KAJAL di Ilaria Olimpico
Titolo Kajal Autore Ilaria Olimpico
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Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali e a condizione che questa dicitura sia riprodotta. © 2010 by Ilaria Olimpico e Orientexpress
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Il kajal, trucco mediorientale a base di antimonio o malachite, suggerisce subito sguardi femminili misteriosi e profondi, di donne tristi o seducenti, immensamente dolci o fortemente caparbie. Il kajal, secondo le leggende antiche, era cosparso sugli occhi dei bambini contro il malocchio... così le storie di “KAJAL” sono cosparse sulle pagine, raccontando della tristezza per liberarsene e della tenacia per impossessarsene. Kajal è una raccolta di squarci di storie al femminile.
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... e allora la Sciamana Patacampa dai lunghi capelli lisci, che abitava in cima alla montagna scura, prese dalla sacca di pelle di cammello la cincinna e la polvere di antimonio, disse le formule antiche e cosparse il kajal sugli occhi del bambino per proteggerlo dal malocchio, e così, avvoltolo in un lenzuolo di tela bianca, lo affidò al Fiume, nella cesta di foglie di banano, predicendo che sarebbe divenuto Sciamano e Re Saggio... In quel momento la montagna scura sonnacchiosa sbadigliò un fumo denso e in tutta la valle si diffuse odore di zolfo e di antimonio... e le storie di tutte le donne della famiglia si snocciolarono come filastrocche imparate da bambini e tutti ascoltarono intorno al fuoco i racconti delle donne dagli occhi grandi delineati dal kajal...
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Fairuz. Dal mare. - Quando dissi per la prima volta “ti amo”, lo feci sotto un ponticello di pietra, a pochi passi da un campo di tabacco, dove avevo appena fatto l’amore. Dissi “ti amo” scandendo le sillabe per assaporare l’eco sotto il pone, lo feci continuando a camminare spensierata e allegra al fianco di lui - raccontava Fairuz, dondolandosi sulla sedia, sorridendo e guardando in basso sul tappeto. L’abitudine è il male più insidioso e la cura migliore. Ci si abitua per non stare male e abituandosi si rinuncia al riscatto. L’abitudine è un anestetico che mette a tacere il dolore ma cancella la consapevolezza. La Morte, tante volte invocata, come per dispetto, la faceva attendere. Ma le pizzicava il cuore ogni tanto. Per alcune persone, la vita è così preziosa, che invocano la Morte se hanno la sensazione di non vivere abbastanza, di non vivere al cento per cento. Chi non ha il coraggio del suicidio, può forse avere il coraggio della fuga solitaria. Quando Fairuz sentì che era tutto troppo corrotto, troppo inquinato, troppo contaminato, e che le sue forze le venivano meno per opporsi, partì per l’isola di Shen Sha nell’Oceano, sperando che il mondo non arrivasse fin lì. Poi, il brontolìo del mare, che all’inizio era rilassante e pacifico, era diventato malinconico e oscuro. Le onde giganti dell’inverno, che all’inizio erano segni della Natura sublime e terribile, erano diventate grida angosciate e sputi rabbiosi. Il mare sconfinato della libertà si era rivelato il mare sconfinato della solitudine. Avrebbe voluto che ci fosse con lei qualcuno a cui raccontare le storie della sua vita, confondendo verità e immaginazione, ricordi e sogni, perché il bilancio potesse essere più sopportabile. Solo allora, la Morte ebbe pietà di lei e prima di chiuderle gli occhi per l’ultima volta, si accucciò sul tappeto vicino alla sua sedia e ascoltò la storia di quando disse per la prima volta “ti amo”…
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Nonna Fatima. Dal deserto. “Le donne nascono e rinascono più volte nella vita. Nascono per la prima volta dal ventre della loro madre, poi arriva il momento in cui nascono dallo sguardo di un uomo innamorato, e poi nascono e rinascono da un vagito, ogni volta che diventano madri. Ecco, vedi piccola mia, ora tu stai rinascendo dallo sguardo di Bilal”. Così aveva detto nonna Fatima quando aveva scoperto che Farah si era innamorata di Bilal. Ed era così. Farah stava rinascendo. Le sue gote erano più colorite, i suoi occhi più brillanti, le sue membra più vitali, le sue curve e i suoi profili riplasmati dalle carezze e dal tocco di Bilal. Nonna Fatima scorgeva sempre tutte le sfumature. Nonna Fatima era rinata dallo sguardo e dal tocco di un uomo solo in tutta la vita, non aveva mai indossato un pantalone e non aveva mai usato il telefono.
Farah distoglie lo sguardo dal finestrino del treno e dai ricordi e lo rivolge verso Hafez, suo sposo. La sua barba accennata è scura ma tra i suoi capelli si intravede qualche riflesso grigio. Gli occhi di Hafez sono di un castano intenso, impareggiabili in intensità ed espressività. Dallo sguardo di Hafez, Farah ha avuto la sua migliore rinascita. Hafez accoglie tra le sue braccia Farah e respira il profumo dei suoi capelli.
Dal pozzo dell’infanzia riemergono i ricordi con i colori più vivi e gli odori più forti. I fiori sul terrazzo della nonna Fatima erano di un azzurro e di un rosso appena creati dalla Luce, e dalle pentole esalavano gli odori delle spezie appena scaturite dalle viscere della Terra. Pane e olio. Fette di pane con olio e sale disposte su un canovaccio sul tavolo di legno scuro nella cucina dal pavimento ingrigito. “Sono felice che resti un po’ con me, piccolo sole, lasciamo che gli altri corrano e impazziscano, compresa tua madre, noi ci godiamo la terrazza e i fiori!”. Così aveva detto nonna Fatima quando Samia, la madre di Farah, era andata in città a cercare un altro lavoro e le aveva affidato la bambina. Le giornate allora scorrevano lente e profumate, sempre nuove e sorprendenti, tra gli echi di risate dei bambini e le corse nei cortili sicuri. “Piccola mia, lascia stare i libri, vieni con me ai campi”, diceva nonna Fatima e Farah spiegava che aveva i compiti da fare, ma la nonna insisteva: “la Terra è la risorsa più preziosa, cosa te ne fai del sapere di tutto il mondo se il palmo della tua mano non si sporca di Terra?”. Nonna Fatima non aveva mai studiato, sapeva a stento scrivere il suo nome, non aveva letto nessun libro, eppure custodiva una saggezza innata. Diffidava della scuola e delle maestre, ma le piaceva ascoltare le poesie che Farah le recitava quando doveva impararle a memoria. In cambio, le raccontava le storie che le vecchie antiche raccontavano a lei quando era piccola. “C’erano tanti momenti magici quando ero piccola io…” diceva nonna Fatima, “non avevamo i libri, non avevamo la radio e tutte queste cose che parlano e allora eravamo noi a 6
parlare, a raccontare…” continuava con nostalgia, “quante cose raccontavano le signore al pozzo, quante cose inventavamo io e le mie compagne di giochi…”. “Credi che mi riconoscerà?” chiede a un tratto Farah al suo sposo Hafez, alzando lo sguardo ma rimanendo rannicchiata sul suo petto. Hafez le dà un bacio sugli occhi: “Come potrebbe dimenticare gli occhi del suo
?". “Nonna Fatima mi ha insegnato a cucire! Guarda mamma! Guarda! Guarda!” esultava Farah, ma sua madre Samia, quasi infastidita, le diceva: “Farah, non è questo che ho in mente per te. Manca poco, poi andremo a vivere tutti in città”. La mamma ogni volta che diceva “città”, diceva “sviluppo”, “progresso”, “ricchezza”, “prosperità”, “strade e automobili”, “alberghi e palazzi alti”. Nonna Fatima ogni volta che diceva “città”, faceva un ghigno come per dire: “illusi!”.
Farah guarda fuori dal finestrino e i ricordi prendono il posto dei paesaggi che scorrono sotto il suo sguardo. Pensa ad alta voce: "in realtà, io amavo nonna Fatima più di quanto non amassi mia madre. Forse avremmo dovuto portare nonna Fatima con noi”. Tace e i dorsi delle colline gialle della Jaka' si trasformano in altri ricordi... “Ma forse, nonna Fatima non avrebbe sopportato l’idea di un altro trasferimento forzato”. Quando venne il momento del trasferimento in città e nonna Fatima capì che anche lei sarebbe stata portata via da Kanaka, iniziò a dare segni di pazzia. “Sono arrivati i demoni vestiti d’oro e li avete fatti entrare” urlava strappandosi i capelli grigi dalla testa. “Vedo bambini senza pelle e uomini grassi” diceva durante le notti insonni. Non dormiva più, non era più la persona mite e paziente di una volta. “No, non posso chiudere gli occhi. Soffoco. Non c’è spazio. E sento rumore di motori. Soffoco. Toglietemi queste coperte!” urlava e farneticava. Samia era ormai rassegnata ad avere una madre impazzita e continuava, intanto, a preparare il trasferimento di tutta la sua famiglia. Farah, una delle notti insonni, andò nella grande cucina dal pavimento ingrigito e vide la nonna che si dondolava, stanca, sulla sedia di legno scuro e consumato, le lacrime attraversavano le sue rughe intorno alla bocca. “Nonnina, perché piangi?”, aveva chiesto Farah, iniziando a piangere a sua volta. Le aveva accarezzato il viso, asciugandole le lacrime e le aveva baciato gli occhi tristi. “Piccolo sole, è tutto finito. Distruggono tutto” aveva detto con la voce pacata di una volta nonna Fatima, “io appartengo a un altro mondo e a un altro tempo. Non posso sopravvivere a questo… come dicono? Sviluppo… a questo sviluppo”. In quel periodo Farah sentiva la nostalgia della nonna Fatima calma e affettuosa che le raccontava le storie, la proteggeva dalle sgridate della madre, la faceva giocare nei campi e le insegnava a distinguere le piante, e soprattutto interpretava i suoi sogni. “Buongiorno, amore mio, cosa hai sognato stanotte?”, ogni mattina glielo chiedeva, ma con serietà, come se si trattasse di una cosa molto importante, perché “i sogni rivelano sempre qualcosa, del passato o del futuro”; e quando il sogno è negativo “bisogna affidarlo al mare perché lo disperda”, e quando il sogno è buono, allora “bisogna prepararsi a sostenerlo”. 7
“Siamo quasi arrivati, Farah”, dice Hafez. Farah prende la sua borsa di tela, gonfia e piena e Hafez la sacca e la scatola con i dolci. “Ho paura” dice a un tratto Farah, stringendo la mano di Hafez, “ecco, io non sono tornata per non essere delusa, ho fermato il tempo nei miei ricordi e ho paura che il presente scalfisca quei ricordi”. Kanaka è cambiata molto. La Terra è stata mangiata dall’asfalto, il pozzo è chiuso e le donne sono sole davanti all’acqua che arriva direttamente nei loro bagni, le macchine sfrecciano e i bambini non corrono. “Farah! Farah!” grida una donna avvolta in un mantello nero. Farah si volta e la donna continua a rivolgersi a lei familiarmente: “Oh Farah, bambina, Fatima non fa che chiedere di te. Affrettati! Dove vai? La casa è dall’altra parte! Non mi riconosci? sono tua zia Habiba!”. “Mia sorella Habiba è il mio cuore. È indomita ma indispensabile”, diceva nonna Fatima. Era legata alle sue sorelle e ai suoi fratelli in modo viscerale. “Sono il legame con la mia infanzia. Hanno condiviso il cibo e la casa con me, come potrei non amarli?”. Zia Habiba era molto dolce ma, come diceva la nonna, era “indomita”. Era inquieta, romantica, appassionata. Non si era mai sposata e tutti sparlavano di lei, raccontando di amori proibiti e avventurosi. “Farah, ti prego non dirlo a nessuno che ci hai visto” aveva detto la zia, scoperta da una giovane Farah nella camera di nonna Fatima mentre baciava appassionatamente il bello e affascinante Omar. “Eccola là. Continua a dondolarsi sulla sedia, apatica. Ogni tanto chiede se sei arrivata” dice zia Habiba, ormai anziana, lasciando Farah da sola nella camera della nonna. “Nonnina mia, sono arrivata”, dice Farah avvicinandosi e inginocchiandosi accanto alla sedia di nonna Fatima. Le mani di nonna Fatima si muovono alla ricerca del viso della nipote, lo accarezzano, “Finalmente sei qui, piccolo sole” sorride nonna Fatima, ormai cieca. Farah le prende le mani rugose tra le sue ancora lisce e gliele bacia: “Come stai?”. “Sono stata pazza una volta, poi visionaria, ora cieca” nonna Fatima sorride e continua: “sto come una vecchia deve stare. Sono debole. Sto come un animale in gabbia sta. Sono triste”. Farah scorge sotto la finestra il vecchio baule di legno che conteneva vecchi vestiti, bottoni e spille. “Vediamo oggi cosa possiamo creare…” diceva nonna Fatima, aprendo il baule e tirando fuori vecchi pezzi di stoffa colorata, vestiti sgualciti e l’armamentario per il cucito. “Ecco qui, questo è il mio regalo per te, piccolo sole” le aveva detto nonna Fatima a uno dei suoi compleanni, “è Zaynab, è venuta fuori dal baule delle stoffe, vedi se ti piace”. Zaynab era una bambolina di pezza, curata in ogni dettaglio, con un vestitino ricamato e le trecce di lana scura. “Un regalo è un buon regalo quando contiene del tempo" aveva proferito nonna Fatima, "Zaynab contiene le mie notti di quest’anno passate a cucire e rammendare pensando al tuo sorriso, mio piccolo sole”.
“E tu come stai, Farah, amore mio?”, dice con un filo di voce nonna Fatima. 8
“Sono felice con il mio sposo: Hafez”. “E Bilal?” chiede nonna Fatima, alzando le sopracciglia, come se fosse stupita che dopo tutti questi anni ci fosse un altro uomo nella vita di Farah. “Bilal è stato molto caro con me, ma sono molti anni che non ci vediamo. Ho conosciuto Hafez a Bainuqa e me ne sono innamorata subito, è un medico, sai…”. “Hai bambini?”, la interrompe nonna Fatima. “Non ancora”, Farah cerca di dissimulare il suo dolore. “Non c’è più nulla in cui sperare” dice nonna Fatima, “Sento cose terribili che accadono. Voglio andare via. Sono molto stanca. Sei sicura di volere un figlio?”. Farah ha un brivido. “I bambini sono la grandezza di Dio... Una madre bada a cento figli e un figlio non sa badare a una madre... la pelle di una madre aderisce alle ossa purché le guance del figlio siano paffute” queste cose ripeteva nonna Fatima quando Farah era ancora a Kanaka Come le saltava in mente adesso di mettere in dubbio il desiderio di un figlio? Allora era davvero così stanca di tutto.
“Piccola mia, sono contenta che tu sia venuta a salutarmi” dice nonna Fatima accentuando, ai lati della bocca, le rughe memoria di tanti sorrisi lontani. La sua stretta si allenta nelle mani di Farah. Il dondolio dolce della sedia si ferma. Farah continua ad accarezzarle la mano senza vita, mentre calde lacrime le solcano il viso. È seduta sui suoi talloni, inginocchiata, come quando andavano a pregare... “Piccolo sole, Dio ci ha dato tutto ciò di cui avevamo bisogno. Ci ha dato la Terra, umile e generosa, il Cielo, immenso e dagli occhi umidi, guarda che meraviglia…” diceva nonna Fatima, sorridendo, uscendo nel cortile della grande moschea, lasciandosi ferire gli occhi dal sole primaverile e annusando l’odore di gelsomini. “La Terra è la cosa più importante” concludeva a bassa voce, come se fosse un pensiero lasciato sfuggire per sbaglio.
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Shams an-Nahar. Dal Deserto. Shams an-Nahar soffre di progressivo distacco dalla realtà: le cose accadono troppo lontano da lei o troppo in fondo a lei. Le rimangono davvero pochi ganci per rimanere aggrappata alla “realtà”, alla vita. Nella sua mente si susseguono lotte incessanti tra la vita e la morte, tra slancio vitale e voluptas dolendi. Nella sua mente ci sono abissi senza fine. Si affrontano desiderio di morte e passione per la vita in lotte che la lasciano esausta. “La pelle serve solo per separare il buio di dentro dal buio di fuori” aveva detto qualche scrittore europeo. Intrattiene colloqui con la Morte. La immagina vecchia, vestita di nero, o giovane, vestita di bianco, ma sempre con il suo viso. Shams an-Nahar sente tutto il peso frustrante di chi non può spiegare le ali. Dov'è il suo cielo? Non sa come uscire dal baco. Non trova lo scultore che sappia trarla fuori dal marmo. Nel marmo c'è già la statua, diceva Michelangelo. La vocazione completa la creazione, sembra dire Caravaggio nel suo dipinto “La chiamata di San Matteo”. Shams an-Nahar è incompleta. Odia la sua immagine riflessa nello specchio. Prega l'anima di salire in superficie, per uscire dalla folla. Vorrebbe strofinarsi a lungo con il sapone nero marocchino e strappar via tutte le contaminazioni, per liberarsi dei sorrisi forzati, delle espressioni comuni e diffuse, vorrebbe strapparsi via tutte le immagini appiccicatele addosso dagli altri. Shams an-Nahar aspetta l'aereo di mezzanotte per Mazamba.
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Zia Anita. La zia Anita era eccentrica come tutte le artiste, aveva forme morbide e tondeggianti senza tuttavia essere grassa, come tutte le cantanti liriche affascinanti; aveva modi gentili e teneri con i bambini e modi austeri con le persone arroganti, come tutte le donne degne di stima. La zia Anita aveva sempre un bacio e un sorriso per me e talvolta una caramella dall'involucro rosso quando ero bambina. Quando ero piccola, io e le mie sorelle, Jasmine e Julia, insieme a mia cugina Rita, l'unica figlia di zia Anita, eravamo orgogliose di vedere il suo bel viso ben truccato, colto in un'espressione drammatica, sui manifesti pubblicitari all'entrata dei maggiori teatri della città e all'auditorium nel centro storico. Eravamo spesso nella sua grande casa, appena fuori dal trambusto della città. Amava coccolarci e rincorrerci nel cortile e noi amavamo giocare con i suoi abiti di scena luccicanti di paillettes e strasse, con i suoi cappelli colorati ed eccentrici, con le sue stole eleganti di organza e di seta. In una vecchia foto, la zia Anita sembra una matrona romana, in abito lungo beige con ricami bordeaux sul petto, seduta su una grande sedia di vimini con un'ampia spalliera che fa da scenografia, attorniata da tutte noi, bambine di famiglia dai due ai nove anni; la zia Anita ha una posa austera ma il sorriso dolce e lo sguardo tenero, regge sulle ginocchia la più piccola, Ahlem, che non vuole proprio togliersi il dito dalla boccuccia. Quando ero piccola, ricordo che credevo fosse una legge naturale che la nostra famiglia sfornasse solo bambine... per mio nonno era una disgrazia che i suoi figli e figlie avessero avuto solo delle femmine; per la zia Anita, la figlia maggiore, il fiocco rosa era una benedizione. Jasmine, Julia, Rita e io eravamo sempre insieme anche agli spettacoli di zia Anita. Io ero incantata dai suoi abiti e dalle sue pose, dalle espressioni del suo viso e dal portamento della sua figura. E naturalmente, ero rapita dalla sua voce... mi portava lontano, mi faceva vibrare qualcosa dentro, che poi avrei chiamato “anima”. Quando fummo più grandi, Rita si distaccò da noi, soprattutto dalla madre, iniziando a essere infastidita dalla sua eccentricità e fama, tanto da andar via di casa molto giovane e partire per l'Europa. Per la zia fu un duro colpo, ma riuscì col tempo a stabilire un rapporto più profondo e più maturo con Rita, proprio grazie alla distanza. Iniziò a scriverle una lettera ogni giorno raccontandole tutto quel che faceva e tutto quel che succedeva nel nostro martoriato paese. Per due anni, Rita non rispose che con brevi telegrammi, poi i telegrammi divennero brevi lettere e poi lettere lunghissime intervallate da pacchi con regali e foto. Col tempo, io divenni “la preferita” della zia Anita, o forse, è quello che mi piace pensare, dato che lei era per me “la zia preferita”. Quando divenni grande, adottai uno stile sobrio, 11
scegliendo abiti semplici e di colori tenui o scuri, ma mi piaceva ravvivare la mia figura con le belle collane e i veli che la zia mi regalava. Fummo molto vicine soprattutto nel periodo della Resistenza. La voce della zia iniziò a essere la voce del popolo, le sue canzoni dapprima cantate solo nei grandi teatri, divennero i canti della Resistenza popolare. Fu così che la casa della zia Anita si trasformò in un luogo di ritrovo per gli intellettuali e i combattenti. Ogni sera, la zia ospitava decine e decine di persone con grande generosità. Adoravo starmene seduta sulle grandi scale di legno scuro ad ascoltare i discorsi di chi stava facendo “la storia” del nostro paese e fui onorata di condurre gli incontri con le giovani studentesse nei pomeriggi infuocati in cui si discuteva del ruolo della donna nella società. Alcuni dicevano con sarcasmo cattivo che la zia Anita fosse la classica femminista: abbandonata dal marito per una donna più giovane e magra dopo solo un anno di matrimonio, aveva covato un desiderio di vendetta verso tutti gli uomini. Chi diceva queste cose, evidentemente, voleva solo gettare fango sulla zia e sale sulle sue ferite d'amore; la zia Anita non aveva alcun desiderio di vendetta, le sue rare ma profonde passioni sono testimonianza della sua convinzione della complementarietà di uomo e donna, ognuno con le proprie caratteristiche, ma entrambi con la medesima dignità e potenzialità. La zia Anita, in effetti, rifiutava sia le posizioni femministe che di fatto postulavano la superiorità maschile perché propinavano l'imitazione a ogni costo dell'uomo, sia le posizioni delle sedicenti femministe nostrane e straniere che proponevano un modello di donna unico e omologante, convinte che l'adozione di un'altra cultura le salvasse dalla misoginia della propria. Forse questo spiegava perché, nella casa di zia Anita, alle mie riunioni, sedessero vicine, sui cuscini di fodera damascena e indiana, sia donne cosiddette tradizionaliste che progressiste. La zia Anita era una persona solare, allegra, amante della musica di Debussy come della musica folkloristica, golosa di cannella, lucida nelle analisi politiche, brillante come artista, carismatica nei discorsi, generosa e austera allo stesso tempo. Aveva la grande capacità di farsi rispettare dai potenti e amare dai deboli, di incutere timore agli altolocati e ispirare simpatia al popolo. Nei giorni più duri della Resistenza, la sua voce fiera e decisa, eppure vibrante ed emozionata, risuonava per le strade, incitando il paese a non sottomettersi. La zia Anita in quei giorni ricordava come Gandhi avesse distinto tra non-violenza e codardia. La zia Anita non si sarebbe mai arresa, non avrebbe mai, mai abbassato la testa... e ora mi dite che due settimane fa è stata arrestata, che la sera le detenute ascoltavano come in sogno la sua calda voce proveniente dalla cella in fondo al corridoio, dove l'avevano isolata... ora mi dite che, così come la rondine non riesce a resistere in una gabbia, lei non è riuscita a stare rinchiusa, e prima di addormentarsi per sempre, ha scritto, sul muro della sua cella, il verso del poeta a lei più caro: “mi sono addormentato per spiccare il volo”.
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Oppressione. dal deserto. Perché rendi la tua presenza così pesante? Mi segui ovunque. Mi stritoli lo stomaco. Non ho nessuno spazio tutto per me. Anche quando sei fuori per lavoro mi raggiungi in ogni momento, in ogni luogo. Devo renderti conto di tutti i miei spostamenti, di tutti i miei istanti. Non fai che domandarmi del mio corpo: che strade ha percorso, cosa ha mangiato, bevuto, cosa indossa... La tua presenza è ossessiva. Mi toglie l'aria. Anche se cammino da sola per il suq, non riesco a starmene tranquilla, ad assaporare il mio essere “non accompagnata”. Tremo al pensiero di un tuo squillo su questo maledetto cellulare che mi hai regalato, che mi rende raggiungibile ovunque, rintracciabile sempre. Se lo spengo, se non rispondo, so che chiamerai a casa di Salma per sapere se sono da lei a prendere il té, e se non sono da lei, chiamerai mia sorella Nawal e così via, finché non mi aspetterai sull'uscio e mi farai sentire in colpa per averti tenuto in pensiero. Non capisci che le tue preoccupazioni mi provocano uno stato d'ansia insopportabile? Non capisci che le premure con le quali dici di proteggermi sono una cappa che mi toglie il respiro? Non capisci che una rondine ha bisogno di spiegare le sue ali anche nel cielo più oscuro? La mia amica italiana mi ha raccontato “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. Io vorrei scomparire come lui, inventarmi una nuova vita completamente sciolta da legami ed eredità. A volte il mio desiderio più grande è essere dimenticata, essere creduta morta. Ho deciso che un giorno lo farò. Lascerò il mio soprabito su qualche ponte, lancerò una mia scarpa nelle acque verdastre, prenderò il taxi più veloce per l'aeroporto e inizierò la mia nuova vita, assolutamente libera e leggera, in una città lontana.
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Aysha camminò. Aysha camminò. Aysha camminò a lungo prima di raggiungere la sua nuova casa senza terrazza assolata. Aysha camminò con il borsone che pesava sulla spalla, pian piano fino alla sua nuova casa senza lampada di Ramadan. Aysha camminò, perdendosi e ritrovandosi tra le strade di asfalto troppo grandi e le strade della mappa troppo piccole. Aysha camminò tanto passando da un lavoro a un altro, da un padrone a un altro. Aysha camminò con i suoi sandali consumati tra le foglie gialle e secche che, stanche, continuavano a cadere sulle linee dei tram di una città prigioniera di un perenne autunno. Aysha camminò sotto la pioggia incessante, con i vestiti bagnati che aderivano al suo corpo dimagrito, mischiando gocce di lacrime e gocce di pioggia. Aysha camminò da sola tra gente scostante e sconosciuta, per strade troppo grandi, ignote e solitarie, in un silenzio innaturale e in un'aria stagnante e sporca di industrie. Aysha camminò . Aysha camminò e tornò. Aysha tornò tra i vicoli stretti, familiari e brulicanti, tornò nella sua casa con la terrazza assolata e la lampada di Ramadan accesa.
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Umm Ibrahim. dalla porta del Sole. Nel mio paese quando si diventa madri o padri, si riceve il nome formato dalla parola Umm (madre) o Abu (padre) e il nome del primogenito. Così io, Aysha, la vivente, sono diventata Umm Ibrahim, mamma di Ibrahim. Ibrahim: nome caro a tutte le genti del Libro. Ibrahim è arrivato nella parte più profonda di me in una notte fredda di fine novembre. Mahmud era un feddayn, un partigiano. Ero stata subito rapita dalla sua voce, sia per il tono caldo e vibrante, sia per quello che diceva. La mamma si era accorta del mio rapimento e mi aveva subito tirato per il braccio e portato via dalla manifestazione. Gli slogan “biruh, bidamm...” (con lo spirito, con il sangue,...) si sentivano scanditi sempre più distanti, sempre più bassi, man mano che tornavamo nella nostra casa a Jumarya. La mamma, hamdulillà, non poteva sempre tirarmi via per il braccio. Hamdulillà esisteva la scuola. La porta della scuola era per me la soglia da attraversare per uscire dalla custodia soffocante e ossessiva di mia madre, di mio padre e dei miei due fratelli, Karim e Rashid. Così, grazie alla scuola, potei conoscere e frequentare Mahmud e diventare una piccola partigiana. Io fui sempre più in balìa della voce di Mahmud e lui cadde in balìa del mio sguardo e dei miei capelli che odoravano di henné. In una notte fredda di fine novembre, grazie ai tafferugli e al coprifuoco, io e Mahmud finimmo distesi l'uno accanto all'altro. Quel giorno di fine novembre, tutti gli studenti avevano manifestato contro l'occupazione, i soldati avevano usato i lacrimogeni e noi avevamo invocato la pioggia, loro avevano attraversato le nostre strade con i carri armati e noi avevamo lanciato le pietre. Ero così orgogliosa di me quel giorno, io, Aysha, la vivente, protagonista della storia del suo popolo per la riconquista della dignità e della libertà. Tutto mi sembrava possibile, protetta dalla folla dei miei compagni e delle mie compagne. Dio era con noi. E con chi altro avrebbe potuto essere se noi eravamo le vittime? Ma evidentemente anche i nostri nemici dovevano essere state vittime, perché Dio sembrò abbandonarci. I soldati iniziarono a sparare e la folla che mi proteggeva si disperse. Lo scudo magico improvvisamente si sgranò e io mi ritrovai sola e vulnerabile, senza protezione, sotto gli spari. Sentivo soltanto gli spari finché non sentì anche la voce che adoravo, la voce di Mahmud che mi cercava. Mi voltati, incrociai il suo sguardo e lui in un attimo corse verso di me, mi prese per mano e mi portò via correndo. Corremmo tra gli spari, tra i vicoli deserti e poi tra le strade invase dai carri armati e poi ancora per vicoli deserti e infine per i terreni di ulivi. Scattò il coprifuoco. Molti morirono in quella sera e noi ci riparammo infine nella vecchia casa d uno zio di Mahmud che era morto qualche settimana prima. Ci rifugiammo nella stanza in fondo alla casa. Eravamo al buio con le spalle contro il muro, 15
seduti sui cuscini, rannicchiati con le coperte addosso per proteggerci dal freddo e dall'ignoto. Ci volle molto tempo prima che i nostri cuori e nostri respiri tornassero ad avere il ritmo naturale. Quando ci rendemmo conto che eravamo salvi, io dissi: “devo tornare a casa”, ma Mahmud rispose: “non è sicuro uscire di qui adesso. resta con me stanotte” e poi ripeté: “Resta con me stanotte, Aysha”. E così, ci accoccolammo sul pavimento tra le coperte e i cuscini e sentimmo il calore dei nostri corpi che si sfioravano, si ritraevano e poi si riavvicinavano aderendo l'uno all'altro. Mahmud mi accarezzò i capelli, il viso, il collo, il seno. Poi mi mise la mano sul fianco e mi tirò verso di lui. Eravamo l'uno di fronte all'altro distesi sul fianco, e ci guardavamo, ma non come ci guardavamo di solito. I miei occhi chiedevano: “cosa succederà adesso?”. Gli occhi di Mahmud erano persi nei miei lineamenti e nel mio profilo. Io schiusi appena un po' le labbra, forse per rompere il silenzio, ma Mahmud si avvicinò e con le sue labbra sfiorò le mie, socchiudendo gli occhi, poi si distaccò appena un po' e alzò lo sguardo per scrutare forse sul mio volto un assenso e allora continuò. Fu così che quella notte Ibrahim prese vita dal nostro mischiarci. Ibrahim nacque nella piena luce di agosto, in una giornata afosa, con un sole accecante che rendeva il cielo quasi bianco. Ibrahim non nacque nel nostro villaggio, nessuno del nostro popolo nacque più nel nostro villaggio. Diventammo “profughi” o meglio “fuggitivi” come preferiva definirci il vecchio combattente Abu Salim. Ibrahim nacque in piena estate quando ci trovavamo a un passo dal confine con la Burìa. Il paesaggio era ancora quello della nostra infanzia, così Ibrahim poté sentire come noi i profumi del gelsomino e del narciso; poté riempire gli occhi delle distese di ulivi così come avevamo fatto io e suo padre Mahmud. Vivemmo al confine di Burìa nel campo di Darjané per quattro anni, un tempo lunghissimo, considerato il vagabondaggio dell'ultimo anno. A Darjané deposi il mio nome di Aysha la vivente e acquisì quello di Umm Ibrahim, madre di Ibrahim, nome caro a tutte le genti del Libro. Quando Ibrahim era ancora nel mio ventre, mi apparve in sogno un bambino con indosso il copricapo del nostro nemico che mi porgeva il ciondolo della mano della nostra venerata protettrice... una voce mi disse: “questo è tuo figlio Ibrahim, nome caro a tutte le genti del Libro, l'amato da Dio”. Così da quella notte seppi che mio figlio si sarebbe chiamato Ibrahim ma rimase il mistero del suo copricapo nemico. Prima di Darjané, Aysha, la vivente, era l'indomita, la svergognata per alcuni, l'eroina per altri, scappata di casa incinta di un partigiano, che continuava con il bambino in grembo a manifestare contro il nemico e a contribuire in tutti i modi alla lotta di liberazione. A Darjané, da quando divenni Umm Ibrahim, iniziai ad essere conosciuta come la mite, la dolce. Pian piano sostituì le riunioni dei partigiani con le lezioni per i bambini, sostituì la scrittura di lettere codificate per i partigiani al di là del confine con la scrittura di favole per i 16
bambini, sostituì la preparazione di sacchetti di lenticchie per i combattenti con la preparazione di piatti caldi per tutto il campo. Mahmud continuò ad amarmi come sempre, nonostante fossi cambiata. Continuò la sua attività di combattente, partendo e tornando, restando poco sia con me che con suo figlio Ibrahim e gli altri due figli, il piccolo Hasan e la piccola Sara. Mi chiedevo se avesse il tempo per rendersi conto del mio cambiamento, finché una delle ultime notti a Darjané, mi disse mentre mi rivestivo: “Ummm Ibrahim non è che la prosecuzione di Aysha, è la dolcezza del fico d'India che non ha più bisogno di spine”. In realtà, il mio cambiamento era dovuto alla delusione, alla speranza tradita, alla frustrazione. La lotta era spossata, annacquata, talvolta corrotta. Il nemico era sempre più forte, più crudele, se usavamo le armi, più subdolo, più fraudolento, quando usavamo il dialogo. E il mondo ci aveva abbandonato. Forse Mahmud ha trovato questo paragone del fico d'India per mantenere un'immagine poetica di me così come noi tutti fuggitivi, anche sapendo che la nostra terra viene cambiata e stravolta dal nemico, troviamo sempre il modo per mantenerne un'immagine poetica. Dopo pochi giorni dalla notte del fico d'India senza spine, il nemico ci costrinse a lasciare anche Darjané, sospingendoci a suon di spari oltre il confine. Così, fuggitiva ed esule, mi smarrì completamente. Come mi sarei reinventata? Avevo tre figli piccoli e un marito combattente, anche lui oramai smarrito dalla ferocia inestinguibile del nemico e dalla perdita di purezza della lotta. Cosa saremmo stati? Cosa avremmo fatto? Avremmo affidato tutto a Ibrahim? Si sarebbe presentato dai nemici con il loro copricapo porgendo la mano della nostra venerata protettrice e ricordando la comune radice? Cosa avremmo fatto? cosa avremmo potuto mai fare?
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Lettera da Layla. Layla lesse la frase di Samih al-Qasim: "Scrivetele voi le lettere che aspettate". Ripensò: "Scrivetele voi le lettere che aspettate". Una vocina nella sua mente, o nella sua anima, ripeté quasi come un ordine: "Scrivetele voi le lettere che aspettate". E allora Layla prese una matita e un foglio e iniziò a scrivere la lettera che aspettava. Iniziò con e parole del Maestro Zen Daito: "Ci siamo lasciati molte migliaia di cicli cosmici fa e tuttavia non siamo stati separati nemmeno per un istante". E poi continuò: Vedo i tuoi occhi che mi guardano, mi scrutano e sembrano dire: "resterei a guardarti in eterno", vedo i tuoi occhi che fissano i miei mentre fumi una sigaretta e facciamo colazione. Vedo i tuoi occhi che sprofondano nei miei e fanno viaggi immensi e densi. Vedo i tuoi occhi castano scuro che continuano a guardarmi, così, alla distanza di un tavolino da bar, uno di fronte all'altra, a bere un caffé dolce io, a fumare una sigaretta tu. Ripenso al tuo biglietto: "Non è importante da chi vado ma da chi torno". E' vero. Quanto è vero! E allora mi ricordo quando ti dissi che volevo una storia alla Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre e ti scrissi una dedica citando Simone de Beauvoir: "Ci saremmo smarriti l'uno accanto all'altra, senza mai perderci, ognuno nella propria inquietudine". E così, mentre tu ti smarrisci laggiù nell'Africa Nera, io mi perdo nei sapori speziati e nel tintinnio degli scacciapensieri indiani. Ho conosciuto un uomo, un uomo affascinante indiano, dagli occhi profondi e la voce calda. E' più giovane di me e mi guarda come se fosse sempre sorpreso dall'incanto della mia materializzazione in India, nel suo villaggio. Mi accarezza i capelli e il viso e sorride come se gli bastasse quell'attimo di incanto. E nonostante tutto ciò che accade con lui sia magico, mi torni in mente tu e vorrei che fossi che fossi tu a vedermi nella mia veste indiana con gli occhi segnati dal kajal, che mi vedessi in un momento di estasi, o mentre sorrido sotto la pioggia con i vestiti zuppi di acqua. E' forse la lontananza la chiave? Qualcuno ha detto "è solo nel ricordo che davvero si ama". E ricordo e lontananza sono strettamente interconnessi. Ho bisogno di allontanarmi da tutto e da tutti. A volte il mio desiderio più forte è di essere dimenticata. "Lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata". Ho voglia di leggerezza. Ho voglia di scrollarmi di dosso tutte le immagini che gli altri hanno posato su di me, tutte le aspettative che gli altri hanno caricato su di me. Ho voglia di liberarmi di tutte le tutele e le cure che chi mi ama non si rende conto di impormi. Io scappo. Scappo da tutto ciò che rischia di fissarmi in una forma definitiva e prevedibile. Panta Rei. E allora restiamo così, come Sartre e Beauvoir, "smarriti l'uno accanto all'altra senza mai perderci" come nuvole che non temono di scomporsi e ricomporsi, mutare forma e posizione, lasciamo che il vento ci disperda e poi ci faccia ritrovare, consapevoli di essere sempre nello stesso cielo. 18
ti bacio forte, Layla
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Piccola Farah. Piccola Farah, quando ti passerà questo dolore in fondo al cuore? le lenzuola non bastano ad asciugare le tue lacrime. I tuoi occhi hanno raccolto tutta l'acqua che manca al deserto e piove sulle tue guance. Hai una mamma bulgara, forte e vivace che lancia calzini asciugati al sole e balla in cucina, che ha temuto di perdere la vita e ora ne succhia il midollo godendosi ogni mattino, hai una sorella egiziana che ti sostiene da lontano quando vacilli perché non hai più forze, hai un fratello sudanese che ti accompagna con il suo sorriso dolce e incontaminato, innocente. E cammini, piccola Farah, tutta sola, talvolta briosa, fermandoti a raccogliere fiori di bungaville per lasciarli nelle mani della vecchia avvolta di nero che in ginocchio chiede la carità, talvolta triste in strade estranee, sotto la pioggia incessante, e non c'è riparo, non c'è riparo da nessuna parte. Cosa ti è successo piccola Farah? Piangi per i sogni perduti? Rimpiangi il Dio che hai rinnegato? Dio-persona è scomparso nell'energia dell'Universo, a chi rivolgersi? E cammini, piccola Farah, continui a camminare, e tutto ciò che vedi nel tuo futuro, sono i tuoi sandali, consumati e bassi, che camminano. Fiorai egiziani, autisti damasceni, amanti siciliani, amici palestinesi, ... e cammini piccola Farah, sempre tutta sola...
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La corsa di Jo’. dalla pioggia. Corre Jo’, come quando era una ragazzina con i capelli raccolti in una coda di cavallo. Corre veloce nel buio e nel tempo. “nel tempo”. Come quando era una bambina con le trecce scure e la frangia folta e, correndo, si ritrovava in un altro tempo delle sue vite e in un altro luogo. Sognavi allora Jo’ o avevi dei poteri magici? Come si faceva a correre nel tempo? Corri Jo’. Corri nel buio. Se puoi, corri nel tempo. Jo’ ha lasciato dietro di sé le scarpe, troppo alte, che la impacciavano nella corsa. Ora lascia rugiada dietro di sé. Piange Jo’ e corre nel buio. La strada è bagnata e deserta e la sua fuga disperata. Chi c’è dietro di te, Jo’? chi ti insegue e ti dà la caccia? Chi è il nemico? Jo’ ha lasciato dietro di sé il cardigan elegante che la ostacolava nella fuga. Jo’, ora è scalza, spettinata e con il vestito stropicciato. Jo’ si sente più agile, più leggera, più giovane. Il suo seno non è più quello generoso di una donna ma è quello appena pronunciato di una ragazzina; i suoi fianchi si sono ristretti; i capelli sono raccolti in una coda alta. Corri ancora Jo’. Corri nel tempo. Jo’ ricorda adesso come faceva a correre nel tempo. Jo’ ora è la piccola Joan con le trecce scure e sa dove andare. La porticina blu appare e Jo’ sa adesso di avere dei poteri magici. Eccolo il mondo perduto dietro la porticina di legno blu. E’ una giornata assolata e le spighe di grano ondeggiano sotto il palmo della mano. Jo’ può passeggiare e saltellare, può colorarsi le mani con il polline dei fiori e può rotolare nella terra. Jo’ rotola nel giallo del grano e cresce come le spighe. Jo’ rotola e cresce. Jo’ è una giovane donna dagli occhi grandi delineati di nero e i capelli mossi. Jo’ rotola nel bianco delle lenzuola e nell’abbraccio morbido di Sean. Sorriso bianco di Jo’. Bacio buono di Sean. Bianco totale. Lenzuola bianche sparse nella stanza, tende leggere bianche che ondeggiano nella brezza e lasciano intravedere la terrazza imbiancata a calce e il mare spumeggiante blu. Jo’ dal caldo avvolgente abbraccio di Sean al caldo buono del camino, con i capelli bianchi e qualche ruga, memoria silenziosa di sorrisi, disappunti e di qualche giorno molto triste. Jo’, lo sai che soltanto gli occhi non cambiano. Jo’, ora puo’ fermarsi. Nessuno più la insegue. Piove di nuovo. Il suo bel vestito si sta bagnando e i suoi piedi scalzi di donna stanca sono in una pozzanghera. Jo’ è stanca di vivere a scatti. 21
Le lacrime di Jo’ si sono mischiate alle gocce di pioggia. Jo’ apre le braccia e accoglie la pioggia. L’ultima lacrima bagna un sorriso bianco da bambina.
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Lettera dalla follia. Cara mamma, ti scrivo in questo momento di lucidità, di grazia. Non mi sembra vero poter controllare i miei pensieri, poter scrivere con la mente libera, leggera. Se sapessi gli inferni che prendono in ostaggio la mia mente… Se sapessi dei fantasmi che portano scompiglio nel mio piccolo mondo indifeso… Cara mamma, a volte temo di non fare più ritorno dal mondo della follia. Mi sento così sola. Sono incommensurabilmente sola. Ho paura. La pelle serve solo per separare il buio di dentro dal buio di fuori, come dice Saramago. Sono scoperta, sono nuda e indifesa. La pelle è come ustionata e non sopporta il contatto con nulla, con nessuno. È per questo che urlo ed esco fuori di me quando cercano di toccarmi! Portami via di qua. Queste donne senza volto si aggirano in spazi bianchi, vestite di bianco, indistinte e indistinguibili. Queste donne mi tolgono ogni via di uscita. Portami via di qua. Portami via. Ah mamma, se sapessi quanto può far male questo bianco totale, questa assenza di colore, questo odore pungente e acre. Ti scrivo in uno dei pochi momenti di lucidità e ho così tanta urgenza di raccontarti tutto perché so che i fantasmi, le voci e gli incubi torneranno presto. Le voci… le voci occupano ogni angolo della mia mente, si rincorrono, si affollano, si fanno eco l’una con l’altra, e io non posso zittirle, non posso otturarmi le orecchie perché sono dentro la mia testa, incessanti, talvolta strazianti! E i fantasmi… i fantasmi di persone del passato o che non ho mai visto, hanno la pelle a brandelli, si lamentano, piangono di un pianto disperato, oppure mi aggrediscono, arroganti e beffardi e io sento la loro risata, sproporzionata e assordante, che mi fa tremare. Oh mamma, mi dispiace portarti angoscia, ma sono così sola qui dentro! Portami via. Avrei così bisogno di dormire tranquilla, senza voci, senza volti di fantasmi, senza donne in bianco che mi prelevano dalla mia stanza e mi portano in un posto che poi dimentico sempre. Mi sento così indifesa. Portami via di qua. Ci sono abissi sconfinati e precipizi senza fine nella mia mente. La follia è la latebra dei pensieri tristi non spiegabili. A volte, le immagini e le persone che vedo e che voi non vedete sono così reali che penso e spero che siete voi i pazzi, i ciechi e i sordi. Io sono sola contro i fantasmi e contro di voi. Nei labirinti della mia follia che si moltiplicano senza fine ci sono maschere orribili ma a volte, a volte, mamma, ci sono visioni meravigliose nella follia… le visioni che ho trasferito sulle mie tele. Ah se solo potessi avere le mie tele e la mia tavolozza di colori per vomitare le mie visioni belle e brutte! Ho un impellente bisogno di dipingere! Devo lasciare. Stanno arrivando. Sento i loro passi. Mi porteranno via i fogli. Sono così stanca. Sono così sola. Se solo potessi avere le mie tele…
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Gigugin. dall'acqua. Le sue ali sono iridescenti ed eteree e i suoi capelli lunghi e ondulati, come mille e mille serpenti scuri ramati. Il suo nome, Gigugin, richiama il suono dei campanellini che porta tra i capelli e appesi alle caviglie e ai polsi. Quando è stanca, si addormenta in riva al mare, con le onde per lenzuola e la luna per lume. Quando si sente sola si distende sui tetti delle case con il camino. Quando è felice, soffia la polverina magica nelle orecchie dei bambini e suggerisce loro le fiabe più belle. La sua maestra di arti magiche ha le ali oramai opache e coriacee, ha i capelli lunghi e ondulati, come mille e mille serpenti, ma bianchi e grigi. La vecchia ha insegnato a Gigugin come soffiare via i pensieri tristi, come affondare nell'oceano profondo i segreti più segreti, come far vibrare le corde dei cuori assopiti degli uomini più disincantati. Gigugin scivola via al momento giusto, organizza le feste delle fate dell'acqua e del bosco, prepara da mangiare per i folletti delle foreste e per gli elfi dei luoghi incantati. Gigugin danza nelle feste delle streghe attorno agli alberi nelle notti di luna piena, così come nelle feste popolari delle donne dei Sud del mondo attorno ai pozzi nelle notti in cui ci si ricorda di essere streghe. Gigugin è fondamentalmente libera. Abbraccia gli alberi perché invidia le loro radici robuste e profonde. Riposa gli occhi seguendo i contorni delle montagne che si stagliano contro i cieli azzurri perché contempla la loro maestosa solidità e la fiera permanenza. Gigugin è la fatina delle metamorfosi ed è per questo che si incanta di fronte al mare, sente il richiamo dell'oceano, partecipa del moto inquieto dei torrenti e sente dentro di sé l'impetuosità impellente delle cascate. Ed è per questo che quando la tristezza arriva nel suo cuore è profonda come un pozzo e quando la felicità arriva a sfiorarle l'anima è fresca e pulita come la rugiada e irrefrenabile come una sorgente zampillante. Gigugin ha il potere di trasformarsi. Piccola piccola, Gigugin è una fatina dell'acqua con le ali iridescenti che sta in una mano, oppure magra e slanciata, Gigugin è una giovane donna con gli occhi iridescenti che sta seduta su un'altalena di un parco, con le gambe penzoloni come una bambina. Gigugin viene inviata nel “mondo di sotto”, con sembianze di giovane donna, per far vibrare le corde dei cuori assopiti degli uomini disincantati, oppure con le sembianze di piccola fatina, per suggerire i giochi ai bambini di giorno e per consolarli di notte. A volte Gigugin si materializza in un autobus, in una strada affollata, in un treno notturno, e quando passa la persona con il cuore assopito o triste, Gigugin volge il palmo della sua mano verso di lei e qualcosa accade. A volte, si abbassa verso le donne e gli uomini seduti a terra, abbandonati o poveri o ubriachi, prende le loro mani tra le sue e qualcosa accade. Gigugin non si ferma mai troppo tempo nello stesso luogo. Come una zingara, non le è concesso di affezionarsi. Ma un giorno, Gigugin tiene troppo tempo la mano di Alex tra le sue... si affeziona alla sua pelle e al suo odore, non riesce a dimenticare il suo sguardo e la sua voce. “Attenta Gigugin, attenta! Gli uomini possono lodare, stimare e perfino adorare le fatine, possono baciarle e fare l'amore con loro però non possono mai innamorarsene e sposarle”. Ma Gigugin non può mettere a tacere le sensazioni scoppiettanti che le procura la vicinanza 24
di Alex, non può trattenere la voglia di baciargli le labbra, non può rallentare i battiti del suo cuore quando sa che lui sta per arrivare, non può non desiderare con tutte le sue forze che lui le accarezzi i capelli e il viso, non può non credergli quando lui le dice che è la persona più meravigliosa che abbia mai incontrato. Ma Gigugin sa che se non sarà lei ad andar via, dovrà prima o poi sopportare l'abbandono. Così, anche questa volta, Gigugin parte, leggera e libera come solo una fatina può essere, ma con il cuore al freddo come solo una zingara senza legami può sentire. e allora il folletto prese posto proprio tra di loro e chiese: è questa la felicità? incontrare una persona che non vedevi da tanto, in una città lontana, né sua né tua, abbracciarla forte senza dire nulla e sentirsi a casa dopo tanto tempo... e la fatina prese la parola e, sbattendo le piccole ali iridescenti e sfavillanti, disse: la felicità è sapere che qualcuno ti sta aspettando. e allora il vecchio canuto e stanco disse: la felicità sta solo nel ricordo... nel ricordo la nostalgia riveste tutto di una magica e tenue eleganza. ma la vecchia, con mille rughe e mille anni, disse: l'amore esiste solo nel ricordo ma la felicità sta nel presente bugiardo dell'illusione o nel futuro trasognato dell'attesa. si alzò l'elfo, dai lineamenti perfetti e dagli occhi fieri e regali, e disse: la felicità sta nell'attimo e come l'attimo è un lampo che non hai tempo di guardare e definire che è già passato. poi venne il custode della grotta e disse: la felicità sta nel segreto che sveli a pochi. e l'incantatore di lumache aggiunse: la felicità sta nel momento magico che riservi alle persone speciali. poi venne la ninfa, bellissima, dagli occhi profondi e scuri e i capelli lucenti, e con le ciglia abbassate, sospirò: la felicità....! poi sollevò le palpebre e tutti poterono vedere i suoi occhi brillare, quando ricordò le parole del saggio: "La coppa che contiene il vostro vino non è forse la stessa coppa che è stata scottata nel forno del vasaio?" e poi, si avvolse nel suo velo leggero e a voce bassa disse qualcosa che non può essere 25
scritto, allora dalla bocca soffiò una polverina magica che si posò su ciascuno assumendo un colore diverso, si diffuse un profumo buono e una musica dolce accompagnò i ricordi e i desideri di ciascuno e allora tutti furono Emozionati.... e ognuno nel suo cuore pensò: è questa la felicità? Emozionarsi...? la ninfa bellissima che sapeva ascoltare i pensieri del cuore, sorrise di un sorriso da bambina e poi iniziò a ridere di una risata argentina contagiosa e tutti i bimbi sperduti iniziarono a soffiare polverina magica su tutti e su tutto... e quando l'aquila passò alta nel cielo fu Felice di vedere il bosco incantato in festa.
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Ilaria Olimpico è nata a Nola (NA) il 13 marzo 1981, esattamente 40 anni dopo il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Si è laureata nel 2004 in "Scienze Internazionali e Diplomatiche" presso “L’Orientale” di Napoli, approfondendo gli studi sul mondo arabo. Vive qua e là, racconta sogni e storie, si indigna e combatte, ama e cammina.
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