ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
SEMINARIO XVII – 22.5.2008 Gli effetti del contratto ed i terzi: la rappresentanza apparente Dott.ssa Francesca Parola
MATERIALI
1. Cass., 12.1.2006, n. 408…………………………………………………………….………….p. 1;
2. Cass., 13.8.2004, n. 15743…..………………..……………………………………………..…p. 5.
Rappresentanza apparente IL CASO Tizia affitta un appartamento di sua proprietà alla società Alfa, stipulando il relativo contratto con Caio, soggetto che si presenta come rappresentante di quest’ultima. Poiché tale società si dimostra inadempiente nel versamento dei canoni di locazione, Tizia agisce giudizialmente chiedendo la risoluzione del contratto ed il pagamento dei canoni scaduti. Alfa si oppone alla domanda eccependo che Caio non è suo rappresentante e, perciò, non aveva il potere di stipulare il contratto di locazione in nome della società. Si illustrino, rispettivamente, le ragioni a favore e contro l’accoglimento della domanda proposta da Tizia. Cass., sez. III, 12-01-2006, n. 408. Il principio dell’apparenza del diritto, riconducibile a quello, più generale, della tutela dell’affidamento incolpevole, può essere invocato con riguardo alla rappresentanza allorché, indipendentemente dalla richiesta di giustificazione dei poteri del rappresentante a norma dell’art. 1383 c.c., non solo sussista la buona fede del terzo che ha concluso atti con il falso rappresentante, ma ci si trovi in presenza di un comportamento colposo - non meramente omissivo - del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente; l’accertamento degli elementi obiettivi idonei a giustificare la ragionevole convinzione del terzo circa la corrispondenza della situazione apparente a quella reale - e, cioè, degli elementi richiesti perché si possa attribuire rilevanza giuridica alla situazione apparente - è riservato istituzionalmente al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione (nella specie, la suprema corte, enunciando il suddetto principio, ha ravvisato la correttezza della motivazione della sentenza impugnata con la quale era stata negata l’applicazione del principio dell’apparenza ed esclusa la ratifica di un contratto di locazione stipulato da un soggetto che aveva speso il nome di una società ed era risultato privo di poteri rappresentativi - sulla scorta della congrua valutazione di una serie di indici probatori sintomatici, dai quali non era emersa l’effettiva sussistenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’erroneo e incolpevole convincimento nel terzo intimante invocante la circostanza che la situazione apparente rispecchiasse la realtà giuridica e che l’apparenza fosse stata determinata da una condotta positiva colposa della società indicata quale apparente rappresentata). La ratifica relativa al contratto concluso dal falso rappresentante per il quale non sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem può essere anche tacita e consistere, perciò, in qualsiasi atto o comportamento da cui risulti in maniera chiara ed univoca la volontà del dominus di fare proprio il negozio concluso in suo nome e conto dal falsus procurator; il relativo accertamento spetta al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto fa motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Tizia ha intimato ad Alfa sfratto per morosità dall'immobile sito in Brescia, viale Piave 201, e contestualmente l'ha citata per la convalida innanzi al tribunale di Brescia. La società si è opposta ed è stato disposto il mutamento di rito; Tizia ha chiesto, allora, la risoluzione del contratto per inadempimento e la condanna della società al pagamento dei canoni scaduti (L. 9.130.000). Istruita la causa, il tribunale ha respinto la domanda con pronuncia che è stata confermata dalla Corte di Appello di Brescia con la seguente motivazione. 1
Il contratto locativo è stato concluso da soggetto (Caio) che ha speso il nome della società, ma è risultato privo di poteri rappresentativi; esso, pertanto, non vincola la società e può essere solo fonte di responsabilità per eventuali danni a carico del soggetto che lo ha concluso; la circostanza emergente dalla deposizione di Caio che la società solitamente stipulava i contratti locativi per i propri dipendenti e ne garantiva l'esecuzione è priva di rilevanza, attesochè tanto non è avvenuto nella specie; l'acconto non è stato versato alla locatrice dalla società, bensì dal conduttore, il quale ha girato alla locatrice un assegno ricevuto dalla società; l'utilizzazione di scheda con i dati anagrafici del conduttore redatta su carta intestata alla società è indebita tanto più che la scheda era predisposta per altro; non esiste, conseguentemente, comportamento idoneo ad ingenerare il convincimento che il contratto sia stato concluso da Caio per conto della società; non può essere condivisa la tesi che la società ha ratificato l'operato del "falsus procurator" con il proprio comportamento negligente. Tizia ha proposto ricorso per Cassazione, affidandone l'accoglimento a quattro motivi; l'intimato ha resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1398, 1399, 1704, 1788 c.c., artt. 116, 437 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo; nel giudizio di merito sostiene è emerso che il contratto locativo è stato stipulato dalla società per fornire l'alloggio ad un proprio dipendente; in particolare dalla deposizione della teste Pozzi risulta che le trattative sono state intavolate dalla società, da quella del teste x che la società provvedeva solitamente alla "sistemazione" dei propri dipendenti, da quella della teste Tiranti che il contratto è stato sottoscritto dal xx in nome e per conto della società, da quella del teste xxx che la società ha versato l'acconto di L. 4.100.000 con assegno bancario rilasciato a favore del conduttore e ha inviato per fax scheda con i dati anagrafici di quest'ultimo redatta su carta intestata a se medesima; la Corte di merito ha ritenuto che l'essere stato speso il nome della società è fonte di responsabilità per il "falsus procurator", mentre avrebbe dovuto applicare il principio dell'apparenza del diritto e ritenere il contratto vincolante per la società; essa ha inoltre escluso che vi sia stata ratifica tacita del contratto, svalutando immotivatamente elementi probatori univoci in tale senso (il fatto che la società, richiesta del pagamento dei canoni locativi, abbia detto di rivolgersi al Caio senza alcuna spiegazione). 2. Il motivo è infondato. 3.1. Com'è noto, il principio dell'apparenza applicato alla rappresentanza comporta che il contatto concluso dal falso rappresentante e, cioè, dal soggetto privo di legittimazione rappresentativa è efficace verso il falso rappresentato e lo vincola, sebbene egli non l'abbia voluto. In sostanza la situazione apparente prevale su quella reale, surrogando la legittimazione che manca. La regola si fonda su una "ratio" di tutela dell'affidamento del terzo contraente attuata con la tecnica della conservazione del contratto. 3.2. Affinchè nella rappresentanza operi il principio dell'apparenza non basta che il terzo abbia confidato senza colpa nell'esistenza del potere rappresentativo, ma occorre che il rappresentato abbia tenuto un comportamento colposo tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento che il potere sia stato effettivamente e validamente conferito (Cass. 13/08/2004, n. 15743; Cass. 23/07/2004, n. 13829, Cass. 10/01/2003, n. 204). 3.3. Per essere tutelato, quindi, il terzo deve essere in buona fede ed il suo errore deve essere incolpevole; il criterio per accertarlo è quello dell'ordinaria diligenza; parametro che può, tuttavia, diventare più rigoroso alla luce della qualità professionale del terzo e dei rapporti pregressi. In questa ottica la norma dell'art. 1393 c.c., che autorizza il terzo a chiedere al rappresentante giustificazione dei suoi poteri, va interpretata come espressiva di una facoltà e non di un obbligo, di modo che in assenza di altri elementi che dimostrino che il terzo ha agito senza la dovuta diligenza
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il comportamento meramente omissivo non è sufficiente ad integrare la colpa prevista dall'art. 1398 c.c. (Cass. 30/03/2004, n. 6301). Il principio dell'apparenza è suscettibile di trovare applicazione nel caso in cui il soggetto rappresentato è una società di capitali ed il terzo può verificare l'esistenza dei poteri rappresentativi del soggetto che agisce in nome e per conto della società attraverso i mezzi speciali di pubblicità previsti dalla legge (Cass. 13/08/2004, n. 15743; Cass. 29/04/1999, n. 4299; Cass. 19/09/1995, n. 9902; Cass. 03/03/1994, n. 2123). Anche in questo caso il Giudice deve accertare se in relazione alle circostanze obiettive della fattispecie concreta il comportamento tenuto dal rappresentante sia tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento della corrispondenza della situazione reale a quella apparente, mentre non è possibile ritenere che il terzo sia in colpa quando, pur non avendo motivo di dubitare del conferimento dei poteri rappresentativi in base alle regole dell'ordinaria diligenza, abbia omesso di controllare l'esistenza dei poteri stessi mediante l'esame dei pubblici registri. Vale considerare in proposito che l'apparenza del diritto è una situazione di fatto che si desume da una serie di circostanze idonee a fare apparire l'oggettiva esistenza di una situazione in realtà inesistente, che si specificano in modo differente nelle varie ipotesi, per cui l'affidamento incolpevole del terzo rappresenta la ragione sostanziale della rilevanza attribuita alla situazione apparente. Non può essere condiviso l'orientamento di recente espresso da Cass. 30/03/2004, n. 6301, secondo il quale la presenza di un sistema di pubblicità, che provvede ad informare sia in ordine ai soggetti legittimati a spendere il nome della società che in ordine ai limiti di tale legittimazione, preclude al terzo la possibilità di invocare il principio dell'apparenza per vincolare la società, perchè limita irragionevolmente il principio alle ipotesi marginali nelle quali la società si avvale di rappresentanti estranei alla sua organizzazione. 3.4. La rappresentanza apparente vincola il falso rappresentato, obbligandolo ad adempiere al contratto solo se è ravvisabile un suo comportamento colposo che abbia indotto nel terzo la ragionevole convinzione circa l'esistenza di un valido ed efficace conferimento di procura (Cass. 23/07/2004, n. 13829; Cass. 14/07/2004, n. 13084; Cass. 10/01/2003, n. 204; Cass. 22/04/1999, n. 3988). La vincolatività del contratto non può, infatti, derivare dal mero affidamento incolpevole del terzo contraente neppure quando la tutela di esso risulti oggettivamente rafforzata; il principio dell'apparenza è idoneo a giustificare la circolazione della ricchezza indipendentemente dal consenso del legittimo titolare (artt. 534 e 1189 c.c.), ma non a vincolare direttamente il falso rappresentato senza il concorso della colpa. In sostanza la colpa del falso rappresentato costituisce l'elemento di collegamento della situazione apparente alla sfera giuridica dello stesso. Nella nozione di colpa rientra non soltanto il comportamento negligente, ma qualsiasi condotta attiva od omissiva, causalmente rilevante nell'imputazione degli effetti. In applicazione di tali concetti si è ricondotto alla colpa il comportamento del titolare di un' impresa edile il quale si rifiuta di adempiere al contratto stipulato dal direttore dei lavori dopo averne permesso l'intrusione nella stipula (Cass. 19/01/1987, n. 423); la tolleranza di una o più negoziazioni ad opera del "falsus procurator" (Cass. 29/07/1992, n. 9083). In definitiva, l'apparenza non opera nei casi in cui non può muoversi al rappresentato alcun rimprovero riguardo ad un suo atteggiamento idoneo a provocare l'errore del terzo, sicchè la colpa funziona da correttivo della regola sull'apparenza, evitando che un'applicazione indiscriminata di essa conduca a soluzioni ingiustificatamente gravose per il falso rappresentato. 3.5. L'accertamento degli elementi obiettivi idonei a giustificare la ragionevole convinzione del terzo circa la corrispondenza della situazione apparente a quella reale e, cioè, degli elementi richiesti perchè si. possa attribuire rilevanza giuridica alla situazione apparente è riservato istituzionalmente al Giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione (Cass. 13/08/2004, n. 15743, in motivazione; Cass. 19/09/1995, n. 9902). 3
3.6. È ben vero che, ove il contratto non richieda la forma scritta "ad substantiam" o "ad probationem", la ratifica può anche essere tacita e consistere in qualsiasi atto o comportamento da cui risulti in maniera chiara ed univoca la volontà del "dominus" di fare proprio il negozio concluso in suo nome e conto dal "falsus procurator" (Cass. 08/04/2004, n. 6937; Cass. 23/03/1998, n. 3071). Accertare se sussista ratifica spetta al Giudice di merito con possibilità di sindacato da parte del Giudice di legittimità limitato ai vizi di motivazione (Cass. 01/09/2003, n. 12750; Cass. 13/01/1997, n. 249). 4. Nella specie la Corte di merito ha negato applicazione al principio dell'apparenza ed escluso che sia intervenuta ratifica del contratto di locazione, osservando specificamente 1) la spendita del nome della società non vale in sè e per sè a vincolarla; 2) l'avere la teste Pozzi dichiarato che la società era interessata alla stipula della locazione non rileva, non avendo la teste indicato il nome della persona fisica che ha manifestato l'interesse in modo da poterla collegare alla società; 3) quand'anche normalmente la società stipulasse i contratti di locazione pertinenti ai propri dipendenti, ciò non comporterebbe necessariamente che abbia stipulato il contratto locativo "de quo"; 4) l'assegno che si assume versato a titolo di acconto sui canoni locativi risulta emesso dalla società in favore del proprio dipendente Caio e non della locatrice, sicchè non vale a supportare l'illazione che questi abbia agito per la società; 5) l'essere stato redatto su scheda intestata alla società il fax contenente i dati anagrafici del conduttore non dimostra alcunchè, risultando la scheda redatta ad altri fini; 6) nessun argomento a favore della tesi della ratifica si può desumere dall'avere la società semplicemente invitato la locatrice a rivolgersi al Caio per il pagamento dei canoni senza eccepire altro, non avendo la società medesima alcuno specifico onere di contestazione. La Corte si è così adeguata ai principi sopra espressi, fornendo motivazione congrua ed esente da vizi logico giuridici. 5. I rimanenti motivi presuppongono l'accoglimento del primo e, rigettato questo, non possono trovare accoglimento. In particolare, con il secondo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 660, 664, 665 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sostenendo che la Corte di merito avrebbe dovuto pronunciarsi sulla domanda di pagamento dei canoni locativi riguardanti il periodo gennaio dicembre 1993, accogliendola; con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 81 e 100 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere la Corte di merito omesso di pronunciare sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva, rigettandola; con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 184, 421, 437 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per non essersi la Corte di merito pronunciata in ordine alla richiesta di prova testimoniale.
6. Concludendo, il ricorso è rigettato con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di Cassazione. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di Cassazione liquidate in Euro 2.100,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessoria.
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Rappresentanza apparente IL CASO Tizio acquista in nome della società Alfa un’autovettura. Poiché Alfa non provvede né a pagare né a ritirare l’auto, il concessionario, Beta, dopo i dovuti solleciti, agisce in giudizio per la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni. Alfa si costituisce in giudizio sostenendo di non avere alcun obbligo nei confronti di Beta in quanto Tizio non è suo rappresentante. Si illustrino le ragioni a favore e contro ciascuna delle parti processuali. Cass., sez. II, 13-08-2004, n. 15743. In tema di rappresentanza, l’apparenza del diritto, che obbliga il rappresentato apparente all’adempimento del contratto stipulato dal falsus procurator, può essere invocata tutte le volte in cui il rappresentato abbia tenuto un comportamento colposo tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento che al rappresentante fosse stato conferito il relativo potere ed il terzo abbia confidato senza colpa sull’esistenza di tale potere (nella specie, il comportamento colposo è stato individuato nel consenso accordato al rappresentante apparente di frequentare i locali della società e di utilizzare i timbri della stessa). Svolgimento del processo. 1. Con atto di citazione notificato il 2 dicembre 1988 la società Beta, concessionaria Fiat, esponeva che: aveva venduto una vettura Fiat Tipo turbo diesel alla società Alfa, che in data 17 giugno 1988 aveva sottoscritto il relativo ordine; l’acquirente, pur essendo stata diffidata, non aveva provveduto al ritiro dell’auto. Pertanto, l’istante conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Prato Alfa per sentire: a) pronunciare la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento della convenuta; b) condannarsi la predetta al risarcimento dei danni patiti per il mancato guadagno. La convenuta, costituendosi in giudizio, eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva, deducendo che amministratore della società era Caio il quale non aveva mai sottoscritto l’ordine di acquisto in oggetto, di cui disconosceva la sottoscrizione, sicché era estranea al rapporto contrattuale de quo. Con sentenza del 9 aprile 1997 il tribunale rigettava la domanda. Secondo i giudici di primo grado dalle risultanze istruttorie era emerso che l’ordine di acquisto dell’autovettura era stato sottoscritto da Tizio, fratello dell’amministratore della Alfa, il quale non rivestiva alcuna carica nella società e non poteva quindi obbligarla. 2. Con sentenza del 31 ottobre 2000 la Corte d’appello di Firenze in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla Beta, riformava la decisione impugnata, accogliendo la domanda di risoluzione e condannando Alfa al risarcimento dei danni liquidati nella misura di lire 3.538.401 oltre rivalutazione ed interessi; condannava l’appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. I giudici di appello ritenevano perfezionatosi con la società convenuta il contratto stipulato dall’attrice. Secondo la sentenza impugnata il principio dell’apparenza del diritto, che trova applicazione qualora il terzo — sulla base di elementi obiettivi — faccia affidamento incolpevole sull’effettiva esistenza nel falsus procurator dei poteri di rappresentanza, non può essere escluso anche quando sia possibile, come nel caso di società di capitali, effettuare in modo obiettivo il controllo dei relativi poteri: opinando altrimenti si verrebbe ad escludere sempre l’applicabilità del principio 5
dell’apparenza del diritto, potendo in ogni caso il terzo comunque compiere la verifica dei poteri del falsus procurator e ciò anche al di fuori dell’ipotesi in cui il rappresentato goda di particolari forme di pubblicità. Nella specie la buona fede della venditrice era stata carpita dalla persona di Tizio, il quale — qualificatosi come persona di Alfa — aveva invitato presso la sede della società acquirente gli incaricati di Beta, apponendo sull’ordine di acquisto sottoscritto il timbro della società, che si era fatto consegnare da un’impiegata. Non si rendeva pertanto necessaria la verifica dei poteri di colui che agiva quale rappresentante della società acquirente, mentre la situazione apparente era stata determinata dal comportamento colposo della convenuta che aveva consentito la frequentazione e l’uso di timbri della società a soggetti ad essa estranei. 3. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Alfa sulla base di due motivi. Resiste con controricorso Beta Motivi della decisione. 1. Con il primo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento agli art. 1337, 1393, 1398, 2383, 2384 c.c., ed art. 360, n. 5, c.p.c.) censura la decisione gravata che, nel ritenere applicabile il principio dell’apparenza del diritto quando il rappresentato sia una società di capitali, aveva in modo apodittico equiparato tale situazione a quella in cui il rappresentato non gode di forme di pubblicità, pervenendo all’erronea conclusione che in ogni caso il terzo non è tenuto ad effettuare la verifica dei poteri del rappresentante che invece rientrano nella normale diligenza che le parti devono osservare nella stipula dei contratti. Nella specie la venditrice, che con leggerezza aveva dato rilievo al timbro apposto sull’ordine senza accertarsi dei poteri di rappresentanza di colui che agiva per la società, avrebbe dovuto nutrire dubbi sulla persona con la quale aveva trattato in considerazione, oltretutto, delle modalità di perfezionamento dell’acquisto dell’autoveicolo, che sarebbe avvenuto a distanza di mesi dalla firma dell’ordine, tenuto conto anche della mancata risposta alla lettera inviata il 16 settembre 1988 dalla concessionaria; d’altra parte erroneamente i giudici d’appello avevano fatto riferimento alla frequentazione consentita dalla società ad Tizio, ad essa estraneo, posto che si era piuttosto trattato di un’occasionale presenza determinata dal raggiro perpetrato dal medesimo in danno della stessa società. Il motivo va disatteso. La corte ha ritenuto che il contratto di vendita stipulato dall’attrice si era perfezionato con Alfa, rappresentata dalla persona di Tizio, che, non rivestendo nella società alcuna carica che la potesse impegnare, aveva agito quale falsus procurator. In proposito i giudici d’appello, nell’applicare il principio dell’apparenza del diritto, hanno evidenziato l’esistenza di una serie di circostanze obiettive da cui era emerso: a) l’incolpevole affidamento del terzo sulla corrispondenza della situazione apparente a quella reale; b) l’esistenza di una condotta colposa del rappresentato, che aveva consentito al falsus procurator di frequentare la sede della società e di utilizzare i timbri della stessa, che il medesimo, alla presenza degli incaricati della venditrice, si era fatto consegnare da una segretaria di Alfa. Il contratto venne concluso nei locali della società acquirente con Tizio, che — dichiarando di agire quale rappresentante di Alfa — sottoscrisse l’ordine apponendovi il timbro sociale. Orbene, la sentenza impugnata, nell’applicare correttamente il principio dell’apparenza del diritto, ha ritenuto che lo stesso può essere invocato anche nel caso in cui il terzo, contrattando con una
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società di capitali, sia in grado di verificare — sulla base dei pubblici registri — l’esistenza dei poteri di rappresentanza del soggetto che agisce in nome e per conto della stessa. In tema di rappresentanza, l’art. 1393 c.c., nel prevedere che il terzo che contratta col rappresentante può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri e, se la rappresentanza risulta da un atto scritto, che gliene dia una copia, stabilisce a favore del terzo soltanto una facoltà — e non un onere — volta a consentirgli di precostituirsi la prova sia dell’esistenza della rappresentanza sia dell’oggetto dei relativi poteri. La norma, che sancisce una regola di carattere generale, esclude che il terzo sia tenuto a controllare i poteri di rappresentanza di colui che tale si qualifichi (Cass. 9289/01, Foro it., Rep. 2002, voce Rappresentanza nei contratti, n. 17): peraltro non è neppure configurabile l’apparenza del diritto qualora una specifica previsione di legge, derogando al principio di cui all’art. 1393 c.c., preveda espressamente l’opponibilità ai terzi delle limitazioni dei poteri rappresentativi risultanti dai pubblici registri, come avviene ad es. in tema di procura conferita agli agenti di assicurazione secondo quanto previsto dall’art. 1903 c.c. Perciò, di regola, non basta un semplice comportamento omissivo del terzo per costituirlo in colpa in caso di abuso o mancanza della procura, essendo necessario, per converso — ai fini dell’affermazione che egli abbia agito senza la dovuta diligenza — il concorso di altri elementi. In realtà, il principio dell’apparenza del diritto, che è riconducibile a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole, può essere invocato qualora il rappresentato abbia tenuto un comportamento colposo tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento che al rappresentante apparente fosse stato conferito il relativo potere e che il terzo, indipendentemente dalla giustificazione dei poteri di cui all’art. 1393 c.c., abbia senza colpa fatto affidamento sull’esistenza di tale potere (Cass. 204/03, id., Rep. 2003, voce cit., n. 7; 4299/99, id., Rep. 1999, voce cit., n. 7; 1720/98, id., Rep. 1998, voce cit., n. 9). Il principio è stato ritenuto applicabile anche nel caso in cui — essendo il soggetto rappresentato una società di capitali — sarebbe stato possibile per il terzo verificare l’effettiva esistenza dei poteri rappresentativi attraverso i mezzi speciali di pubblicità al riguardo previsti dalla legge (Cass. 4299/99, cit.; 9902/95, id., Rep. 1996, voce cit., n. 10; 2123/94, id., Rep. 1994, voce cit., n. 8). In proposito occorre che il giudice di merito accerti se, in relazione alle obiettive circostanze del caso concreto, il comportamento tenuto dal rappresentante sia stato tale da ingenerare nel terzo il ragionevole convincimento sulla corrispondenza della situazione reale a quella apparente: il terzo — che non abbia motivo di dubitare, secondo l’ordinaria diligenza, dell’effettivo conferimento al rappresentante dei relativi poteri — non può essere ritenuto in colpa soltanto perché non abbia controllato l’esistenza dei poteri di rappresentanza mediante l’esame dei pubblici registri. In tale direzione si è da tempo delineato, in modo ormai costante, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che il collegio per le considerazioni esposte ritiene di condividere. Il precedente indirizzo della corte (l’esistenza di forme di pubblicità legali rende inapplicabile il principio dell’apparenza del diritto in tema di rappresentanza delle società di capitali; v. sentenze 8309/90, id., Rep. 1990, voce Obbligazioni in genere, n. 22; 742/83, id., Rep. 1983, voce Contratto in genere, n. 87; 3859/79, id., Rep. 1979, voce Lavoro (rapporto), n. 1356), di recente richiamato da Cass. 703/04, id., Mass., 42, risulta — contrariamente a quanto affermato in quest’ultima decisione — superato, come si è detto, dalla successiva giurisprudenza di legittimità. Nella specie — si è già accennato — i giudici d’appello, nel ritenere l’incolpevole affidamento del terzo sull’esistenza dei poteri del falsus procurator, hanno accertato una serie obiettiva di circostanze, da cui era emersa altresì la condotta colposa della società rappresentata. La valutazione dell’esistenza e del rilievo delle circostanze in proposito accertate rientra nell’indagine di fatto riservata all’apprezzamento del giudice di merito ed è perciò sottratta al sindacato del giudice di legittimità se non per vizio di motivazione, di cui la decisione impugnata risulta immune: in effetti, attraverso la denuncia anche del vizio di motivazione, la ricorrente sostanzialmente invoca un riesame delle risultanze processuali, che è evidentemente inammissibile in sede di legittimità. 7
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 3, c.p.c., in riferimento agli art. 215, n. 2, 116 c.p.c., 1326, 2383, 2384 e 1453 c.c., e art. 360, n. 5, c.p.c.), lamenta che la sentenza impugnata, nel pronunciare la risoluzione del contratto, non aveva considerato né motivato che la firma apposta all’ordine del 17 giugno 1988 era stata disconosciuta dal legale rappresentante di Alfa, sicché — non essendo stata formulata da controparte l’istanza di verificazione e non potendo la scrittura de qua avere alcuna efficacia — i giudici avrebbero dovuto motivare in ordine alla formazione del contratto, in realtà mai perfezionatosi in mancanza di una proposta proveniente dal soggetto che ne aveva il potere: di conseguenza non si sarebbe potuta pronunciare la risoluzione di un contratto inesistente. Il motivo va disatteso. Come già chiarito sopra, la sentenza impugnata ha ritenuto che il contratto è stato concluso dalla società venditrice con la persona di Tizio, che — agendo quale rappresentante della società acquirente — non ne era l’amministratore (né aveva alcuna carica per impegnare Alfa): in virtù del principio dell’apparenza del diritto, il contratto si è perfezionato per l’acquirente attraverso la dichiarazione (e la sottoscrizione) del falsus procurator, che agiva in nome e per conto della società pur senza averne i poteri. Pertanto, il disconoscimento da parte dell’effettivo rappresentante legale della società acquirente della sottoscrizione apposta sull’ordine di acquisto è irrilevante: è pacifico che il contratto è stato stipulato da soggetto diverso dal legale rappresentante della società acquirente. Il ricorso va rigettato.
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