI NUOVI Pertanto se all’epoca delle grandi lotte anti istituzionali prevaleva nella società la ratio costruens, ora prevale una ratio destruens: se in passato la psichiatria svolgeva un ruolo in un certo qual modo coerente con i dettami dell’organizzazione sociale (la ricostruzione post-‐bellica), ora al contrario essa mostra una non più solo implicita aggressività (abbandono, sommersione farmacologica, repressione e uso repressivo delle categorie psichiatriche, contenzione fisica, violenza anche mortifere delle prassi istituzionali etc.) ma anche una chiara volontà distruttrice sempre in coerenza con le tendenze dell’organizzazione sociale e delle ideologie prevalenti, di mercificazione spinta, di dominio e oppressione nei confronti delle persone e dei comparti sociali svantaggiati (poveri, matti, disoccupati, sottooccupati, precari di ogni genere, eccentrici, anarchici, artisti falliti etc.) Da ciò le proposte per un lavoro di ricerca e d’intervento pratico non possono che partire da uno stravolgimento delle logiche e del sapere in precedenza stratificato, sperimentando fin da subito e con i protagonisti della sofferenza, la costruzione di modi d’intervento sulle contraddizioni, personali e sociali, apparentemente granitiche se imputate alle incapacità del singolo essere umano. E in questo senso nasce la proposta del laboratorio Banchi Nuovi. A Napoli circa tre anni fa, è nato un gruppo di persone per vocazione professionale, scelta politica, sensibilità personale (e spesso anche per tutte queste ragioni insieme), si è domandato se la deriva delle condizioni economiche e di vivibilità sociale avesse provocato, come si notava, un incremento della prescrizione psicofarmacologica. Il Comitato di Lotta per la Salute Mentale nasce da un’indagine, da una ricerca, dall’osservazione, confrontandosi circa cosa “trattenere” delle prassi e delle conoscenze, al fine di operare una reale trasformazione, ogni volta rielaborando in base alle necessità o a ciò che è nato in seguito all’attimo prima. Psichiatri, Psicologi, Disoccupati, Operatori, Familiari, Sociologi, Sofferenti, Fotografi, Videomaker, Scrittori, Musicisti (e chi scrive). Spesso uno Psichiatra è anche musicista. Un videomaker è infermiere psichiatrico. Un sofferente è poeta. Una familiare una cantante: Napoli di per sé, di là dei luoghi comuni, si presta per storia e conformazione ad accogliere un certo spirito di aggregazione attraverso talenti, talvolta inespressi. Camminando per le strade in primavera, c’è sempre un gruppo di giovani suonatori che accompagna i passi della gente. Essa però, nell’ambito di una forte regressione culturale che colpisce di più dove c’è povertà di mezzi e strumenti, sa essere altrettanto disattenta e dissacrante nei confronti delle differenze, catalogate spesso sotto la comune etichetta di “diversità”. Da qui il costante interrogativo circa il fatto che le specificità e le specializzazioni, anche in situazioni illuminate,
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offrono il terreno allo stigma. Spesso, infatti, la salute mentale non è considerata un bene comune. C’impegniamo realmente tutti i giorni nella creazione di linguaggi alla portata di ognuno? Da ciò, non senza difficoltà iniziali, è sorto un laboratorio detto di “espressione artistica” nel quale ciascuna persona, secondo ciò che sente, può cantare, ballare, scrivere, suonare, recitare del suo disagio. Ne può ridere, condividerlo con altri, differenti ma simili, può prenderne atto senza angoscia, senza diagnosi. Senza aver paura di tirar fuori ciò che di se stesso considera macabro, da nascondere, che sopprime per vivere, senza la paura che dall’altra parte ci sia qualcuno che schematizzi il suo flusso di pensiero e di emozioni per decidere qual è lo psicofarmaco più adatto al fine di restituirlo “produttivo” e innocuo alla società. E’ un laboratorio aperto, dinamico, continuo. E con una telecamera sempre aperta, che non perde un fiato di ciò che accade. Nel grande “palcoscenico” cerchiamo d’improvvisare. E, al contrario di quanto s’immagina le cose procedono serene e imprevedibili, ma senza teatri isterici, senza “archi Charcottiani”. E’ un teatro di sofferenza, ma si può anche provare a non soccombere. Senza lasciarsi andare alla tentazione buonista del volontariato e dell’assistenza, ciascuno si assume quotidianamente la responsabilità di emanciparsi dal proprio ruolo, dalle proprie contraddizioni, dai propri disagi spesso relativi anche alla scarsa qualità del personale e alla progressiva rarefazione dei Servizi. Cosa questa, che DETERMINA il rischio di non poter assolvere neanche i livelli elementari di accoglienza nei confronti dell’utenza, palesemente non identificabile solo nei “sofferenti”, ma anche nei familiari e nell’eterogeneità del tessuto sociale . Il Mercoledì di ogni settimana generalmente procede così. Il Giovedì vi è un “laboratorio per la cura territoriale della sofferenza psichica”, nel quale si fa esperienza del proprio disagio e di quello altrui, partecipando a pratiche di formazione e istigazione all’auto-‐aiuto. I sofferenti, i familiari, gli studenti e chiunque ne senta la necessità, saranno essi stessi ad approfondire le cause dei problemi e i loro legami con la sofferenza collettiva e l’espressione sociale, imparando per primi anche le tecniche necessarie. Quest’attività rientra fortemente nel percorso di emancipazione, si rivolge al territorio e ne chiede un’attiva partecipazione. Il Venerdì c’è un progetto di Farmacia Sociale: “Porta quello che non usi, prendi ciò che ti serve”, sull’idea di un analogo progetto sviluppato in Grecia, da un gruppo di volontari nella città di Salonicco. L’attività di raccolta e catalogazione dei farmaci vede coinvolti anche altri presìdi e comitati che si occupano di salute nel centro antico di Napoli. Canale privilegiato di questo progetto sono le scuole, alle quali sono dedicati incontri di prevenzione e uso consapevole dei farmaci: una sorta di “esercitazione popolare”. Tutto quanto de-‐scritto si svolge in un ambiente totalmente autogestito dai partecipanti. Partiti dalla sommersione farmacologica giungiamo nuovamente al farmaco: la registrazione di un dato allarmante cioè, la prescrizione selvaggia di psicotropi, talvolta in relazione a diagnosi costruite ad hoc, che dà l’illusione di poter evitare gli sforzi necessari per intendere i linguaggi della sofferenza, sforzi che invece appaiono fondamentali. Se, come recentemente un fenomenologo ha affermato: “ la psichiatria nasce il giorno in cui un medico libera un uomo”, al momento le scelte politiche e di prassi circa il benessere e la Salute Mentale, si muovono in direzione opposta a quest’affermazione. Del resto come si può pensare che in una città senza reddito minimo, con alto tasso di disoccupazione, con una massiccia evasione scolastica estesa a intere fasce della popolazione, con lavoro irregolare, minorile, solo per dirne qualcuna senza sfociare in argomenti di natura sociologica, che sono i maggiori responsabili del disagio ma che vanno trattati ampiamente e con ostinazione, si possa essere tutti equilibrati e produttivi? Così pensando non si tiene conto della storia di un popolo e della conformazione di una città. L’archeologia di Foucaultiana memoria servirebbe a spiegarci perché oggi c’è la necessità di diagnosticare uno “stato limite”, un fuori margine. Fuori dal dominio specifico si è “socialmente 28
pericolosi”. Le singolarità vanno allineate, la fobia di ciò che non è controllabile dilaga in quest’epoca. Così, seppur in condizioni apparentemente simili, in molti sono differentemente affaticati, devianti e border-‐line. “Dunque il primo atto della cura è, per tutti, tastare le pareti di roccia del lato a monte del sentiero, guardare nel baratro, muoversi risolutamente e con timore verso la nebbia che copre più in alto il valico, andare oltre” S. Piro, Trattato della ricerca diadromico-‐trasformazionale, p. 355, 6.8.2
La maggioranza delle rivoluzioni ha avuto come origine il peso del debito come detonatore di Enric Llopis Vincolato all’idea di obbligazione, colpa e peccato, “il debito ha costituito un meccanismo di controllo sociale da più di 6.000 anni”, spiega Sergi Cutillas, economista e membro della Plataforma Auditoría Ciudadana de la Deuda. Specialisti come David Graeber, George Caffentzis, Michael Hudson o Eric Toussaint hanno approfondito la questione. Sergi Cutillas non considera le scienze sociali in maniera isolata ed escludente: “Mi interessa molto il resto delle scienze sociali, che aiutano sempre a capire meglio l’economia”. Ha contribuito al libro “¿Por qué no debemos pagar la deuda? Razones y alternativas” (Icaria) con un capitolo intitolato “Il debito della Spagna”, scritto assieme a Uli Wessling. Afferma che la maggioranza delle rivoluzioni, anche quando interpretate come culturali o religiose, “ha avuto il debito come detonatore”. Nella sua analisi sul debito, Sergi Cutillas introduce elementi di enorme interesse derivati da discipline come la Psicologia e l’Antropologia. In alcune conferenze hai affermato che il pagamento/non pagamento del debito dipende dalla correlazione delle forze politiche. Il paese forte impone a quello debole il pagamento del debito. Vi sono esempi storici nei quali si è invertita questa situazione nella quale si sia cessato di pagare il debito? Sì, la storia è piena di questi episodi. La maggioranza delle rivoluzioni, che molte volte passano come culturali o religiose, ha avuto l’oppressione del Debito come detonatore. Figure storiche e leaders religiosi come Gesù hanno lottato contro le disuguaglianze che causano il debito, che alcune volte si conclude con la schiavitù di alcuni componenti della famiglia al fine di saldarlo. Vi è una componente morale molto potente dietro il concetto del debito, che è molto legata al concetto di obbligazione, di colpa, di peccato … queste parole hanno le stesse origini etimologiche.
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David Graeber, George Caffentzis, Michael Hudson ed Eric Toussaint hanno scritto sulla storia di come il debito è stato un meccanismo di controllo sociale e di oppressione già da più di 6000 anni e come questa componente morale è stata martellata dentro le nostre menti da parte dei più potenti affinché rispettiamo le gerarchie prodotte dai debiti. Oltre agli interessi chiaramente mercantili, in certe occasioni nei meccanismi di indebitamento si sottende un substrato ideologico, secondo il quale la Germania protestante, austera e calcolatrice incolpa l’Europa mediterranea, dissipatrice e oziosa, per i suoi peccati. Condividi questa interpretazione? Questo messaggio porta occultata una carica colpevolizzante molto grande. È evidente che ci sia un’ideologia dietro il debito, però la potremmo definire come un’ideologia sadica, di dominio. Si potrebbe interpretarla come un modo di essere, o almeno, di intendere la natura dell’essere umano, molto radicata in molte persone, una struttura del carattere. Questo accade in tutte le società imperniate sul potere. Il capitalismo è il modello di potere e dominazione per eccellenza. In questo senso le persone che vogliono dominare in Germania hanno minori differenze di quanto crediamo con quelle che vogliono dominare in Spagna. Le loro differenze culturali sono superficiali se raffrontate con le loro somiglianze, che hanno origini più profonde che devono essere spiegate anche con la biologia, la psicologia o l’antropologia oltre che con l’economia, la storia o la sociologia. Ad esempio? Le teorie degli istinti, studiati dall’ecologia, e di come questi vengano repressi a seconda della struttura sociale, possono offrire molte piste per capire da dove nasce tanta violenza, tale necessità delle nostre società patriarcali di dominare e imporsi. Da lì si possono anche comprendere molte cose della politica, dell’economia, della finanza … Il messaggio che l’indebitato è colpevole e che il creditore non ha nessuna colpa né responsabilità sulla decisione di indebitarsi è un messaggio che viene costantemente bombardato da parte delle elite fino a farcelo credere, sentendoci colpevoli. Questo è ciò che ci dice l’elite tedesca. E’ propaganda, uso della manipolazione psicologica per controllare le masse, puntare sulle nostre paure, colpe, manie per debilitarci. In realtà è come dire che un trafficante di droga non ha alcuna responsabilità per la droga che distribuisce, che si deve castigare piuttosto coloro che hanno liberamente deciso di drogarsi, sebbene soffrano già per i loro errori e abbiano visto le proprie vite rovinate. Allo stesso modo, è come dire che una persona intrappolata in una situazione di maltrattamenti con il suo partner non esce da questa situazione perché non lo vuole. La mente umana è molto più complessa della mente semplicistica di cui ci parla il neoliberismo che decide con piena libertà. Possiamo amare e odiare allo stesso tempo e sentire dipendenza da chi ci sta facendo del male. La confusione fa parte della natura umana. Il nostro sistema biologico ci invia messaggi difficili da decifrare e che spesso ci mettono in difficoltà. Siamo capaci di operare a molti livelli, più o meno inconsci, gestendo contraddizioni quasi impossibili, con credenze e
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attitudini diverse a seconda della situazione. Abbiamo livelli di sincerità differenti con noi stessi e con gli altri per adattarci a situazioni complesse e incoerenti. Ci dissociamo a seconda delle necessità ed abbiamo addirittura versioni diverse di noi stessi. Coloro che lanciano questi messaggi di colpa conoscono questi meccanismi di autoinganno che sviluppiamo come difesa. Come influisce questa spiegazione nel caso di una persona indebitata? Per esempio, nel caso di un indebitato che oggi non può pagare, la paura di non poter sopravvivere si scatena, e mantenere la speranza e il controllo della situazione a livello emotivo è molto importante. Se l’autorità alla quale vogliamo fare affidamento, in questo caso il creditore, è crudele e non esita a procurarci un danno, la paura di morire diviene insopportabile giacché la situazione ci fa sentire minacciati e privi di controllo sulle nostre vite. E’ in questo momento che la colpa appare come autodifesa e preferiamo dirci che meritiamo il castigo, riconoscendo bontà all’aggressore per sentirci sicuri e pensare che non si ripeterà se ci comportiamo bene. Pertanto, difendendo l’aggressore manteniamo il controllo, la gestione della situazione è in mano a noi stessi, e in questo modo possiamo conservare un barlume di speranza. E’ quella che viene chiamata ”sindrome di Stoccolma”, ed è simile alla situazione che sviluppano le persone sequestrate nei confronti dei loro sequestratori, o persone ammalate che sviluppano credenze religiose in divinità e santi, per poter stabilire sensazioni di controllo, speranza e protezione, che sono necessarie per la salute della nostra mente. Preferiamo incolpare noi stessi di maltrattamenti prima di ammettere che ci maltrattano per disumanità e senza averlo meritato. Questo supporrebbe ammettere che esiste una situazione che non controlliamo, un abuso, che ci obbligherebbe ad ammettere il pericolo di altre aggressioni -‐il che provoca paura-‐, e che ci porterebbe a difenderci, nel caso sia possibile. Con il debito succede la stessa cosa, mentre uno si incolpa può vivacchiare senza vedere che in realtà vi è un problema di abuso, una relazione asimmetrica, e che vi sono alcune elite che, usando questo meccanismo, ci stanno massacrando senza pietà. Quindi pensi che le persone indebitate abbiano qualche responsabilità? Certo che esiste responsabilità da parte degli indebitati, dobbiamo renderci responsabili delle nostre decisioni per imparare affinché non ci ingannino in futuro. Per questo realizziamo il processo pedagogico dell’audit cittadino, ma non dobbiamo accettare la colpa perché questo significherebbe perdonare colui che ci maltratta. La responsabilità non equivale alla colpa, quest’ultima provoca danno, ci aliena e implica la rinuncia alla nostra identità. Bisogna chiarire che coloro che controllano i flussi finanziari sono le grandi banche internazionali. Ad esempio, coloro che prestarono in forma esosa e avara alle banche spagnole furono le banche tedesche. Le direzioni di questi istituti sono molto più responsabili del cittadino indebitato che non sa nulla di bilanci e che si è rovinato con la bolla. Questi direttivi si sono arricchiti (ancor di più) con la bolla del credito, e non si sono fatti carico di alcuna responsabilità. La gente potente che influisce sulle
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politiche finanziarie che facilitarono questi flussi e che hanno causato la crisi, non è neppure apparsa nella lista degli indiziati. Il comportamento di questa elite internazionale così potente non mi pare molto austero, né molto luterano, come non lo è il modo in cui l’elite industriale tedesca si arricchisce ora con la politica esportatrice che è nata da questa bolla del credito, approfittando della catastrofe umanitaria che si sta vivendo in Grecia. Chi ha più potere e conoscenza ha sempre maggiore responsabilità. Se questo potere e conoscenza vengono utilizzati per ottenere ancor più potere al prezzo di provocare danni, non ci si deve sottomettere a chi esercita questa autorità ingiusta, per quanto essa affermi che queste sono le regole. Per questi motivi il debito non deve essere pagato, si deve rovesciare la finanziarizzazione e dobbiamo esigere la responsabilizzazione di queste persone. Una parte del deficit e del debito pubblico dello stato spagnolo proviene dal salvataggio/aiuto al sistema finanziario. Si è continuato a dare questo aiuto negli ultimi tempi? Puoi citare alcuni casi? Sì, alla fine del 2013 il governo decise di abbonare i crediti fiscali delle banche per potere così ricapitalizzarsi, cosa che trasforma questi crediti in debito pubblico indiretto, cioè, sebbene non lo si consideri come debito, di fatto lo è. L’ammontare di questo debito è di 30 miliardi, quasi la metà dei tagli di bilancio che sono stati realizzati. Questo è quanto si è dato alle banche solo negli ultimi mesi, senza far molto rumore. In realtà restano attive differenti vie di aiuto alle banche che in totale, fra meccanismi di liquidità e capitalizzazione, superano 1,3 miliardi di euro. Quindici volte circa il valore dei tagli realizzati dallo stato. La crisi del debito nella periferia dell’Europa: Vi sono precedenti o esempi storici di processi analoghi di indebitamento in altre regioni del mondo? E di piani di aggiustamento simili a quelli realizzati nell’Europa del sud? La Repubblica di Weimar, il regime politico tedesco fra le due guerre mondiali, soffrì politiche di austerità simili a quelle dei paesi della periferia europea. I debiti in dollari che la Germania aveva con gli alleati e l’austerità che questi le imposero per pagarli la portarono a una profonda recessione economica, alla disoccupazione e infine al non pagamento del debito e alla svalutazione della sua moneta, il che portò a una iperinflazione e creò una crisi umanitaria in Germania. Pochi anni dopo, grazie a questo terreno fertile per la coltivazione dell’odio verso i creditori del debito, il partito nazista arrivò al potere, e sappiamo cosa accadde dopo. La Germania ha già dimenticato questo. Di fatto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i paesi del Sud dell’Europa condonarono i debiti alla Germania affinché potesse risollevarsi dal disastro della guerra. Sembra che anche questo sia stato dimenticato. Si perde il contesto quando si parla di debito? Il debito della periferia è comparabile con quello degli Stati Uniti o, in termini generali, con quelli globali del Sud? Sì, il debito è insostenibile in tutto il sistema, non è qualcosa di specifico di un paese che si è comportato male. Questo è dovuto alla finanziarizzazione, che è la fase in cui si trova il capitalismo a partire dagli anni 60. I paesi più sviluppati sono anche i più finanziarizzati, ovvero i più indebitati.
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I debiti totali dell’economia del Giappone o del Regno Unito sono molto più alti del debito spagnolo. Il sistema finanziario è cresciuto senza sosta ed ha preso il controllo dell’economia e della politica. Abbiamo un problema sistemico profondo, simile a un cancro che si espande continuamente. Dobbiamo analizzare il problema e reagire in forma decisa. Se agiamo pensando che questo fenomeno si può frenare con regolamenti blandi, che è un qualcosa che si risolverà da solo, non risolveremo niente. E’ importante capire come funzionano le finanze, altrimenti non si può articolare un messaggio che programmi alternative solide per porvi dei limiti. Pensi che si ponga eccessivamente l’attenzione sul Sud dell’Europa mentre il nerbo del debito è radicato da decenni nel sud del mondo? Con riferimento alla domanda precedente, si possono paragonare entrambi i processi? Certo che sono comparabili, usano meccanismi simili, le stesse istituzioni e anche le stesse persone. Oggi la crisi del debito si sta verificando nei nostri paesi ed è naturale che ci preoccupiamo di ciò che sta capitando a noi. Molti di noi si mettono a combattere un problema quando questo ci colpisce direttamente. Si deve approfittare di questa inerzia che affligge l’Europa e fare sì che si converta in qualcosa di più trascendente, con un’analisi più globale, per poter combattere alla radice i problemi del sistema. Ritorniamo al caso spagnolo. Chi sono i principali creditori del debito spagnolo? Hanno un nome e cognome? Dovrebbero farsi carico per i prestiti fatti, o non lo stanno facendo? Le grandi banche spagnole sono i maggiori creditori del nostro debito. Possiedono più della metà di questo. Grazie ad esso a partire dall’anno 2000 hanno ottenuto dalle nostre amministrazioni pubbliche entrate per pagamento di interessi per circa 92 miliardi, malgrado abbiano ottenuto utili di 63 miliardi di euro solo in questo periodo. Se non fosse per il debito pubblico, che fornisce loro entrate senza alcun tipo di rischio non sarebbero sopravvissute a questo periodo, Si può stabilire, incluso la quantificazione con numeri, un’equazione chiara fra pagamento del debito e i tagli della spesa sociale nello stato spagnolo? Nel libro “Perché non dobbiamo pagare il debito?” scritto assieme a Uli Wessling, abbiamo costruito un grafico nel quale mostriamo chiaramente che l’aumento del pagamento degli interessi nei bilanci fra il 2010 e il 2012, assieme al denaro che è stato impiegato per ricapitalizzare il sistema bancario assommano a circa 70 miliardi di euro, cifra dello stesso ordine di grandezza ai tagli realizzati in tale periodo. Come economista pensi che i meccanismi di indebitamento e i processi di salvataggio e aggiustamento siano tanto complessi da capire? Puoi spiegarlo in modo semplice alla gente? Si. L’indebitamento è una relazione umana. Come ogni relazione umana si compone di due parti, il ricettore e l’emissore. In questo caso una si indebita e l’altra presta. A partire da qui si possono
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compiere molte giravolte che complicano la comprensione di quello che ho appena detto, ma l’essenza è questa. Se interponiamo nel mezzo degli intermediari, scambiamo i debiti di mano e in più gli poniamo elementi di incertezza redatti in contratti complessi, la cosa sembrerà sofisticata ma in realtà sarà un debito fra le due parti, sempre. Per esempio, se io ti chiedo un prestito e tu mi dici che mi fai il prestito solo se il denaro transita per le mani di un tuo familiare prima che lo dia a me e che devo pagare a lui una commissione oltre agli interessi che pago a te, l’unica cosa che fai è aggiungere intermediari per farmi pagare di più. E se dovrò pagarti di più o di meno in funzione di un qualche evento politico o climatico, in questo caso avremmo dei contratti variabili, che in sostanza sono debiti con pagamento variabile (molto variabile in parecchi casi). E se per caso redigi contratti che vendi a un altro e nei quali ti impegni a pagare ad un’altra persona ciò che io pago a te, quello che succede è che stai vendendo il debito che io devo pagarti, ti tiri fuori dal rischio, anche se i pagamenti passano attraverso di te e ti appropri di una parte dell’utile. E’ un gioco di strati, come una cipolla, e qui sta la difficoltà, seguirne la traccia è difficile. Vedere chi ne trae beneficio nei casi specifici, per la natura complessa dei contratti e degli accordi, i nomi dei tecnici, le matematiche, etc. A grandi linee, che metodologia utilizzi per elaborare l’audit del debito? In quali zone del territorio spagnolo hanno cominciato a effettuarsi? Il processo si trova in una fase avanzata? Se ti riferisci alla metodologia dell’analisi, si potrebbe riassumere come l’analisi della legittimità del debito (cioè se è giusto), a seconda della sua origine, del processo e della finalità. L’analisi è la parte alla quale ci dedichiamo noi pochi che abbiamo un pò più di esperienza di temi economici, ma in realtà l’audit cittadino è un progetto più ampio, è una campagna di acquisizione di potere, pedagogia, partecipazione, esigenza di trasparenza e di democrazia. A ciò può partecipare chiunque, non occorre essere esperti in economia. Vogliamo creare una rete, che si diffonda e si espanda per allargare tutti questi obbiettivi e rafforzare la democrazia. Come caratterizzi il processo dell’audit? Argentina ed Ecuador sono i grandi casi di riferimento? In realtà no, l’Ecuador fu un buon esempio, ma non è il nostro modello. In Ecuador si realizzò un audit condotto dal settore pubblico. Fu uno strumento potente, che consentì di analizzare il debito ed evidenziare l’illegalità di molti contratti, di vedere che il debito era stato pagato varie volte. Questo lì legittimò a dire che non lo avrebbero pagato, ma alla fine lo pagarono, anche se in misura ridotta. Dopo aver dichiarato che non avrebbero pagato il debito, questo calò di valore sui mercati dei capitali, e il governo dell’Ecuador lo comprò a prezzo ridotto. Fu una strategia intelligente, ma non stabilisce un meccanismo cittadino di supervisione permanente che controlli il potere, qualunque sia questo potere. Non ha avuto un cambiamento nella radice. Oggi il governo dell’Ecuador è di nuovo molto indebitato. Il caso argentino è ancora più limitato, quella che chiamiamo audit argentino in realtà fu una richiesta giudiziaria da parte del cittadino Alejandro Olmos contro il debito contratto dalla giunta militare.
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Ultima cosa. Gli audit sono un’iniziativa isolata o pensi che debbano essere integrate? Quali altre misure proponi? Vi sono molte altre iniziative necessarie e interessanti. Ciascuno lavora il tema che preferisce o che considera più importante. Alla fine le diverse iniziative di pressione, diffusione e mobilitazione in diversi campi devono integrarsi e sostenersi l’una con l’altra, per formare un tutto. Ciascuna delle piattaforme che si occupano di settori diversi come l’energia, le finanze, la casa, la sanità hanno tutte un ruolo molto importante nelle ricerche per la costruzione di un nuovo sistema più giusto. Non possiamo pensare che un gruppo o una piattaforma possano fare tutto il lavoro da soli. Da Rebelión – Traduzione di Aldo Zanchetta Rilettura Giulia Simula STEVE EARLY rappresentante sindacale nazionale e organizzatore per 27 anni. È autore di tre libri sul lavoro. Questo articolo è tratto dal suo nuovo libro Save Our Unions: Dispatches from A Movement in Distress (Monthly Review Press, 2013).
Articolo tradotto da Monthly Review, gennaio/ january 2014
Salviamo i nostri Sindacati Coraggio di lottare, coraggio di vincere? di Steve Early Qualsiasi revisione delle recenti lotte e azioni riguardanti il tema del lavoro negli Stati Uniti deve iniziare in Michigan, Stato con una forte presenza sindacale e di colletti blu, radicato nella produzione di auto. Quindici mesi fa, questo Stato industriale del Midwest si è unito alle problematiche già presenti nel Comitato Nazionale riguardanti il lavoro e la crisi di molti settori industriali e non solo, insieme alle precedenti esperienze negative del Texas, Oklahoma, Alabama, e una ventina di altri Stati ormai definibili come "negozi aperti". L'emergere di accordi relativi al rapporto di lavoro nel luogo di nascita del United Auto Workers (UAW) è stato scioccante. Questa sconfitta politica è stata preceduta da sconfitte di alto profilo negli stati confinanti che ha avuto inizio nel 2005. In primo luogo Indiana, seguito da Wisconsin e Ohio. Gli accordi hanno spogliato i lavoratori pubblici dei loro diritti di contrattazione (anche se l'attacco repubblicano verso i dipendenti pubblici è stato successivamente respinto da un referendum popolare). All'inizio del 2012, i legislatori del GOP in Indiana hanno approvato una legge di destra applicabile all'industria privata. In sintesi è vietato qualsiasi accordo e negoziato ulteriore relativo alla gestione del lavoro. I lavoratori dopo questa legge sono costretti a fornire un contributo finanziario – oltre l’iscrizione - ai costi della rappresentanza sindacale, sia per quelli storici che per quelli di nuova costituzione.1
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Nel novembre 2012, il lavoro organizzato ha cercato di invertire la tendenza antisindacale emergente con due questioni destinate a rafforzare i diritti di contrattazione del settore pubblico nel Michigan. Nonostante la spesa di molti milioni di dollari da parte di affiliati della AFL-CIO e Change to Win, entrambe le lotte sono state sconfitte.2 Poche settimane più tardi, i legislatori del GOP hanno rafforzato le ritorsioni contro l'unione in Michigan sia nel settore pubblico che privato. Quando l’ultimo disegno di legge in materia di "diritto al lavoro", disegno che sanciva i restringimenti alle liberta sindacali, è atterrato sulla sua scrivania, il governatore repubblicano Rick Snyder è stato molto lieto di firmare la legge. Durante l'intervento pieno di furore politico "amico", in materia di lavoro del governatore repubblicano, la Casa Bianca ha percepito la necessità di rispondere. "Dobbiamo fare tutto il possibile per continuare a creare buoni posti di lavoro e aiutare la gente a ricostruire la sicurezza per le loro famiglie", ha detto Barack Obama a una folla sindacale a Detroit, dopo la sua vittoria al secondo mandato. "Quello che non dovremmo fare è portare via i diritti di contrattazione per migliori salari e condizioni di lavoro. Il diritto al lavoro, le leggi, non hanno a che fare con l'economia ma con la politica. Quello che stanno approvando è: il diritto al lavoro per meno soldi".3 La forza lavoro malconcia Purtroppo, da questo punto di vista, durante la presidenza di Obama, lavorare per meno soldi, con meno diritti e posti di lavoro o benefici e poca sicurezza, è stata un'esperienza condivisa da milioni di colletti bianchi e colletti blu. Anche quelli ancora abbastanza fortunati da avere contratti sindacali (solo 11,3 per cento della forza lavoro nel 2012), sono stati colpiti dalla grande crisi di Wall Street e le sue continue scosse di assestamento. L’aiuto nel 2008-2009, aiuto legato alla situazione di emergenza, era robusto per quelli al vertice della nostra piramide economica e minimo per i milioni di salariati e proprietari di casa. Questi ultimi, come è noto soffrivano di licenziamenti, pagavano i tagli, la perdita della casa e del risparmio e l'evaporazione della previdenza. Di conseguenza, entro il 2013 i lavoratori dipendenti verificano la caduta dell’assistenza sanitaria e della pensione "calo del reddito nazionale più alto che negli ultimi 50 anni, mentre i profitti aziendali sono saliti alla loro quota massima per tutto il periodo considerato”.4 I membri del sindacato avevano una maggiore protezione, ovviamente, e venivano toccati, solo se i loro diritti erano stati compromessi da amici e nemici politici, oppure influenzati dai finanziatori aziendali. Il presidente Obama sulla politica e l'economia del "diritto al lavoro" non è riuscito ad influenzare il governatore Snyder in Michigan, gli sforzi per coinvolgere i democratici di spicco in una vigorosa difesa del sindacalismo è stata una delusione seriale. Durante il primo mandato di Obama, il disperato appello per "salvare i nostri sindacati!" spesso è caduto nel vuoto tra i presunti alleati sia a Washington che in molte altre capitali di stato. Da New York alla California, i governatori democratici e gli altri titolari di cariche pubbliche si unirono al coro repubblicano: budget e taglio, criticando i lavoratori delle imprese, gli insegnanti e altri dipendenti pubblici, cercando di frenare i loro diritti di contrattazione. Grazie a questa ostilità bipartisan e/o l'indifferenza alla contrattazione collettiva, i lavoratori negli Stati Uniti non possono aspettarsi un po' di respiro, anzi le loro battaglie sono in salita, come negli ultimi anni, nonostante la sensazione di sollievo iniziale per la sconfitta di Mitt Romney e la vittoria di Obama. Durante le nostre ultime tre decadi, il diritto al lavoro, l’organizzazione sindacale e l’accordo generale per l'unione, la sua rivitalizzazione sono stati un elenco di "cose da fare" più recitato che attuato. La maggior parte delle “cose da fare” concordano sul fatto che i sindacati dovrebbero resistere alle concessioni contrattuali, fare educazione e formazione sindacale in modo 36
sistematico e radicale, aumentare la democrazia interna, impegnarsi in un'azione diretta sul posto di lavoro, organizzare i disorganizzati (in particolare i lavoratori nati all'estero), costruire, coinvolgere in più ampie alleanze le comunità di lavoro che portano a una maggiore indipendenza dal Partito democratico. Se questa ricetta per il cambiamento era facile, ci sarebbe stata molta più trasformazione dell’unione di quanto visto fino ad oggi. Invece, migliaia di attivisti sindacali hanno faticato diligentemente, per anni, a cambiare la "casa del lavoro", mentre una miriade di nemici, del settore privato e società pubbliche e dello stesso sindacato, hanno cercato di demolire l'intera struttura traballante. Campagne di riforma, nuove iniziative organizzate e alcuni dirigenti sindacali di alto profilo hanno contribuito al processo di de-sindacalizzazione e al disfacimento del contratto, aumentando il calo degli iscritti, diminuendo il peso della contrattazione. Come ha riportato Labor Notes, i sindacati quando si sono confrontati con le condizioni di imminente apertura della contrattazione in Michigan si precipitarono a bloccare le quote automatiche di detrazione per più di un contratto a termine, prima che la nuova legge statale entrasse in vigore. Ma il quid erano " i lunghi, contratti di concessione" che non miglioravano la raccolta dei versamenti e delle quote su base volontaria in futuro. Quando quel giorno arriverà, e tanti lavoratori scontenti ridiscuteranno la loro appartenenza sindacale ci sarà un duplice effetto: la perdita del contributo per le spese e l'obbligo giuridico di rappresentarli, un onere finanziario che può essere debilitante oltre ogni modo.5 Rivolte inaspettate Dal 2011, un'onda inattesa di attività collettiva, che coinvolge i lavoratori e i loro alleati, dentro e fuori dei sindacati, è diventato un faro di speranza per salvare i nostri sindacati. In tutte le sue diverse manifestazioni, questa lotta multipla è stata una rivolta, dal basso, contro «il diritto al lavoro per meno soldi." Sia nel settore pubblico che privato, vecchie forme di tendopoli e di proteste, lavoratori in sit-in, blocchi stradali, occupazioni di edifici e disobbedienza civile erano all’ordine del giorno. Scioperi sono stati proposti da una nuova generazione di attivisti, scioperi alla ricerca di modi efficaci per resistere alla dominazione delle imprese e allo sfruttamento sul posto di lavoro, collegando lavoro e preoccupazioni sociali delle comunità. L'anno seguente, con la vittoria dei repubblicani nella campagna di medio termine (2010), la contemporanea rivolta nel Wisconsin dei dipendenti pubblici e il movimento di Wall Street (OWS) Occupy, si è verificato un lungo periodo di impotenza della classe operaia e la crescita di disuguaglianze di reddito. Ecco la svolta, nulla più come prima, ad esempio, le marce di massa e le manifestazioni a Madison cercano di unire i lavoratori del settore pubblico e privato e di contrastare la strategia populista della destra e del governatore Scott Walker del "divide et impera". I manifestanti (e gli occupanti), compresi i fornitori di servizi pubblici e coloro che si affidano a programmi statali e locali, lavoravano insieme come alleati, nelle lotte per una diversa politica fiscale. Considerando che l'attività Tea Party del 2009 -2010 aveva imposto, gli immigrati come capro espiatorio, Wisconsin e OWS rifocalizzarono l'attenzione del pubblico sulla reale minaccia per tutti i lavoratori, non gli immigrati ma, il potere delle grandi imprese e l'agenda politica di quelli che fanno la loro offerta. Entrambi i movimenti di protesta, grazie ad un comportamento timoroso dei sindacati, privi di immaginazione e politicamente ambigui non ha determinato la necessaria iniezione di energia
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giovanile e di idee. I Leader sindacali AFL-CIO non hanno verificato cosa chiedevano quei movimenti, ma si sono presentati come le istituzioni che dovevano mediare tra le parti, un travaglio inutile che di fatto ha creato forti dubbi nel movimento in merito al ruolo del sindacato come in Wisconsin nell'inverno del 2011. D’altra parte, senza la progettazione o direzione dei sindacati, la rivolta spontanea della comunità del lavoro in Madison è riuscita a riformulare il dibattito sulla contrattazione del settore pubblico negli Stati Uniti. La burocrazia ha fiutato il pericolo e ha organizzato una serie di azioni in difesa dei loro privilegi, la difesa è iniziata dal blocco burocratico forte, quello di Washington DC. Solo sei mesi più tardi, i leader dell'unione hanno cominciato a fare visite regolari a Zuccotti Park e ad altri accampamenti di alto profilo in tutto il paese, offrendo aiuto materiale e rinforzi sindacali per i cortei e le manifestazioni di Occupy. Lavoro Occupato? Sulla base di questa interazione con la maggioranza dei movimenti, Stuart Applebaum, un leader sindacale di New York City ha assicurato ai media che "il movimento Occupy ha cambiato i sindacati." La domanda era: come è possibile? E in che modo? Sarebbe una trasformazione miracolosa in effetti se il lavoro organizzato, ispirato da OWS, abbraccia l'azione diretta, un processo decisionale democratico, un sindacato militante e stipendi per i funzionari vicini alla retribuzione dei lavoratori che essi rappresentano. Sarebbe anche utile che i sindacati oltre al posizionarsi come rappresentanti di maggioranza della classe operaia americana contro le élite economiche rappresentate da Wall Street, non siano contro Occupy in una deleteria logica del "noi e loro".6 Purtroppo, molti sindacati nazionali, pre e post Occupy, utilizzano gli stessi consulenti tanto pagati del Partito Democratico e relativi sondaggi di opinione, che alimentano fusioni infinite dell'amministrazione Obama tra "classe operaia" e "classe media". Come lo storico del lavoro Nelson Lichtenstein sostiene: "servirà solo a fuorviare e confondere." La categoria contemporanea della classe media "non ha alcun senso, scopo politico, mentre l'idea di una classe operaia è il font di tutto questo", scrive Lichtenstein: Abbiamo bisogno di costruire un senso di dignità di classe e un destino per tutti coloro il cui lavoro non riesce a fornire un riconoscimento sociale e benessere economico. Abbiamo bisogno di ripristinare una certa precisione nella definizione di chi veramente rappresenta la maggioranza della classe operaia americana. Unionisti e coloro che sostengono a loro nome la necessità di utilizzare linguaggio, potere e storia razionale ed emotiva dei movimenti sia del Wisconsin che dei parchi di Wall Street devono confrontarsi e non appropriarsi oppure mistificare i nostri percorsi. Per parlare a nome della classe operaia è necessario educare milioni di americani alla realizzazione del loro futuro è legarsi alla loro capacità di organizzazione ed empowerment.7 Educative e stimolante come erano, le proteste del Wisconsin e di OWS dimostrano la difficoltà di essere sostenute da un sindacato imbalsamato. Entrambi si sono ritirati, sono stati frantumati anche per il contrasto del sindacato, il comportamento sindacale ha di fatto influito sul non raggiungimento dei loro obiettivi, che, nel caso di OWS, tendevano ad essere molto più diffusi rispetto alle richieste dello stato del Wisconsin. In Wisconsin, gli sforzi sindacali non sono stati sufficienti per riprendere le decisioni antisindacali del governatore Scott Walker, l’accanimento dei repubblicani contro i diritti di contrattazione del settore pubblico ancora in gran parte intatti, al momento del suo insediamento, sono stati oggetto di attacco per tutta la durata del suo mandato di quattro anni..8
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Ritornare allo sciopero Nel 2012, mentre la campagna di rielezione di Obama ha parlato per la maggior parte della campagna elettorale e utilizzato molte delle risorse disponibili del lavoro tradizionale, c’erano, ci sono stati movimenti che puntavano in una direzione opposta. Ad esempio, il più grande sciopero dell'anno, 25.000 insegnanti delle scuole pubbliche di Chicago, si sono incontrati nel merito con le lotte del Wisconsin e con i temi di OWS. Sotto la guida nuova degli attivisti, il Chicago Teachers Union (CTU) ha anche fornito una dimostrazione importante della potente sinergia tra riforma sindacale, democrazia interna, militanza sul posto di lavoro ed efficace organizzazione della comunità. Prima dello sciopero, i membri del CTU, eletti i nuovi dirigenti e membri del consiglio, hanno svolto un ruolo chiave nella organizzazione interna del CTU impegnandosi nella ricostruzione delle strutture sindacali e nel preparare la contrattazione del 2012. Gli attivisti del CTU anche fatto ampie aperture verso la comunità per neutralizzare, per quanto possibile, le decisioni contro gli insegnanti votate e conosciute come la legge che "riforma l’istruzione". Quando è iniziato lo sciopero CTU, il candidato presidenziale repubblicano Mitt Romney ha espresso la sua solidarietà con il sindaco democratico Rahm Emanuel, che in precedenza era stato alla Casa Bianca come capo staff di Obama. Durante i nove giorni di sciopero, decine di migliaia di studenti, genitori e altri membri della comunità hanno bloccato con gli insegnanti, oltre la scuola, vari punti strategici della città rendendo difficile per Emanuel isolare e demonizzare il CTU, come programmato.9 Nel maggio 2013, Karen Lewis è stato eletto per un altro triennio presidente del CTU con l'80 per cento dei voti. Allo stesso tempo, il CTU stava fornendo un esempio forte agli insegnanti, dimostrando, come nel settore privato, che una simile militanza è possibile. Mentre l'attività di sciopero con grandi unità di contrattazione stabilite ha raggiunto il minimo storico negli ultimi anni, quella degli insegnanti evidenzia una forte controtendenza insieme ad una serie di soggetti privati non ritenuti centrali dal sindacato come ad esempio i lavoratori dei magazzini al dettaglio, dei fast-food, che non hanno diritti di contrattazione collettiva, ma hanno organizzato una serie di scioperi contro la bassa retribuzione e pratiche di lavoro ingiuste che hanno generato forti discriminazioni lavorative. Questi scioperi di protesta hanno coinvolti i lavoratori a basso salario, purtroppo, le attuali condizioni legali determinano poche possibilità di vittoria per il riconoscimento del sindacato in qualsiasi luogo di lavoro se caratterizzato da sub appalto o franchisee . Così, si sono uniti in reti più ampie e forse vaghe, come il Walmart o Fast Food Forward, che generalmente organizzano i lavoratori con un obiettivo a breve termine. Invece, hanno picchettato, proposto appelli al pubblico, petizioni per una migliore retribuzione e condizioni di lavoro, con il sostegno di centri locali dei lavoratori o sindacati nazionali, come la United Electrical Workers, United Food and Commercial Workers, Service Employees International Union. In alcuni casi gli scioperi avevano l’obiettivo di forzare la proprietà delle aziende ad assumersi la responsabilità per la gestione del personale, compresi i salari e le violazioni del monte ore e del personale che impiega nella logistica. A New York City, i lavoratori dei fast-food hanno usato la loro interruzione dal lavoro di un giorno a novembre 2012, per protestare contro la stagnazione dei salari: quasi quattro milioni di lavoratori intrappolati in 8 o 9 dollari l' ora. La campagna non è stata lanciata dalla Comunità di New York per il Cambiamento (NYCC), ma da un susseguirsi di eventi scatenanti, organizzati da giovani che lavorano nei fast food. NYCC aveva in precedenza sostenuto l'organizzazione di quartiere di
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lavoratori immigrati in autolavaggi e supermercati. Per sostenere la situazione dei lavoratori nei fast food, NYCC ha unito le proprie forze con il SEIU, che ha fornito più di 2500 dollari per assumere quaranta organizzatori e pagare le altre spese della campagna nel 2012 . Come spiega NYCC tramite l’organizzatore Jonathan Westin, lo sciopero è stato influenzato da Occupy perché ha coinvolto i lavoratori in modo aperto e pubblico, diretto rispetto al ruolo e al formale comportamento avuto dal sindacato.10 Anche se solo una piccola frazione dei 55.000 lavoratori fast food della città ha partecipato, la copertura mediatica è stata diffusa e favorevole. La iniziale protesta di New York è stata seguita da nuove proteste e pressioni, generando organizzazioni politiche, recuperando il ritardo negli aumenti del salario minimo, un movimento a livello statale e di città. Lo scorso inverno, sia i Fast Food a New York che a Chicago (la richiesta è aumentare i salari del settore di 15 dollari l'ora) hanno organizzato un giro più ampio di attività di protesta da McDonald, Wendy, Dunkin Donuts, Burger King, Subway, e altre catene simili. A Chicago, per sostenere la campagna sono stati spesi da SEIU ingenti quantità di denari. Scioperi e manifestazioni simili, di un giorno sono state organizzate anche per i lavoratori dei fast di Detroit, St. Louis, Kansas City, Milwaukee, e in altre città. Durante l'estate, anche i lavoratori dei fast-food in zone del sud come Memphis e Raleigh si unirono alla mischia. Il 5 dicembre 2013, gli organizzatori estesero le attività di sciopero per la prima volta nelle citta della Pennsylvania e Sud Carolina, come partecipanti alle giornata delle duecento città chiamata "giornata d’azione", progettata dai lavoratori dei fast-food e dei loro sostenitori. Secondo la stampa locale e nazionale, la rapida diffusione della lotta, insieme al recente sciopero della Walmart, stava generando una sfida seria e sostenuta "per due settori che sempre più caratterizzano la nuova economia degli Stati Uniti11." A Seattle, ad esempio, al community college, il professor Kshama Sawant divenne il primo socialista, in quasi un secolo, ad essere eletto al consiglio comunale, dopo aver fatto una campagna politica di supporto alla lotta dei lavoratori. Sawant, attivo anche in Occupy, ha vinto, con il sostegno dei lavoratori e iscritti al sindacato, la sua corsa contro un democratico centrista, che era in combutta da lunga data con i passati padroni dei fast food locali. Venerdì nero L'escalation organizzativa delle proteste alla Walmart è stata parallela alla presenza dei lavoratori dei fast food nell'ottobre 2012, quando abbandonarono il lavoro in trenta negozi in dodici stati. Venerdì nero, il giorno dopo il Ringraziamento, un mese dopo, l'attività di sciopero dei quattrocento lavoratori della Walmart – affiancata da un numero robusto di lavoratori che sostenevano la lotta con la solidarietà – si era diffusa e moltiplicata in tutte le sedi degli Stati. Nella primavera del 2013, i lavoratori della Walmart e i loro sostenitori si confrontano con i store manager in un centinaio di località per mantenere la pressione su Walmart e per migliorare la pianificazione della protesta promessa dopo le proteste del Venerdì nero. Ai primi di giugno del 2013, poco prima della riunione annuale della società di Bentonville, Arkansas, alcuni lavoratori hanno cercato di organizzare uno sciopero più lungo in diversi Stati in cui la Walmart era più forte. Il più grande, tra i più grandi, datori di lavoro della nazione ha risposto sparando e sospendendo più di sessanta attivisti sul posto di lavoro, tra cui alcuni che hanno lasciato il lavoro per assistere i lavoratori.12 Alla vigilia del Venerdì nero lo scorso autunno, il National Labor Relations Board (NLRB) aveva annunciato l'intenzione di emettere numerosi avvisi legali per pratiche di lavoro illegali, dunque una fitta discriminazione per i lavoratori in merito alla gestione dello sciopero e delle lotte condotte 40
dentro e fuori lo stabilimento, avvisi legali contro diversi migliaia di "associati" che hanno firmato per essere attivi nella lotta contro Walmart. L'azione NLRB è stata contestata, perché attua una pratica di rappresaglia e di licenziamenti, di minaccia, intimidazione, interferenze con l'attività di sciopero giuridicamente protetta a livello aziendale. Con questa spinta giuridica la Walmart ha inasprito la protesta che si è sviluppata in 1.500 località nella giornata del 28 novembre 2013. I manifestanti hanno sventolato cartelli, attuato picchetti, mostrato striscioni per contestare la società: "Stop al bullismo, smetti di sparare, comincia a pagare." (Più di 800.000 di 1,3 milioni di dipendenti statunitensi della società guadagnano meno di $ 25.000 all'anno).13 Lavoratori e alleati erano uniti ad attivisti ambientali e dei consumatori, avvocati e studiosi di economia offrivano il loro patrocinio gratuito. La disobbedienza civile, che ha avuto inizio con una cinquantina di arresti a Los Angeles due settimane prima del Venerdì Nero, è continuata anche nei giorni di maggiore vendita per l’azienda. Gli attivisti sono stati arrestati per le proteste anche durante il giorno del Ringraziamento. Ritorno al futuro? L’uso di attaccare il lavoro, i lavoratori, le lotte, con questa veemenza, ferocia d'azione diretta, si rifà ad un'epoca precedente alle relazioni industriali, prima dell’approvazione del National Labor Relations Act (NLRA) nel 1935. Essa si basa su modelli organizzativi tipici del tardo Ottocento e primo Novecento che non degli ultimi 75 anni. In una conferenza, l'anno scorso sul tema " Nuovi modelli di rappresentanza dei lavoratori", il presidente Rich Trumka di AFL -CIO ha dichiarato che il nostro "sistema di rappresentanza sul posto di lavoro non riesce a soddisfare le esigenze dei lavoratori americani”. Ha spiegato i possibili "nuovi modelli per organizzare i lavoratori" anche se non fanno necessariamente parte dei sindacati dell’unione ma con le loro lotte migliorano i rapporti di lavoro e si è impegnato ad assistere "qualsiasi lavoratore o gruppo di lavoratori che vogliono organizzare e costruire il potere nei luoghi di lavoro”.14 Le iniziative "Alt - lavoro" ora abbracciate dalla AFL -CIO riflettono una concezione più ampia di organizzazione del lavoro a lungo sostenuto dalla sinistra. I critici del "sindacalismo da contratto", come Stanley Aronowitz e altri, hanno sostenuto per anni che l'appartenenza sindacale e il funzionamento organizzativo, non devono essere definiti dalla legge o limitate a unità di contrattazione collettiva formali. Perdere le elezioni del consiglio, non avere abbastanza supporto per ottenerne uno, o non avere iscritti sindacali nello stabilimento, significa avere forti ostacoli, anche giuridici, per i lavoratori che agiscono collettivamente per il proprio beneficio. Senza supporto interno e esterno organizzato, i lavoratori non possono mantenere le commissioni di lavoro, non possono impegnarsi in "attività concertate", volte ad ottenere risultati per la gestione e migliorare i salari, le condizioni di lavoro e i possibili benefici. Un noto professore di diritto del lavoro, Charles Morris, ha anche sostenuto che il NLRA ipotizza un "sindacato di minoranza" per coinvolgere i datori di lavoro e avere i sindacati come "soli soci della contrattazione".15 Diversi tentativi di questo tipo sono stati sperimentati con successo nel corso di questi anni e il fascino di questa teoria ha avuto lusinghiere considerazioni nei luoghi di lavoro dove, i sostenitori del sindacato non avevano ancora dimostrato la loro forza e il sostegno organizzato e legale di una nuova contrattazione collettiva. Non a caso, "fai da te l’organizzazione sul posto di lavoro" è stato poco sostenuto prima di diventare, sotto costrizione, la strada maestra. Nel loro vivace pamphlet, “Solidarity Unionism at Starbucks, former Industrial Workers of the World (IWW) organizer Daniel Gross and labor
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historian Staughton Lynd” raccontano la storia della recente scaramuccia di IWW con la catena di coffee shop creati dal miliardario Howard Schultz.16 Nel 2004, la secolare unione radicale è diventata attiva tra i “baristi", di New York, la maggior parte dei quali ha un contratto part time, ed erano "stufi di vivere in condizioni di povertà e di essere maltrattati". Secondo Gross e Lynd , “i lavoratori Starbucks non sono, in grado di organizzare le elezioni dei loro rappresentati e di trovare sponsor, finanziatori per le loro lotte anche se vogliono farlo", perché "sostengono che l' unità della contrattazione dei dipendenti sarebbe un forte rafforzarsi, anche in termini di unità dei lavoratori negli store." Inoltre, il basso budget posseduto evidenzia un pregiudizio politico contro "l’utilizzo del meccanismo progettato per considerare la produzione e la rappresentanza in ogni singolo store." Quando i sindacati statunitensi accettano questo stato di cose, certificano legalmente questa condizione, acquistano «il potere di contrattare quali diritti dei lavoratori devono essere modificati senza impegnarsi in azioni dirette concertate." La distanza tra iscritti, lavoratori e rappresentanti aumenta e si creano frizioni, divisioni che indeboliscono l’intero movimento per responsabilità chiare: il sindacato. Questo è il motivo per cui, gli autori ritengono, che "gli operai in officina, non i funzionari sindacali esterni, sono la vera speranza per il futuro del lavoro". L’unione della minoranza dei militanti? Invece di puntare sui diritti di contrattazione formali, elezioni per la rappresentanza, i sostenitori di Starbucks hanno cercato di ottenere concessioni da parte della società, utilizzando l'azione diretta sul posto di lavoro, in combinazione con proteste pubbliche creative e pubblicità politiche. (Quando la Starbucks organizzò le ritorsioni, sono state depositate le pratiche illegali adottate contro i lavoratori dall’azienda, proprio come hanno fatto, i lavoratori, alla Walmart per contestare il licenziamento per rappresaglia dei suoi sostenitori e le altre forme di comportamento di gestione illegale). Come segno dell'impatto, Gross e Lynd citano gli aumenti salariali introdotti da Starbucks, in risposta alle agitazione dei baristi, di New York City che "hanno ottenuto aumenti salariali del 25% in un periodo in cui i salari al dettaglio in città erano sostanzialmente stagnanti." In Massachusetts, una campagna gestita online da IWW – per sostenere lo sciopero minacciato dalle autorità di vigilanza - è scoppiata dopo Starbucks. La lotta atteneva alla volontà dell’azienda di escludere i supervisori dai turni, una pratica che viola i diritti di legge sui salari e la paga oraria. Per questi lavoratori, questo cambiamento di politica ha significato un taglio di stipendio di quasi il 20%. I supervisori hanno domandato aiuto al sindacato per una campagna di protesta che ha portato ad un aumento dei salari orari da $ 11 a $ 13,59 e ulteriori bonus di $ 350. "Penso che queste sono le forme delle lotte future", prevede Erik Forman, attivista IWW. "I lavoratori stanno decidendo di intervenire sul posto di lavoro, perché il capitale sta distruggendo il quadro giuridico che i sindacati hanno costruito negli Stati Uniti dal 1935 nel settore pubblico e privato." In qualità di ex lavoratore fast-food, Forman trova "importante la prospettiva di una nuova militanza emergente con il sostegno di attori istituzionali più grandi" può essere "emozionante" consolidare la forza e la cultura del sindacato. Durante lo scorso anno, egli osserva, "un'ondata di scioperi, nella stessa giornata, dei fast food ha esposto le modalità di sfruttamento che ci sono dietro ogni hamburger e patatine fritte, lo sfruttamento, non è più nascosto”. "Ma Forman osserva che la lotta non può rappresentare una soluzione al problema, è necessaria ma non sufficiente, bisogna cambiare queste modalità di lavoro, di sfruttamento." Le lotte sono utili per costruire l’organizzazione, la cultura di questi lavoratori, con azioni autonome dalla burocrazia. Il collegamento con i sostenitori della comunità che sono liberi da queste catene, che possiedono uno stipendio legale, è stato importante.17
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Riflettendo in merito alle lotte e al diffuso scetticismo di sinistra in merito all’uso di questo strumento, il giornalista Jenny Brown osserva, con non poco stupore, che "dopo anni di scioperi il sindacato sta finanziando l'organizzazione fast food abbracciando la tattica." Alcuni attivisti intervistati da Brown temono che il sindacato possa smettere di dare il proprio appoggio "non fornendo un sostegno organizzativo di lungo periodo per una differente struttura del lavoro, particolarmente importante nel settore della ristorazione." Altri si chiedono se "il sindacato si impegnerà nel non lasciare i lavoratori senza assistenza legale se gli obiettivi [ad esempio un salario minimo più elevato] non sono ottenuti immediatamente." 18 Durante le lotte organizzate in tutto il paese, lo scrittore Arun Gupta ha elogiato la campagna che " ha consentito di mettere in moto migliaia di lavoratori poveri, americani, latinos e africani" e " generare emozioni che un movimento di lavoratori, da tempo non regalava con le proprie lotte, i lavoratori possono finalmente andare contro il potere corporativo.” Come Forman e Brown, però, ha anche espresso dubbi sul fatto che “per la lotta è fondamentalmente una campagna dei lavoratori che impatta i mezzi di comunicazione in modo continuo e duraturo", campagna che dovrebbe essere ideata e sostenuta dai sindacati.19 Apertura per la sinistra? Molti giovani di sinistra, tra cui alcuni direttamente coinvolti nelle recenti attività di sciopero, vedono maggiori opportunità nel costruire una solida realtà organizzativa. Numerosi giovani lavoratori di fast food, hanno sedimentato l’idea che lo sciopero, le lotte per ottenere diritti, bloccare le attività contro la politica draconiana dei salari, non è una passeggiata. Questa idea di apertura verso la necessità di rivendicare ed ottenere diritti e salari non di fame, appartiene ad un numero crescente di fast food e di negozi al dettaglio ad essi collegati, quest’andamento è verificabile nell’area di Chicago e in molte altre coinvolte nelle lotte. L’inesistenza del sindacato, di esperienze autorganizzate, non sono più percepiti come un vantaggio dai lavoratori, anzi, la presenza del sindacato è fondamentale per i diritti e la salvaguardia del lavoro. Cambia la cultura, l’idea di alcuni manager, come Kahle che affermava: "gli scioperi sono quasi inesistenti nei negozi di mia proprietà, e quasi nessuno dei miei collaboratori è stato iscritto al sindacato", sono un ricordo sgradevole e lontano. Certo, si tratta in molti casi di autorganizzazione, di una campagna autonoma condotta dai lavoratori, lavoratori che da soli hanno concettualizzato e realizzato intere linee di azione e di attività, affermazioni del tipo: "i lavoratori sono stati trasformati in dirigenti sindacali per la prima volta partecipando a questo movimento e sostenuti da colleghi con maggiore esperienza sono in grado di gestire le lotte, ricostruendo la tradizione del sindacalismo radicale." Sono significative. Ad esempio, il confronto con gli insegnanti, le loro lotte, una sorta di riferimento per tutte le persone che lavorano, nell'autunno del 2012 è stato importante per la crescita di tutti i lavoratori dei fast food. Un riconoscimento, di quanto affermato è dato dagli applausi dei lavoratori, alle richieste di creare il sindacato, ogni volta che venivano richiamate le lotte e gli obbiettivi raggiunti.20 Le modalità con le quali questo è avvenuto sono tutte interessanti: dai picchetti, alla solidarietà nelle forme e contenuti delle richieste salariali, alle capacità di autorganizzazione sviluppate durante tutto il periodo delle lotte.21 Alcuni attivisti sindacali come ad esempio Ryan Hill prende atto delle lotte, della necessità di sostenerle, della presenza di giovani lavoratori, dunque una valutazione positiva e di prospettiva. Ecco le sue affermazioni: "C'è un coraggio impressionante in entrambe le campagne che avevamo
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dimenticato in tanti anni di lotte difensive, di insuccessi e sconfitte, spesso definitive" sostiene Hill. Inoltre, "Molti degli attivisti coinvolti citano il movimento e le lotte di Occupy, gli accampamenti di due anni fa, come esperienza politica formativa, insieme alle lotte degli insegnanti e ci sono state anche delle minime relazioni con i lavoratori dell’industria. Queste lotte, possono costruire organizzazioni di lungo periodo e avvicinare i giovani al sindacato, certo l'attuale presenza di leader e attivisti all'interno delle imprese è ancora debole, ma siamo in crescita. Esorto, le altre organizzazioni di sinistra alla rinuncia dei comfort della poltrona e delle tentazioni del potere, se più attivisti sindacali si cimentano nella costruzione di comitati di sostegno per battere società come Walmart o McDonalds siamo più forti e uniti.22 Qualunque cosa accada è importante affermare che l'opportunità, di essere parte di una "minoranza militante" all'interno della classe operaia, attualmente impegnata nella riscoperta di vecchie forme di lotta, è da non perdere. Il posto migliore per imparare, riprendere le lezioni di autorganizzazione e di empowerment è quello delle lotte, dei luoghi di lavoro, della strada. Notes 1
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Union security clauses typically require that all union-represented workers have either dues deducted from their paychecks or, if they choose to be non-members, an equivalent amount in the form of “agency fees.” The strongest form of union security requires everyone in the bargaining unit to become a union member. In September, 2013, a county judge struck down Indiana’s right-to-work law but the state supreme court was expected to uphold its constitutionality. See Tim Evans, “Indiana Attorney General Appeals Ruling That ‘Right-to-Work’ is Unconstitutional,” IndyStar, September 12, 2013, http://indystar.com. Change To Win is the coalition of unions—now numbering only three—that broke away from the AFL-CIO in 2005, with the original intention of creating a rival national labor federation. Quoted by Monica Davey, “Michigan Labor Fight Cleaves a Union Bulwark,” New York Times, December 10, 2012, http://nytimes.com. Steven Greenhouse, “Our Economic Pickle”,” New York Times, January 13, 2013, http://nytimes.com. See Jane Slaughter, “Coping With Michigan Right-to-Work Law,” Labor Notes, May 2013, 4–5. For a lengthier appreciation and defense of Occupy’s resonant political rhetoric, see Michael Yates, “‘We Are the 99%’: The Political Arithmetic of Revolt,” New Labor Forum (Winter 2013): 10–13. Nelson Lichtenstein, “Class Unconciousness: Stop Using ‘Middle Class’ to Depict the Labor Movement,” New Labor Forum (Spring 2012): 11–13. For the most persuasive book-length statement of this argument, see Michael Zweig, The Working-Class Majority: America’s Best Kept Secret (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2000). For the best collective assessment of all aspects of the struggle in Wisconsin, see Michael D. Yates, ed., Wisconsin Uprising: Labor Fights Back (New York: Monthly Review Press, 2010). For more detailed accounts of the CTU struggle, see Lee Sustar, Striking Back in Chicago: How Teachers Took on City Hall and Pushed Back Corporate Education ‘Reform’” (Chicago: Haymarket Books, 2014); Micah Uetricht, Strike for America: Chicago Teachers Against Austerity (New York: Verso/Jacobin Books, 2014); and Alexandra Bradbury, Mark Brenner, Jenny Brown, Jane Slaughter, and Samantha Winslow, How to Jump-Start Your Union: Lessons from the Chicago Teachers (Detroit: Labor Notes, 2014). Also, multiple contributors to Monthly Review analyzed the Chicago contract fight and related public education trends in the June 2013 special edition “Public School Teachers Fight Back,” edited by Michael Yates. Alan Feuer, “Life on $7.25 an Hour,” New York Times, December 1, 2013, 34–35. Josh Eidelson, “Surprise Fast Food Strike Planned in St. Louis,” Salon, May 8, 2013, http://salon.com; and “Fast Food Strikes to Expand Massively,” Salon, August 14, 2013, http://salon.com. For a more sober appraisal of the difficulty of building durable, self-sustaining workers organizations in these sectors, see Arun Gupta, “The Walmart Working Class,” in Leo Panitch, Greg Albo, and Vivek Chibber, eds., Socialist Register 2014: Registering Class (New York: Monthly Review Press, 2014). Jenny Brown, “Retaliation is Illegal, But Walmart Doesn’t Care,” Labor Notes, September 2013, 14–15. As Brown reports, “some fast-food workers have also been fired for organizing.” Peter Dreier, “Walmart Workers Will Make History on Friday as America Confronts Growing Inequality,” Truthout, November 27, 2013, http://truth-out.org. For a summary of this Trumka speech, see Jackie Tortora, “Future of Unions: New Models of Worker Representation,” AFL-CIO Now, March 7, 2013, http://aflcio.org. Charles Morris, The Blue Eagle at Work: Reclaiming Democratic Rights in the American Workplace (Ithaca, NY: Cornell ILR Press, 2004).
16 Daniel Gross and Staughton Lynd, Solidarity Unionism at Starbucks (Oakland: PM Press, 2011). 17 Erik Forman, “Fast Food Unionism: The Unionization of McDonald’s and/or The McDonaldization of Unions,” Recomposition, November 17, 2013, http://recomposition.info. 18 Jenny Brown, “Fast Food Strikes: What’s Cooking?,” Labor Notes, July, 2013, 1–3. 19 Ibid. 20 Trish Kahle, “Beyond Fast Food Strikes,” Jacobin, October 22, 2013, http://jacobinmag.com. 21 Quoted in Peter Rugh, “Low-Wage Workers, Top-Down Unions,” Waging Nonviolence, September 30, 2013, http://wagingnonviolence.org. 22 Ryan Hill, “Opportunities Present for ‘Labor Left’ in Walmart and Fast Food Fights,” Solidarity, October 1, 2013, http://solidarity-us.org.
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France and Germany must both change economic strategy. More balanced strategy is crucial to help peripheral countries and ensure the sustainability of the euro area by André Sapir This op-‐ed was published in French by Le Monde and in German by Handelsblatt. The euro was first and foremost a Franco-‐German project, not only politically but also economically. Thanks to its stability culture, Germany had a strong currency. At times, when the dollar was weak, the D-‐mark was even too strong, penalizing German exporters in favor of their European competitors. Germany was therefore keen to have France and other EU countries peg their currencies to the D-‐mark. For its part, France was keen to also have a strong currency (a ‘franc fort’), but it lacked the necessary stability culture. The way to import it was to peg the franc to the D-‐mark, but politically it was difficult for France to surrender its monetary sovereignty to the Bundesbank. Monetary union was the way to give both countries what they wanted by transferring monetary sovereignty to a European central bank and give it a price stability mandate. And so the euro was born. Unfortunately right before the creation of the euro, Germany suffered an unexpected shock. Reunification led to massive public expenditures and deficits, to which the Bundesbank reacted by tightening monetary policy to maintain price stability. Thus, when Germany joined the euro its currency was strongly overvalued. The early years of the euro were painful for the ‘sick man of Europe’: unemployment, which had traditionally been low (and always lower than in France), rose steadily, reaching a post-‐war high of more than 11 per cent (2 points higher than in France) in 2005; public deficits remained persistently above the 3 per cent limit between 2001 and 2005; and public debt reached a record of 68 per cent in 2005. How did Germany turn the situation around? The short answer is structural adjustment and help from the peripheral euro area countries. The Hartz reforms significantly reduced labor costs and restored German competitiveness. At the same time expansion in the peripheral countries, fuelled partly by German capital flows in search of investment opportunities, helped absorb German
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output when domestic conditions were subdued. As a result, the German current account balance, which had been negative every year since reunification, turned positive in 2002 and reached more than 5 per cent in 2005, a level where it remained thereafter. Export-‐led growth transformed Germany into the ‘healthy woman of Europe’, which today enjoys near full employment and balanced budgets. Yet not all is well. The current situation of internal balance but external surplus suggests that Germany’s competitiveness adjustment has gone too far and is especially detrimental to the peripheral euro countries whose turn it is now to restore their competitiveness. Unfortunately adjustment is difficult in a situation where demand is depressed not only at home but also in the rest of the euro area. Germany alone however cannot rescue the peripheral countries. France, the area’s second largest member, must also do its part. But the country is itself in difficult situation. At the start of the euro, France and Germany had identical unemployment rates, per capita incomes (in purchasing value) and debt-‐to-‐GDP ratios. Today the unemployment rate in France is two times higher than in Germany, its per capita income is 15 per cent lower but its debt-‐to-‐GDP is 15 per cent higher. Such divergence between the two countries is bad for France and for its capacity to work with Germany to repair the euro project. Why have France and Germany diverged so much? The simple answer is that they have adopted different economic strategies. Germany has become an extremely open economy, with exports (goods and services) now accounting for more than 50 per cent of GDP, a figure even higher than in small open economies like Sweden or Switzerland. Its economic policy is dominated by its large manufacturing where employers and workers collaborate closely to foster export competitiveness. One way to ensure that the manufacturing sector remains competitive is to squeeze costs in the non-‐traded sector, where wages have been kept relatively low. By contrast, France has remained a relatively closed economy, with exports now accounting for barely 27 per cent of GDP, a figure even lower than in Italy. Here economic policy is dominated by the interests of public workers and large private firms closely linked to the state, which implies large public expenditure. One way such expenditures (currently equal to 57 per cent of GDP in France compared to only 45 in Germany) largely in favor of the non-‐traded sector is to tax the traded sector. No wonder the country is losing export competitiveness. France and Germany must both change their economic strategy. Germany must reduce its over-‐ reliance on exports and expand both its non-‐traded (service) activities and its internal demand. France must reduce its over-‐reliance on publically-‐financed internal demand and tax less its economy, especially in the traded sector. A more balanced economic strategy in the two countries is crucial to help the peripheral countries solve their own predicaments and ensure the sustainability of the euro area. Pubblicato da: http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1244-‐france-‐and-‐germany-‐must-‐both-‐change-‐economic-‐ strategy/
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Elezioni, Europa: lo spettacolo della crescita, il PIL, i PIGS. Che sarà della mia vita, chi lo sa? di Alfonso Marino “Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, ed. ital. Isedi, pag.65).
1 Il mito della crescita C’è un mito che, nell’ultimo quarto di secolo, ha guidato la realtà e l’immaginario sociale, un mito che, unisce le istituzioni politiche sia di destra che di sinistra: è il mito della crescita. Quest’unione, cui è connessa l’idea di uno sviluppo illimitato, ha portato con sé le parole d’ordine della massimizzazione della produzione, dei consumi e dei profitti, del mercato globale fino a consegnarci all’attuale religione del debito e della crisi di lungo periodo. La religione della crescita, dimenticando che crescita è anche un luogo fisico, uno spazio geografico e culturale, una contingenza di opportunità; crescita è anche la continua composizione e scomposizione di asimmetrie economiche, sociali, d’informazione. Le differenze non possono ricondursi ad unità, le differenze devono essere governate, gestite. La gestione presente, ipoteca il futuro. La promessa dell’ottimo futuro, della crescita è relativa al ben vivere presente, un ben vivere diffuso e non di alcuni, per alcuni. La creazione e la gestione di questo complesso e possibile equilibro del vivere sono stati invece frantumati dal debito economico, culturale, politico, industriale, un debito complessivo di reputazione. Mentre recitiamo crescita, crescita, crescita, chiediamoci cosa distruggiamo per crescere? La domanda non è ascoltata, pensiamo alla ricchezza materiale ancora in termini di Prodotto Interno Lordo, ma dopo aver distrutto tanto, non cresciamo più. Le politiche per la crescita e gli strumenti di misurazione, sono due pilastri ineludibili che trasciniamo, come sinistra, nell’arena delle decisioni dagli anni 70. Possiamo solo scegliere tra il macro declino del presente e la micro crescita del domani? Sono contro l’assunzione della crescita come principio fondamentale del nostro vivere senza declinarla. Sono contro perché la madre terra vive senza la specie umana, la specie umana non vive senza la madre terra. 2 La produzione Tutto è riproducibile in tempi brevi e in modo illimitato: anche il territorio? L’ambiente? Le vite delle persone? La velocità di produzione dell’auto non è quella dell’albero, ma se servono entrambi bisogna considerare che le velocità sono differenti, ma soprattutto che i benefici sono differenti. Uno spettacolo continuo la produzione e la merce.
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Lo spettacolo della produzione: fabbriche pulite, operai e operaie in camice bianco lindi e pinti, sorrisi smaglianti: è lo spettacolo del lavoro; poi, come dal nulla, ecco le morti e gli infortuni sul lavoro, le assicurazioni, che interi settori del metalmeccanico esternalizzati eludono, come nell’edilizia, mentre, nel turismo, nel commercio, nell’agricoltura, c’è una robusta evasione contributiva e fiscale e in tutti i settori, tanti lavoratori con Ridotte Capacità Lavorative (RCL). Lo spettacolo della merce. C’è solo l’imbarazzo della scelta: dalla webcam porno al trita aglio elettrico: scegliete, godete, perché possedere merce è godere. Possedere merce è avere, allontanare l’essere e realizzare l’avere, ma nella crisi duratura quali guasti psicologici, sociali, culturali provoca questo modello? Che cos’è il precariato? Non esistono i luoghi del lavoro ma il lavorare e come si coniugano i diritti con il percorso del precario? Sei mesi al banco frigo, tre mesi al fast food, sei mesi fermo, poi ti imbarchi: salire e scendere dalla giostra, questo è lavorare. Il lavoro è altro: il lavoro è scommetto sul mio costruirmi una vita, ma non c’è. Se vuoi, puoi scommettere agli eurobet e ti giochi la vita se entri in quella dipendenza e quella dipendenza è in forte aumento. La decisione di puntare alla crescita incessante della produttività e dei consumi, ha portato ad una ricchezza materiale, di medio periodo, che evidenzia duraturi costi economici, ambientali e sociali. La produttività del lavoro, com’è noto, cresce se il capitale umano, cioè l’intelligenza e la competenza delle persone, il loro sforzo fisico, si combinano con il capitale fisso rappresentato da tecnologie, macchinari, sistemi organizzativi, infrastrutture di rete materiali e immateriali. In assenza di questa combinazione parlare di produttività, chiedere produttività è inutile. Qual è il significato della produttività in un sistema che chiede bassi costi del lavoro – elevata flessibilità e costi umani, evidenziando che la rendita prevale sull’investimento in lavoro, in ricerca? Quando si crea ricchezza in questa logica non si rimuovono le cause della povertà. 3 Lo sviluppo In economia crescita e sviluppo sono categorie precise e significano: l’identificazione e la rimozione delle ragioni da cui dipendono la povertà materiale e immateriale, l’identificazione dei fattori, dei percorsi che possono portare ad una ricchezza sostenuta nel tempo. Fin qui la crescita, ed ecco lo sviluppo: come distribuire la ricchezza prodotta? Ovvero la comprensione delle azioni attraverso le quali la crescita possa tradursi in una effettiva riduzione della povertà diretta, il reddito e l’accesso alle risorse, e indiretta, il debito pubblico, per la maggior parte delle persone che la vivono. Debito pubblico che ognuno, nascendo eredita. Interessante questa distribuzione diffusa del debito pubblico e la concentrazione nelle mani di pochi, di enormi ricchezze finanziarie e di potere. I pochi puntano alla competizione sul costo del lavoro; ecco perché la scuola, l’università sono un residuo, un puro accidente: è inutile formare. Perché avere idee, coscienze critiche? Meglio individui ignoranti e pronti al lavoro, comunque, dovunque, qualunque. Il pensiero economico ha di fatto trascurato lo sviluppo e l’analisi di una variabile fondamentale per ogni Nazione: il capitale umano. Le famiglie, oltre che come unità di consumo, sono unità produttive di capitale umano e di servizi resi. In tale ottica, andrebbe integrato al conto economico nazionale quello delle famiglie. Questa
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impostazione evidenzia la necessità della revisione di quanto fino ad ora affermato in materia di economia familiare. 4 Lo Stato Le imprese si dirigono altrove, dove di fatto i costi sono più bassi e i diritti dei lavoratori iniziano da poco ad annunciarsi con qualche vagito, ad esempio, Cina, India, Marocco. Ecco perché le imprese non sono al centro della competizione e sono state sostituite dagli Stati. I veri competitori sono gli Stati, che attirano imprese, risorse strategiche. La competizione è tra Stati. Andiamo vero i grandi Stati nazionali che competono tra loro e non verso le federazioni, i grandi Stati nazionali: Brasile, Russia, Usa, Cina, India, e quando vuoi altro dallo Stato nazionale, vuoi la federazione c’è l’Ucraina e ritornando dalle nostre parti c’è la Germania che prova ad avere comportamenti da Stato nazionale di governo della federazione, una federazione che guarda anche ad est come paesi che possono sostituire una parte dell’attuale Unione europea e in questa logica il confronto è politico prima che economico. In questa impostazione l'Europa dov’è?. L’Europa avrà il suo centro nella Germania con 150 milioni di abitanti? In questo percorso di competizione tra Stati la divisione all’interno dello stesso euro è netta: la Germania dentro con la sua moneta politica ed economica, la Gran Bretagna fuori con la sua moneta finanziaria che è diversa dall’euro. Questa cultura prevede per Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – PIGS – [Alfonso Marino, Prodotto Interno Losco, Effetto Farfalla, 2013 altri link sul libro in] la firma del memorandum, vedi i governi spagnoli, greci e portoghesi, che accettano il controllo. Redistribuire ricchezza senza un pensiero lungo forse è impossibile. La moneta unica: simbolo e sostanza dell’Europa unita, invece viviamo, subendoli, robusti differenziali di produttività e di competitività tra i paesi. L'euro, moneta unica, impone alle nazioni meno competitive la svalutazione dei fattori produttivi e a quelle più competitive una compressione dei salari reali e la conseguente mancata redistribuzione del reddito. Nella lunga crisi finanziaria e del fiscal compact, la moneta unica rappresenta un forte elemento di rigidità. Dunque, la volontà di unire si perde nella realtà della divisione, un rischio importante, da evitare. Forse è utile confrontarsi sulla possibilità di ritornare alle divise nazionali e utilizzare l’euro come moneta unica in relazione al dollaro e alle altre monete uniche forti. Un regime di cambi flessibili, una proposta da verificare. L’idea è analoga a quella avanzata da Keynes a Bretton Woods con il suo Bancor. 5 Il Mercato Chi ha scritto le leggi di riforma del mercato del lavoro nel 1993, 1997, 2000, 2004, 2007, 2009 fino alla Fornero e dintorni del Job Act, – penso Job Act, are you pop? – ha verificato l’impatto delle precedenti? La tutela del potere d’acquisto del salario, i minimi contrattuali, il sistema di indicizzazione (Indice dei prezzi al consumo armonizzati) tutto fermo, attendere prego: le riforme del mercato del lavoro senza politiche industriali sono inutili. In tutti gli accordi, non c’è nessun riferimento alla conoscenza come capitale condiviso sul quale investire. L’impresa, e non solo pubblica, è stata anche quella delle stockoptions, degli investimenti spesso interessati e speculativi, rapaci e non capaci, con favolose beautiful exit per la
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dirigenza: la materia è ferma, il governo non informa e non elabora accordi sul tema di questa produttività dirigenziale. Asimmetrie ampie, robuste, i patti si costruiscono riducendo le asimmetrie, dando voce. La contrattazione territoriale in luoghi dove il lavoro è sommerso, illegale, informale, nero, insomma il mercato del lavoro che l’Istat definisce Economia non direttamente osservabile (Endo), fenomeno diffuso in tutti i Paesi detti PIGS (Italia 30% media UE 6%) come viene gestita? Da chi? Oppure questi comportamenti continuano ad essere trattati solo con le sanzioni? Come coniughiamo Endo e crescita? Nei Paesi dove le donne per dare la vita muoiono 1 a 200 mentre nell’Europa è 1 a 30mila, in quei luoghi, dove ogni 200 nascite muore una donna, si estraggono le materie prime che reggono il nostro modello termo – industriale e causa efficiente, ma nell’Europa, cresce il part time involontario: 54,5% nel 2012 (+19% al 2007). L'Italia ha il più basso tasso di occupazione femminile (solo Grecia e Malta presentano dati peggiori) e un tasso di inattività molto elevato, +10% di quello europeo, con gravi ripercussioni sulla sostenibilità economica di lungo periodo. Sono presenti interessanti idee in merito alla creazione di economie di scala nel sociale: asili, scuole, assistenza agli anziani, sono politiche d’investimento che rispondono a una domanda in crescita, capace di generare difesa del reddito indiretto, che accompagnato alla possibilità di far emergere il lavoro di cura come reddito dichiarabile al pari di altri investimenti sostenuti dalle famiglie che sono escluse da qualunque fiscalità di vantaggio, possono aprire un possibile percorso per una ripartizione più equa del lavoro e del reddito legato alla cura, nella famiglia e nel mercato del lavoro. Perché le burocrazie non apprendono dai propri errori? Siamo fermi al valore d’uso e di scambio ma dobbiamo comprendere il consumo come valore segno. Il driver del valore segno è la tecnologia, ricordiamoci però che anche nella mitica tecnologia informatica il dialogo avviene sempre nella logica master – slave, servo – padrone, tema di riflessione e studio in Hegel, Marx, Nietzsche, Lacan; forse una rilettura, un confronto, che dite? 6 Le ferite del mercato e dello Stato Mercato e Stato: tre ferite profonde. La prima è data dalla necessità di cambiare la distribuzione della ricchezza e del potere: non è più declinabile solo nel conflitto capitale – lavoro, ma, dal destino della specie umana. [di cui debito e sua collocazione è aspetto importante]. Questo, implica profonde riflessioni. La prima crisi strutturale del modello termo -‐ industriale che si presentava impetuoso e duraturo, è datata 1973, quando il paradigma dell’auto con il motore che dipende dalla raffinazione del petrolio non è più vincente e si organizzano le targhe alterne, i giorni dispari e pari, Cesare Romiti annuncia imponenti investimenti per il motore elettrico ma, nasce l’IFI, Istituto Finanziario. Il rapporto con le banche diventa intenso, gli investimenti non sono ripartiti dalla forza della produzione, ma dall’investimento bancario che deve realizzare nel breve periodo e non sempre utilizzando la produzione, ma, strumenti alternativi al lavoro manifatturiero, utili robusti e veloci. Dunque, i prodotti sono limitati, il loro uso dev’essere regolamentato, cresciamo, ma dipendiamo.
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La seconda ferita. In quello stesso periodo – fine anni ’70 -‐ J.O’ Connor studiando la mano pubblica scrive “La crisi Fiscale dello Stato” e Federico Caffè afferma: “…Il messaggio che in modo estremamente diffuso viene associato a questa formula è quello di uno Stato che, vittima di apprendisti stregoni che l’hanno indotto a percorrere con leggerezza la strada dell’espansione della spesa pubblica, si trova di fronte a una situazione di dissesto: sia per la reazione dei contribuenti divenuti sempre più intolleranti all’aggravarsi degli oneri da pagare, sia per l’evidente incapacità di assicurare l’adeguatezza e l’efficienza dei servizi pubblici che potrebbero in qualche modo giustificare l’espansione della spesa; sia per il processo di diffusione delle aspettative crescenti alimentato dalla pressione imitativa dei vari gruppi sociali”. Nel 1973, la riflessione in merito alla crisi fiscale e al debito è chiara. Dopo 40 anni siamo ancora al 1973? Seguendo questa seconda ferita siamo nel 1982, quando anche l’avviso di Federico Caffè sul Manifesto del 29 gennaio 1982, viene ignorato, Caffè scrive “La solitudine del riformista”. Riflessione che segue quella proposta da Enrico Berlinguer [La via dell’austerità, per un nuovo modello di sviluppo] in tema di austerità, come proposta di governo della società e non scelta da subire, una proposta politica profonda di cambiamento, non la decrescita alla Latouche. La terza ferita è data dalla riflessione del Club di Roma. L’approccio antropico e la sostenibilità dell’unico pianeta disponibile [Rapporto Brundtland, 1987]. Il rapporto definisce sostenibile lo sviluppo che “assicura il soddisfacimento dei bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. [pag. 8 W. C. E. D. Oxford University Press, 1987] Questa idea è fondamentale per diminuire la distanza tra gli economisti e gli ecologisti, ma, allo stesso tempo apre una seria riflessione tra gli economisti sensibili al tema delle risorse ambientali e del loro utilizzo. Lo sviluppo, per gli economisti è stato misurato spesso, come reddito pro-‐capite e l’ambiente naturale utile per creare prodotto materiale, è stato sempre pensato come fonte inesauribile per attingere tutte le risorse necessarie alla produzione e luogo di deposito degli scarti, dei rifiuti tossici delle attività industriali e di consumo. La sostenibilità invece, chiede ad ognuno di noi: come sostieni l’azione che stai compiendo? Come sostiene l’azione che stai compiendo oggi con quelle delle future generazioni? Esistono dunque dei limiti alle nostre azioni, all’idea di crescita infinita e di un continuo sviluppo della ricchezza materiale e immateriale. Nessuno spiega quanto costa smaltire un pc o un tablet che passa dalla prima alla sesta generazione in sei mesi, mentre il 70% dei consumatori utilizza solo word e mail, ma siamo i primi consumatori nel settore. La velocità della produzione è quella dello smaltimento? Smaltimento, dove? Chi? Cosa? Proviamo con una idea forte: lo sviluppo umano deve essere sostenibile per la madre terra. Nel nostro modello la dimensione materiale, del possesso, dell’avere è prioritaria, viene prima di quella biologica e comune? Non possiamo allargare il nostro shopping compulsivo alla madre terra e pure ci siamo. Cosa significa Prodotto Interno Lordo quando distruggi parti dell’ecosistema? Urge un sistema di contabilità ambientale, la necessità di pensare e misurare in termini di impronta ecologica, indice di sviluppo umano. Il capitale è sempre più ecologico – naturale, umano, la soluzione non è quella delle ventimila Leghe sotto i mari: il federalismo regionale, il Nord Italia lavora in conto terzi per la Germania e il Sud Italia compete con Tunisi per il costo del lavoro. Nord e Sud Italia con la Corte tedesca che boccia il piano Draghi per l'acquisto dei titoli dei paesi in sofferenza da parte della Bce, non è scontato che
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la Corte di giustizia accetti di considerare il caso e dare ragione a Draghi e farlo in tempi brevi. Quest’ipotesi, congela il programma Outright monetary transactions [Omt] risvegliando gli speculatori. Nell’ipotesi contraria, tempi brevi e utilizzo dell’Omt, si profila la contrapposizione tra il diritto europeo e quello tedesco e la possibilità che quest’ultimo potrebbe affossare l’Omt. La Bce presta oltre mille miliardi di euro all'1% alle banche private e impone allo stesso tempo piani di durissima austerità. Liquidità che non puoi spendere, liquidità che le banche gestiscono per scopi diversi. Il Parlamento europeo che uscirà dalle elezioni di maggio dovrà invertire la rotta. Ci riuscirà? Questo è l’inizio del percorso per l’unione bancaria ma, pesa il potere delle lobby e dei governi, pesano le tentazioni di concrete ipotesi di bad bank come nel caso Alitalia? Se è necessario un salvataggio delle banche, il governo italiano proceda in trasparenza assegnando responsabilità individuali e costi. Il nuovo governo italiano, febbraio 2014, con la vecchia maggioranza è una sorta di tangram che non crea una figura riconoscibile. Alcuni pezzi del tangram sono: a) un governo giovane e rosa, la “novità”; b) un tecnico ultra sessantenne in Via XX Settembre per non dare preoccupazioni alla Germania; c) il vecchio Manuale Cencelli per sottosegretari e viceministri. Un tangram composto di vari pezzi, dalla Confindustria alla Lega delle Cooperative, che al momento non formano una figura. Questi dubbi si scioglieranno quanto prima e sarà comprensibile l’eventuale qualità della stoffa e dei sarti. 6 La Politica Figurarsi se basta l’uomo solo al comando per il cambio di paradigma. Il cambio di paradigma è: dal modello termo -‐ industriale basato sul prodotto individuale al modello ecocentrico dei beni comuni. La categoria di scarsità della madre terra e differente dalla scarsità economica. La prima è riferita alle proprietà fisiche o biologiche del bene, necessarie per la vita di esseri umani, animali o vegetali. La seconda è riferita alla proprietà in quanto tale, ovvero proprietà che ha il bene di fornire utilità. La scarsità ecologica incide sull’idea di crescita perché nel tempo, l’uso che gli esseri umani hanno fatto e stanno facendo della madre terra, delle sue risorse, determina l’assenza del bene. La natura si è trasformata in prodotto industriale. I partiti sono ancora il luogo nel quale è possibile crescere in termini di valori e cultura? La politica della sinistra italiana, ad esempio, da ormai molti anni si presenta come la descrive Karl Weick, riprendendo Piet Hein nel “Il governo della maggioranza” del 1966. “ Il suo partito era la Fratellanza dei Fratelli e ce n’eran più di questi che di quelli. Cioè, costituivano quella minoranza che formava gran parte della maggioranza. Nel partito, lui era la fazione sostenuta dalla maggior frazione. E in ogni gruppo, dentro ogni gruppo, cercava il gruppo che maggiore sostegno dava. Il gruppo finale aveva infine eletto un triunvirato cui tutti loro portavan rispetto. Di questi tre, due avevan la parola finale poiché su tre, due son la parte più grande del totale. Uno dei due, qualche debolezza presentava, così che uno solo sopra gli altri dominava. Egli era il numero più grande della diade che formava la maggior parte della triade eletto dai più di quelli tra i cui vanti c’era il 52
rappresentare la parte maggiore di quanti sono la maggior parte della maggior parte. Egli non si concesse mai un attimo di pausa nel perseguire dei più la causa. E ognuno di loro ovunque andasse, a proprie spese imparava che cosa significasse essere comandati dalla maggioranza. Ma non significava niente, era la minoranza.” (K. Weick, Organizzare, Isedi, 1993) E pensare che quando eravamo partiti, il riferimento era anche il twitter del 1919 di Antonio Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.” Questo twitter è ancora di nostro interesse? Con circa 241 milioni di utenti in tutto il mondo che pubblicano 500 milioni di messaggi al giorno, Twitter, Le Scienze, è uno dei social network che si è affermato più rapidamente e in modo capillare. Una delle ragioni di questo successo è il legame debole [Karl Weick op. cit.] della reciprocità, ognuno esprime la sua opinione, senza bisogno di stringere legami. Forse perché twitter viene utilizzato molto per cercare di convincere gli altri delle proprie opinioni, e molto poco per ammettere di aver abbracciato l'opinione altrui. Allo stesso tempo, in alcuni casi di lotte forti sui diritti e contro le dittature, i social media sono diventati focal point della comunicazione: è il caso della Turchia ( per facilitare l’informazione tra i manifestanti) e dell’Egitto (facilitare l’informazione verso l’esterno del Paese), dove i media tradizionali, controllati dal governo oscurano qualunque informazione in merito alle lotte. Tabella 1: dov’è l’Italia? Indicatori Categorie economiche utilizzate Punteggio Prodotto Interno Lordo Beni e Servizi prodotti in un certo intervallo di tempo (anno) nel Paese Indice Sviluppo Umano Reddito 0.854 Istruzione Salute Indice Equità Genere Istruzione 0.64 Partecipazione Empowerment Impronta Ecologica Bio capacità e consumo della terra 0,85
Classifica 11/169
33/169
72/169
59/169
Quando si presenta l’Italia attraverso il PIL siamo 110, ma quando verifichiamo, utilizzando altri indicatori, tabella 1, la nostra posizione nel mondo si evidenzia la crisi economico – produttiva e culturale. È uscita lo scorso 5 marzo l’analisi approfondita della Commissione europea sull'Italia, documento chiave della procedura per monitorare gli squilibri macroeconomici introdotta di recente assieme al fiscal compact. L’Italia presenta molte ombre e qualche luce, la lettura del documento al link che segue evidenzia alcune anomalie tutte italiane sulle quali da tempo politologi, politici, intellettuali di varia natura e forma, imprenditori, movimenti del firmamento, discutano, e poi gettano la spugna, qualche volta con dignità.
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Dalla sensibilità della politica dipendono i destini dell’umanità. L’assenza di sensibilità della politica determina che: “la società fabbrica tipi umani cosi come fabbrica tipi di scarpe e di vestiti o di automobili: merci di cui esiste un domanda e già da bambino impari quale sia il tipo più richiesto.” [Fuga dalla libertà, 1930 E. Fromm] 7. TG1, TG2, TG4, TG speciale, Radio Radicale, Click News e tutto il portale L’industria culturale è la TV [la cattiva maestra diceva Popper], il consolidarsi della società dello spettacolo, ogni altra forma di cultura vive di tagli e difficoltà. Vive nella marginalità il teatro, Pompei: la cultura non determina crescita economica e sociale, gli swap derivati si? Urgono investimenti in cultura, nell’industria della cultura alternativa alla televisione, oppure siamo il SI di Essere e tempo, [Heidegger] pag. 279, quel SI diventa opinione comune, manipolazione oggettiva, progetto condiviso senza verifica, solo passiva partecipazione, senza apprendere ad usare oggetti e scrivere soggetti, senza valore d’uso e di scambio, ma solo valore segno. L’apprendere non è dato dall’allargare il già detto o ripeterlo meglio, apprendere è sperimentare, avere la possibilità di sperimentare per cambiare l’essere. Quanto spazio c’è nella nostra città o nelle città italiane per giovani, che vogliono sperimentare l’utilizzo di una macchina da presa e montare un documentario, oppure con una chitarra, incidere in un sala di proprietà pubblica con un marchio pubblico e garantire al Comune che li lancia un ritorno su quell’investimento? La sapienza umana (saggezza e scienza) è risorsa rara, i comportamenti coerenti sono rari, …tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Si il mare, sapete, ma non è sufficiente nuotare da una riva all’altra per essere coerenti; sono nuove forme di spettacolo, di vecchi comici televisivi. Lo spreco ed il consumo non creano una mobilità verticale. In questa logica, è molto difficile realizzare mobilità sociale, quella per la quale nasci figlio di operaio e diventi magistrato. Alla sveglia sorseggio un tè indiano o un caffè arabo, aggiungo frutti di bosco francesi o latte italiano conservato nel frigorifero tedesco, indosso la maglia egiziana, il jeans di Giacarta, l’intimo cinese, le scarpe inglesi, ascolto la radio costruita ad Hong Kong nell’auto made in USA, appena nell’ufficio sposto la poltrona svedese, uso il mio pc di 147 pezzi costruiti in varie parti del mondo con etichetta che identifica il prodotto con un solo Paese, pranzo con il riso bio cantonese, la carne argentina e un bicchiere di vino californiano…… viviamo così, lo specchio di questo vivere è dentro lo spot costruito negli studios indiani, siamo appena all’ora di pranzo e la Tv ha già inviato centinaia di questi messaggi, io al centro e il comodo governo della merce con una passo felpato, un sorriso abbozzato, uno sbuffo gridato, che conferma, rassicura, afferma: bello essere globali. Scusate, ma da dove proviene il mio consumare? Chi produce quelle merci? I diritti di chi lavora sono inclusi oppure pagati due dollari per giornata? Vogliamo ritrovare il senso dei beni comuni, dei beni relazionali, sperimentare nuove forme di condivisione? 8 Ciao amore, ciao amore ciao38? 38
Ciao amore, ciao è una canzone scritta dal cantautore italiano Luigi Tenco ed interpretata al Festival di Sanremo del 1967 anche da Dalida. La canzone è legata al suicidio di Tenco, (Sanremo 27 gennaio 1967) dopo l’esclusione del brano dalla finale del Festival. Il brano aveva ottenuto dalle giurie 38 voti su 900 e fu poi escluso dal ripescaggio dalla commissione di esperti.
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La precarietà si deve strutturare, espandersi? La precarietà deve sostituire la one best way dell’organizzazione del lavoro fordista. La contrattazione è polverizzata, il potere d’acquisto di chi possiede un salario è in declino continuo e costante e continuiamo con il proporre la competizione sul costo del lavoro. Doloroso percorso che da tempo stritola le nostre vite. Competere sul costo del lavoro, competere ad essere più poveri, determina da tempo forme di nazionalismo esasperato che ormai presentano robuste traiettorie di estrema destra e non solo come affermato di recente dal leader greco di Syriza. Il nuovo nazionalismo presenta forme diverse, partiti populisti, separatisti, neonazisti. Un fenomeno dal quale nessuno è escluso in Europa. Dalla Grecia alla Russia, passando per Francia, Scandinavia, Germania e Italia, il vecchio continente ribolle di tensioni. Segnalo un lavoro utile alla comprensione del fenomeno. L’idea, nella costruzione della tabella che segue attiene, alle differenti, ma simili, manifestazioni di nazionalismi e regionalismi: un percorso che conduce alla diffusa e intensa presenza della destra estrema condivisa. Nella Tabella 2 “Le destre: Europa e dintorni”, l’elenco delle Nazioni non è esaustivo e non tutte sono all’interno dell’Unione, anche se sono collocate geograficamente nell’Europa attuale e futura. “Estrema destra”, semplifica la complessità dei molteplici elementi condivisi, alcuni dei quali: l’antieuropeismo, il nazionalismo (etnico o meno), il radicalismo religioso, il razzismo, sono categorie che solo in parte spiegano l’estesa presenza territoriale e culturale del fenomeno. Una presenza che al momento sintetizzo con la seguente domanda: nessuna Europa senza estrema destra? Nella tabella che segue [Tabella 2], le informazioni sono frammentate e non sempre comparabili, ma interessanti per un primo approfondimento. Tabella 2 Le destre: Europa e dintorni Legenda ⓿ = xenofobia, razzismo, omofobia ⓿ = antisemitismo ⓿ = anti -‐ Europa ⓿= fascismo, nazismo ⓿ = nazionalismo ⓿ = localismo, indipendentismo Stati Link Partito
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Ultimo risultato elettorale o sondaggio disponibile
⓿
21,5% 2013
Austria
www.fpoe.at
Belgio
www.vlaamsblok.be
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21% 2007
Belgio
http://www.dnat.be
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
In coalizione con Vlaamsblok
Danimarca
www.danskfolkeparti.dk
Finlandia
http://kauhajokinyt.fi
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⓿ -‐
12,6% 2011
⓿ -‐
⓿ -‐
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⓿ -‐
La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -‐ ISSN 2282-‐3808 -‐ Autorizzazione n. 23/2013 -‐ 55 N.4 Aprile 2014 -‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino
Francia
www.front-‐national.com
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
1° partito nei sondaggi 2013
Francia
www.m-‐n-‐r.com
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
In coalizione con FN
Germania
www.rep.de
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
11% 2011
Germania
http://www.dvu.net
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
4% 2011
Germania
www.npd.net
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
6% 2011
Grecia
Alba Dorata
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿
5,3% 2010
Grecia
www.metopo.gr
⓿ -‐
G. Bretagna
www.bnp.org.uk
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
Irlanda
Eire Now (no link)
⓿ -‐
Italia
www.msifiammatric.it
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
-‐ 1% elezioni 2013
Italia
www.forzanuova.org
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
-‐ 1% elezioni 2013
Italia
www.frontenazionale.it
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐
Norvegia
www.fedrelandspartiet.no
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐
Olanda
www.pim-‐fortuyn.nl
Portogallo
www.partidonacional.org
⓿ -‐
⓿ ⓿ ⓿ -‐
⓿ -‐
⓿ -‐
⓿ -‐
-‐
⓿
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐ 23% sondaggio 2/2014-‐ -‐ -‐ -‐ -‐ -‐
20% sondaggio del 2/2014 -‐ 1% elezioni 2012
Romania
www.romare.ro
⓿ ⓿ -‐
⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐
Russia
www.ldpr.ru
⓿ ⓿ -‐
⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐
Russia
FNP (no link)
⓿ ⓿ -‐
⓿ ⓿ -‐
-‐ -‐ -‐ -‐ -‐
Slovacchia
PNS (no link)
⓿ ⓿ -‐
⓿ ⓿ -‐
-‐ 1% elezioni 2012
Spagna
www.democracianacional.org
Svezia
www.sverigedemokraterna.se ⓿ -‐
⓿ -‐
⓿ -‐
⓿ -‐
Svizzera
www.blocher.ch
Ungheria
www.miep.hu
⓿ ⓿ ⓿ ⓿ ⓿ -‐
⓿ ⓿ -‐
-‐
⓿ -‐ -‐
⓿
⓿ -‐
12% 2012 5,7% 2010
-‐1% 2007 16,7% elezioni 2010
Quello che emerge dalla storia di queste formazioni politiche è la forza crescente che parte dall’inizio della crisi europea (2004) e si consolida con il perdurare della frammentazione sociale, culturale, economica. Il dato della Germania, se aggregato, evidenzia oltre il 20% dei consensi e si colloca nell’ambito delle coalizioni forti della destra europea: Austria, Belgio, Olanda e Francia, poi la Spagna. Nei Paesi dell’est, l’Ungheria presenta una presenza radicata e in crescita. Sarà un caso,
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ma la forza della destra tedesca è nell’est, dove la disoccupazione giovanile supera il 10%. Questa presenza della destra, del suo portato ben evidenziato nelle tematiche dalla legenda della tabella, non è solo riscontrabile nell’idea dell’assenza di lavoro, ovvero di una marginalità, esclusione dal mercato del lavoro. Il fenomeno è forte sia nei Paesi dove la disoccupazione è minima sia dove viaggia con doppie cifre tremende: Germania 5,1%, Austria 4,9%, Grecia 27,8%, Spagna 25,8%, mentre la Francia presenta dati di medio termine e strutturali che sembrano proiettarla nella dimensione di Grecia e Spagna. Alcune delle formazioni elencate si sono divise e poi ricompattate, non sempre sono presenti nel parlamento nazionale, ma in quelli regionali hanno vasta rappresentanza, e qualche significativa presenza anche nel parlamento europeo. I programmi politici, le proposte, sono articolate e non è possibile una sintesi unitaria ma, alcuni punti sono comuni e sintetizzabili come segue: molta patria e popolo, giustizia contro altri, l’altro è il pericolo perché è la causa del danno, le croci nei simboli ovunque. La sintesi si coniuga con la xenofobia, il razzismo, l’omofobia unita all’antisemitismo, i richiami all’anti – Europa e al localismo indipendente, sono solo alcuni dei temi che aggregano forze giovanili e non. Questa sintesi non è liquidatoria del fenomeno, anzi, dovrebbe essere studiato con dovizia di particolari. Ad esempio, dal 2004 nella Ue il part-‐time è cresciuto del 6,4% e il tempo pieno diminuito del 4,6% dunque: creare posti di lavoro e qualità del lavoro. La crisi determina il fenomeno della mobilità forzata di numerosi abitanti che si spostano nelle aree più ricche dell’Europa per tentare di ricominciare una vita, il fenomeno riguarda l’Irlanda, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e in parte l’Italia, ovvero i PIGS che seguono le direttrici dei paesi forti, forse per questo il tema della Patria, del popolo è di forte presa: ma perché è un tema delle destre? Perché quella che viene definita la “generazione perduta”, giovani under 25, inizia ad essere un serbatoio di voti e organizzazione delle destre? Il fenomeno dei lavoratori low cost venuti dalla Romania, Bulgaria, fomenta la crescita di quanto evidenziato nella tabella 2. I 6 miliardi di euro per la disoccupazione ( Paesi con +25%) dei giovani under 25 è poca roba sia per la quantità della cifra stanziata che per la qualità, non c’è coordinamento e integrazione per gli investimenti e il fallimento di queste azioni può aprire nuove ferite, nuovi fronti, in questo la Gran Bretagna – il sondaggio in tabella evidenzia quanto affermato -‐ è partita con una serie di campagne organizzate dalle destre BNP -‐ Ukip sul tema della patria, della difesa dal diverso, dall’altro come nemico . Il potere del mercato, presentato come il sovrano assoluto, Adam Smith nel 1776 regala una riflessione importante, non ha costruito coesione sociale ed economica e nemmeno razionalità, anzi, il potere dello Stato è diventato un liquido disperso con il suo portato di corruzione ed interessi personali e di piccoli gruppi che incassano privilegi materiali e immateriali. Eppure c’è domanda di una rappresentanza piena, trasparente, non antagonista, riformatrice. Le parole di Martin Schulz seguono questo corso, reggono questo passo. L’umanità ha un bisogno enorme di giustizia e coesione all’interno di un contratto sociale. «Il bisogno si definisce come insufficienza di reddito per ottenere i mezzi di una sana sussistenza: vitto adeguato, alloggio, vestiario e combustibile. Il piano di sicurezza sociale è diretto ad assicurare che ogni individuo, a condizione che lavori fin tanto che può, e che versi dei contributi detraendoli dai suoi guadagni, abbia un reddito sufficiente per assicurare a sé ed alla propria
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famiglia una sana sussistenza, un reddito che lo sollevi dal bisogno al momento in cui per qualsivoglia ragione egli non possa lavorare e guadagnare. Oltre al reddito di sussistenza, la relazione propone sussidi per l’infanzia in modo da assicurare che nessun bambino debba mai trovarsi in condizione di bisogno, e ogni specie di assistenza sanitaria per tutte le persone in caso di malattia, senza alcun pagamento all’atto della prestazione dell’assistenza stessa così da evitare che alcuno debba soffrire perché non ha i mezzi necessari per pagare il medico o l’ospedale». Quello che avete letto è il programma proposto per l’Inghilterra del dopoguerra da uno studioso liberale, William Beveridge, autore del volume Social Insurance and Allied Services, noto come “Rapporto Beveridge”, che disegnò l’impalcatura generale del welfare state britannico, all’epoca il più avanzato del mondo con quello dei paesi del nord Europa.
Taranto: another 1ST of may is possible… on the right to be environmentalist . Stefania Barca, Center for Social Studies (University of Coimbra, PT)
About 100,000 people have participated, on the past 1st of May, to the ‘alternative’ celebration of Labor Day organized in Taranto (Italy) by a handful of local civil society organizations and ‘committees’, emerged as a response to one of the most serious occupational/environmental/public health crises of the last decade. Aimed at calling public attention towards not only the ‘Taranto question’, but to the deep scars inflicted, in former industrial areas, on peoples’ bodies and on their ecosystems, the initiative featured a mass concert with a number of bands and artists of both regional and national relevance. It was held in open competition with the mass concert traditionally organized in Rome by the trade union’s confederation and RAI, the national public television. On all respects, the initiative can be considered a huge success, signaling the strength and extra-‐local support gained, in recent years, by local citizens organizations which are mobilizing different resources and forms of action – from cyber-‐activism and film-‐making to street demonstrations and campaigning – to fight against the job blackmail and in defense of occupational, environmental, and public health.
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Photo: www.comitatopertaranto.blogspot.com
The biggest and one of the oldest steel factories in Europe, counting about 30,000 employees in 2012, belonging to the formerly State-‐owned ILVA group (now controlled by the Riva family), the Taranto plant rose to national attention in 2011, after a court decision recognized the company guilty of outrageous violations of environmental regulations and ordered its immediate closure until a thorough technical renovation and the environmental clean-‐up of damaged areas would be put into place. The company’s response consisted in arrogantly restating the incompatibility of environmental regulation with its economic plans, thus strongly re-‐enacting the job blackmail strategy which had traditionally functioned as an iron block against any contestation in the past. The management went so far as to actively organize workers’ demonstrations against the court’s decision, gaining ample and complicit media coverage, in order to convince the public opinion that there was in fact an opposition of the city of Taranto – in which ILVA is by far the largest employer – against the public prosecutors and local environmentalist organizations. This plan has not worked as expected, though. It has succeeded in creating much confusion and disinformation at the national level, but it has been also successfully counteracted by a prompt response from local movements which, being already active or emerged in the wake of the events, networking with each other and with other groups at the extra-‐local level, have been able to build a different discourse and practice of citizen mobilization. The 1st of May concert has been the most visible manifestation of this alternative mobilization, in open opposition to what is perceived as trade-‐unions’ politics in matters of ecology: 1) largely complacent with the corporate job blackmail, 2) insensitive to the public health threat that goes with environmental contamination, and 3) often harshly contrasting any grassroots environmental mobilization at the local scale.
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Photo: Giulio Farella (www.comitatopertaranto.blogspot.scom)
Taranto is just one striking manifestation of the unbearable contradiction forced upon people by what Allan Schnaiberg called the ‘treadmill of production’ (and consumption and waste): the contradiction between production and reproduction. This can be imagined as a Hydra monster with many heads: occupational illnesses, job accidents, environmental contamination and ecocide, public health disasters, annihilation of possibilities for alternative/autonomous forms of local economy. Along the past 50 years, the monster has provoked an unbearable concentration of cancer, malformations and other health disorders in the Taranto bay area, the something rendered even more unbearable by the weakness of public health infrastructures and lack of adequate care. Like the Alien of the science-‐fiction movie, the monster has entered the local space and people’s bodies, taking possession of them from within. The contradiction between production and reproduction has been embodied – materially and symbolically – by the factory workers of Taranto and their families and communities. This has produced unsustainable conflicts: between people’s ability to provide for their families through their work, and their ability to give life, to nurture, to take care of the elderlies, to cultivate life-‐ long relationships with friends and neighbors, to care for and enjoy the local environment, with its ancient beauty and its disappearing resources. All this has generated rage and disillusionment, desperation, sense of impotence, as well as sterile infra-‐class and infra-‐community conflict, such as that between ‘workers’ and ‘citizens’. Fortunately, thanks to the emergence of new social movements and civil society organizations, that contradiction is about to explode and generate the possibility for embodied consciousness to become political consciousness and action. What the 1st of May concert has made loud and clear, through the voices of artists, activists and citizens (who have taken turns on stage for about 9 hours), is that workers and citizens are members of the same community, connected to each other through the bio-‐geo-‐chemical cycles that support life in the local ecosystem, through generational and family chains, through social identities, memory, and love for the place. Taken together, as a community, all of them are at the same time producers and reproducers, workers and citizens, wage earners and caretakers, young and old, males and females – even if at different times of their lives, or to different extents. The (mostly male) factory workers that have been pitted by the company, the major unions and the mainstream media against Taranto’s ‘citizens’, in defense of the un-‐defendable business as usual, are partners, fathers, children, neighbors and friends of the people who get sick from the high concentration of toxic discharges coming from the factory; they are the co-‐workers and comrades of people who have got sick or died from working in the factory, a possibility that is also threatening them; moreover, they have themselves a right to breath clean air, drink clean water, eat local fish and fresh produce, enjoy the city and the local environment, without having to give up all this in exchange for wages. In other words, they have a right to be environmentalists.
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Photo: http://www.buongiornotaranto.it/web/media/images/gallery/scenedalfilm/09.jpg
So it is not really possible to separate, to alienate life from work – as the industrial economy and society have done for so long. Another economy must be built, one that makes work the human activity that sustains life and that all members of a community share in its different forms across space (the city, its sea, its hinterland, and the local ecosystem), and even across species, in the respect for the daily work made by non-‐human nature in sustaining life in the local environment. Another economy becomes irresistibly, undeniably, urgently needed. All the rage, the frustration, the pain and the conflict that people have embodied and carried in their lives must lead towards a new horizon of struggle, a new and better dream than those fabricated by the market and the neo-‐liberal State, and by the unions and political parties associated with them. A dream that can finally liberate local people from the unbearable contradictions of the ‘treadmill of production’, of the Alien within. The slogan Taranto libera! (liberate Taranto!) that a crowd of about 100,000 people screamed again and again during the concert, recalled just that.
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Photo: mafe de baggis (available from Wikipedia commons)
But for another world to become possible, it has to be imagined first, not only by individuals or activist groups, but at the community and political level. Imagining a new world becomes essential for the struggle not to lock up on itself and reproduce the contradictions of the former world, but to become constructive and hopeful. Here it is that political memory becomes essential, as a project of activist knowledge production which engages with the world’s transformation as an instrument to usher in new possibilities for politicization. By becoming aware of what has been already done by other people, past and present, with their struggles and movements, either in our own communities or elsewhere, we will immediately get a much clearer perception of the possibility of not just one but many other worlds. Seeing those possibilities in their reality, with their dreams and their challenges, with their victories and their contradictions, will help us envision our own possibilities here and now and better organize our own struggles. Such is the contribution that this article aims to give to all those who are struggling for self-‐liberation from the straitjacket of the job blackmail. In the following part, I will thus ‘unearth’ a few stories, in the hope that they may become (figurative) axes of war – as the Wu Ming writers collective would put it – i.e. instruments of liberation by political imagination. Workers/environmentalist coalitions on common platforms of labor and political struggle are not uncommon in the history of the post-‐war world. When truck-‐drivers and eco-‐activists marched together in the streets of Seattle during anti WTO demonstrations in 1999 under the banner of ‘Teamsters and turtles’, this was not a new thing, but the resurgence of a political strategy that had been successfully experimented in the Fordist era, leading to important legislative reform in 62
occupational and public health as well as in environmental protection. It was the active collaboration between labor, environmental, student and feminist movements what allowed the passage of the Clean Air and the Clean Water Acts (1972) in the USA, strongly supported by the most powerful trade-‐union confederation of the time, the Oil Chemical and Atomic Workers (OCAW). In Italy, the very institution of the Public Health System (Sistema Sanitario Nazionale) in 1978 was the result of a decade of intensive struggles and two general strikes, promoted by what was known as the ‘environmental club’ within the unions’ confederation: a coalition of labor physicians, sociologists, and union leaders who had previously produced revolutionary changes in the regulation of the work environment, promoting the principle of direct workers’ control (articles 4 and 9 of the Labor Statute, passed in 1970). Other relevant examples of such strategic coalitions can be drawn from very different places and economic sectors, such as the successful struggle against pesticide use that was conducted, in the mid-‐1960s, by the United Farm Workers union, organizing the Latino wage laborers of the orange fields and vineyards of California, to obtain decent working and living conditions and the recognition of labor rights. A struggle centered on the serious health threats that agro-‐chemicals posed not only to the farmers and their families, but to the American consumer and environment at large. But perhaps the most striking example of workers’ environmentalism can be found in the deep of the Amazon rainforest of Brazil, where, in the mid-‐1980s, a union of rubber tappers, the seringueiros, successfully organized to defend the forest from the attack of powerful lumber companies and ranchers, while at the same time defending their right to live and work in the forest, forming cooperatives for the management of sustainable extractive activities, such as rubber and nut collection or fisheries. Despite the violent opposition raised by powerful local interests, leading to numerous assassinations of trade unionists and environmentalists, the rubber tappers’ struggle did succeed in obtaining the creation of a number of ‘extractive reserves’, where landless local people are legally recognized and supported by the State as the legitimate ‘owners’ and safeguards of the forest.
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Photo: WWF Brazil/Zig Koch.
What the above stories tell us is that the labor/environment conflict which sounds so familiar and natural – an unavoidable fact of life – is in truth a historically contingent political construct, a crucial neo-‐liberal strategy intentionally devised to divide up the two most powerful social movements of the industrial era, whose alliance could become a dangerous liaison, putting into question the very essence of the “treadmill of production”. It is thus essential that labor and environmental/public health organizations gain a historical perspective on their current state of conflict and become aware of the political strength of a potentially renewed alliance. However, such alliance must be rebuilt on more solid premises than in the past. The ideology of economic growth as a panacea for all social problems and the only way to produce social welfare must be thoroughly questioned and ultimately abandoned by the labor movement, because growth imperatives are powerful justifications for the most shameless disregard for the well-‐being of people and of non-‐human nature. The same applies to the illusion of greening the economy (i.e. capitalism) through eco-‐efficient technologies and market mechanisms, an illusion embraced by large parts of both the labor and the environmental movement, with support from governments and financial institutions. The process of de-‐industrialization in ‘developed’ countries in the last 20 years shows how the greening of the economy has led to the simple transmigration of industrial hazards and their death toll to less developed countries, acting through the ferocious logic of the ‘double standard’ regime (by which multinationals can shift abroad those productions/technologies which are banned or heavily regulated in their countries of origin). This same mechanism makes working-‐class communities in the first world more and more vulnerable to the job blackmail, threatening them with the shifting of industrial activities elsewhere.
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Moreover, many of the so called ‘green’ technologies – such as wind and solar power, or biofuels – can be very impacting on the environment, on labor conditions, and on public health as well, when implanted on large scale, as grassroots struggles (and engaged research) on a number of these ‘green economy’ projects have been demonstrating in the last decade. Coming out of the multiple crises that afflict the world today, the economic/occupational as well as the ecological/public health, requires no lesser effort than that of completely let go of the ‘treadmill of production’ – that is the ideology and politics of unlimited GDP growth. It requires an ecological revolution – as theorized by Carolyn Merchant: a complete shift in the social organization of production, reproduction, and consciousness. Another way of working and living, of producing and distributing wealth, rooted in a dis-‐alienated work, in the respect for life and in commonality, must be the political platform on which to build the new alliance. While imagining the possible alternatives to the ‘treadmill of production’, however, Taranto’s movements have to struggle for things, such as access to specialized public health care and investments in emission-‐reducing technologies, which are even more badly wanted in times of crisis. These have remained for them the unfulfilled dreams of the old world – the industrial society – for they had never been brought to Taranto in the 50 and more years of industrial ‘development’. Along with these, they have been raising a high demand for administrative justice, i.e. for the State and local powers to enforce the court decisions that condemn ILVA to compensate the city for the damage inflicted so far. Such difficult mixing of old and new battles, of old and new dreams, both equally necessary, is one of the hardest challenges for citizens/workers movements today, in Taranto and beyond.
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AUTORI
• Aldo Zanchetta Associazione per una nuova finanza pubblica
• André Sapir www.brugel.org
• Enric Llopis. giornalista Rebelión
• Enrico Beniamino De Notaris psichiatra
• Francesco Garibaldo – Vicepresidente del “Research Committee on Participation, organizational Democracy”, Presidente della rete RLDWL Regional and Local Development for Work and Labour (RLDWL).
[email protected] -‐ www.francescogaribaldo.it • Francesco Vignarca coordinatore nazionale rete per il disarmo
• Giulia Simula Associazione per una nuova finanza pubblica
• Leda Marino laureanda in psicologia
• Sergi Cutillas, economista e membro della Plataforma Auditoría Ciudadana de la Deuda. • Stefania Barca, Center for Social Studies (University of Coimbra, PT)
• Steve Early rappresentante sindacale – Monthly Review
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