JAY PARINI L’ULTIMA STAZIONE Traduzione di Lorenzo Matteoli
ROMANZO BOMPIANI
PARINI, JAY, The Last Station Copyright © 1990 by Jay Parini All rights reserved Originally published by Henry Holt and Company Inc., New York Published by arrangement with Canongate Books Ltd., Edinburgh La traduzione del brano tratto da La morte di Ivan Il’iã (capitolo 40) è di Erica Klein, pubblicata in Lev Nikolaeviã Tolstoj, La morte di Ivan Il’iã, Milano, BUR, 2008. ISBN 978-88-452-6244-9 © 2010 RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano Prima edizione Bompiani maggio 2010
Per Devon, ogni parola, sempre
Esisteva un luogo oscuro prima che respirassimo Esisteva un mito prima del mito Venerabile e articolato e completo Da questo sgorga la poesia: viviamo in un luogo Che non ci appartiene, ma di più, non siamo noi Ed è difficile nonostante giorni di gloria Wallace Stevens@ Appunti per l’ultima invenzione@
1 SOF’JA ANDREEVNA
È finito un altro anno e siamo così alla fine del primo decennio di un nuovo secolo. Scrivo nel mio diario la strana combinazione di numeri 1910. È possibile? Lëvoãka sta dormendo e non si sveglierà fino all’alba. Un momento fa sentendo il fracasso del suo russare dal fondo del corridoio sono venuta nella sua stanza. Il suo russare si sente in tutta la casa, come una porta che cigola, e la servitù ridacchia quando lo sente. Il vecchio sta segando un tronco dicono in mia presenza. Non mi rispettano più, ma io sorrido. Il russare di Lëvoãka non mi disturba dal momento che ora dormiamo in camere separate. Quando dormivamo nello stesso letto aveva ancora i denti che smorzavano il rumore. Mi siedo sul suo letto stretto e tiro fino al mento la coperta con il bordo decorato da una greca. Sussulta con una smorfia mostruosa. Ma non si sveglia. Quasi nulla riesce a svegliare Lev Tolstoj. Qualunque cosa faccia, la fa in modo totale: dormire, lavorare, ballare, cavalcare, mangiare. I giornali scrivono continuamente di lui. Anche a Parigi, i giornali del mattino sono sempre alla ricerca di piccoli pettegolez9
zi che lo riguardino, veri o falsi, non gliene importa. “Contessa cosa mangia a colazione il conte Tolstoj?” chiedono mettendosi in fila nel portico davanti alla casa chiedendo interviste durante tutti i mesi estivi, quando Tula è una meta gradevole, “Si taglia da solo i capelli? Cosa sta leggendo adesso? Le ha comperato un regalo per il suo onomastico?” Non mi disturbano le domande e do loro quel tanto che basta per mandarli a casa contenti. Lëvoãka sembra assolutamente disinteressato. Le storie non le legge comunque, nemmeno quando gliele lascio sul tavolo, vicino alla sua colazione. “Non hanno alcun interesse, non capisco chi possa aver voglia di stampare certa spazzatura.” Le fotografie le guarda però. C’è sempre un fotografo in giro che scatta foto e chiede di poter fare un ritratto. âertkov è il più noioso. Crede di essere un artista della macchina fotografica, ma è insulso anche con quella, come con tutto il resto. Lëvoãka continua a dormire russando mentre io gli accarezzo i capelli. I capelli bianchi che cadono sul cuscino inamidato. La barba come schiuma del mare, una spolverata di peli bianchi soffici, non ruvidi come quelli di mio padre. Gli parlo mentre dorme, lo chiamo “il mio piccolo tesoro”. Da vecchio è come un bambino tutto per me, da coccolare, da curare, da proteggere contro tutti quei pazzi che ci assediano ogni giorno, cosiddetti suoi discepoli, tutti guidati e ispirati da âertkov, che è sicuramente satanico. Pensano che sia Cristo, Lëvoãka pensa di essere Cristo. Lo bacio sulle labbra mentre dorme, aspirando il suo respiro da bambino, dolce come il latte e mi ricordo di un giorno limpido, molti anni fa, quando avevo ventidue anni. 10
La barba di Lëvoãka allora era scura. Le mani erano morbide, anche se, specialmente durante la stagione del raccolto, passava molto tempo a lavorare nei campi con i contadini. In verità lo faceva per divertirsi. Come esercizio fisico. Allora non ne faceva ancora un punto di orgoglio, come avrebbe fatto poi, quando in cuor suo gli piaceva vedersi come uno dei nobili muÏiki che tanto ammirava. Stava scrivendo Guerra e pace e, ogni giorno, me ne portava alcune pagine da ricopiare. Non credo di essere mai stata più felice di quando la mia mano riempiva quelle pagine e l’inchiostro di china nero definiva uno scenario così limpido e santo come mai ne erano stati visti o sognati. Nemmeno Lëvoãka era mai stato più felice. Il massimo della felicità per lui è sempre stato nel lavoro, nel sogno delle sue visioni dolci e grandiose. Ero l’unica in grado di leggere la sua grafia. I suoi geroglifici da granchio riempivano le pagine e facevano impazzire i tipografi. Correzioni si sovrapponevano a correzioni. Anche per lui, molto spesso, era difficile capire cosa avesse scritto. Invece io ci riuscivo. Leggevo le sue intenzioni e le parole diventavano chiarissime. Nei pomeriggi, bevendo il tè di lino, sedevamo davanti al fuoco di torba a discutere i cambiamenti. Gli dicevo: “Nata‰a non direbbe mai una cosa del genere al principe Andrej”. Oppure: “Pierre qui è troppo ingenuo. Non è così sciocco come fa finta di essere”. Non permettevo che scrivesse male. Non lo lasciavo sonnecchiare nello studio oppure passare troppo tempo a cavalcare nei campi. Lëvoãka aveva cose più importanti da fare. Lo riportavo alla scrivania. Per lui ero importante. Adesso non conto più nulla. 11
Non come in quegli anni lontani, il giorno del mio onomastico, il 17 settembre, quando avevo ventidue anni, sottile e bella come un narciso. Avevamo tre bambini. Curarli, occuparsi della proprietà (Lëvoãka non è mai stato bravo per i particolari e per la gestione pratica delle cose, né allora, né oggi), copiare i suoi manoscritti, le mie giornate erano anche troppo piene. Ma non mi lamentavo, nemmeno quando passava ore e ore a chiacchierare con quella stupida con le calze blu, Marja Ivanovna, che gli si era incollata come un’arsella. Sapevo che non sarebbe durata. Di tutte le donne nella sua vita, solo io sono rimasta. Non potevano logorarmi, non ci sarebbero mai riusciti. Era il 1866. Me lo ricordo perché in quell’anno il nostro beneamato zar, Alessandro, venne salvato dalla mano di Dio. Un miracolo. Stava facendo la sua passeggiata quotidiana nel giardino d’inverno quando un giovane squilibrato (di una famiglia molto nota purtroppo) gli sparò con una pistola. La prontezza di un contadino, che spinse di lato la mano dell’attentatore, salvò lo zar. Quella stessa sera, a Mosca, Lëvoãka e io andammo a teatro, come allora facevamo spesso. Tutto il pubblico, prima dell’inizio dello spettacolo, si alzò in piedi scandendo “Dio protegga lo zar!” Non ho mai visto tanta gente piangere! Per molte settimane in seguito, continuai a ringraziare con messe speciali nella cappella di San Nicola, vicino al Cremlino. Allora i russi avevano bisogno del loro zar. Ne hanno bisogno anche oggi, anche se non lo si direbbe, sentendo i discorsi di mio marito e dei suoi amici. C’è da meravigliarsi che la polizia non li abbia già fatti tacere. 12
Se non fosse che Lëvoãka è potente come lo zar, credo che lo farebbero di sicuro. Ovviamente, su questo argomento, Lëvoãka non mi ascolta proprio. Per principio disprezza lo zar. Quando ci siamo conosciuti però era monarchico anche lui. Ammirava Alessandro, che aveva liberato suo cugino il maggior generale principe Volkonskj, uno dei “dicembristi”1, mandato in Siberia da Nicola I. La principessa sua moglie li aveva seguiti nell’esilio lasciandosi dietro un bambino ancora piccolo. Tanto tempo fa era il mio onomastico, la luce della tarda estate scendeva obliqua tra le betulle ingiallite. Passai la mattina da sola camminando nel bosco di Zaseka, respirando l’odore della terra grassa e degli ultimi fiori. Vidi, sorpresa e sbigottita, che un acero era già diventato rosso, come una grande campana in una strana luce. Rimasi sotto la grande chioma e non riuscii a trattenere le lacrime. Lëvoãka spuntò da dietro l’albero. Con la camicia bianca sembrava più un contadino che un nobiluomo, mi ammaliò con lo sguardo. Che intensità! Mi aveva seguito fin lì? “Perché queste lacrime, piccola Sonja? Che cosa c’è che non va?” Mi morsi le labbra. “Niente,” dissi. “Niente?” disse lui. “Qualcosa di sicuro.” Dissi: “Questo albero, guarda! Le foglie sono già cambiate, presto tutto il bosco sarà spoglio”. Era difficile per me, allora come adesso, sopportare gli inverni a Tula. Non c’è modo di sfuggire al freddo, al vento 1
@I partecipanti a una cospirazione fallita contro lo zar Nicola I nel dicembre del 1825. (N.d.T.)
13