ISTORIA LITERATURII ITALIENE Lector univ. drd. GETA POPESCU Anul I, Zi, FR, ID Specialitatea B
OBIECTIVE Cursul îşi propune să continue expunerea, într-o manieră diacronică, a celor mai interesante momente ale literaturii italiene din secolul al XIV-lea, poetul Francesco Petrarca şi creatorul nuvelei italiene, Giovanni Boccaccio, încheind cu scriitorii generaţiei umaniste, între care se remarcă Angelo Poliziano şi Matteo Maria Boiardo. Au fost aleşi creatorii şi operele cele mai reprezentative, care au marcat epoca şi care se constituie în adevărate puncte de reper pentru viitorii specialişti în studiul culturii şi civilizaţiei italiene. În pregătirea ulterioară a studenţilor, nu este recomandabilă numai parcurgerea exclusivă a cursului de faţă, trebuie avută în vedere întreaga bibliografie obligatorie. Semestrul II IL TRECENTO FRANCESCO PETRARCA Una nuova figura di intellettuale Francesco Petrarca (1304-1374) rappresenta una figura di intellettuale nuova rispetto agli scrittori del Duecento e a Dante, e anticipa la figura che dominerà poi nei periodi successivi. Non è più l'intellettuale comunale, legato ad un preciso ambiente cittadino, ma un intellettuale cosmopolita, senza radici in una tradizione municipale, e ciò si manifesta nella sua continua ansia di viaggiare, nel variare continuamente il luogo dei suoi soggiorni, Avignone, Milano, Venezia, Padova. In secondo luogo Petrarca non è più l'intellettuale cittadino che partecipa attivamente alla vita politica del suo comune (come lo è ancora Boccaccio), è ormai pienamente l'intellettuale cortigiano: egli accetta la nuova istituzione della Signoria, ampiamente affermatasi in Italia, e sceglie di sostenerla con il suo prestigio e la sua autorevolezza di grande intellettuale, di uomo di vasta cultura e di fama europea. Assume dunque una funzione pubblica: dà consigli e ammonimenti ai signori, dà lustro con la sua fama alla corte, è impiegato in incarichi prestigiosi; in cambio ne ha rendite, pubblici onori, protezione. Tuttavia resta geloso della sua autonomia di intellettuale, e per questo rifiuta incarichi che lo vincolerebbero troppo alla struttura del potere, come quello di segretario papale. Con i vari signori, i Visconti, i da Correggio, i da Carrara, non ha veri rapporti istituzionali, resta più che altro un illustre ospite, con rapporti di amicizia. Nella lettera che immagina di indirizzare ai Posteri, Petrarca confessa un rapporto col potere ben diverso da quello che caratterizzò Dante. Eccolo raccontare con distacco: «Ebbi la fortuna di godere la familiarità dei principi e dei re e l’amicizia dei nobili, tanto da esserne invidiato... I più grandi re del mio tempo mi vollero bene e mi onorarono (il perché non lo so; è cosa che riguarda loro), e con certuni ebbi rapporti tali che in certo qual modo erano loro a stare con me; e dalla loro grandezza non ebbi noie, ma molti vantaggi.» Garanzia di questa indipendenza sono le rendite ecclesiastiche, che lo preservano dal dipendere, per il mantenimento materiale, dai favori di un signore. Anche in questo Petrarca anticipa una figura di intellettuale che diverrà in seguito sempre più diffusa: il chierico, colui che trae sostentamento da cariche e benefici ecclesiastici, e da essi ricava la possibilità di dedicarsi agli studi a tempo pieno. Grazie alle rendite Petrarca può considerarsi ricco, conduce vita agiata, ha il privilegio di risiedere nei luoghi più ameni e incantevoli (Valchiusa, Arquà). Può anche disporre di tutti i libri che
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vuole: era questo un lusso riservato a pochi, dato il costo altissimo che allora avevano i libri manoscritti. I privilegi e i favori di cui Petrarca gode si possono spiegare col grande prestigio che ha assunto, presso i gruppi dirigenti italiani, la letteratura. Essa viene considerata come la più alta manifestazione dello spirito umano, l'attività in cui si compendia l'essenza stessa dell'umanità. Il letterato è colui che fa rivivere il mondo antico, divenuto modello della vita spirituale e di quella civile; d'altro lato è colui che, con i suoi scritti, assicura l'immortalità della fama presso i posteri. Si va già delineando, nell’opinione delle élites dirigenti, quella concezione della cultura che caratterizzerà l'Umanesimo. E Petrarca ne è l'interprete più consapevole; per lui nelle lettere si compendiano i più alti valori umani, e si possono individuare gli strumenti per la formazione complessiva della persona. Petrarca ostenta disprezzo per il sapere puramente tecnico e scientifico, le lettere invece sono veramente utili e costruttive, perché riconducono alla meditazione e alla riflessione interiore, portano alla vera conoscenza di sé e confortano l'animo, rendendolo saldo di fronte ai colpi della fortuna. Petrarca ha un'idea altissima della dignità del poeta, che per lui è il sacerdote di un vero e proprio culto, ed ha il potere di consacrare all'immortalità se stesso e coloro di cui tratta. Questa concezione della letteratura e dell'attività intellettuale anticipa quella che trionferà nel secolo successivo con l'Umanesimo (gli umanisti, infatti, guarderanno a Petrarca come ad un iniziatore e ad un maestro). Il Canzoniere La vastissima produzione latina di Petrarca può essere suddivisa in due gruppi di opere, quelle religioso-morali e quelle “umanistiche”; in volgare egli scrisse soltanto il Canzoniere e i Trionfi, poema allegorico rimasto incompiuto. Per capire la visione del mondo su cui Petrarca fonda tutta la sua attività di scrittore, dobbiamo sottolineare che per lui la vera filosofia non è più la filosofia scolastica, non è quella che, seguendo l’aristotelismo, catalogava nei suoi schemi astratti e aridi tutte le manifestazioni della realtà, della natura come di Dio stesso, ma quella che mira a comprendere l'uomo, a esplorare la sua interiorità per insegnargli a sopportare le miserie della sua esistenza e indicargli la via dell'autentica felicità e della salvezza. Non all'insegnamento di Aristotele e di san Tommaso guarda Petrarca, ma a quello più inquieto di sant'Agostino, che aveva proclamato che «in interiore homine habitat veritas». Se Dante poneva alla base della sua visione del mondo proprio la filosofia scolastico-aristotelica, e da essa essenzialmente traeva quell'incrollabile fede in un ordine perfetto che racchiudesse tutte le manifestazioni della realtà, in Petrarca la fede dantesca sparisce del tutto, e con essa anche la certezza di poter dominare la realtà con rigorosi schemi concettuali. Perciò egli rinuncia ad affrontare il mondo esterno nella sua concretezza e nella molteplicità dei suoi aspetti e si rinchiude esclusivamente nella contemplazione del proprio io, nell'analisi delle proprie inquietudini e delle proprie contraddizioni interiori. E' ormai noto che Petrarca si attendeva la fama e l'immortalità presso i posteri dalle opere latine. Egli riteneva di essere il continuatore degli autori classici, e per questo scrisse poemi epici come Virgilio, storie come Livio, epistole come Cicerone. Ma questo atteggiamento è contraddetto dalla cura con cui lavorò per anni, sino agli ultimi giorni di vita, a limare e a rendere perfetti i suoi versi volgari, a ordinare e ad arricchire la loro raccolta. Petrarca cominciò a scrivere versi in volgare sin dalla prima giovinezza e continuò fino agli ultimi anni di vita. Ben presto pensò anche a raccogliere organicamente le sue liriche. La sistemazione definitiva risale all'ultimo anno di vita del poeta, il 1374, ed è contenuta nel manoscritto Vaticano 3195. Molto prezioso è anche un altro codice petrarchesco della Biblioteca Vaticana, il cosiddetto “codice degli abbozzi”, che contiene stesure diverse di numerosi componimenti, con note del poeta, e che ci permette di seguire da vicino l'assiduo, accanito lavoro di Petrarca, che corregge, sostituisce o sposta una parola, sino a quando il verso non raggiunge la perfezione da lui tanto desiderata. Il titolo che Petrarca pone sul manoscritto definitivo è Rerum vulgarium fragmenta (Frammenti di cose in volgare). L'opera si suole anche designare con la formula Rime sparse, ricavata dal primo verso del sonetto che funge da proemio («Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono»), oppure, più semplicemente, come Canzoniere. Il Canzoniere è costituito da 366 componimenti, in massima parte sonetti (317), ma
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anche canzoni, ballate, sestine, tutte le forme metriche consacrate dalla lirica precedente, dai trovatori provenzali ai rimatori siciliani e agli stilnovisti. La vicenda esemplare indicata dal sonetto iniziale non segue un movimento narrativo o romanzesco: il Canzoniere non è infatti una storia d’amore, ma piuttosto un intreccio di situazioni che valgono come „frammenti” dell’anima e che creano una gamma di corrispondenze, simmetrie, richiami. «La struttura del libro ha la funzione di istituire un luogo unitario di risonanza per questi sparsi frammenti, ciascuno dei quali riceve un più forte rilievo dal suo specchiarsi, intrecciarsi, incontrarsi e qualche volta scontrarsi con tutti gli altri. L’io del poeta si riflette in una serie di variazioni su un’identica materia che torna su di sé e insieme moltiplica i propri echi, e nella quale si riconoscono vari gruppi omogenei di componimenti legati da uno stesso tema, da una stessa occasione, dalla stessa metafora, dalla ripetizione di termini linguistici o di strutture metriche. La sottile e variegata trama di connessioni che unisce queste „rime sparse” si serve dei mezzi più diversi, da quelli espliciti ed evidenti, a quelli più ambigui e quasi „segreti”.» (G. Ferroni) Le liriche più celebri del Canzoniere Oltre alla distinzione, fatta esplicitamente dall’autore, tra prima e seconda parte, nel Canzoniere è possibile individuare delle vere e proprie sezioni, in base a criteri stilistici, tematici e cronologici (si tratta però di una cronologia ideale, che non sempre corrisponde a quella reale). 1.Nella prima sezione, che può essere limitata ai primi sessanta componimenti, vi sono testi che risalgono alla fase iniziale della scrittura poetica del Petrarca. Qui sono più espliciti i legami con la tradizione poetica provenzale e stilnovistica: una ricchezza di elementi figurativi e metaforici; numerose citazioni dai classici antichi e frequenti richiami di tipo storico, erudito, mitologico (tra l’altro l’identificazione tra Laura e il lauro, che fa pensare al mito classico di Apollo e Dafne). Nel sonetto Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, posto all’inizio della raccolta, ma composto probabilmente nel 1347, il poeta si volge indietro a considerare l’esperienza amorosa che ha occupato un lungo periodo della sua esistenza e insieme la produzione poetica che ne è stata il frutto. Il suo atteggiamento è quello di chi vuole trarre un bilancio. Si manifesta così l’attitudine introspettiva tipica della poesia petrarchesca, la volontà di scrutarsi e di analizzarsi, che ha in sé quasi una voluttà di mettere a nudo senza pietà colpe e vergogne. Il bilancio è profondamente negativo. Il nutrire il cuore di sospiri amorosi è stato un “errore”, perché ha generato un oscillare incoerente fra “speranze” e “dolore”, e tutto ciò è stato un disperdersi tra cose “vane”. Il poeta può fare questo bilancio perché è ormai “altr’uom” da quello che era, cioè ha superato l’errore (anche se solo “in parte”, poiché il superamento non approderà mai ad una conversione definitiva): «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono...» La severa analisi della coscienza e il bilancio negativo sono confortati, nella seconda quartina, dalla speranza di trovare compassione e pietà, non solo perdono, nel pubblico dei lettori, almeno in una cerchia limitata, in coloro che hanno anch’essi provato quell’errore. Nelle due terzine finali il discorso si fa più duro e amaro. L’ultima terzina sintetizza questo bilancio negativo: l’amore è stato un “vaneggiare”, una follia nel seguire cose vane; il frutto che ne è derivato è la “vergogna”; conseguenza di questa è il pentimento, e conseguenza di questo è la lucida consapevolezza della vanità di tutte le cose. Il poeta conclude il sonetto con una secca sentenza “quanto piace al mondo è breve sogno”, ripresa da un testo biblico, l’Ecclesiaste. E’ una conclusione desolata, ma essa trova espressione in una forma poetica limpida e precisa, e per di più consacrata dall’autorità di un modello antico. Il dissidio petrarchesco, pur non superato, viene fissato in formule eleganti e raffinati. Molto forte è inoltre l’attenzione del poeta alla natura e al paesaggio, che si confrontano con il suo stato d’animo, i suoi turbamenti e le sue pene: tra i testi più celebri, il sonetto 35, Solo e pensoso i più deserti campi. Al centro di esso vi è il motivo della solitudine, l’isolamento che deve salvare il poeta dalla vergogna di rivelare agli altri uomini il suo tormento interiore, che si legge chiaramente nel suo aspetto malinconico: «Solo e pensoso i più deserti campi
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vo mesurando a passi tardi e lenti, e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman l’arena stampi.» Il termine “schermo” («Altro schermo non trovo che mi scampi / dal manifesto accorger de le genti»), che rimanda ai codici dell’amor cortese (l’amore dev’essere tenuto segreto, celato dunque ai “malparlieri”), e soprattutto alla Vita nuova (le donne “dello schermo”), non è costituito da una terza persona, qui è l’intimità del poeta che dev’essere salvata. Fuggendo la gente, il poeta stabilisce un legame con la natura, evocata attraverso una serie di semplici sostantivi (“monti e piagge e fiumi e selve”), che diventa partecipe e confidente delle sue pene, muta testimone, più adatta degli uomini ad accogliere i suoi lamenti, senza turbare però il suo bisogno di isolamento. Ma nel fuggire la gente il poeta non trova scampo dalle sue sofferenze: lo accompagna pur sempre il pensiero ossessivo d’amore: «Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, ed io co llui.» 2. La sezione successiva (dal numero 61 al numero 129) è inaugurata dal sonetto Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, e l’anno, che celebra il primo incontro con Laura; seguono componimenti in cui, evocando l’immagine della donna e dell’amore per lei, Petrarca esalta quel momento originario di ineffabile rivelazione per farlo sopravvivere al di là di tutti i limiti del tempo e dello spazio. Vi sono poi le tre celebri canzoni dedicate agli occhi di Laura (71, 72, 73), e uno splendido sonetto, il 90, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, oscillante tra realtà e illusione, e con il ricorrente motivo della donna angelo: «Non era l’andar suo cosa mortale, ma d’angelica forma, e le parole sonavan altro, che pur voce umana. Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’i’ vidi;...» Interviene poi sempre più netto il ricordo struggente di alcune apparizioni di Laura, che culmina nelle grandi canzoni dedicate al sottrarsi della sua immagine nella natura e nel pensiero del poeta: la 126, Chiare, fresche e dolci acque; la 127, In quella parte dove Amor mi sprona; la 129, Di pensier in pensier, di monte in monte. Al centro della canzone Chiare, fresche e dolci acque c’è l’evocazione dell’immagine di Laura. Il componimento esemplifica perfettamente il processo di stilizzazione a cui nel Canzoniere è sottoposta la figura femminile. Viene enumerata una serie di particolari fisici, “belle membra”, “bel fianco”, “begli occhi”, “gonna leggiadra”, “treccie bionde”, ma sono tutti elementi raffinatamente convenzionali, che rimandano ad una lunga tradizione di poesia amorosa, e che non definiscono una figura concreta. Egualmente stilizzata è la natura su cui campeggia la bella donna. E come Laura non è una persona definita, così il luogo della sua apparizione non è un luogo preciso, è uno spazio astratto, che è dovunque e in nessun luogo. Infatti nella canzone è descritta non una scena presente, bensì una scena recuperata dalla memoria. Il mondo esterno scompare, diviene un elemento del mondo interiore, e questa realtà interiore è l’unica che conta per Petrarca. Tra le canzoni dedicate a Laura, il poeta inserisce, con studiata variazione tematica, la celebre canzone 128 ai signori d’Italia, Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno. E’ un esempio della poesia politica di Petrarca, non frequente nel Canzoniere. Due temi sono centrali: la condanna delle lotte civili tra i signori italiani e dell’impiego di milizie mercenarie germaniche. Gli interlocutori del poeta sono i signori della penisola. Petrarca si rapporta ormai alla nuova realtà signorile che si era affermata nella penisola, e, come grande intellettuale, si propone nelle vesti del saggio al di sopra delle parti, colui che ammonisce, esorta, guida e indirizza al bene chi ha la responsabilità del potere: «Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine spade? Perché ‘l verde terreno
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del barbarico sangue si depinga?» Nelle ultime due strofe viene in primo piano il commuovere dei sentimenti, l’equazione patria-madre, l’appello ai più profondi legami familiari: «Non è questo ‘l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido Ove nudrito fui sì dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido, madre benigna e pia, che copre l’un e l’altro mio parente?» Il secondo motivo è quello delle milizie mercenarie germaniche, che invadono il suolo italiano e combattono solo per interesse, passando da un campo a quello avverso a seconda delle migliori offerte (è un tema politico che avrà poi grande rilevanza nel pensiero di Niccolò Machiavelli). Il motivo sarà dettagliato nella contrapposizione tra la nobiltà del sangue latino e la rozza crudeltà dei tedeschi. I seguenti versi vibranti e lapidari: «vertù contra furore prenderà l’arme, e fia ‘l combatter corto: ché l’antiquo valore ne l’italici cor’ non è ancor morto» saranno ripresi da Machiavelli in chiusura del trattato il Principe. Tutta la canzone, col suo mito di Roma e della rinascita italica, avrà in seguito grande risonanza e fortuna, fino a Giacomo Leopardi della canzone All’Italia e ai patrioti del Risorgimento. 3. La terza sezione (dal numero 130 al numero 247) si apre con due sonetti che danno nuovo avvio al „canto” d’amore, svolto ora attraverso la lode di Laura e la sua celebrazione più assoluta. La condizione dell’innamorato e la figura luminosa della donna si fissano come simboli perfetti al di fuori del tempo. Il poeta vive un „lungo error in cieco laberinto”, ma tende a fare di questo „laberinto” un bene prezioso che lo sottrae a ogni confusione con il mondo esterno. Qui si incontrano alcuni dei più belli sonetti petrarcheschi, come il 134, Pace non trovo e non ho da far guerra. 4. Una quarta sezione di raccordo tra la Prima parte e la Seconda parte include i componimenti dal numero 248 al numero 266; nei sonetti finali della Prima parte si introducono il motivo del presentimento della perdita di Laura e un’esaltazione della sua castità; la canzone 264, I’ vo pensando, e nel penser m’assale con cui si inizia la Seconda parte, è una meditazione sulla vanità dei beni terreni, in termini che sono assai vicini al terzo libro del Secretum. Prende così avvio la tematica del pentimento, della „vergogna”, dell’aspirazione alla salvezza dell’anima. 5. Una quinta sezione può essere identificata con quasi tutta la Seconda parte, dal numero 267 al numero 349; col sonetto 267, Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, e con la canzone 268, Che debb’io far? che mi consigli, Amore?, iniziano gli scritti in morte di Laura, molti dei quali composti nell’ultimo soggiorno a Valchiusa (1351-53). Si tratta di testi eccezionali, in cui il pentimento e l’aspirazione alla salvezza si intrecciano con la visione della donna, che riappare in vesti diverse. L’ossessione di ricreare immagini e situazioni distrutte dalla morte e dal tempo si risolve in un percorso di redenzione: Laura morta è in Paradiso e di lì apre la strada alla salvezza del suo amante terreno; il fatto che in vita ella non ha mai dato compimento al desiderio dell’amante diventa ora garanzia di purezza e di beatitudine; la sofferenza dell’innamorato si trasforma in cammino verso Dio, che renderà possibile la riconciliazione tra amore terreno e amore divino. Sono da ricordare alcuni celebri sonetti, come il 279, Se lamentar augelli, o verdi fronde, il 302, Levommi il mio penser in parte ov’era, il 311, Quel rosignuol, che sì soave piagne, o la canzone 323, Standomi un giorno solo a la fenestra. 6. Nella sesta sezione si possono inserire le ultime rime (350-366), più direttamente rivolte all’analisi interiore, alla ricerca di una pace assoluta, che ponga fine per sempre a turbamenti e a contraddizioni. Laura si è trasformata sempre più in un’immagine che conforta e guida il poeta all’esame di sé e alla salvezza; come consolatrice essa appare nella canzone 359, Quando il soave mio fido conforto; un dibattito tra il poeta e Amore, di fronte alla ragione, con una riconsiderazione di tutta la passata esperienza, è la canzone 360, Quel’antiquo mio dolce empio signore; la canzone finale, Vergine bella, che di sol vestita, tende a cancellare tutti i dissidi su cui si regge la stessa struttura del
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Canzoniere, nell’invocazione alla Vergine Maria, figura suprema di donna salvatrice, perché aiuti il poeta a raggiungere la pace del cielo. L'amore per Laura La materia quasi esclusiva del Canzoniere è costituita dall'amore del poeta per una donna, chiamata Laura, incontrata «il dì sesto d'aprile», venerdì santo, in una chiesa di Avignone. Nel libro si percorre il diagramma di una passione tutta umana e terrena, che non esclude l'aspetto sensuale. E' un amore perpetuamente inappagato e tormentato. Il poeta è chino su se stesso ad esplorare moti e conflitti interiori, e spesso assapora quasi la voluttà di soffrire e di piangere. Gli stati d'animo rappresentati dalla poesia riflettono un continuo oscillare tra poli opposti, senza mai una risoluzione definitiva: ora il poeta tesse intorno alla donna immagini complesse, giocando simbolicamente sul nome Laura, che richiama il “lauro” poetico; ora contempla l'immagine della donna, creata dal sogno, dalla fantasia o dalla memoria (poiché Laura è sempre lontana, “altrove”, nello spazio o nel tempo) e si nutre di vane speranze; ora lamenta la sua crudeltà e indifferenza, paragonandola ad una «fera bella e mansueta», e invoca pietà per le proprie sofferenze; talvolta, stanco di tendere ad un fine irraggiungibile e di sopportare vani tormenti, si protende verso la liberazione e la pace interiore, elevando la sua preghiera a Dio, e confessa che di tanto «vaneggiare» unico frutto è la vergogna, il pentimento e il conoscere chiaramente «che quanto piace al mondo è breve sogno»; ma nonostante tutto, la forza della passione lo domina, riconducendolo alla vicenda ben nota di sogni, fantasticherie, desideri, lacrime, sospiri. Questa vicenda ha una svolta con la morte di Laura. Il Canzoniere risulta nettamente diviso in due parti, le “rime in vita” e le “rime in morte” di Laura. Alla morte della donna amata il mondo sembra improvvisamente scolorire, farsi vuoto e squallido. Eppure la passione non si estingue. Il poeta si volge indietro con desolato rimpianto verso un tempo che non può ritornare, crede ancora di vedere Laura come se fosse viva nei luoghi consueti, sullo sfondo di «verdi fronde» mosse dall'aria estiva o di limpide acque correnti, oppure la vagheggia in cielo, dove si è trasferita lasciando in terra il «bel velo» corporeo che aveva suscitato in lui tanti desideri. Nel sogno Laura appare «più bella e meno altera», più mite e compassionevole verso le sue sofferenze. Ma dopo il lungo «vaneggiare» il poeta sente il peso del peccato e il desiderio di una purificazione; guarda con angoscia il trascorrere del tempo, che trascina con sé tutte le cose belle e fuggevoli, la vita che «fugge e non s'arresta un'ora» e avvicina inesorabilmente l'ora della morte. La morte non appare come un porto tranquillo in cui trovare rifugio, ma un «dubbioso passo», pieno di insidie e di pericoli. Per cui il poeta vorrebbe volgersi verso qualcosa di più saldo e duraturo che non gli ingannevoli beni terreni, verso il cielo: il libro, con la tormentata vicenda che lo percorre, si conclude con una canzone di preghiera alla Vergine, in cui il poeta esprime un intenso desiderio di superare ogni conflitto, di trovare finalmente la pace. E «pace» è appunto l'ultima, emblematica parola della canzone, la parola che chiude e suggella il libro. La figura di Laura Il poeta, nel raccogliere le sue poesie scritte in varie occasioni e su un lungo arco di tempo, benché le definisca «rime sparse» si preoccupa in realtà di ordinarle in un'architettura unitaria, in modo da delineare una precisa vicenda. In realtà il Canzoniere vuole offrirsi al lettore come un libro compiuto. E sicuramente vi è alla base di esso un'esperienza reale e sinceramente vissuta. Tuttavia sarebbe sbagliato interpretarlo quale confessione diretta di vicende autobiografiche, con una trama corrispondente alle esperienze del poeta. Quindi, se nel Canzoniere si delinea una vicenda, essa non è identificabile con l'esperienza vissuta dal poeta, ma va considerata soltanto come una trasfigurazione letteraria, come una costruzione ideale, esemplare, che segue determinati codici. Già per la poesia stilnovistica e per la Vita nuova si era sottolineata l'atmosfera rarefatta e irrealistica, ma col Canzoniere essa si fa ancora più impalpabile. Anche se Laura è molto più umana delle remote e inattingibili immagini femminili degli stilnovisti e di Dante, perché rientra in una dimensione psicologica più viva e mossa, più vicina all'esperienza comune, e perché inserita nella dimensione del tempo, sottoposta quindi alla sua azione disgregatrice, tuttavia è ben lontana dall'avere la concretezza corposa di un personaggio reale. Compaiono spesso nel Canzoniere notazioni riferite alla sua bellezza fisica, ma la sua figura resta evanescente: i vari particolari su cui il poeta insiste, i «capei d'oro», il «vago lume» dei «begli
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occhi», il «dolce riso», le «rose vermiglie» delle labbra, la «neve» del viso, il «bel giovenil petto», le «man bianche e sottili», l'«angelico seno», il «bel fianco», il «bel piè», l'«andar» che non è «cosa mortale, ma d'angelica forma», non compongono un'immagine definita, ma rispondono ad un formulario tradizionale. L'immagine complessiva di Laura, quale resta nella memoria dopo la lettura del Canzoniere, è il vago profilo di una bella donna bionda, che si staglia di regola su un ridente sfondo naturale. Ma anche il paesaggio non si delinea nelle sue forme, nei suoi colori, nei suoi profumi, e risulta anch'esso da elementi estremamente stilizzati: erbe, fiori, fronde, monti, selve, acque limpide, cieli sereni, tutti gli elementi che compongono l'immagine del locus amoenus consacrata da una lunga tradizione, che risale ai poeti classici e giunge sino ai trovatori e agli stilnovisti. Le situazioni e gli episodi in cui si articola la vicenda amorosa mancano di concretezza realistica: essa è fatta di apparizioni di Laura, saluti e sguardi negati o concessi, smarrimenti del poeta, sogni e fantasticherie, passeggiate solitarie, notti insonni, colloqui con la natura, lacrime, sospiri: sono tutte situazioni codificate dalla lirica amorosa precedente. In conclusione, nel Canzoniere non si compone una trama di eventi esteriori, di fatti, che si articolino nella successione cronologica di una vicenda vissuta. La particolare vicenda amorosa sfuma in una sequenza di situazioni stereotipe. Poi è quasi del tutto assente dalla poesia del Canzoniere il mondo della storia contemporanea con i suoi conflitti, quel mondo che si imponeva invece nella Divina Commedia, se si eccettuano due canzoni politiche, Italia mia e Spirto gentil, e pochi altri componimenti come i sonetti contro la corruzione della Curia avignonese. L'orizzonte della poesia, che con il poema dantesco si era allargato ad abbracciare il reale in tutte le sue manifestazioni, dal caotico mondo della storia umana all’immobile perfezione del mondo divino, torna nuovamente a restringersi entro i limiti di un'esperienza soggettiva e privata. Leggendo il Canzoniere si ha l'impressione che la realtà esterna non esista, e che l'unica e autentica realtà sia l'interiorità del poeta. Il “dissidio” petrarchesco Se per Petrarca l’unica realtà che conta è quella interiore, la sua poesia, più che come racconto di una vicenda d’amore, va letta come lucida analisi della coscienza. La tormentata esperienza d’amore è assunta come simbolo di un’esperienza più vasta, sentimentale, intellettuale e religiosa insieme. Il tema amoroso non è per il poeta che l’occasione per un’accanita esplorazione interiore, un esame dei suoi sentimenti oscillanti e contraddittori e delle sue preoccupazioni morali e religiose. Anche nel Canzoniere si impone quel dissidio interiore che era stato così acutamente analizzato nel Secretum (un dialogo tra Francesco stesso e Agostino, guida spirituale del poeta, in cui il santo e filosofo gli rimprovera le due colpe più gravi, il desiderio di gloria terrena e l’amore per Laura). Ciò che caratterizza la spiritualità di Petrarca è un bisogno di assoluto, di eterno, di un approdo stabile in cui l’animo trovi finalmente la «pace». In contrasto con queste aspirazioni fondamentali, egli sente con angoscia la labilità di tutte le cose umane. Come attesta l’ultimo verso del sonetto che funge da proemio al libro, in lui è chiara la consapevolezza che «quanto piace al mondo è breve sogno». Tutti i piaceri e le gioie che gli uomini inseguono, impiegando in questa ricerca il loro tempo e le loro forze, sono illusioni effimere, destinate a dissolversi con il sopraggiungere della realtà ultima e definitiva, la morte. La gloria, che Petrarca ha desiderato tanto nella sua vita, è cosa vana; anche l’amore è un sogno, subito deluso dalla realtà. Gli occhi di Laura, i «duo bei lumi più che’l sol chiari», nella morte sono diventati anch’essi «terra oscura»; e questa misera fine insegna «come nulla qua giù diletta e dura». Nella poesia petrarchesca risuonano spesso gli accenti del medievale contemptus mundi (il disprezzo del mondo). Da questa delusione del poeta deriva una continua inquietudine, un senso di inappagamento perpetuo. Già nel Secretum affermava «sento qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore, sempre». Deluso dalla vita terrena, con il peccato che grava su di lui, vorrebbe rivolgersi interamente al cielo, abbandonare ogni vanità, condurre una vita pura. Perciò, nella sua interna architettura, il Canzoniere vorrebbe offrirsi, secondo il modello medievale della “conversione” consacrato dalle Confessioni di sant’Agostino e dalla Commedia dantesca, come la vicenda di un’anima che si libera dalle impurità umane e si innalza a Dio, trovando in lui la pace e la salvezza. Il disegno è evidente nell’ordinamento della raccolta che, dopo aver tracciato il percorso dei «perduti giorni» e delle «notti vaneggiando spese», come indica sempre il sonetto d’apertura, si conclude con la preghiera alla Vergine e con l’invocazione alla «pace». Ma il Canzoniere non è la Commedia: il viaggio dell’anima
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non può concludersi, e il dissidio interiore al termine del libro non trova una soluzione, come già non la trovava nel Secretum. Mentre Dante scrive la sua opera quando già è uscito «fuor del pelago a la riva», e può voltarsi a guardare ormai al sicuro l’«acqua perigliosa», Petrarca compone il Canzoniere quando è ancora immerso nelle acque tempestose; anzi, dinanzi a sé, per tutto il corso della vita, non vede che tempesta, anche in quello che dovrebbe essere il «porto», la morte («... veggio al mio navigar turbati i venti; / veggio fortuna in porto...»). Se il poeta è inappagato dall’umano, non può neppure trovare la pace e la liberazione in Dio: e resta comunque indissolubilmente legato al mondo e ai suoi beni. Ma ciò avviene perché il suo ideale autentico non è il semplice rifiuto del mondo, ma la conciliazione del divino e dell’umano: vuole conferire alle cose terrene la stabilità di quelle celesti, che le preservi dalla corrosione del tempo e della morte, e togliere alle gioie della terra il loro carattere peccaminoso, conferendole piena e totale dignità. E il suo tormento si origina dalla coscienza dell’irrealizzabilità di questo sogno. Quindi il “dissidio” di Petrarca si apre non tanto tra carne e spirito, umano e divino, ma tra una concezione ascetica, che impone una totale rinuncia al mondo per trovare la beatitudine, e il sogno impossibile di una conciliazione tra terra e cielo, che dia pieno valore alle cose umane. (Bosco) Si può dire quindi che il Canzoniere, come il Secretum, riflette non solo una crisi individuale, ma la crisi di un’epoca: mentre il conflitto tra terra e cielo era tipico della visione medievale, la conciliazione tra umano e divino sarà invece il grande sogno filosofico del Rinascimento. Le scelte linguistiche e stilistiche Anche se la materia della poesia petrarchesca è questo groviglio di contraddizioni e di inquietudini senza soluzione, i conflitti dell’animo passano sempre come attraverso un filtro (la letteratura) che li decanta e li purifica. I sentimenti del poeta, per quanto intensamente e sinceramente vissuti, si esprimono sempre attraverso formule, cadenze, immagini consacrate dalla letteratura antica. In tal modo il dissidio interiore, se in realtà non può essere superato, viene almeno fissato in forme limpide ed equilibrate: raggiungere il perfetto dominio della forma è per lui l’unico modo per raggiungere il dominio di un mondo interiore inquieto e lacerato, e per attingere ad una forma di catarsi. (N. Sapegno) Nella poesia petrarchesca la perfezione formale è essenziale: il poeta ricerca un linguaggio splendido e prezioso, un’armonica strumentazione linguistica, stilistica e metrica, capace di seguire con equilibrata dolcezza le oscillazioni dell’io poetico e le apparizioni della figura femminile. Il Canzoniere ha imposto a tutta la tradizione successiva un ideale di perfetta misura stilisticolinguistica, di discorso nobile e raffinato, lontano da ogni immediatezza. Siamo dunque su un piano opposto a quello dello sperimentalismo dantesco, al suo continuo confronto tra linguaggi, forme, livelli stilistici diversi: la lingua poetica del Petrarca (come ha mostrato il Contini) tende a una forma pura e assoluta, stabile e incontaminata; e il lungo lavoro di correzione e perfezionamento dei testi è tutto orientato da questo ideale, che esclude ogni elemento realistico, ogni dato linguistico troppo diretto, o di livello „basso”. Mentre il volgare di Dante si costruisce per arricchimento, quello di Petrarca opera per riduzione, puntando a una lingua toscana ideale, basata sulla ripetizione di alcune formule perfette. Separandosi dalla casualità e dalla molteplicità della realtà esterna, la parola poetica si afferma infine come un privilegio e un dono superiore, che si rivolge a una limitata comunità intellettuale, la sola in grado di riconoscere quelle forme e quei valori supremi. Un procedimento stilistico essenziale è quello della pluralità, che consiste nel presentare ogni oggetto o parte del discorso con più termini legati e paralleli. Sostantivi, aggettivi, avverbi, espressioni verbali, nuclei sintattici, si presentano molto spesso in coppia o a gruppi di tre (e talvolta in serie anche più lunghe), in cui i singoli termini possono essere legati da rapporti di somiglianza, o essere addirittura contraddittori e opposti. Ecco come esempio la serie di coppie e di antitesi su cui si basa la prima quartina del sonetto 134: «Pace non trovo e non ho da far guerra, e temo e spero; ed ardo e son un ghiaccio; e volo sopra ‘l cielo e giaccio in terra; e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.» Ma questa perfetta lingua ideale conserva qualcosa che segretamente la agita e la sconvolge. La conquista della forma assoluta non è mai un’operazione rasserenante e pacificante: dietro tutto
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questo sforzo si avverte come un’ansia, un’esitazione, che rivela tracce, echi, residui di quel mondo molteplice e vario che questa poesia vorrebbe superare. La poesia del Petrarca, che pure ha agito più di ogni altra su tutta la tradizione italiana, appare infine come la più complessa e inafferrabile di tutta la lirica italiana. In sintesi il Canzoniere risulta dalla miracolosa fusione di due aspetti apparentemente antitetici: da un lato l’inquieta e tormentata visione di un’epoca di crisi, ancora tutta impregnata di spiritualità cristiano-medievale, dall’altro un gusto poetico eminentemente classicistico. Questo gusto si affermerà soprattutto in età rinascimentale, tra Quattro e Cinquecento, resterà vivo nell’età barocca e tornerà pienamente in auge nel Settecento e nel primo Ottocento neoclassico. Significato storico del Petrarca Francesco Petrarca ha rappresentato per tutta la tradizione letteraria italiana un modello essenziale di comportamento intellettuale e un punto di riferimento fondamentale per moltissimi scrittori e letterati, almeno fino al Settecento. Il sistema linguistico, tematico e simbolico del suo Canzoniere è stato alla base di tutta la poesia amorosa (e non solo amorosa) moderna, in Italia e fuori d’Italia; e il suo intervento è stato determinante anche per la definizione delle forme metriche del sonetto e della canzone. Nel Petrarca la poesia tende a porsi fuori del tempo e dello spazio, a evitare ogni legame troppo esplicito con realtà specifiche: vuol essere una comunicazione ideale, che si riflette su se stessa, estranea a motivazioni pratiche di qualsiasi genere. E proprio per questo essa può servire da modello per i più diversi punti di vista e per i più diversi gruppi sociali: ciò spiega il grande successo del modello petrarchesco in paesi e in tempi diversi. Le qualità più esplicite di questa poesia furono riconosciute da Pietro Bembo all’inizio del Cinquecento nella gravità e nella piacevolezza: ma l’interesse del lettore di oggi può essere suscitato in misura maggiore da quel sotterraneo principio di opposizione e di contraddizione che anima la suprema perfezione stilistica petrarchesca. Ogni interpretazione dell’opera di Petrarca deve partire da questo principio di contraddizione, che riguarda non soltanto la sua lirica, ma la sua psicologia, la sua condizione di intellettuale, il suo rapporto con il mondo storico. Tutti i conflitti di cui abbiamo parlato trovano forse il loro centro nell’opposizione tra la tendenza alla pura astrazione ideale e il richiamo del desiderio, che cerca continuamente realtà effimere, labili, sfuggenti (la più intensa è ovviamente quella di Laura). Dal punto di vista morale e religioso questa opposizione può essere intesa – secondo l’analisi di sé che l’autore ha dato nel Secretum – come contrasto tra Agostino e Francesco, tra ricerca della verità e della pace divina e attaccamento alle illusorie apparenze della „verità” terrena. La poesia del Petrarca è anche un tentativo di comporre questi conflitti, un tentativo che si rivela però impossibile. Attraverso l’amore per Laura, Petrarca vuol ricavare qualcosa di ideale e di assoluto da una realtà instabile e sfuggente, che si consuma e perisce; nel momento stesso in cui questa realtà viene fissata nello splendore senza tempo del simbolo poetico, si avverte che essa rimane comunque irriducibile ai valori perfetti della verità religiosa. Tra il desiderio di esaltare la bellezza effimera delle cose terrene e la ricerca di una bellezza stabile ed eterna, resta sempre una frattura incolmabile. La più grande poesia del Petrarca sprigiona proprio da questa frattura: essa vuol essere qualcosa di assoluto e di immortale, ma costruito proprio con lo sguardo continuamente rivolto a qualcosa di imperfetto, di labile, di mortale. Non è difficile individuare la situazione storica da cui emerge questa poesia: alla base dell’atteggiamento di Petrarca c’è un rifiuto del mondo presente, un orrore per la sua instabilità, per la sua confusione, per le sue catastrofi; la poesia tende allora ad allontanare tutto ciò, attraverso la certezza di un linguaggio senza tempo. Ma Laura, con tutto ciò che essa significa, costringe il poeta a mantenere aperto il suo sguardo verso lo stesso presente, verso i suoi caratteri più affascinanti e insieme verso quelli più rovinosi (non si deve dimenticare che la stessa struttura del Canzoniere è segnata dall’eco del più terribile evento contemporaneo, la peste nera del 1348, causa della morte di Laura). In tutta la sua esperienza di intellettuale Petrarca si trova, del resto, a fuggire dal presente e insieme a parteciparvi al più alto livello possibile. Nel tentativo di elaborare modelli intellettuali stabili e saldi, capaci di sfuggire al caos e all’instabilità della realtà contemporanea, Petrarca si pone come un punto di riferimento per il futuro, definendo due „sistemi” essenziali che avranno lunga durata, ma che appaiono comunque estremamente lontani da una coscienza moderna: quello della cultura umanistica e quello della poesia amorosa in volgare.
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GIOVANNI BOCCACCIO Caratteri della cultura del Boccaccio Giovanni Boccaccio (1313-1375) visse esperienze multiformi e mescolò prospettive culturali molteplici. Egli era animato da un vero entusiasmo per la comunicazione letteraria, per il mondo dell’invenzione e della fantasia, per i repertori di immagini, di personaggi, di linguaggi antichi e recenti; e insieme voleva che la letteratura si ripercuotesse sul contesto sociale, agisse su ascoltatori e ascoltatrici, identificati da lui nel suo stesso mondo quotidiano e che dalla lettura dovevano ricavare qualcosa di piacevole e di gratificante. Boccaccio si confrontò quindi con le forme più vivaci della cultura del tempo, cercando di riassumere nelle proprie invenzioni il meglio di ciò che aveva prodotto la nuova letteratura romanza e insieme guardando alla tradizione latina medievale e al mondo classico, tanto da preparare la strada, insieme a Petrarca, al nuovo atteggiamento umanistico. La condizione di fiorentino trapiantato a Napoli rende particolarmente vari, nella giovinezza, gli interessi di Boccaccio. Da una parte, infatti, egli nutre la tipica curiosità dell’ambiente mercantile per la letteratura narrativa, anche nelle sue forme più popolari, come quella appena nata del cantare, e per le recenti esperienze poetiche toscane, prima fra tutte quella di Dante, autore venerato da Boccaccio. Dall’altra, egli è attento alla cultura cortese e romanzesca, che nella corte angioina si collega a un raffinato esercizio della passione d’”amore”. Ma nello stesso contesto napoletano ha un peso notevole anche la letteratura classica: si continuano a frequentare autori cari alla cultura medievale (primo fra tutti Ovidio, maestro di letteratura amorosa, e poi Virgilio, Stazio, Lucano) e insieme si cerca un rapporto con l’antico già in una prospettiva „umanistica”. Boccaccio aderisce in modi diversi a queste prospettive, che poi approfondisce e arricchisce nel corso degli anni, elaborando una serie di opere che si legano a particolari esigenze di comunicazione, alla volontà di provare codici e forme diverse, un metodo molto diverso da quello del suo amico Petrarca. Pronto a recepire e a rielaborare temi e moduli della letteratura romanza, Boccaccio costruisce numerose opere che fanno da fondamento a generi e a schemi destinati a durare per secoli: dal romanzo d’avventura (Filocolo) al romanzo cavalleresco (Filostrato, Teseida), al genere arcadico-pastorale (Commedia delle ninfe fiorentine), al poemetto idillico (Ninfale fiesolano), al romanzo-confessione sentimentale (Elegia di Madonna Fiammetta), alla novella moderna (Decameron). Nel riprendere motivi e suggestioni della cultura europea dei secoli XII e XIII, Boccaccio li traduce in un orizzonte più mondano, più laico, privilegiando la comunicatività (per cui è essenziale la scelta del volgare) e cercando nuove forme di rappresentazione della realtà. Queste opere presentano numerosi elementi autobiografici, trasferiti e oggettivati però in una dimensione narrativa, in un gioco di allusioni, invenzioni, enigmi. La scrittura di Boccaccio si rivolge sempre all’esterno, egli ama i movimenti romanzeschi e narrativi, la descrizione immaginosa, e non si arresta mai a definire, come invece fa quella di Petrarca, l’io dell’autore e i suoi sottili risvolti. In tutta la ricca produzione volgare di Boccaccio si mescolano un atteggiamento cortese (che ha il suo punto di riferimento nella corte angioina) e un atteggiamento comunale e municipale (che si rapporta alla vita di Firenze), ma muovendo da tali premesse lo scrittore sa poi allargare lo sguardo all’intero mondo civile contemporaneo. Oltre che nei suoi scritti, Boccaccio manifesta la sua apertura anche nell’attività di organizzatore di cultura: a Firenze egli opera come un vero mediatore di modelli letterari, dando impulso a un notevole lavoro di trascrizione e diffusione di manoscritti, che va dalle opere della tradizione romanza e popolare a Dante, a Petrarca, ai classici che più interessano nella nuova prospettiva umanistica. E nella sua attività di umanista, egli ha ben chiaro che il pubblico della letteratura non si limita al mondo degli studiosi, ma coincide con quanti sono dotati di coscienza civile e di capacità di sentire, e resta sempre ben convinto della preminenza del volgare come lingua della letteratura moderna. Il suo atteggiamento umanistico (sempre più esplicito dopo il 1350) è assai diverso da quello del suo grande amico Petrarca. Boccaccio non pone mai in vera e propria antitesi lo studio dell’antichità e il mondo contemporaneo, egli aspira piuttosto a integrare la nuova cultura entro l’orizzonte comunale, legando lo studio dei classici all’espressione della coscienza „municipale” della sua città: in questo modo egli si configura come punto di riferimento essenziale per lo sviluppo dell’Umanesimo fiorentino.
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Il Decameron Composizione, pubblicazione, diffusione Subito dopo la terribile peste nera che infuriò a Firenze nel 1348, e in un arco di tempo che giunse almeno fino al 1351, Boccaccio compose il suo capolavoro, la raccolta di cento novelle dal titolo Decameron, parola modellata sul greco, riferentesi alle „dieci giornate” in cui le novelle sono distribuite e ricalcata sul titolo di un trattato di sant’Ambrogio, Hexameron, che racconta dei sei giorni della creazione. L’opera si diffuse subito con rapidità, consacrando la fama del suo autore in Italia e fuori. Pur avendo a un certo punto deciso di dedicarsi soprattutto agli studi umanistici e nutrito preoccupazioni di ordine religioso, Boccaccio non abbandonò mai del tutto il Decameron, anzi ricopiò e corresse varie volte il testo. E di questo suo lavoro abbiamo un documento essenziale, un manoscritto autografo redatto intorno al 1370 e conservato nel codice di Berlino Hamilton 1470: è un manoscritto molto elegante, di grande formato, che in un primo momento era destinato a qualche autorevole personaggio e che poi Boccaccio tenne come copia personale. L’eccezionale diffusione del Decameron nei secoli XIV e XV è attestata da un numero molto alto di manoscritti. I primi copisti e i primi possessori di copie furono soprattutto dei mercanti. Ma l’opera penetrò anche in ambienti molto diversi, e specialmente nel secolo XV se ne produssero eleganti copie illustrate. Subito si ebbero anche numerose traduzioni. Con il nascere della stampa, il Decameron divenne immediatamente uno dei libri più stampati e diffusi, la prima edizione risale al 1470 e venne stampata quasi sicuramente a Napoli. All’inizio del Cinquecento, Pietro Bembo fissò nel capolavoro trecentesco il modello perfetto della prosa volgare, ma poi dal 1559 il Decameron fu inserito tra i libri proibiti. Struttura e titolo Il Decameron è una raccolta di novelle inquadrate entro una cornice narrativa. L’autore racconta come, durante la peste che devasta la città toscana, una brigata di sette fanciulle e tre giovani, di elevata condizione sociale, decida di cercare scampo dal contagio e dalla dissoluzione morale e sociale della vita cittadina ritirandosi in campagna. Qui i dieci giovani trascorrono il tempo tra banchetti, canti, balli e giochi, e, per occupare piacevolmente le ore più calde del pomeriggio, decidono di raccontare ogni giorno una novella ciascuno. Quotidianamente viene eletto dalla brigata un re o una regina, a cui tocca fissare il tema ai narratori; solo a Dioneo è concesso di non rispettare il tema generale: e due giornate, la prima e la nona, hanno un tema libero. Nell’introduzione ad ogni giornata viene descritta la vita gioiosa e idillica della brigata, in cui tutto si svolge secondo precisi rituali. Tra le novelle si inseriscono i commenti degli uditori e ogni giornata è chiusa da una “conclusione”, in cui è inserita una ballata, cantata a turno da uno dei giovani. Questi non hanno caratteri e psicologie ben definite (tranne in parte Dioneo, irriverente e malizioso). I loro nomi richiamano o personaggi delle opere precedenti di Boccaccio (Fiammetta, Panfilo), o personaggi letterari, Lauretta (la Laura di Petrarca), Elissa (la Didone virgiliana), o la mitologia (Dioneo allude alla dea Venere, figlia di Dione). Il libro si apre con un Proemio, che è di fondamentale importanza perché vi si delineano i motivi che domineranno nell’opera intera. Lo scrittore si preoccupa di giustificare il proprio libro, e afferma il proposito di voler con esso giovare a coloro che sono afflitti da pene d’amore, dilettandoli con piacevoli racconti e dando loro utili consigli. Dal Proemio si delinea molto chiaramente il pubblico a cui l’opera è rivolta: le donne, costrette a vivere isolate in casa, senza possibilità di distrazione, a differenza degli uomini che conducevano vita attiva, e più precisamente “quelle che amano”, dove l’amore, sulla linea cortese, è assunto come simbolo di nobile sentire e di un civile costume. Ciò individua il livello letterario a cui vuole collocarsi il Decameron: una letteratura intesa al piacevole intrattenimento di un pubblico non composto di letterati di professione (le donne erano tradizionalmente escluse dagli studi e dall’alta cultura), ma al tempo stesso raffinato ed elegante. Il tema fondamentale del Decameron è la capacità dell’individuo di superare le avversità, di imporre il suo dominio su una multiforme e imprevedibile realtà regolata dalla Fortuna. Un altro spunto fondamentale, suggerito dalla dedica alle donne, è il peso che nell’opera ha il motivo amoroso. In effetti, gran parte delle novelle tocca questa tematica, che può assumere anche forme licenziose. Si delinea così un’idea di letteratura del tutto laica e mondana, svincolata dalle pregiudiziali religiose e morali di tanta letteratura medievale, compresi la Divina Commedia e il Canzoniere.
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La peste e la “cornice” La lunga descrizione della peste è animata dall’esperienza diretta dell’autore, anche se vi si sovrappongono alcune reminiscenze letterarie (soprattutto dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono). L’atteggiamento fondamentale di Boccaccio di fronte al flagello è una forma di disgusto misto ad angoscia per il disgregarsi e il degenerare di quelle norme sociali, di quei civili e raffinati costumi per i quali egli ha un vero e proprio culto. L’iniziativa dei dieci giovani, che trovano scampo dalla peste in una lieta esistenza, trascorsa in un idillico scenario naturale, e distribuita sapientemente tra riposi e banchetti, tra racconti e danze, secondo norme precise e gioiosamente rispettate, ha proprio la funzione di ricomporre la socialità minata e sconvolta dal flagello. La “cornice” è dunque un elemento essenziale alla struttura del libro e al suo significato: la disgregazione sociale superata nella socialità serena della brigata è uno schema in cui si riflette il motivo centrale del Decameron, l’osservazione degli ostacoli che la natura e la fortuna oppongono all’esistenza umana, e la celebrazione della forza e dell’intelligenza dell’uomo, che sa affrontare e superare quegli ostacoli. (G. Getto) In questo conflitto si manifesta un’arte del vivere che si attiva secondo un ideale del tutto mondano. La vita serena e armoniosa ritratta nella cornice, la cui sede unica è la campagna, esprime la fiducia boccacciana nella possibilità di imporre un ordine umano alla realtà, travagliata da forze avverse che portano alla disgregazione e al caos. L’atmosfera della cornice è caratterizzata da un ideale signorile di armonia e di equilibrio, in cui i gesti, i movimenti dei personaggi si compongono in un immobile spettacolo. La cornice, per meglio dire la campagna, offre uno sfondo di sereno idillio e di ozio festoso ed è dominata da un’atmosfera diffusamente contemplativa, distaccata e immobile. Il mondo mercantile cittadino e la cortesia Le vicende del Decameron sono ambientate in una realtà storica determinata e ben riconoscibile: può essere a volte un più lontano passato, un mondo barbarico e feudale (le novelle di Agilulfo, re dei Longobardi, di Tancredi principe di Salerno, del Marchese di Saluzzo), ma più spesso al centro dell’attenzione è una realtà cittadina, borghese e mercantile, contemporanea o di un recente passato. Al mondo dei mercanti, che è anche il suo ambiente sociale di provenienza, Boccaccio dedica molta attenzione. Lo scrittore è attento alle basi materiali ed economiche della realtà, ma non vi è più traccia in lui dell’aspro moralismo religioso che era proprio di Dante, il quale vedeva nella cupidigia, la “lupa”, la fonte prima della degenerazione del mondo contemporaneo. Boccaccio guarda con compiacimento l’abilità e l’intraprendenza umana che si manifestano nella difesa e nell’acquisto del denaro (Landolfo Rufolo diviene addirittura pirata per ricuperare le ricchezze perdute; Andreuccio, per rifarsi della somma sottrattagli, ruba il prezioso anello dell’arcivescovo). Si può considerare il Decameron una vera “epopea” dei mercanti, la celebrazione della loro intelligenza e intraprendenza. (Branca) Ma la realtà del capolavoro boccacciano è molto più complessa. Uno dei temi centrali del Decameron è l’industria, in altre parole l’iniziativa umana che sa superare le avversità opposte dalla fortuna e dagli altri uomini, che sa dominare, con il calcolo accorto e con l’azione energica, la realtà oggettiva e può a volte piegarla ai propri fini; e questo valore dell’«industria» è chiaramente il prodotto della civiltà mercantile, che esalta l’iniziativa dell’individuo e la sua capacità di creare autonomamente un mondo intero. Boccaccio celebra i valori “borghesi” dell’iniziativa e dell’«industria», se questi sono integrati e corretti da altre virtù, tra cui la generosità, la liberalità, la magnanimità disinteressata. In Boccaccio, accanto alla rappresentazione della realtà mercantile, vi è anche la nostalgia di un mondo passato, il mondo cavalleresco, ispirato al valore della cortesia. Tra questi due poli, passato feudale e realtà presente dei traffici e della mercatura, non vi è nessun conflitto, come non vi è tra i valori che quei due mondi esprimono, la “cortesia” generosa e l’«industria» individuale e il calcolo degli interessi. Boccaccio vagheggia una fusione tra i due ordini di valori. Egli crede che la nuova realtà del denaro possa conservare il gusto della cortesia e del vivere splendido. Esempio mirabile ne è il fornaio Cisti (VI, 2) che, arricchitosi grazie alla sua attività, si dimostra anche campione della più squisita cortesia verso messer Geri Spina. Cisti è un eroe tipicamente boccacciano. Ha innanzitutto la virtù dell’«industria»; in secondo luogo si rivela padrone della parola, dimostrandosi capace di motti arguti e pungenti, e questo rientra nella tematica della giornata, dedicata alla celebrazione dell’arte della parola, così intimamente connaturata con la civiltà
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fiorentina. Accanto all’«industria» e all’arte della parola, tipici della civiltà borghese e urbana, Cisti possiede anche le virtù cortesi, in primo luogo la generosità disinteressata. In lui si può vedere quella fusione dei valori borghesi e dei valori cortesi, tipica del mondo boccacciano. Cisti rappresenta il caso simmetricamente inverso rispetto a Federigo degli Alberighi: il primo è il borghese che acquista virtù cortesi, il secondo è il gentiluomo che fonde la cortesia con la «masserizia», ossia l’arte di amministrare bene un patrimonio. L’idea del Boccaccio che la vecchia nobiltà feudale debba aprirsi ai nuovi valori borghesi è illustrata dalla novella di Federigo degli Alberighi (V, 9). Il protagonista, nella parte iniziale della novella, incarna perfettamente gli ideali dell’aristocrazia cortese. Ne ha i due tratti distintivi, la liberalità e l’amor fino: Federigo spende senza ritegno tutti i suoi averi, ma lo fa per conquistare la donna amata, secondo il principio cortese del “servizio d’amore”, pur sapendo bene di non poter ottenere nulla da lei. E proprio quando ha finalmente l’occasione, tanto desiderata e mai avuta, di onorare la donna amata in casa sua, l’eroe si trova nell’impossibilità di farlo perché, proprio per “servirla” cortesemente, ha speso tutto ed è rimasto povero. Compie allora un ultimo, disperato gesto, sacrifica il falcone, ma questo sacrificio gli impedisce di soddisfare la prima richiesta che gli viene fatta dalla donna, e provoca la morte del figlio. Sperperare tutto il patrimonio in nome della cortesia fu dunque una scelta sbagliata, e l’unica soluzione possibile, secondo Boccaccio, è conciliare la “liberalità” con la “messerizia”. E’ necessario quindi trovare un punto di equilibrio tra le due virtù. In questo, Boccaccio è perfetto interprete di quella nuova aristocrazia borghese del Comune, che fonda il suo potere sul denaro, ma nello stesso tempo eredita dalla civiltà passata il culto delle belle forme, del vivere signorile, della generosità disinteressata, dei gesti magnanimi, del bel parlar gentile. Federigo degli Alberighi è il perfetto rappresentante di questa fusione degli ideali cortesi con i valori della borghesia urbana: se all’inizio ha solo la virtù della cortesia, e la porta fino all’assurdo, poi, ammaestrato dall’esperienza negativa, diviene miglior “massaio”, e impara ad amministrare bene il patrimonio. Guido Cavalcanti (VI, 9) rappresenta la realizzazione più alta dell’ideale di uomo vagheggiato da Boccaccio. In lui si fondono egualmente l’«industria», la capacità di superare con prontezza ed energia gli ostacoli, e le più squisite virtù cortesi. Questa fusione dei due ordini di valori è una realtà storica, vissuta direttamente dallo scrittore: la nuova classe dirigente fiorentina, composta di grandi mercanti e di banchieri, sentiva realmente il fascino della passata civiltà cortese e cercava di assimilarne valori e stili di vita; d’altro canto, la vecchia nobiltà di origine feudale si era ormai integrata nel nuovo ordine. Boccaccio è quindi l’intellettuale che, grazie alla sua multiforme esperienza, nella Napoli cortese prima e nella Firenze borghese poi, dà espressione compiuta a questo processo sociale, proiettandolo nelle figure esemplari che popolano il suo capolavoro. Alla base della visione borghese vi è fondamentalmente una concezione dinamica, anche se limitata, della realtà, in quanto il borghese, con le sue forze e la sua intelligenza, sale sulla scala sociale fino a soppiantare i vecchi ceti dirigenti. E Boccaccio, l’intellettuale che ne è l’espressione, ne è anche il fedele interprete: per lui non esiste mescolanza di ceti, e nemmeno la possibilità di un’ascesa sociale di chi sta in basso. La virtù di Cisti consiste anche nel saper stare al suo posto, nel non presumere di poter cambiare la propria condizione sociale, poter dunque aspirare a mescolarsi alla classe dirigente, rappresentata dal grande banchiere Geri Spina. Per quanto pari a lui in cortesia, Cisti resta nella sua bottega, non osa invitare il gentiluomo, né accetta di partecipare al banchetto in onore degli ambasciatori del papa. La visione di Boccaccio celebra, è vero, l’innalzamento del ceto mercantile al livello della cortesia signorile, ma chiude poi questo processo, proponendo una struttura sostanzialmente statica della gerarchia sociale. Le forze che muovono il mondo del Decameron: la Fortuna e l'Amore La vita dei mercanti è sottoposta continuamente all’imprevisto. Propria del nuovo mondo dei traffici e degli scambi è l’idea che la realtà è dominata da una forza capricciosa e imprevedibile, la Fortuna. L’idea della Fortuna era già presente nella coscienza medievale, ma essa era ritenuta una forza subordinata alla provvidenza divina, Dante infatti fa della Fortuna una gerarchia angelica. Nella visione della società mercantile, al contrario, la Fortuna diventa solo un complesso accidentale di forze. E’ questa una visione ormai laica, che non esclude certo la presenza di Dio nel mondo, ma che pone l’accento sulla sfera terrena dell’agire umano. La Fortuna può manifestarsi attraverso i fenomeni
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naturali (come le tempeste che fanno naufragare due volte il mercante Landolfo Rufolo), oppure attraverso il combinarsi imprevisto di azioni umane (la serie di incontri notturni di Andreuccio sino all’arrivo finale della seconda compagnia di ladri che lo libera dalla tomba dell’arcivescovo). La Fortuna può essere avversa o favorevole, può contrastare o assecondare l’agire umano. La Fortuna è insomma la grande antagonista dell’«industria» umana. Il motivo centrale della novella di Andreuccio da Perugia (II, 5) è quello del “saper vivere”, dell’umana “industria”, che sa vincere ostacoli e liberarsi da situazioni difficili. Ma all’inizio il protagonista si presenta come l’antitesi del tipico eroe boccacciano accorto, malizioso, pronto ed abile: Andreuccio appare come un antieroe. Non è uno sciocco, come lo sono altri antieroi del Decameron, ad esempio Calandrino; è semplicemente un giovane ingenuo per inesperienza, che si trova calato di colpo in un mondo ben più insidioso di quello a cui era stato abituato: dalla città di provincia passa alla grande metropoli mediterranea, Napoli. Proprio perché non è sciocco, Andreuccio può redimersi da questa iniziale condizione negativa. L’ossatura della vicenda è costituita da un processo di formazione, attraverso cui il giovane acquista esperienza, si scaltrisce, impara ad affrontare le insidie della realtà. E alla fine Andreuccio può degnamente collocarsi a fianco degli altri eroi boccacciani del “saper vivere”. Il momento in cui comincia a manifestare la sua nuova fisionomia è quando si rifiuta di entrare nella tomba dell’arcivescovo, e, subito dopo, quando si appropria del prezioso anello perché si aspetta un raggiro da parte dei due ladri. Ma il punto terminale è la trovata scaltra di afferrare il prete ladro per le gambe. L’appropriarsi dell’anello non è certo un’azione moralmente lodevole; ma anche qui, come dinanzi a Landolfo Rufolo che diventa pirata, Boccaccio mette tra parentesi il giudizio morale; non gli interessa giudicare moralmente l’agire di Andreuccio, ma registrare il suo acquisto del “saper vivere”. Antagonista dell’eroe è la Fortuna, intesa come complesso di circostanze fortuite e imprevebili. Il caso fa incontrare al mercato Andreuccio e la vecchia, il caso lo fa cadere nel chiassetto, gli fa incontrare i due ladri, poi i due sbirri che lo sollevano dal pozzo, il caso fa intervenire la seconda banda di ladri che gli consente di uscire dalla tomba. All’inizio la Fortuna si accanisce su Andreuccio solo perché questi non è in grado di contrastarla: se il giovane fosse più accorto, non cadrebbe nel tranello della siciliana. Alla fine la Fortuna salva Andreuccio dal morire soffocato nella tomba, ma solo perché questi sa cogliere prontamente l’occasione che gli si è offerta. Se nella novella di Landolfo Rufolo la Fortuna sembrava onnipotente e la virtù umana quasi inoperante, qui l’«industria» umana assume un ruolo decisivo. Se guardiamo adesso lo scenario su cui si scatena l’azione della Fortuna, questo è rappresentato dalla città, uno spazio labirintico, insidioso, che genera continui incontri e sorprese, accordandosi prefettamente col motivo del variare capriccioso della Fortuna. Agli spazi tradizionali dell’avventura e dell’imprevisto, il mare e la selva, cari alla letteratura antica e medievale, Boccaccio ne affianca uno del tutto nuovo, legato ad una dimensione più moderna dell’immaginario, la grande città, che si era andata sviluppando in Italia in conseguenza dell’incremento dei traffici e degli scambi. Oltre allo spazio, la dimensione temporale (il tempo notturno propizio agli intrighi, ai sotterfugi e alle sorprese), è adatta ad assecondare il grande tema boccacciano della Fortuna. L’altra grande forza che anima l’universo del Decameron è l’amore, che costituisce il tema centrale di molte novelle, e muove l’iniziativa dei personaggi. Anche l’amore è visto in una prospettiva tutta laica e terrena. Non è più “l’Amor che muove ‘l sole e l’altre stelle” della Commedia, ma una forza che scaturisce dalla Natura. Per Boccaccio è una forza in sé sana e positiva, ed è assurdo e vano frenarla o reprimerla. Anzi, soffocarla è una colpa, che può generare sofferenza e morte (le novelle di Ghismunda, Lisabetta, Nastagio degli Onesti). Ecco perché Boccaccio guarda con favore gli eroi che adoperano ogni mezzo per raggiungere il loro fine amoroso, ma soprattutto guarda con sorridente approvazione lo sbocciare di questo desiderio naturale nei giovani. Tuttavia anche la forza dell’eros deve essere regolata dalla ragione, altrimenti si trasforma in forza irrazionale e devastante. La concezione naturalistica dell’amore che domina nel Decameron anticipa quella che sarà poi propria del Rinascimento: non a caso Boccaccio sarà autore molto amato e imitato in quell’epoca. Se è vero che nella cultura medievale vi erano forti tendenze ascetiche, che proclamavano il disprezzo della carne, sentita come fonte di peccato e di dannazione, vi erano già presenti anche tendenze che, all’opposto, esaltavano la vita dei sensi. L’amor cortese, nella sua forma originaria, non era affatto un amore spiritualizzato e ideale, ma una passione fortemente sensuale, anche se destinata alla perpetua insoddisfazione. Ma poi c’è tutto un filone della cultura medievale, popolare e colta, che esalta in
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termini giocosi la vita sessuale e che si ritrova nella poesia comico-parodica. Tutta questa tradizione medievale viene a confluire nel Boccaccio, fondendosi con la nuova visione della vita della civiltà comunale e mercantile. L’amore nel Decameron si presenta nelle più varie forme. Può essere fonte di ingentilimento, secondo le norme cortesi, portando individui rozzi ad una superiore sensibilità e altezza d’animo (Cimone); può innalzare persone di umile condizione, come Simona e Pasquino, a quella nobiltà di sentire che è propria dei ceti elevati, ispirando loro l’arte di ben morire; oppure può costituire uno stimolo all’«industria», aguzzare le capacità dell’individuo per il raggiungimento dei propri fini (Nastagio degli Onesti). Inoltre l’amore può dare origine alla commedia dei sensi, animando una serie di novelle licenziose, fondate sulla beffa e sull’adulterio; però può dare origine anche alle situazioni più tragiche, sublimi e patetiche, come nella novella di Ghismunda e Guiscardo, e, in genere, in quelle della IV giornata, dedicata a coloro «li cui amori ebbero infelice fine». In queste novelle Boccaccio riprende e sviluppa l’antico tema cortese dell’amore e morte, consacrato dai romanzi di Tristano e Isotta, che vede i due amanti, separati in vita da forze avverse, riunirsi nella morte. La novella di Griselda (X, 10) ha goduto di varie interpretazioni, in primo piano quella religiosa. Petrarca, che tradusse in latino la novella, conferendole così una straordinaria risonanza e fortuna europea, ne offre un’interpretazione in chiave religiosa. Griselda viene presentata come una santa, il prototipo dell’eroina cristiana. Il rapporto Griselda-marito potrebbe alludere allegoricamente al rapporto creatura-creatore. Alcuni critici moderni hanno anche loro offerto interpretazioni in chiave religiosa. V. Branca sottolinea la disposizione simmetricamente rovesciata della prima novella del libro, quella di ser Ciappelletto, e dell’ultima, quella di Griselda: Ciappelletto è «il piggiore uomo forse che mai nascesse», definizione che richiama quella data da tutta la tradizione cristiana a Giuda; Griselda, invece, con la sua umiltà e la sua virtù, richiama la Vergine, «umile e alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2). La virtù eroica della donna si colloca nella luce di una leggenda devota o di una lauda sacra. G. Getto a sua volta afferma che Griselda è «l’unica autentica santa concepibile nell’universo mondano del Decameron.» Accanto al livello religioso si può collocare quello fiabesco. Ad una fiaba fanno pensare il passaggio quasi miracoloso dalla condizione di umile villana a quella di grande dama e la serie di prove irreali a cui l’eroina viene sottoposta (va ricordato a questo punto che la “prova” è un elemento caratterizzante della fiaba). Sul livello storico-sociale, al fondo della novella, si colloca il rapporto tra l’onnipotente signore feudale e l’umile popolana. E proprio perché di umile origine, abituata quindi ad una vita dura, Griselda può sopportare tutte quelle prove crudeli. Alle sue virtù più appariscenti, come l’umiltà e la pazienza, si affianca un’altra, la fermezza del carattere. Per questa sua capacità di affrontare con coraggio le prove imposte dalla Fortuna, Griselda si colloca a buon diritto tra i più tipici eroi boccacciani (si pensi in primo luogo a Ghismunda). Ma la magnanimità dimostrata dall’umile popolana, il suo tratto naturalmente signorile (una volta diventata moglie di Gualtieri appare «tanto piacevole e tanto costumata», che non pare essere mai stata guardiana di pecore, ma figlia «d’alcun nobile signore»), ripropongono l’esaltazione, molto cara a Boccaccio, del valore dell’individuo a prescindere dalla sua collocazione sociale (un altro esempio famoso è Cisti fornaio). Ed il narratore commenta: «Anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti.» E, nella vita di serena felicità coniugale che si delinea alla fine della novella, sembra di veder scaturire «l’immagine di una perfetta famiglia borghese.» (Baratto) Infine nell’apoteosi finale di Griselda si può vedere, come ha suggerito C. Muscetta, un ultimo omaggio, affascinante anche se eccessivo, alla madre da Boccaccio tanto presto perduta. L’argomento erotico di numerose novelle del Decameron ha contribuito lungo i secoli a creare intorno a Boccaccio una fama di oscenità. Ma la realtà del desiderio sensuale è contemplata dallo scrittore fiorentino con occhio sereno e senza malizia e di fronte alle situazioni più imbarazzanti egli mantiene un superiore, distaccato equilibrio. La molteplicità del reale nel Decameron Nelle pagine del Decameron si allinea una lunga sfilata di figure che occupano i gradi più diversi della società. Vi sono i rappresentanti degli ordinamenti del passato, re come Agilulfo, Federico II d’Aragona, Carlo I d’Angiò, grandi feudatari come Tancredi principe di Salerno o il
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marchese di Saluzzo, grandi dignitari ecclesiastici come l’abate di Cluny; ad essi si affiancano figure esotiche come Salomone, Saladino, Natan. Ma la presenza più folta è data dai ceti della moderna società urbana: grandi mercanti e banchieri come Geri Spina, l’aristocrazia cittadina rappresentata da Federigo degli Alberighi, la borghesia delle professioni, notai come ser Ciappelletto, giudici, medici, mercanti come Andreuccio da Perugia, artigiani e bottegai come Cisti fornaio, intellettuali come Guido Cavalcanti, artisti come Giotto. Al di sotto vi è la plebe urbana (Chichibio), il basso clero, rappresentato da frate Cipolla e dai tanti frati che popolano le novelle più licenziose, tutti tesi ad inseguire i piaceri della carne, gli abitanti della campagna, rozzi e semplici, fatti oggetto del riso scaltrito dei giovani cittadini della brigata, e, dietro di essi, dell’autore stesso. Boccaccio esplora il mondo sociale ma anche quello naturale. Tutti i luoghi e i fenomeni naturali sono registrati, mari, fiumi, boschi, strade, giardini, case; così pure le ore del giorno, le varie stagioni, i fenomeni atmosferici. Si può notare, tra i luoghi, una speciale predilezione per il mare, che, col suo mutare capriccioso e imprevedibile, diviene metafora della Fortuna. Il mare ha però anche una dimensione realistica, in quanto richiama la concreta vita dei mercanti, che al mare affidavano gli averi e la vita, nella ricerca incessante di moltiplicare le loro ricchezze. Ma l’ambiente prediletto dello scrittore è la città. La città è spesso rappresentata da Firenze, il centro per eccellenza degli scambi e dei traffici, ma anche di una viva socialità, che ama la beffa o il motto arguto e pungente oppure le splendide usanze cortesi. La città è uno spazio aperto e disponibile a tutte le esperienze, anche all’avventura, come prova la novella di Andreuccio. Nel labirinto delle sue vie, nell’intersecarsi imprevisto di destini umani che si incrociano e si dividono, nella molteplicità dei ceti e dei tipi che entrano in contatto fra loro, la città diventa il simbolo del gioco mutevole della Fortuna, come pure il mare. Questo brulicare multiforme di presenze reali si colloca sullo sfondo di una geografia precisa e concreta, l’Italia, l’Europa, il vasto mondo del Mediterraneo, e sullo sfondo di un tempo che va dal presente borghese al passato feudale, alle età più antiche, di Grecia e di Roma. Tuttavia si può cogliere un’opposizione tra presente e passato: il presente non è passibile di alcuna idealizzazione e rappresenta gli aspetti più comici del reale, mentre il passato, anche quello recente, è idealizzato e vagheggiato come il tempo della cortesia, delle azioni generose e magnanime. Esemplare è il preambolo della novella di Guido Cavalcanti, in cui si rievocano nostalgicamente le gentili brigate della Firenze di fine Duecento; ma questo tempo, storico eppure sfumato nel mito, è rappresentato anche dalla Firenze di messer Geri Spina. La disposizione delle novelle non è casuale, essa risponde a evidenti intenzioni architettoniche. Si è ormai parlato a lungo del rapporto che lega la prima novella del Decameron, dedicata a ser Ciappelletto, e l’ultima, dedicata a Griselda. (Branca) Ma questa contrapposizione si può estendere al corpo intero delle due giornate estreme: nella I si parla essenzialmente di vizi, di gesti meschini, nella X delle più eroiche virtù e dei gesti più magnanimi. Il centro ideale del libro è la VI giornata, dedicata alla celebrazione dell’arte della parola, che è al tempo stesso una celebrazione della civiltà fiorentina. Rispetto alla VI giornata si pongono simmetricamente due giornate dedicate all’amore (la IV e la V) e altre due dedicate all’intelligenza umana, che si esprime essenzialmente nelle beffe (la VII e l’VIII). Se vogliamo fare un parallelo tra i due capolavori della letteratura italiana delle origini, la Divina Commedia e il Decameron, dobbiamo dire che in tutti e due esiste un atteggiamento aperto verso la realtà, un’analoga aspirazione a rendere la totalità del reale nella molteplicità infinita dei suoi aspetti. Se nella Commedia il principio ordinatore era imposto sulle cose dall’esterno e dall’alto, nel Decameron l’ordine nasce all’interno della stessa realtà umana e deriva da una visione del mondo essenzialmente laica, quindi è assente la dimensione del sovrannaturale, del divino o del demoniaco. Quello del Decameron è un mondo interamente umano, retto da forze umane, che operano in una loro sfera autonoma: l’amore, la sapienza di vita, l’intelligenza e l’energia vincono gli ostacoli frapposti dalla Fortuna, dalla natura e dagli altri uomini. Se la visione di Dante è verticale, quella di Boccaccio è orizzontale, perché è tutta calata nella dimensione terrena. Il mondo di Dante ha un ordinamento rigidamente gerarchico, subordinato a Dio, mentre Boccaccio è semplicemente curioso di investigare tutto il molteplice, e di conseguenza non istituisce gerarchie fra terreno e divino. Nella commedia “divina” di Dante domina un procedimento simbolico, per cui tutte le realtà umane alludono all’unica vera realtà, quella di Dio, mentre la commedia “umana” di Boccaccio è attenta al reale preso in sé.
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Con il Decameron raggiunge la sua forma più compiuta il genere della novella, il racconto breve in prosa, e il termine si afferma definitivamente nel Trecento. La novella ha le sue radici in una lunga e multiforme serie di esperienze narrative: l’exemplum morale e religioso, il romanzo cavalleresco, i fabliaux francesi, i racconti arabi e orientali (Le Mille e una notte), le fiabe e i racconti popolari, i racconti orali delle brigate aristocratiche e cittadine. E’ un genere che ha per fine l’intrattenimento, l’evasione, ed è indirizzato essenzialmente ad un pubblico di non letterati, che nella lettura ricerca un’occupazione dilettevole. La prosa del Decameron Tutta la materia della narrazione è sottoposta a una prosa raffinata, piena di sapienza stilistica, che porta al punto più alto l’impegno già rivelatosi nel Filocolo e nell’Elegia di Madonna Fiammetta. Ancora presenti sono alcuni schemi della retorica medievale, come l’uso di rime e la formazione di versi all’interno del periodo. Ma Boccaccio tende soprattutto ad approfondire il rapporto con la prosa latina antica, adattando il proprio volgare alle pieghe, ai ritmi, alle pause di quella. Questa latinizzazione della prosa volgare si muove però in una direzione diversa da quella tentata da Brunetto Latini e dal Convivio dantesco. La sua è una prosa avvolgente, fatta di periodi ampi e modulati, che sembrano voler seguire tutte le sinuosità, le sfumature della realtà. Nello stesso tempo questa prosa sa guardare le cose da lontano, compiacendosi della propria capacità di dire, della propria eleganza, del proprio decoro: essa può parlare di qualunque materia, eppure mantiene un superiore distacco. Essa crea così un modello di „edonismo linguistico”, che avrà un peso notevole nella tradizione della prosa italiana, specialmente nel corso del Cinquecento. Ma non va trascurata la capacità che questa scrittura ha di far propri i livelli stilistici più diversi, dal sublime al patetico, all’eroico, al tragico, al comico, al grottesco: i suoi poli estremi sono da una parte l’alta retorica tragica, che si affida a una lingua „sublime”, sciolta da ogni legame con le circostanze minute; dall’altra una prosa che rispecchia la realtà più banale e volgare e ricorre quindi al linguaggio più „basso” e concreto. Nei discorsi dei personaggi si passa facilmente dalla parola più controllata e sobria alle battute di dialogo più rapide, che riflettono l’incalzare dell’azione o l’insorgere e il succedersi delle voci. La lingua fiorentina si dispone con classico equilibrio in forme aristocratiche che rifiutano ogni elemento dialettale o troppo particolare; altre volte essa è invasa da costruzioni e termini popolari e vernacolari, che vengono incastonati con preciso effetto comico nel tessuto toscano. Significato storico del Decameron Nella sua ricchezza, il Decameron contiene già in sé molte di quelle che saranno le caratteristiche fondamentali della narrativa europea, almeno fino al secolo XVIII: esso crea un repertorio di situazioni e di atteggiamenti che saranno per lungo tempo alla base di ogni narrativa „amena”, volta a suscitare la curiosità e il diletto (e già alla fine del Trecento il suo influsso si fa sentire in una raccolta affascinante dalla struttura più mobile e „aperta”, come i Racconti di Canterbury dell’inglese Geoffrey Chaucer). Nel moderno raccontare, il cui artefice è appunto Boccaccio, è determinante il metodo comico, la cui sottigliezza e la cui ricchezza di sfumature costituiscono una eccezionale novità nell’ambito della letteratura volgare. Rispetto al genere comico medievale, sempre legato a schemi generali, a situazioni e ad ambienti precisi e limitati (e molto ben conosciuto da Boccaccio), il Decameron fa agire il comico in molte direzioni, sull’intero orizzonte dell’esperienza umana. Il suo strumento essenziale è l’ironia, che produce sempre un certo distacco tra la voce narrante e gli argomenti, i personaggi, i dati culturali: grazie ad essa, la realtà viene a presentare aspetti inattesi. L’ironia di Boccaccio è però lontanissima da quella ariostesca e da quella – più complessa – dei romantici: in essa c’è sempre qualcosa di trionfante, una sorta di compiacimento per la gioia del narrare, per la varietà del mondo che viene a trattare. Se vogliamo evidenziare adesso i caratteri storici del mondo rappresentato nel Decameron e qual è l’ottica ideologica dell’autore, dobbiamo dire che (come rivelano anche molti discorsi dei giovani narratori) lo scrittore accetta la realtà concreta e materiale, esalta la natura e i sensi. Egli è convinto che le inclinazioni naturali dell’uomo si affermano in maniera autentica soltanto se
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controllate da una razionalità ordinatrice, dall’ingegno e dall’«industria», in cui si esprime il valore individuale dell’uomo, e che in ambito sociale si traducono nel rispetto dei valori dominanti e delle gerarchie. Partendo da questo nucleo ideologico, si è interpretato il Decameron come un’esaltazione del mondo terreno, una prima ed esplicita affermazione di atteggiamenti che avranno la più piena espansione nel Quattrocento e nel Cinquecento: Boccaccio sarebbe il primo scrittore „rinascimentale” e il suo uso del comico equivarrebbe a una derisione e negazione del mondo medievale, sarebbe espressione di una nuova „borghesia” italiana, pronta ad affermare la propria vitalità e la propria gioia di vivere al di fuori di ogni principio morale. A questa interpretazione (che risale a Francesco De Sanctis) ne è stata opposta (da Vittorio Branca) una completamente diversa, che fa di Boccaccio un autore tutto medievale, per il suo stretto legame con le tradizioni culturali, letterarie, etiche e religiose dei secoli precedenti: il Decameron rappresenterebbe organicamente, secondo schemi strutturali e simbolici del tutto „medievali”, la vita contemporanea in tutte le sue espressioni; ed esprimerebbe con vigore la prassi e i valori del mondo mercantile trecentesco (tanto da potersi definire «epopea dei mercatanti»). Ma il senso dell’opera di Boccaccio non è soltanto nella sua cultura, nelle tradizioni e negli ambienti sociali a cui egli si collega: va cercato piuttosto nella sua forza di invenzione letteraria. Reinseritosi nell’ambiente comunale fiorentino, dopo il noviziato „cortese” napoletano, egli si sente attratto da entrambi quei mondi, quello aristocratico e quello comunale. I valori espressi da quei due mondi sono per lui essenziali: egli li concepisce come validi ispiratori della vita e li traduce in altrettanti comportamenti mondani. Si tratta di una integrale laicizzazione, poiché contenuti e comportamenti della tradizione comunale e cortese vengono evocati e vissuti soprattutto nella loro forma esteriore, nella dimensione visibile del sociale; siamo dunque molto vicini all’atteggiamento tardo-gotico, con il quale Boccaccio condivide anche la nostalgia per un’antica bellezza e per antichi equilibri. Nel mondo rappresentato dal Decameron, ogni progetto, ogni costruzione razionale, ogni esercizio dell’ingegno e dell’intelligenza, sembrano legati al riflesso di una lotta per la sopravvivenza. Per affermare se stessi, nei loro conflitti o nei loro amori, i personaggi sembrano animati da un’incoercibile aggressività; si ha l’impressione che tra gli individui manchi ogni cordialità, che ciascuno sia solo di fronte all’azione della fortuna e a quella degli altri individui. Tutti paiono costretti a lottare per conquistare qualcosa, senza altra giustificazione che la conquista stessa o la necessità di dar prova di sé. Questo è infatti l’atteggiamento tipico delle classi dominanti nel Comune mercantile, nel momento di crisi e di arretramento della metà del secolo XIV, quando si diffonde ampiamente un crudo realismo economico, un atteggiamento che caratterizzerà per molti secoli le classi superiori e intermedie della società italiana. «Il capolavoro di Boccaccio ci presenta tutti gli aspetti complessi e contraddittori di questo universo. E insieme dà voce alla paura e alla gioia, all’impetuosa voglia di vivere e di affermarsi, al fascino meraviglioso del passato che si consuma e svanisce, al divertimento della finzione e della commedia, allo scatenarsi del nonsenso, alle pulsioni distruttive, all’evasione fantastica e avventurosa, alle figure della passione e della fascinazione erotica. La rappresentazione tutta rivolta verso l’esterno, così densa di segni sociali, arriva, attraverso la sua struttura, a parlarci anche dell’autore, che pure da essa si è accuratamente escluso: dietro il suo ironico sorriso ci sono gli amori perduti, i desideri non realizzati, ciò che nessuna società e nessun modello di comportamento riusciranno mai a soddisfare.» (G. Ferroni)
IL QUATTROCENTO La poesia narrativa: poemetti idillico-mitologici e poemi cavallereschi Accanto alla poesia lirica, espressione della soggettività del poeta, si sviluppa nel Quattrocento una poesia che assume forme narrative o descrittive. A questo filone appartiene il genere del poemetto mitologico o idillico, che riprende modelli antichi. Un poemetto mitologico è l’Ambra di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), che canta della ninfa omonima che la dea Diana trasforma in un sasso per sottrarla alla furia amorosa del fiume Ombrone. E’ evidente, nella ripresa del motivo mitico della trasformazione, il modello delle Metamorfosi di Ovidio, ma anche il legame con una tradizione
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più vicina, toscana, quella del Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio. Sempre di Lorenzo de’ Medici è il Corinto, un poemetto di ambiente pastorale, che riproduce i lamenti di un pastore per un suo amore infelice. La campagna, presente anche nella “cornice” del Decameron, appare qui nelle linee stilizzate della poesia bucolica antica, di Teocrito e Virgilio: è un luogo idealizzato, popolato di ninfe leggiadre e pastori innamorati, in cui si proietta il sogno di una vita serena, lontana da ogni affanno, vissuta nel contatto rigenerante con la fresca natura. Questo motivo idillico-pastorale eserciterà un grande fascino sulla cultura cortigiana dell’età rinascimentale, ed avrà ampi sviluppi in seguito (un esempio famoso è l’Arcadia di Iacopo Sannazaro, che fissa il motivo nella sua forma più compiuta, così che nel Cinque e Seicento fu uno dei libri più letti in Italia e in Europa). Se il genere del poemetto è espressione tipica della cultura classicistica di corte, i cantari cavallereschi sono invece collegati ad ambienti popolari, incolti. Sono questi componimenti narrativi in versi (il metro prediletto è l’ottava), che trattano la materia cavalleresca carolingia o bretone. Tali componimenti vengono recitati nelle piazze da canterini girovaghi e sono destinati a soddisfare le esigenze di un pubblico avido di divertimento fantastico. In essi scompare l’austera solennità epica dell’antica materia carolingia e si fa strada il gusto per la pura avventura fine a se stessa, per il meraviglioso e l’esotico. Si assiste ad una fusione tra i personaggi del ciclo carolingio (Carlo Magno, Orlando, Rinaldo) e l’atmosfera tipica del ciclo bretone. Vi acquista rilievo il motivo dell’amore, ma compare anche il comico. Di questa produzione si possono citare la Spagna in rima, che comprende tutta la materia concernente la spedizione di Carlo Magno in Spagna, con la morte di Orlando a Roncisvalle, poi il Rinaldo da Montalbano, l’Orlando ecc. La materia canterina sarà poi sfruttata dai successivi poeti colti, Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto, che riprenderanno quelle vicende dando ad esse una veste letteraria e indirizzandole a un pubblico del tutto diverso, cortigiano, di condizione elevata. Non solo, ma spesso tali poeti, oltre a far propri personaggi, vicende, episodi interi, sentono il gusto di dialogare con gli ascoltatori, di usare delle iperboli nelle battaglie e nei duelli. Si instaura così un gioco tra il poeta e il suo pubblico, poiché si divertono entrambi, ad un livello più sofisticato, a riprendere tratti tipici di una narrativa molto diffusa e popolarissima. Il più vicino allo spirito dei cantari è il Morgante di Luigi Pulci (1432-1484), poeta che opera alla corte di Lorenzo de’ Medici, e incarna lo spirito giocoso e burlesco, tipico della tradizione “borghese” fiorentina. Pulci introduce nel Morgante un gusto che proviene dalla tradizione comicorealistica duecentesca, cioè il gusto per lo sberleffo, per la deformazione caricaturale e grottesca. Le creazioni più straordinarie del suo poema sono il gigante Morgante, il mezzo gigante Margutte, il diavolo sapiente Astarotte. L’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo nasce invece in tutt’altro clima, nella corte ferrarese che aveva conservato vivo il culto della cortesia, della magnanimità cavalleresca, delle gesta valorose e degli amori sublimi. I romanzi francesi e italiani erano lettura avidamente cercata dai duchi D’Este, dai gentiluomini e dalle dame di corte. Il poema boiardesco, impregnato di nostalgia per il mondo della cavalleria e della cortesia, ha una struttura molto complessa: l’autore mette in azione infiniti personaggi e intreccia costantemente i vari fili narrativi con un sapiente dosaggio di toni epicoguerreschi, sentimentali, fiabesco-meravigliosi, comici. E’ una struttura narrativa che sarà riprodotta, sia pur su una tastiera profondamente diversa, da un altro poeta ferrarese, Ludovico Ariosto, che ai primi del Cinquecento riprenderà il poema interrotto da Boiardo, proseguendone le vicende dal punto esatto in cui questi le aveva lasciate (l’Orlando furioso). 1.1. La letteratura volgare in Toscana: ANGELO POLIZIANO Angelo Ambrogini (1454-1494), detto Poliziano dal suo luogo di origine, è considerato una delle personalità culturali più importanti e forse il maggior poeta del Quattrocento. Visse e operò a Firenze e si dedicò quasi esclusivamente alla letteratura. Nel 1473 fu ammesso ufficialmente alla corte di Lorenzo de’ Medici e divenne precettore dei suoi figli. Si allontanò dalla casa dei Medici soltanto per un breve periodo, quello che seguì la congiura dei Pazzi (1478). Infatti nel 1479 passò alla corte mantovana dei Gonzaga; nel 1480 però, riconciliatosi con i Medici, ritornò a Firenze, dove ottenne la cattedra di eloquenza latina e greca presso lo Studio fiorentino. Gli ultimi anni della sua vita, benché rallegrati dai riconoscimenti concessigli in Italia e in Europa, furono segnati dalla morte di Lorenzo de’ Medici e dalle aspre
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polemiche sorte tra lui e alcuni letterati dell’epoca. Infine Poliziano scelse di appoggiarsi alla Chiesa, opzione comune a molti altri intellettuali del tempo, e intraprese la carriera ecclesiastica. Nel 1493 Piero de’ Medici lo raccomandò al papa per la nomina al cardinale, ma nel 1494 morì, poco prima del crollo del regime mediceo, in conseguenza della calata in Italia di Carlo VIII. L’opera Alla produzione poetica Angelo Poliziano affianca il lavoro filologico, che fa di lui uno dei più grandi filologi umanisti. Il frutto del suo lavoro si trova nei Miscellanea (1489), raccolta di cento discussioni intorno a questioni testuali e interpretative. Egli mette a frutto la sua straordinaria conoscenza del mondo antico e delle lingue classiche per uno studio rigorosamente scientifico dei testi e dei problemi linguistici. E’ una scienza molto concreta, laica, tutta pervasa da un forte senso della storia, che lo porta a collocare con precisione, con l’aiuto di tutti i documenti a disposizione, ogni fenomeno nel suo momento storico. E’ un lavoro molto tecnico, svolto in spazi separati dalla vita civile, e rivolto a pochi dotti o allievi privilegiati. Dallo studio appassionato dei documenti della classicità nasce anche la sua produzione poetica originale latina e greca. In latino scrisse odi, elegie ed epigrammi, con temi molto cari anche agli altri umanisti: invocazioni amorose, elogi di amici, epicedi (componimenti in onore di defunti), invettive. A queste liriche vanno aggiunte le prolusioni in versi ai suoi corsi universitari, raccolte sotto il titolo di Silvae, e modellate sull’opera del poeta latino Stazio. In greco scrisse una sessantina di Epigrammi, che dimostrano una straordinaria padronanza della lingua e rivelano l'intento di emulare il modello greco dell'Antologia Palatina. In tutta questa produzione “classica” si avverte fortissima la tendenza a mantenersi sul piano di una elegante rievocazione erudita e di un puro esercizio di lingua. Nella produzione in volgare Poliziano riesce a fondere le suggestioni della cultura e della lingua classica con il patrimonio della poesia toscana del Due e Trecento. Le Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano sono un poemetto in ottave inteso a celebrare la vittoria di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, in una giostra d'armi, e a cantare il suo amore per una bella donna genovese, Simonetta Cattaneo. L'opera, rimasta incompiuta, appartiene al genere encomiastico, tipico della letteratura cortigiana rinascimentale, che aveva ascendenti nella poesia latina del tardo impero. Si fonde poi con questo un genere del tutto diverso, la narrazione di giostre o feste, che proviene da un filone popolare. E’ importante notare inoltre che l'opera svolge una trama di fantasie remotissime da ogni realtà quotidiana (la giostra e la vittoria non sono nemmeno trattate). La vicenda è la seguente: il giovane e bellissimo Iulio (sotto questo nome latineggiante si riconosce Giuliano de’ Medici) trascorre tutto il suo tempo dedicandosi alla caccia e all’esercizio delle armi, trascurando e disprezzando l’amore. Per questo Cupido, sdegnato, decide di punirlo. Con le sue arti divine foggia una bianca cerva e Iulio, uscito a caccia una mattina di primavera, appena la scorge si lancia al suo inseguimento. La cerva, agile e veloce, lo trascina in una folta selva, finché, giunta in una radura, scompare; come per incantesimo in suo luogo compare una ninfa bellissima, dalle vesti candide ornate di fiori, mansueta nei suoi atteggiamenti. Il giovane rimase estatico a contemplarla, mentre il suo cuore è invaso da una nuova dolcezza. Ormai schiavo del sentimento d’amore da lui tanto disprezzato, Iulio rivolge la parola alla divina apparizione. La ninfa gli rivela il proprio nome, Simonetta, poi si allontana, mentre cala il crepuscolo. Iulio, assorto nei suoi pensieri d’amore, torna a casa. Frattanto Cupido reca alla madre Venere la notizia del suo trionfo. Il primo libro si chiude con la descrizione del regno di Venere a Cipro, un giardino in cui regna eterna primavera. Nel secondo libro Venere decide che Iulio riprenda le armi per amore, e gli manda un sogno profetico che risvegli i suoi ardori guerrieri. Al risveglio Iulio invoca Pallade, la gloria e l’amore perché lo aiutino a conquistare l’amata. Doveva seguire la descrizione della giostra vinta da Iulio in onore di Simonetta, ma a questo punto il poemetto resta interrotto, sia per la morte di Simonetta, sia per l’uccisione di Giuliano nella congiura dei Pazzi. Il poemetto è tutto pervaso dal vagheggiamento della bellezza e della giovinezza, proiettate in un mondo ideale, fuori dello spazio e del tempo storico. Questo mondo è però dominato da un senso di precarietà, perché il bel sogno è insidiato dallo scorrere del tempo, dalla fortuna, dalla morte. Accanto alla celebrazione edonistica e naturalistica dell'amore, vi sono intenzioni allegoriche, ispirate alla cultura neoplatonica, che alludono a un percorso di elevazione e rinnovamento interiore dell'eroe.
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L'opera è, dal punto di vista letterario e stilistico, un perfetto esempio di gusto classicheggiante: continui sono i rimandi ai miti antichi, e il discorso è tutto intessuto di reminiscenze e citazioni di parole, immagini tratte dai classici latini e greci come dagli autori italiani, il tutto fuso in una straordinaria levigatezza e musicalità del verso. Vi si realizza così pienamente l'ideale polizianesco della docta varietas, della mescolanza e fusione di elementi attinti da fonti diverse. Appartenenti al periodo giovanile sono pure i Rispetti e le Canzoni a ballo, in cui, come altri colti letterati umanisti della cerchia medicea, Poliziano si volge alla poesia popolare. Tali componimenti conservano infatti la freschezza spontanea, la semplicità delle immagini e del linguaggio, la facile scorrevolezza dei ritmi, proprie della produzione popolaresca, ma il poeta le sottopone ad una raffinatissima elaborazione letteraria. Anche qui domina la celebrazione della giovinezza, della bellezza e dell'amore, proiettati spesso su sfondi di natura primaverile. Famosa è la ballata I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino, che contiene l'invito a cogliere la rosa prima che appassisca, cioè a godere le gioie dell'amore prima che la freschezza della gioventù scompaia. Lo sfondo della poesia è costituito da una natura primaverile, rappresentata con colori vivi, intensi, che rimandano alle immagini della pittura del tempo: «I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino. Eran d’intorno vïolette e gigli fra l’erba verde, e vaghi fior’ novelli, azzurri, gialli, candidi e vermigli: ond’io porsi la mano a côr di quelli per adornar e mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino.» Tale scenario si collega anche ad un motivo molto caro alla cultura rinascimentale, in particolare quattrocentesca, il giardino, inteso come luogo di delizie, locus amoenus (lo ritroveremo pure nella descrizione del regno di Venere nelle Stanze). A sua volta, il giardino non è che la manifestazione particolare di una tematica più vasta, quella idillica: essa consiste essenzialmente nel vagheggiare una natura fresca, amena, come immagine di perfetta serenità e gioia, che esclude ogni affanno e preoccupazione, ogni conflitto e dolore (una visione della natura che spesso è legata alla vita pastorale). Il motivo idillico è particolarmente caro alla cultura cortigiana del Rinascimento perché in esso si manifestano le sue fondamentali aspirazioni: un ideale di otium sereno, lontano dagli urti della realtà prosaica e dai conflitti della storia, dedicato al culto della bellezza, della poesia, dei piaceri e dell’amore. E’ il segno di un’élite privilegiata, che ha la sensibilità e la raffinatezza che le permettono di gustare tutto ciò che è bello, e il tempo libero che le consente di farlo, e perciò ama collocarsi idealmente in una sfera separata dalla realtà comune. Questo sogno letterario che domina la cultura rinascimentale ha lontane radici: se ne possono già cogliere gli embrioni nella cultura cortese, sia nei trovatori, sia nei romanzi cavallereschi, che non a caso sono i frutti di una raffinata élite cortigiana; una celebrazione di ideali analoghi è presente nella “cornice” del Decameron, in cui i dieci giovani fuggono dalla calamità della peste chiudendosi in eleganti dimore, su uno sfondo di natura idillica, dedicandosi a piacevoli occupazioni, la danza, il canto, i conviti, il novellare; il motivo dell’otium letterario proiettato in sereni scenari naturali torna di frequente anche nell’opera di Francesco Petrarca. La civiltà cortigiana del Quattrocento raccoglie tutta questa eredità e la sviluppa al massimo. Nella seconda parte della “canzone a ballo” spicca il motivo del “cogliere la rosa” (carpe diem), che ha un chiaro valore simbolico: è un invito a godere le gioie dell’amore finché l’età giovanile lo consente. In questa luce l’ambiente primaverile acquista anch’esso un valore metaforico: la primavera è la stagione in cui la natura è ricca di forze, come la giovinezza, ed è la stagione degli amori: «Quando la rosa ogni suo’ foglia spande, quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a metterla in grillande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicché, fanciulle, mentre è più fiorita,
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coglian la bella rosa del giardino.» Al vagheggiamento idillico del “luogo ameno” si associa così un altro tema centrale nella cultura cortigiana del Quattrocento, l’edonismo, vale a dire il godere i piaceri della vita senza sensi di colpa, in perfetta innocenza. E’ una posizione antitetica rispetto all’ascetismo medievale, che induceva alla rinuncia e alla mortificazione. Una teorizzazione di questo atteggiamento edonistico, che si collega ad una visione laica, è una tendenza comune alla corte medicea: se ne può avere un eloquente esempio nel Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico: «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.» In particolare l’invito edonistico a godere dei piaceri, espresso attraverso la metafora del “cogliere la rosa”, e che si concretano essenzialmente nelle gioie d’amore, torna più volte nella letteratura quattrocentesca: compare nel Corinto di Lorenzo de’ Medici e nel Canzoniere di Matteo Maria Boiardo. Nel Rinascimento, accanto al platonismo, che induce a una spiritualizzazione dell’amore, e accanto al petrarchismo, vi è anche una vena sensuale, libera di ogni senso di peccato, che si collega al naturalismo boccacciano: sentire cioè l’amore come forza della natura, come qualcosa di fondamentalmente sano e innocente, che è colpevole contrastare. Lo ritroveremo in Boiardo e in Ariosto, nella novellistica e nella commedia. L’edonismo di Poliziano, lo dobbiamo sottolineare ancora una volta, si vela di malinconia, al considerare la labilità delle cose belle e la fugacità del tempo. Tuttavia è un senso della fragilità delle cose ben diverso da quello petrarchesco. Petrarca, dinanzi all’inevitabile dissolversi della bellezza prospettava (sia pur senza riuscire a raggiungerla) una soluzione religiosa, la rinuncia alle cose mondane che passano e il rivolgersi a quelle eterne. La posizione di Poliziano è invece del tutto laica: se le cose belle sono effimere, bisogna goderle prima che esse svaniscano. Ben venga maggio è anch’essa una canzone a ballo, che doveva essere cantata con accompagnamento musicale. Era destinata alla festa di Calendimaggio (Primo maggio), che risaliva ad un’antica tradizione precristiana, legata ai riti primaverili della fecondità, ed era accompagnata da canti, danze, cortei, giostre d’armi. I giovani appendevano alle porte delle loro innamorate rami fioriti, e le fanciulle incoronavano i giovani amanti di fiori prima che entrassero in campo per la giostra. Vicina a questi temi è la Favola di Orfeo, “favola” avendo qui il senso del latino fabula, cioè testo teatrale: si tratta infatti di un testo composto per una festa nuziale celebrata presso la corte dei Gonzaga a Mantova nel 1480. L'impianto dell'opera è tratto dalle sacre rappresentazioni, che all'epoca erano ancora molto diffuse. Ma, con ardita innovazione, Poliziano sostituisce gli argomenti sacri con un argomento profano, mitologico, la vicenda di Orfeo ed Euridice. La Favola viene così a costituire il primo testo drammatico in lingua italiana di argomento non religioso. La vicenda è la seguente: la prima parte riprende la tematica pastorale, si svolge su uno sfondo idillico e mette in scena alcuni pastori. Aristeo confida a Mopso il suo amore per la bellissima Euridice, moglie di Orfeo; ma mentre la insegue cercando di persuaderla a contraccambiare il suo amore, la donna è morsa da un serpe e muore. Il clima idillico dell’inizio viene così infranto dalla morte di Euridice e dal dramma di Orfeo che, dopo aver mosso a pietà col suo canto le divinità infernali, non sa resistere al suo amore per la moglie, si volge a guardarla e la perde per sempre. Disperato, Orfeo ripudia violentemente l’amore, e per punizione è dilaniato dalle seguaci di Bacco, le Baccanti. Al motivo idillico si unisce così il motivo patetico-sentimentale, strettamente legato a quello pastorale. L'opera fonde insieme la materia pastorale, tanto fortunata nel Quattrocento, con quella mitologica, e nasce anch'essa dal vagheggiamento dei modelli classici: in primo luogo Virgilio, sia per l'ambiente pastorale, ispirato alle Bucoliche, sia per la materia mitica, che si rifà il IV libro delle Georgiche, dove è appunto narrato il mito di Orfeo ed Euridice; poi il modello di Ovidio, da cui è tratta una serie di versi. Ritorna anche qui il sogno idillico di una vita priva di contrasti e di dolori, fuori dal tempo e dallo spazio, e remota dalla realtà quotidiana, insieme col vagheggiamento della
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bellezza, della giovinezza, dell'amore. Anche qui, nel tragico destino di Euridice, per due volte sottratta all'amore di Orfeo, si proietta la malinconica consapevolezza della precarietà di quei beni, del loro essere sottoposti continuamente a forze ostili. Nella figura di Orfeo, che col suo canto piega il volere degli dei infernali, si può vedere adombrato il tema, propriamente umanistico, della forza della poesia, che può vincere la morte. Ma la tragica conclusione, con la sconfitta e la morte stessa di Orfeo, vuole insinuare una sfumatura pessimistica, che viene a investire gli stessi valori umanistici. (E. Bigi)
1.2. La letteratura volgare a Ferrara: MATTEO MARIA BOIARDO Il conte Matteo Maria Boiardo (1441-1494) fu un nobile signore feudale, appartenente ad una famiglia vicina alla signoria estense. Nel 1476 si trasferì a Ferrara come “compagno” del duca Ercole D’Este, e negli anni successivi ebbe l'incarico di governatore prima a Modena (1480-83), poi a Reggio dal 1487, dove morì nel 1494, pochi mesi dopo che le truppe di Carlo VIII, dirette alla conquista del Regno di Napoli, avevano attraversato la pianura padana. L'Orlando innamorato: valori cavallereschi e valori umanistici Il capolavoro del Boiardo contiene due libri di 60 canti, mentre l'ultimo fu interrotto bruscamente al IX canto, pochi mesi prima della sua morte; nell'ultima ottava si coglie l'eco dei dolorosi eventi storici contemporanei, la calata di Carlo VIII: «Mentre che io canto, o Iddïo redentore, vedo la Italia tutta a fiama e a foco per questi Galli...» Il poema riprende la materia cavalleresca, da secoli ormai diffusa in Italia, amata sia dal pubblico popolare sia da quello signorile, ed è destinato al diletto di un'élite cortigiana, come il poeta stesso dichiara nel proemio: «Signori e cavallier che ve adunati per odir cose dilettose e nove, stati attenti e quïeti, ed ascoltati la bella istoria che ‘l mio canto muove; e vedereti i gesti smisurati, l’alta fatica e le mirabil prove che fece il franco Orlando per amore nel tempo del re Carlo imperatore.» Già il titolo indica qual è la “novità” su cui Boiardo punta per suscitare l'interesse del suo aristocratico pubblico, appassionato lettore di romanzi francesi e italiani: il paladino Orlando, protagonista di tante imprese guerresche, l'austero e saggio difensore della fede, reso familiare da tanta letteratura precedente, cade in preda all'amore, come uno degli eroi dei romanzi bretoni: «Non vi par già, signor, meraviglioso odir cantar de Orlando innamorato. Ché qualunque nel mondo è più orgoglioso, è da Amor vinto, al tutto subiugato; né forte braccio, né ardire animoso, né scudo o maglia, né brando affilato, né altra possanza può mai far diffesa, che al fin non sia da Amor battuta e presa.» Il Boiardo compie così quella fusione dei due cicli cavallereschi, il carolingio e l'arturiano, che già era stata avviata nei due secoli precedenti dalla letteratura franco-veneta, da Andrea da Barberino, dai cantari. Nel poema si intrecciano armi ed amori, a cui fa da sfondo un altro elemento tipicamente
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bretone, il meraviglioso fiabesco, affidato alla presenza di fate, maghi, incantesimi, filtri, giardini fatati. In un proemio famoso (libro II, canto XVIII) il poeta giustifica questa scelta, sostenendo di preferire la corte di re Artù, che fu gloriosa un tempo «per l'arme e per l'amore», a quella di Carlo Magno, che «tenne ad Amor chiuse le porte / e sol se dette alle battaglie sante». I suoi ideali sono infatti amore e forza guerriera, virtù inseparabili del perfetto cavaliere, poiché solo Amore può procurare «onore» e «gentilezza»: «...Amore è quel che dà la gloria, e che fa l’omo degno et onorato, amore è quel che dona la vittoria, e dona ardire al cavalliero armato;» In tal modo, nell'austero mondo dell'epica carolingia, Boiardo scatena la forza dell'amore, e ne fa la molla di una serie infinita di avventure. Durante una «corte bandita» di Carlo Magno, a cui partecipa il meglio dei cavalieri cristiani e saraceni, compare Angelica, la bellissima figlia del re del Cataio (la Cina): «Essa sembrava matutina stella e giglio d’orto e rosa de verzieri: in somma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltate.» La donna sfida tutti i cavalieri presenti a misurarsi con suo fratello Argalia: chi vincerà otterrà il suo amore, chi sarà sconfitto cadrà prigioniero. Tutti i cavalieri si innamorano immediatamente di lei, e accettano la sfida. Sono importantissimi i versi che contengono gli effetti che produce su Orlando l’incontro con Angelica (si presti attenzione alla parola “paccio”, tenendo presente che nel poema di Ariosto, l’Orlando furioso, egli diverrà effettivamente pazzo): «Ogni om per meraviglia l’ha mirata, ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta col cor tremante e con vista cangiata, benché la voluntà tenìa nascosta; e talor gli occhi alla terra bassava, ché di se stesso assai si vergognava. “Ahi paccio Orlando!” nel suo cor dicia “Come te lasci a voglia trasportare! Non vedi tu lo error che te desvia, e tanto contra a Dio te fa fallare.”» Argalia possiede armi fatate e atterra molti avversari, ma viene infine ucciso da Ferraguto. Angelica fugge cercando di tornare in patria, ma è inseguita da Orlando e Rainaldo che, per suo amore, trascurano gli obblighi verso re Carlo. Ma nella selva delle Ardenne Rainaldo beve ad una fonte magica, che genera in lui odio per la donna, mentre Angelica beve ad un'altra fonte che la fa innamorare del paladino. Dopo varie peripezie la donna si rifugia nella rocca di Albraccà, dove Orlando giunge a difenderla dal re di Tartaria Agricane, anch'egli innamorato di lei. Intorno all'assedio di Albraccà si addensano mille episodi, finché Orlando uccide in duello Agricane. Intanto in Occidente i mori, guidati dal re africano Agramante e dal re di Spagna Marsilio, hanno invaso la Francia. Angelica, che è sempre alla ricerca di Rainaldo, trascina Orlando in terra francese: ma qui sia lei sia Rainaldo bevono nuovamente alle fonti dell'amore e dell'odio, scambiandosi le parti. Ora Rainaldo, innamorato come un tempo di Angelica, viene a contesa con Orlando. Re Carlo li separa e promette la fanciulla a quello dei due che combatterà più valorosamente nella battaglia imminente con i Saraceni. A questo punto si interrompe la narrazione, che verrà poi ripresa e continuata da Ariosto nell'Orlando furioso.
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Al centro del poema si collocano dunque le armi e gli amori. A differenza del Pulci, che affrontava nel Morgante un’analoga materia, i valori del mondo cavalleresco sono da Boiardo profondamente sentiti. Il poeta ritiene che quei valori, che per un lungo periodo, nel corso della civiltà urbana e mercantile, parevano tramontati, possano rivivere nella società cortigiana, in particolare in quella ferrarese, appassionata di prodezza e forza fisica, affascinata dalla lealtà e dalla cortesia, avida di amori sensuali e galanti. Per lui i valori cavallereschi non sono solo sogni nostalgici, da proiettare in un passato mitico e ormai irraggiungibile, ma sono praticabili nel presente. Boiardo può dunque essere definito cantore della cavalleria: il suo poema vibra di entusiasmo per le azioni valorose, i gesti magnanimi, gli amori sublimi. Profondamente immerso nella civiltà umanistica del suo tempo, per lui, come per la società a cui si rivolge, la cavalleria è ormai svuotata degli originari contenuti religiosi, etici e politici, e si è riempita di valori moderni, quelli rinascimentali. In primo luogo la “prodezza” cavalleresca non è più solo forza guerriera, sia essa indirizzata alla difesa del sovrano e della fede o alla ricerca dell'avventura, ma è la “virtù” dell'individuo libero, attivo, energico, che sa superare ogni ostacolo e imporre il suo dominio sulla Fortuna. (E. Bigi) Dietro le avventure cavalleresche compare così un tema che era da tempo al centro della civiltà italiana, a partire dal Boccaccio per arrivare sino agli umanisti. Il motivo rinascimentale della “virtù” umana che vince la Fortuna è più volte teorizzato nel poema: «Si puote [...] far col senno forza alla Fortuna», «ogni cosa virtute vince al fine», e prende corpo in uno degli episodi più significativi, quello in cui Orlando insegue e dopo mille ostacoli riesce a raggiungere la Fata Morgana che gli fugge dinnanzi, e simboleggia la Fortuna inafferrabile. Questo culto della vita attiva ed energica, presentandosi come culto della forza e del coraggio guerriero, anima le infinite battaglie e gli infiniti duelli che si susseguono nel poema; ma, al livello più alto, si manifesta come individualismo proteso all'affermazione di sé, alla conquista della gloria e della fama. Pertanto anche l'onore perde la sua fisionomia feudale e rispecchia l'esigenza umanistica del primeggiare, diventando giusta ricompensa della “virtù” e dell'agire energico. A loro volta la lealtà e la cortesia assumono l'aspetto tutto moderno del rispetto per la personalità altrui, anche dei nemici, e della tolleranza verso credenze diverse. Ma il rozzo individualismo, che si basa sulla pura forza, non basta per definire un autentico ideale umano: esso dev'essere integrato e raffinato dalle doti intellettuali, dalla cultura. Eloquente è a tal proposito l'episodio del duello fra Orlando ed Agricane: il re tartaro rappresenta il tipo più arcaico e superato di eroe guerriero, caratterizzato dalla bruta forza; Orlando è invece superiore a lui perché è un cavaliere colto, “filosofo”, che sa trattare opportunamente delle più alte questioni etiche e metafisiche. Orlando stesso afferma appunto che nel sapere risiede l'essenza dell'uomo, ciò che lo fa degno di questo nome e lo distingue dai bruti, che è uno dei cardini della concezione umanistica: «Ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno, chi non pensa allo eterno Creatore; né ben si può pensar senza dottrina.» Come il motivo della prodezza cavalleresca è spogliato ormai da ogni idealità medievale, così l'amore è lontano dalla visione cortese celebrata da versi d'amore e romanzi in prosa. L'amore non è che un'altra manifestazione di quel senso gioioso, energico e attivo della vita, che si rivela nella prodezza guerriera. Perciò amore e armi, formando un'inscindibile unità, esprimono una visione prettamente rinascimentale della vita, laica, mondana, edonistica: «L'uno e l'altro esercizio è giovanile, / nemico di riposo...». La più felice incarnazione di questa visione dell'amore è Angelica. Non c'è più nulla in lei dei remoti idoli della poesia cortese, o delle diafane “angelette” stilnovistiche, o della stilizzata figura della Laura petrarchesca: è donna in tutta la complessa mobilità della sua psicologia, seducente e tenera, sensuale e capricciosa, crudele e appassionata, protesa con tutte le forze a soddisfare il suo desiderio amoroso. Se si vuole trovare antecedenti ad una figura così nuova, si può solo risalire a certe appassionate eroine boccacciane. L’energia vitale che pervade il poema si manifesta anche nel comico. Il motivo comico si incarna nella figura di Brunello, il nano scaltro ed agilissimo. Come gli eroi guerrieri sono protesi verso il loro ideale di gloria e d'onore, così Brunello è spinto al furto da una passione irresistibile. Così anche le sue prodigiose imprese ladresche, oltre a suscitare il riso, si ammantano di una loro furfantesca grandiosità, contemplata dal poeta con la stessa compiaciuta e lieta ammirazione con cui egli guarda alle imprese mirabili dei guerrieri. L'”ironia” del Boiardo è l'effetto di una partecipazione
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goduta allo slancio vitale che anima le sue storie, l'indizio della sua simpatia per l'esuberanza gagliarda dei suoi eroi, e mira a rendere quel mondo più familiare e simpatico anche ai lettori. La trama del poema si costruisce attraverso un proliferare inesauribile di fatti, personaggi, situazioni. L'affollarsi di avventure meravigliose, battaglie, duelli, incontri con mostri, giganti, fate, incantesimi, amori, è mosso da uno slancio prepotente, che nasce dal piacere di narrare una «bella istoria» dinnanzi ad un ideale uditorio, avido di «odir cose dilettose e nove». Il fluire della narrazione sembra poter continuare all'infinito, senza mai arrivare ad un punto terminale, conclusivo. In questa struttura narrativa rigogliosa numerosi fili, riguardanti personaggi diversi, si intrecciano fra loro. Le vicende dell'uno sono seguite sino ad un certo punto, poi interrotte per seguire quelle di un altro, poi riprese, mescolate, creando l'impressione di una selva lussureggiante. La narrazione conserva tutta l'immediatezza del racconto fatto direttamente dinanzi ad un uditorio. Il narratore vuole coinvolgere i destinatari nella sua gioia di narrare, comunicare il suo stesso entusiasmo di fronte a gesta smisurate e magnanime, avventure fiabesche, amori sensuali. Tra autore e pubblico si crea una corrente di simpatia e complicità, per cui la volontà di proporre le vicende come modello esemplare di comportamento alla società cortigiana del suo tempo perde ogni rigidezza didascalica, riscattandosi in un clima di entusiasmo immediato. Anche quegli elementi che Boiardo riprende dai cantari, la ripetizione di formule stereotipate, le iperboli grandiose (specie negli scontri d'armi), la veridicità dei fatti più meravigliosi, con il richiamo scherzoso alla “fonte” del libro di Turpino, tutti valgono a creare questa corrente di simpatia con il pubblico, equivalgono ad un ammicco dello scrittore colto al suo uditorio colto, entrambi divertiti dalla ripresa di ben noti moduli narrativi popolareschi. Nell'epoca immediatamente successiva l'Orlando innamorato non ha goduto della fortuna che meritava, al punto che Francesco Berni rifece il poema in lingua toscana e fu questa versione che continuò ad essere letta, ma poi il poema boiardesco fu riletto e rivalutato dalla critica.
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