Il Sentiero della Dea.
Il Sentiero della Dea. di Marco Di Paolo
Prologo.
“All right of the producer and of the owner of the work reproduced reserved. Unauthorized copying, hiring, lending, public performance and broadcasting of this story prohibited. C P 2008 Marco Di Paolo”
Nel febbraio del 1961 io e la mia compagna eravamo in cerca di un posto dove poter osservare l’eclissi del secolo. Un luogo che ci desse la sensazione di restare isolati dal mondo. Così, dopo che l’autobus ci lasciò all’ultima fermata tra i monti Sibillini, ci incamminammo su per il pendio, io con il mio telescopio sulle spalle e lei con lo zaino carico di viveri. Il tempo era bello, ma la neve che ricopriva le cime, e un gelido vento che pungeva le nostre facce, ci facevano ricordare che eravamo ancora in pieno inverno. Dopo tre ore di cammino giungemmo in un paesino ricamato tra le rocce, lo superammo, e dopo un’ora, poco prima del tramonto, arrivammo in una valle che ospitava una chiesa romanica. Ci accorgemmo subito che quello era un posto particolare. Oltre ad essere bello, ci affascinò la capacità che aveva di amplificare ogni più piccolo rumore. Era un teatro naturale, con un’acustica incredibile che regalava all’orecchio dell’ ascoltatore attento, una purezza di suono perfetta. La mia compagna si innamorò immediatamente di quel teatro fatto di rocce e cielo, a me piacque perché era situato ad una buona altitudine dove l’umidità nell’aria era ridotta, e, cosa non trascurabile, vi si aveva un’ ottima visuale della parte est del cielo tanto da poter osservare l’eclissi senza che la montagna ce la potesse nascondere. Ci accampammo e, nonostante il freddo, passammo alcune ore della notte ad osservare le stelle e ad ascoltare i rumori che quel posto ci regalava. Il giorno seguente, un’ora prima dell’alba, sistemai il mio telescopio su di un terrazzo di roccia, ed aspettammo l’arrivo dell’eclissi che iniziò un’ora dopo il sorgere del sole. Il cielo si accese lievemente con i primi bagliori dell’aurora pochi minuti prima delle sette, e le ultime stelle tremolarono e poi scomparvero, lasciando una crescente e soffice luce mattutina. 5
La fortuna ci diede una mano perché la nebbia non minacciò la visibilità e, quando il disco di rame rossastro fece la sua comparsa all’orizzonte, rimanemmo in silenzio ad ammirare l’alba. Il buio iniziò ad arrivare forzatamente quando la luna incominciò a rapire i raggi del sole, interrompendo così l’alternarsi perpetuo tra il giorno e la notte. Insieme alla crescente oscurità, un pensiero incessante si faceva strada nella mia mente: ogni mistero grande della vita, nasconde una verità che nessun uomo riuscirà mai a comprendere. L’inizio e la fine di tutto ciò che appartiene all’universo è dettato dal tempo, che sembra scorrere velocemente agli occhi di un uomo, ma lentamente, eterno ed inesorabile, scorre anche per una stella. Entrambi vivono una vita parallela appesi al filo di un’esistenza destinata, senza via di scampo, alla fine. La mia compagna, che era rimasta in piedi al mio fianco con il naso all’insù ad osservare l’eclissi attraverso un filtro solare, iniziò a cantare:
magia. Nello stesso istante in cui la corona solare era rimasta la sola, poca luce del cielo, ed i corposi e prolungati acuti del canto della donna al mio fianco erano arrivati come carezze alle mie orecchie, il tempo sembrò fermarsi, dentro, nell’oscurità. Estratto dall’articolo del professore Marco De Flaminis “l’ultima eclissi totale di sole in Italia” pubblicato nel numero di gennaio 2001 per il magazine “terra e cielo”.
Quella musica giunse alle orecchie dolce e soave accarezzò il cuore si unì con l’anima in una danza che estasiò la fantasia. Raggiungemmo l’eternità
L’aria della “regina della notte”, che Mozart aveva scritto per il suo Flauto Magico, arrivò leggera e trasparente attraverso la fredda brezza, ma con il passare dei minuti cresceva, e si faceva profonda man mano che l’oscurità stava pigramente avanzando. Il mio corpo iniziò ad essere percorso da brividi. I sensi si stavano espandendo fino a percepire ogni minuscolo dettaglio del mondo intorno a me; fu una sorpresa sentire l’odore e i rumori della montagna dentro quella inconsueta notte. Quando il sole si nascose completamente dietro allo scuro disco della luna, insieme ad una sferzata d’aria gelida arrivata inaspettatamente ad accarezzare la pelle del mio viso, mi accorsi che quel posto era
Mercoledì 2 Giugno 2004. Digitai sul cellulare il numero del bed&breakfast che avevo prenotato alcune settimane prima, e dopo due squilli la cordiale e squillante voce di Rosa, la proprietaria, mi diede le ultime informazioni su come arrivare in paese, visto che sul mio navigatore la strada che stavo percorrendo non era più segnalata. Mi informò che le chiavi della casa le aveva lasciate nella vecchia cassetta della posta, di fianco al portone sopra cui si faceva notare un cartello con su scritto “B&B La Sibilla”, e mi salutò. “Allora Sara ci vediamo domani mattina per la colazione.” Percorsi gli ultimi due tornanti, ed ecco che si presentò davanti ai miei occhi in tutto il suo splendore, la piazza del minuscolo paese. Un antico borgo medievale, ben conservato, come ce ne sono molti in quella zona delle Marche. Scesi dalla macchina, presi il borsone ed il pesante telescopio che mi accompagna sempre nei miei viaggi di lavoro, e diedi un’occhiata ai portoni che si affacciavano
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“O zitte nicht, mein lieber Sohn, Du bist unschuldig, weise, fromm…”
intorno alla piazzetta, cercando di vedere il cartello che la signora Rosa mi aveva indicato. Lo notai subito. Di colore verde, con la scritta rossa sopra ad un portone di legno a doppia anta. Catturò la mia attenzione la melodia di una voce che stava intonando un’ aria lirica. Di certo proveniva da una delle finestre aperte che circondavano la piazzetta, ma non riuscii a capire esattamente da quale di esse. Le parole che si diffondevano col canto erano, per me, talmente celebri che riconobbi immediatamente l’aria di Violetta, dalla Traviata di Verdi: “A quell’amor ch’è palpito Dell’universo intero, Misterioso, altero, Croce e delizia al cor!”
osservare. Questa volta il protagonista sarebbe stato il pianeta Venere, che passando da sinistra verso destra, sopra al disco solare, avrebbe assunto le sembianze di un minuscolo neo. Era un evento raro, l’ultimo ad osservarlo era stato il grande scienziato Keplero, centoventi anni prima, ed era forse per quel motivo che mi sentivo un poco agitata, allora tirai fuori dalla mia borsa la raccolta delle poesie di Hermann Hesse che avevo portato con me, aprii la pagina intitolata “Berceuse” e sottovoce la lessi. Stiracchiai braccia e gambe: le lunghe ore di viaggio ora si stavano facendo sentire, la stanchezza stava prendendo il sopravvento ed a poco a poco mi trascinò nella dimora oscura del sonno.
La camera era deliziosa, arredata da un armadio e un comodino stile arte povera, sopra alla spalliera del letto era appesa una copia dell’ “amor sacro e amor profano” del Botticelli. Appoggiai delicatamente il mio telescopio sul letto e mi distesi di fianco ad esso, stanca, e nello stesso tempo eccitata per l’evento astronomico che il martedì successivo avrei avuto la fortuna di
1936. Il sole era lassù, appeso al mezzogiorno celeste. Seduti in terra, con le gambe allungate e le schiene appoggiate al bianco faro, rimanemmo a fissare quella linea che separava l’eternità celeste dall’abisso del mare, per un tempo che mi sembrò eterno. L’aria secca faceva in modo che tutto apparisse nitido e marcava in maniera ineguagliabile e netta, il confine tra mare e cielo. L’unica macchia gialla su quella distesa d’azzurro era il mio cappello, appeso al manubrio della sua bicicletta. Quel posto era la nostra poesia. Fu li che mi mostrò per la prima volta il suo taccuino. Lo aveva costruito tagliando la carta paglia in piccole pagine rettangolari, poi con un lapis le aveva quadrettate e rilegate manualmente con ago e filo di canapa. La sottile copertina di pelle nera rivestiva il taccuino dandogli eleganza e nello stesso tempo robustezza. I fogli erano ancora vuoti, ma era sua intenzione scrivere su ogni riga tutte le passioni rubate dalla nostra vita, e dettate dal trascorrere del tempo. Mi promise che lo avrebbe fatto con delle semplici poesie ed, accanto a ciascuna, avrebbe desiderato che anche io scrivessi i miei ricordi.
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Era stata mia nonna, musicista e cantante lirica, con cui avevo vissuto la mia infanzia, a trasmettermi la passione per la musica lirica. A quindici anni, solo ascoltandola mentre studiava le arie d’opera, canticchiavo a memoria tutti i più famosi brani lirici per soprano. Presi le chiavi dalla cassetta della posta, le infilai nel portone, e lo chiusi alle mie spalle, sulle parole “follie!” “follie!”, il canto rapidamente si attenuò fino a scomparire, la musica svanì, lasciandomi sola nel silenzio della nuova casa, che mi avrebbe ospitato per una settimana.
Restare accanto all’eternità mettendo in tasca la realtà mi accorgo che c’è ancora il tempo di una follia sapori che fondono la notte ed il giorno saranno per noi Assaporare le nuvole con il ricordo di una poesia, lentiggine cadono gocce di rime lasciando scie d’oro sono divine ombre sole Il tuo sorriso colora il vento scioglie la neve ed il tempo in un attimo il desiderio rompe il respiro e scrive “tu solo amor mio” Assolo di poesia che mi travolgerà verso un lunedì su bianchi fogli dove scrivo cento volte “magia” Giovedì 3 Giugno 2004. La taverna della Sibilla era un posto accogliente. Aveva tutte le caratteristiche di uno chalet di montagna con rivestimenti in legno ed un grosso camino. In un angolo, il tavolo per la colazione era fornito di dolci, succhi, marmellate, formaggi, affettati e quant’altro un essere umano avesse desiderato mangiare. Rosa mi invitò ad accomodarmi, mi chiese se la casa era di mio gradimento, e scherzando aggiunse che quel posto sarebbe stato perfetto per una sana e rilassante vacanza, visto che non accadeva mai niente di eccezionale. “La vita scorre piatta senza emozioni in questo posto” mi disse; fece una pausa ed aggiunse: “Beh in realtà c’è stato un fatto straordinario, ma è successo molto tempo fa!” Non diedi peso a quella frase e le spiegai che ero li per lavoro, anche se 10
era mia intenzione trascorrere qualche giorno di relax tra quelle montagne. Le dissi che sono un’astronoma, che il mio lavoro consiste nello scrutare il cielo e nello scrivere articoli per alcune riviste specializzate, allo scopo d’ informare gli appassionati e gli addetti del settore dei risultati ottenuti dalla mie osservazioni. Mentre parlavo Rosa continuava a fare segno di si con la testa, ma dubitavo che avesse compreso del tutto quello che le stavo spiegando. Ad un tratto, un vecchio seduto in disparte, rimasto tutto il tempo ad ascoltare la nostra conversazione, intervenne informandomi che negli ultimi anni del XIX secolo, dall’altra parte della montagna, avrebbero voluto costruire un osservatorio, ma che il progetto in seguito era stato abbandonato. Suo nonno era stato tra quelli che avevano trasportato i primi sassi per la sua costruzione. Il vecchio mi disse che forse, quel posto poteva essermi d’aiuto per il lavoro che mi apprestavo a fare, ed aggiunse che una delle vette della montagna ancora oggi viene chiamata “cima dell’osservatorio”, proprio a ricordo di quell’ evento. Domandai se fosse raggiungibile a piedi dal paese, ma mi suggerì di utilizzare la mia macchina, per arrivare fin sotto l’altro versante della montagna. Finii di mangiare, pagai a Rosa l’affitto per la settimana, ringraziai il vecchio per l’informazione, e li salutai. Quando aprii la porta il canto “Mon coeur s’ouvre à ta voix…” m’investì. La voce di Dalila, la protagonista del “Samson et Dalila”, stava viaggiando sottobraccio con i primi raggi di sole che incominciavano a far capolino sulla piazzetta: “… comme s’ouvre les fleurs Aux baisers de l’aurore! Mais, ô mon bien-aimé, pour mieux sécher mes pleurs, Que ta voix parle encore!” 11
Rimasi qualche istante immobile ad assaporare ogni singola sillaba di quella sublime melodia, fino a quando mi girai meravigliata verso l’interno della taverna domandando se in paese vivesse qualche innamorato d’opera che amava condividere con i paesani la sua passione. Il vecchio, con l’espressione di chi si aspettasse prima o poi quella domanda, mi disse che era un rituale che avevano i paesani in ricordo dell’unico avvenimento straordinario accaduto lì; quell’evento di cui Rosa mi aveva accennato in precedenza. Se avevano cercato di incuriosirmi ci erano riusciti. Chiusi di nuovo la porta della taverna, mi avvicinai al tavolo accanto all’uomo con i bianchi e crespi capelli che stava sorseggiando una tazza di cioccolato e dopo esserci presentati gli chiesi cortesemente di raccontarmi le ragioni di questa strana abitudine paesana. Il suo nome era Dante, mi accorsi che le sue pupille erano di un bellissimo verde chiaro, aveva due profonde rughe sulla fronte. Con un grande sorriso mi invitò a sedere al tavolo con lui. “Era una notte di giugno dell’estate del 1961” mi disse sorseggiando il suo cioccolato, “quando dalle montagne che circondano il paese sentimmo arrivare un canto. In principio quella voce ignota, che non sapevamo da dove provenisse, ci intimorì e ci disorientò, ma con il trascorrere delle notti, lo sconcerto si trasformò in meraviglia e curiosità. La gente del paese prese l’abitudine di riunirsi nella piccola piazza ad aspettare l’arrivo di quelle parole trasportate dalla melodia di una voce soprannaturale. In quei minuti il tempo sembrava rallentare e permetteva a ciascuno di noi di entrare a far parte di un sogno. La piazza cadeva in un silenzio religioso e restava estasiata all’ ascolto di quel canto; poi così come era arrivato, l’assolo di quella voce svaniva, facendo pigramente tornare il paese alla normalità”. Dante fece una pausa perché Rosa ci stava portando dei dolcetti appetitosi, allungò la sua grossa mano, ne
prese uno, e proseguì: “Passarono alcune settimane ed in paese si diffuse la notizia che tra le nostre montagne era venuta a vivere una maga che aveva l’ abitudine di cantare poesie d’amore. A questo evento straordinario si aggiungeva il fatto che accadeva solo durante le notti estive, quando in cielo le stelle sembravano diamanti.” Dante prese un lungo respiro, guardò Rosa e con voce rotta dall’emozione aggiunse: “Poi purtroppo arrivò l’estate in cui scoprimmo, con grande delusione, che la maga non abitava più tra le nostre montagne. Inizialmente pensammo che avesse scelto qualche altro posto dove cantare le sue poesie, ma con il passare del tempo ci accorgemmo che era scomparsa nel nulla. Ci aveva regalato delle estati straordinarie. Noi tutti non avevamo fatto altro che parlare di lei, della sua voce fatata, sognando sotto quella pioggia di parole d’amore.” Dante mi guardò negli occhi dicendo: “Non volevamo che quel turbamento vivo ed intenso che ci aveva donato venisse per sempre dimenticato. Fu così che pensammo di acquistare dei dischi d’opera. Quando per lavoro mi recavo in città sulla costa del Mar Adriatico me ne procuravo alcuni, di modo che, a turno i compaesani li facessero suonare tenendo aperte le finestre delle loro case e dando a tutti la possibilità di ascoltarli” si zittì per un momento poi concluse: “Ecco perché sentirai spesso una voce di donna cantare un’aria d’opera tra le viuzze del nostro paese.” Non dissi niente, notai Dante che si stava alzando sul suo bastone, e dopo aver ringraziato Rosa si avviò lentamente sull’uscio, dove l’aspettò una ventata di aria calda che gli fece volare via il cappello. Quella sera, quando mi recai di nuovo nella taverna per la cena, dissi a Rosa delle mie perplessità a credere del tutto a quella storia, ma Rosa mi assicurò che, se anche poteva sembrare un storia incredibile, le cose erano andate esattamente come Dante me le aveva raccontate quella mattina.
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1941. Insieme alle biciclette con noi c’era sempre una grande coperta blu, non rovinata dal trascorrere del tempo. Era da un po’ che avevamo preso l’abitudine di fare l’amore all’aria aperta, vicino al bianco faro, con il rumore del mare accanto. Dopo ci coprivamo con la grande coperta blu per addormentarci, e ci risvegliavamo poche ore prima del mattino, nell’aria satura di salsedine. Il tempo di aprire gli occhi, respirare a pieni polmoni il sapore del mare, e pedalare sulle nostre biciclette verso un nuovo giorno. Tutto era permesso. Era passione pura. Un’onda travolgente. L’ultima di quelle notti non facemmo l’amore ma ci stringemmo sotto la grande coperta blu. Distesi uno accanto all’altro, quelle parole pronunciate sottovoce erano macigni che stavano cambiando la nostra vita. Sdraiato con lo sguardo rivolto verso il buio dell’infinito mi disse che sarebbe partito per la guerra. Non aveva paura di morire ma temeva di perdermi per sempre. Prima di abbandonarmi tirò fuori dalla tasca dei suoi pantaloni una penna d’oca, e fece l’atto di intingere il calamo nel suo cuore. Sulla grande coperta blu non rovinata dal trascorrere del tempo scrisse il suo ricordo più bello. Due giorni dopo tornai in quel posto, mi coprii e sognai sotto quelle semplici parole.
hanno disegnato una favola che non possono raccontare e lasciato a chi il segreto di un attimo lo sa vivere di sognare Ammiro l’eternità ammiro te entrambi distesi accanto sulla sabbia
Cadono le stelle sopra ad una follia scivolano sui colori del tuo desiderio mostrano tutto l’ardore in un attimo e svaniscono d’incanto per lasciare all’immaginazione di proseguire il momento Corrono le stelle sopra ad una pazzia scendono per nascondere la voluttà dei tuoi capricci bizzarre note di breve durata che accendono un’estate per lasciare ai miei occhi il ricordo più denso Coprono le stelle la nostra poesia si fermano oramai ad assaporare il mattino sul tuo volto
Venerdì 4 Giugno 2004. In cresta, che dalla cima del Redentore mi stava portando a cima di Prato Pulito, orientai lo sguardo verso il basso ed ammirai sul versante est le piane che si estendevano per chilometri, e su quello ovest il piccolo lago di Pilato. Avevo intorno le più belle cime dell’ Appennino e sotto i miei piedi un vuoto di mille metri, la veduta toglieva il fiato. Percorrendo la cresta, la mia attenzione fu catturata da una coppia di ragazzi che erano ad una certa distanza dal punto dove mi trovavo; i loro vestiti mi ricordavano quei vecchi film ambientati nel dopoguerra, sembravano fossero arrivati lì dopo aver attraversato la porta del tempo. Poco dopo si fermarono e lui si girò, lei appoggiò un foglio con una mano sulla sua schiena, e con l’altra iniziò a scrivere. A volte s’interrompeva come se stesse pensando, a volte dava l’impressione di cancellare e poi all’improvviso scriveva di nuovo. Ad un tratto la vidi piegare il foglio, prendere la mano del ragazzo e donarglielo. Lui dopo averlo letto ne fece un aeroplano che lanciò con un rapido movimento del braccio verso il precipizio. L’aeroplano d’impeto prese il volo, planò per un tempo che mi sembrò interminabile, poi scomparve un attimo per riapparire più in basso volteggiando su se stesso. Era alla mercé delle correnti ascensionali. Lo vedevo girare, capovolgersi, scendere in picchiata, risalire, fino a quando la luce solare riflessa dal lago lo portò via per sempre dalla mia vista. Alzai di nuovo gli occhi verso la cresta ma i due ragazzi erano spariti.
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Dalla cima del monte scesi per il rifugio, poi tagliai per il crinale alla mia destra che nel giro di mezz’ora mi avrebbe portato al lago. Da quella distanza il sole gli faceva assumere un colore blu intenso nel centro, e verde smeraldo sulle rive. Percorsi in discesa un tratto ripido ed arrivai ad un imbuto pericoloso. Mentre appoggiavo le mani sulla roccia per non cadere, lo vidi, aveva le ali ancora intatte. Notai che quell’ aereo era nato su di un foglio quadrettato color pane, era un po’ malandato sulla carlinga, come se qualcuno lo avesse calpestato e trascinato sotto gli scarponi. Volendo avrebbe potuto di nuovo volare, ma non glielo permisi. Mi tolsi lo zaino e lo raccolsi. Alle prime luci del tramonto, alla quota di duemila metri di altitudine, scelsi un posto riparato dal vento dove piazzare la tenda e sistemare la mia attrezzatura. Diedi le coordinate al telescopio, che nel giro di qualche minuto orientò la sua lente verso la zona del cielo che mi interessava osservare. La notte stava gradatamente avanzando e stava scoprendo un cielo sorprendentemente terso, riuscivo a scrutare ad occhio nudo alcune delle costellazioni che abitualmente, dalla collina che affianca la città dove abito, non si vedono perché vengono nascoste dall’inquinamento luminoso. Stampate sull’ emisfero nord della volta celeste c’erano le costellazioni dell’Aquila e del Cigno. Sono costellazioni che hanno accompagnato le notti estive della mia vita. Le ho imparate a riconoscere fin da bambina, univo con delle linee immaginarie quei minuscoli punti luminosi, fino a ricostruire nella mia mente la sagoma dei due uccelli, il bianco Cigno e la bruna Aquila. Quando ebbi finito l’osservazione con il telescopio, annotai alcuni calcoli sul mio portatile, poi mi sdraiai sulla montagna con tutto l’ universo sopra di me. Avevo sentito parlare delle tante leggende che le montagne della catena dei Sibillini portavano con 16
sé, ma trascorrerci del tempo, viverle, toccarle, era un’esperienza unica. Il vento sembrava avere un’anima, respirava, trasportava con sé suoni ed odori che non avevo mai percepito prima. Mi tolse il respiro osservare la via lattea poggiata sulla mia testa, il braccio della nostra galassia tagliava di netto il cielo in due parti. Era come guardare un arcobaleno, e si aveva la netta sensazione di poter toccare tutte le stelle. Ci provai, allungai il braccio destro e con le dita simulai di pizzicarne una. Ad un tratto mi sembrò di sentire un sussurro arrivare con il vento. Ebbi la netta sensazione di aver visto nell’oscurità qualcuno camminare tra i boschi. Forse era stato solo il frutto della mia fantasia; oppure il ricordo di tante storie raccontatemi durante la mia infanzia, storie di maghi, di principesse che si stavano facendo strada in quella notte solitaria. La temperatura iniziò rapidamente a scendere costringendomi a rientrare in tenda, dove accesi il fornello per prepararmi un caldo tè, stesi il mio sacco a pelo, mi infilai dentro, aprii la raccolta delle poesie di Hermann Hesse ed iniziai a leggere “Ich bin ein stern”. 1943. Non avevo dormito un granché la notte precedente, perché quel rumore era iniziato all’imbrunire ed era terminato poco prima dell’alba. I tedeschi si stavano ritirando verso nord ed il passaggio dei loro mezzi corazzati era stato incessante. Quando mi alzai, mi colpì vedere un paesaggio quasi lunare di fronte ai miei occhi, un alto strato di polvere si era depositato su tutto il territorio circostante e tutto era uniformemente grigio. Durante la mattinata avevo deciso di andare al fiume per lavare i panni e al mio ritorno l’arrivo di quegli aerei mi aveva colto di sorpresa. Quando li sentii arrivare mi trovavo nel bel mezzo di un campo di girasoli, cosi l’unica via per essere al riparo era il fiume. Mi ero messa a correre con tutta la forza che avevo e mi nascosi al di sotto del suo argine. Ero lì, rannicchiata, 17
con le braccia a protezione della testa. Gli acuti sibili seguiti dalle esplosioni delle bombe mi entravano fin dentro alle ossa, ed avevano l’effetto di provocare sul mio corpo un tremore che non riuscivo a controllare. Gli aerei americani stavano bombardando il ponte per interrompere l’unica via di comunicazione che i tedeschi avevano per ritirarsi verso nord. Passò molto tempo prima che il tuono dell’ultima bomba mi provocasse le ultime scosse di paura. Quando le mie orecchie ripresero la normale percezione uditiva un fischio acuto e costante si era fissato nella mia testa, ma riuscivo ugualmente a sentire il rombo dei motori degli aerei che si stavano allontanando. Poi lenta la quiete tornò a riprendere il sopravvento. Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere molto, ma in lontananza mi resi conto che il ponte non c’era più, allora corsi sulla riva del fiume, mi sedetti e piansi a lungo. Mi venne un pensiero stupido, durante questa maledetta guerra passavo molto tempo a guardare quel ponte, perché era da lì che vedevo arrivare il postino a consegnarmi i fogli quadrettati del tuo taccuino. Ora che il ponte era scomparso, era come se avessero interrotto l’unica via di comunicazione tra noi due. Ho visto i tuoi occhi piangere li ho visti raccontarmi della tua essenza mai ingannatori ma sempre sognatori Li ho visti riflessi nella luna quando il mare ne accompagnava il movimento mentre il vento li avrebbe voluti portar via I tuoi occhi eremi di un tempo lontano naufraghi aggrappati allo scoglio della ragione smembrati scavati annullati dal desiderio di restare a guardare ancora per un attimo i miei occhi 18
Sabato 5 Giugno 2004. Un fastidioso bip stava trascinando il mio corpo al risveglio. Nel buio, con il braccio destro cercai di individuare il mio orologio da polso; dopo alcuni tentativi finalmente riuscii a prenderlo e spensi la sveglia. Illuminai il quadrante e controllai la temperatura, segnava quattro gradi centigradi. Diedi un’occhiata anche alla pressione atmosferica che per fortuna non aveva subito brusche variazioni durante le ore notturne, il tempo si sarebbe mantenuto stabile almeno per l’intera giornata. Mi preparai ed uscii dalla tenda che era ancora buio, girai lo sguardo verso ovest, la grande costellazione dell’Aquila si stava tuffando nell’orizzonte e sarebbe scomparsa nel giro di un’ora, seguita dalla costellazione del Cigno che le luci dell’alba l’avrebbero invece fatta dissolvere in pochi minuti. Dopo aver riorganizzato lo zaino, e smontato la tenda, le prime pennellate violacee dell’aurora riempirono la parte est del cielo. Nella penombra, verso sud riuscivo a distinguere il picco roccioso del Gran Sasso, a sud est a malapena si intravedeva il massiccio del Terminillo, verso nord tutta la catena dei Sibillini che prorompente sembrava un gigante addormentato. Dopo tre ore di cammino raggiunsi finalmente la sommità. Mi fermai. La stanchezza mi faceva respirare profondante. Il versante che avevo appena scalato era stato il più bello ed il più arduo della montagna: c’erano stati numerosi burroni da superare, ma soprattutto l’ affilata e pericolosa cresta finale prima di arrivare in vetta. Contemplai per un tempo lunghissimo il panorama che mi circondava, era di una bellezza che toglieva il respiro. Mi venne da pensare a Dio, è un considerazione ricorrente quando sono lassù, in cima al mondo. L’infinito ha l’effetto di interrogare la mia coscienza. Mi tolsi lo zaino dalle spalle e mi accovacciai. Lo aprii e cercai l’ astuccio dove il giorno precedente avevo riposto 19
l’aeroplano di carta che trasportava delle semplici parole d’amore. Lo trovai e lo presi con le prime tre dita della mano destra, mi rialzai, e lo annusai. Non so perché ma quell’oggetto riportava alla mia mente le immagini della mia infanzia, di quando mia nonna cantava l’aria di Cherubino dalle “Nozze di Figaro” accompagnandosi con il pianoforte, e facendomi delle buffe smorfie con la faccia: “Non so più cosa son, cosa faccio Or di fuoco, ora sono di ghiaccio Ogni donna cangiar di colore, Ogni donna mi fa palpitar… Ho sempre pensato che la musica lirica sia il modo più bello che hanno gli uomini per parlare con Dio: un ponte naturale tra la terra ed il cielo. La voce umana che manifesta la sua bellezza attraverso la massima espressione del canto. Guardai per l’ultima volta l’ aeroplano di carta e lo lanciai delicatamente verso il precipizio, dove un vento leggero gli diede la giusta spinta per planare verso l’orizzonte. Avevo voglia di regalare quelle parole al mondo intero. Accidenti ! Dovevo fare attenzione perché il pendio si stava di nuovo facendo ripido e pericoloso. Mi aiutai con le mani per superare alcune roccette. La leggera foschia che mi aveva accompagnato fino alla fine del bosco ora si stava diradando, scoprendo la mulattiera lungo la parete della montagna che nel giro di un’ora mi avrebbe portato sul posto. Avevo deciso di fare quell’ escursione alcuni mesi prima, quando mi era capitato di leggere l’articolo del professor Marco De Flaminis, in cui raccontava l’esperienza vissuta nell’osservare l’eclissi di sole del 1961. Avevo conosciuto il professore durante i miei 20
studi universitari a Pisa. Di quell’articolo mi aveva affascinato soprattutto la descrizione del posto, al punto da farmi decidere di contattare il professore, che mi invitò a casa. Trascorsi un pomeriggio intero in sua compagnia parlando delle ultime teorie sull’universo, poi prima di salutarmi mi domandò: “Esiste un posto perfetto dove poter osservare il cielo ? Un luogo che, oltre a dare la possibilità di esplorare l’universo, ecciti la fantasia a scrutare nell’inimmaginabile stando seduti su di uno sgabello? Un angolo del mondo che ti possa far credere, anche solo per un attimo, nell’esistenza del soprannaturale? Io non so se esiste, ma ho avuto la fortuna di aver scoperto un luogo in cui ho convinto le persone a guardare le stelle perché era la voce stessa del cielo che l’invitava a farlo”. Camminai ancora per un centinaio di metri, superai lo stazzo, e mi inoltrai nella valle. La mia percezione uditiva a poco a poco stava cambiando, i fianchi delle montagne facevano in modo che i suoni venissero amplificati e nello stesso tempo filtrati ed ovattati come in un ambiente acusticamente isolato. In fondo alla valle c’era una chiesa romanica, e sembrava quasi un oggetto fuori posto in quella meraviglia della natura. Mi fermai, alzai lo sguardo e feci un giro su me stessa cercando di osservare ogni minimo particolare, le affilate creste che mi circondavano mi erano addosso, sembravano denti di una grossa bocca pronta ad inghiottirmi, e le vette più alte sentinelle che stavano sorvegliando ogni mio movimento. All’improvviso quel senso di stupore che mi stava pervadendo si trasformò in timore, perché avevo la netta sensazione che la montagna potesse ascoltare ogni mio respiro e mi trasmettesse quella sua forza direttamente nelle viscere. Sembrava volermi far pesare che in quel luogo era lei a decidere della mia stessa vita.
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1945. In solitudine, dentro al bianco faro, il tempo faceva fatica a trascorrere. Erano oramai tre giorni che su quella immensa distesa d’acqua in tempesta imperversava il maltempo. Dal letto guardai fuori attraverso l’ oblò: la pioggia scendeva impetuosa ed incessante. La primavera si era interrotta repentinamente. Le onde arrivavano oltre i tre metri, e il rumore che scaturiva dal loro impatto con le rocce mi incuteva la paura di non rivedere mai più la tua nave. Girai la testa sul cuscino, alzai gli occhi, quell’astuccio verde smeraldo era lì, dove lo avevo poggiato alcuni giorni prima. Lo guardai ancora una volta. La sua vista mi rassicurò e ti sentii più vicino. La guerra era finita. Pensai a tutte le atrocità ai rancori che si era portata dietro. Cancellai i cattivi pensieri e continuai ad aspettare il momento di rivederti. Tutte le poesie che mi avevi inviato durante la tua lunga assenza stavano al sicuro dentro quell’astuccio.
gli amici ed i nemici l’amore e il volersi bene avrai scelto solo me
Tu sarai qui con me cammini al mio fianco ogni volta che con la fantasia volerò oltre l’azzurro del cielo Tu sarai qui con me mi siedi accanto ogni volta che sotto le stelle chiuderò gli occhi ed il sogno m’imprigionerà Tu sarai qui con me abbracciati l’un l’altro ogni volta che d’improvviso il desiderio mi sorprenderà come un lampo in un giorno di sole ma solo se tu vorrai io sarò li con te se tra il bene ed il male
Domenica 6 Giugno 2004. Chiusi il portone alle mie spalle, alzai lo sguardo, vidi delle grosse nuvole passeggiare in cielo trasportate da un fastidioso vento di tramontana. La stupenda voce di Cecilia Bartoli stava cantando le variazioni virtuosistiche dell’aria finale di Angelina, protagonista della “Cenerentola”, e si confondeva con il vociare della gente del paese che era riunita davanti alla chiesa per la messa domenicale. L’orologio del campanile indicava che mancavano dieci minuti alle undici. Girai verso lo stretto e scosceso vicolo di scale che mi stava portando al parcheggio, quando, seduto su di una panchina dall’altra parte della piazzetta, Dante con un cenno della mano mi invitò ad andare nella sua direzione. Attraversai la piazzetta e mi sedetti al suo fianco. Mi colse di sorpresa perché mi sussurrò all’orecchio: “Sai mantenere un segreto ?”, e con un gesto impostato, come quello di un mago che alla fine del numero compie il suo prodigio, tirò fuori dalla tasca della giacca un taccuino dicendomi: “L’ho trovato molti anni fa, quando le mie gambe mi permettevano di passeggiare tra quei boschi, lassù nella valle del silenzio”, indicandomi con un dito la direzione giusta verso la montagna. La voce della Bartoli stava eseguendo una serie di difficilissimi passaggi di coloratura sugli acuti della melodia composta da Rossini, quando mi diede il taccuino e disse: “qui ci sono le poesie che la maga amava cantare a tutti noi; probabilmente lo aveva perduto, ed è forse per questo che non lo ha più fatto!” Non riuscii a dire nulla, mi sembrava tutto così surreale. Non potevo pensare che le persone di quel paese potessero credere realmente nell’esistenza di una maga. Dante
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vedendo che non avevo avuto alcuna reazione alle sue parole aggiunse: “Mi sembra di aver capito che sei una sorta di giornalista, no? Allora pensavo che raccontare quello che è successo in questo paese, potrebbe essere per te interessante, e questo” indicando il taccuino “ è la prova dell’esistenza della maga!” Lo fissai incredula. “Dante, in tutta sincerità voglio dirti che mi è difficile credere in questa storia…”, poi lasciando cadere lo sguardo sul taccuino sentenziai: “…e quelle poesie potresti averle scritte tu o qualcuno per te!” Mi accorsi immediatamente di aver commesso uno sbaglio. Quella luce che aveva negli occhi mentre mi parlava, si spense, lasciando sul suo viso un’espressione delusa per la mia mancanza di fiducia e di rispetto nei suoi confronti. Stava per andarsene quando, gli afferrai il braccio e gli chiesi scusa per la mia sgarbatezza. Gli promisi che avrei letto il suo taccuino e che, se il contenuto fosse stato realmente interessante, avrei trovato il modo di raccontare quei fatti. Lo infilai nella mia borsetta, gli assicurai che glielo avrei restituito prima della mia partenza, prevista per il martedì successivo. Il campanile scandì alcuni rintocchi segnalando che erano le undici del mattino, Dante si alzò sul suo bastone, ed insieme alla gente si avviò in chiesa, dove anche il vociare lentamente svanì lasciandomi sola con l’acuto finale di Cenerentola. Chiuso tra le mie mani, mi accorsi che la straordinarietà di quell’oggetto era nella sua fattezza: dei vecchi fogli di carta paglia erano stati quadrettati con una matita ed erano stati rilegati con uno spesso filo bianco. Lo aprii e guardai alcune pagine, le parole avevano la capacità di abbellire il taccuino in maniera quasi pittorica, quella calligrafia segnata dalle rotondità delle lettere gli regalava un aspetto fiabesco. Trasalii, perché tra le prime pagine stavo leggendo la stessa poesia che era stata scritta sull’ aeroplanino di carta, da uno dei due ragazzi incontrati in cima alla montagna. Sorrisi, e pensai che
Dante non mi avesse raccontato tutta la verità. L’unico modo per venire a capo di quella stramba storia era Rosa: sicuramente lei mi avrebbe spiegato come stavano realmente le cose, così mi ripromisi di parlarle più tardi visto che in quel momento era in chiesa insieme a tutti gli abitanti del paese. Quando il campanile suonò di nuovo, ero arrivata alla lettura dell’ultima pagina del taccuino, e notai che c’era una dedica: “Esiste un tipo d’emozione che ha la forza di scatenare nelle persone la voglia di creare, manipolare, modellare l’arte in tutte le sue forme e di usarla allo scopo di volare con il cuore e con l’anima. Quest’energia, conosciuta come ispirazione però, raggiunge il suo apice solo nell’attimo in cui l’emozione è tenuta in vita quotidianamente dall’ amore”. La dedica era firmata: Carmen. Ricordai di aver avuto a che fare con che quel nome di recente, o così mi sembrava, ma non ne ricordavo il motivo. Carmen ripetevo, Carmen continuavo a ripetere. Mi misi a pensare facendo una rapido elenco di amici, colleghi, conoscenti, parenti. Niente, non riuscivo ad associare un viso a quel nome. Decisi di lasciar perdere. Quella sera mi addormentai con la poesia “Chopin” di Hesse adagiata sul mio petto.
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1958. Non era ancora notte quando entrai in teatro, e ciò che rimaneva della fioca luce solare stava colorando di rosso il campanile di quella sfarzosa piazza d’arte. Entrando dalla porta laterale mi accorsi che le scene mobili ed il fondale del primo atto della “Sonnambula” di Bellini erano già calate sul palcoscenico. Mi diressi nel mio camerino ed incominciai il rituale dei miei esercizi vocali. Era una preparazione lunga ed intensa. In sottofondo mi giungeva la nenia eseguita dai musicisti dell’orchestra impegnati nell’accordatura dei loro strumenti. Ogni volta l’ insieme di quei suoni strascinati e
ripetitivi avevano su di me un fascino particolare, e nello stesso tempo mi provocavano una sorta di agitazione per l’attesa della “prima”. L’orchestra si stava accordando, dallo stridulo suono di ogni singolo strumento, sarebbe poi nata la perfezione della melodia. Forse era così che Dio aveva creato l’Universo, chissà: confusione, caos e di conseguenza perfezione. Poi il pensiero volò al mio amore che avrebbe assistito seduto in platea,e come al solito, alla fine dell’opera sarebbe arrivato in camerino a sussurrare al mio orecchio “sei tu l’emozione più grande della mia vita”. Sorrisi. Mi vestii e mi truccai. Il momento di entrare in scena era imminente. Immaginai che la luce del tramonto aveva oramai fatto posto a quella della luna piena, e la piazza, dove era situato il teatro, stava assumendo l’aspetto pallido e fuggente della notte. Respirai intensamente, mi lasciai inondare dall’ energia musicale senza opporre resistenza: aprii cuore e anima e iniziai a cantare. Sono note venute fuori da un pentagramma che mi incatenano ancora qui di fronte a te L’orizzonte diventa immensità nell’ascoltare trasmette strane sensazioni e tra scale maggiori e minori tenta di coinvolgere la creatività Con le mani forti e delicate di un pianista mi incanti ad ogni nota dolcemente prendi sottobraccio anima e corpo e li trascini via fai vibrare il sentimento lo disegni di mille colori e a ritmo d’emozioni mi lascio trasportare dall’onda di quel motivo Fiocco di neve sono oramai 26
Ed il pensiero vola via lassù tra stelle e pianeti dove ciascun suono è libero di respirare viaggiare senza affanni e promesse libero di penetrare con cadenza incessante Come l’anima elegante di un jazzista ti piace improvvisare stuzzicare tasti neri e bianchi interpretare note su note incantate aliti di vento che imprigionano l’aria nella magia e volano via leggere come schegge erranti senza più rispettare quella melodia che qualcuno lassù un tempo ha immaginato e composto per te su quel pentagramma ma che solo tu ora in libertà la stai suonando per me Ed io, qui seduto di fronte ti ascolto Lunedì 7 Giugno 2004. “Il dolce suono Mi colpì di sua voce!... Ah! quella voce M’è qui nel cor discesa!...” Fuori si stava scatenando un violento temporale. L’aria, elettrizzata dalla caduta dei fulmini, mi rendeva ansiosa. Eravamo rimaste con la poca luce del pomeriggio che filtrava dalla finestra, perché Rosa aveva staccato l’interruttore generale della corrente, visto che lo scorso anno un fulmine le aveva rovinato alcune 27
apparecchiature elettroniche che aveva in casa, interrompendo così l’aria della “Lucia di Lammermoor” che stava cantando dal suo stereo. Avevo detto a Rosa che dovevo parlarle, e lei era stata felice d’ invitarmi a prendere un tè, così quel pomeriggio mi ero ritrovata seduta al suo fianco su un comodo divano blu e con un album di vecchie foto sulle ginocchia. “All’epoca dei fatti” mi disse mostrandomi una foto in bianco e nero dove veniva ritratta seduta su di una vespa ”ero una ragazzina. In quelle notti d’estate, noi ragazzi avevamo l’abitudine di rincorrerci tra le viuzze strette e scomode del paese giocando a nascondino. L’arrivo di quella voce ci ipnotizzava, sembrava avesse l’argento nelle corde. Giungeva leggera e soffice alle nostre orecchie, e tutti con il naso all’insù, cercavamo di capire da quale luogo mai arrivasse. Per noi ragazzi era come ascoltare una favola che veniva raccontata dalla voce della protagonista. Puoi immaginare l’effetto dirompente che aveva sulle nostre giovani fantasie.” Rosa sorseggiò il suo tè e continuò: “Trascorsero così alcune estati, e quell’atmosfera contribuì a far nascere l’amore tra molti ragazzi del posto” e mostrandomi una foto dove erano ritratti due giovani sposi aggiunse: “anche tra Carlo ed Anna, che all’età di diciotto anni si sposarono.” Rosa ricordò quel giorno con le lacrime agli occhi: “La gente era tutta riunita nella piazza del nostro paese ad aspettare l’arrivo di quella coppia di sposi. Alcuni degli invitati, venuti in paese per la prima volta, raccontavano di aver sentito, durante la notte trascorsa, un canto angelico provenire dall’antro della montagna, e giuravano di aver visto qualcuno volare lassù tra le cime più alte. Seppero dalla gente del posto che nelle notti stellate un canto sublime arrivava, con l’aria fresca della valle, fin dentro al paese, e che poi il vento lo trasportava fin lassù tra le cime più alte. A volte la maga, che viveva tra quelle montagne, sentendolo iniziava a passeggiare tra le vette per poi unire la sua
voce al volo di quella melodia.” “Quando gli sposi arrivarono, i bisbigli della piazza si trasformarono in frasi d’ammirazione per la bellezza della giovane donna vestita di bianco. Con ancora il profumo della notte appena trascorsa nell’aria, lentamente la piazza si svuotò, perché, tutti incuriositi, ci recammo all’interno della chiesa per assistere al rito matrimoniale”. Ci fu un lungo silenzio che mi sembro durare un’eternità, poi Rosa mise di nuovo la foto, che aveva tra le mani, nell’album e ne tirò fuori una a colori dove si vedevano due bambini, e proseguì: “Oggi, Carlo ed Anna, sono due nonni felici che amano ricordare e recitare le poesie, che la maga cantava, ai loro due nipoti, quelli che tu hai incontrato pochi giorni fa sulla montagna!”
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Ero rimasta tutto il tempo ad ascoltare Rosa senza poter dire una parola. Mi impressionò soprattutto il fervore che Rosa aveva messo nel racconto tanto da farmi rivivere quegli attimi come se stessero accadendo di nuovo. Quando tornai a casa il temporale era finito da un bel pezzo, ma la temperatura si era abbassata notevolmente. Mi infilai sotto la doccia, e con l’acqua calda che pungeva il mio corpo, chiusi gli occhi e mi rilassai. Vidi scorrere una sequenza di immagini senza un ordine ben preciso: parole scritte a mano su fogli ingialliti dal tempo, fotografie in bianco e nero, aeroplani di carta tra le montagne, le costellazioni del cielo, le affilate vette della valle del silenzio, mia nonna seduta davanti al pianoforte che cantava la Carmen. Fu in quell’attimo che spuntò davanti ai miei occhi il viso della compagna del professor De Flaminis. Ecco finalmente! Era lei la Carmen che stava girando da un po’ tra i miei pensieri. L’avevo incontrata il giorno che mi recai a far visita a suo marito. Ebbi un sussulto, perché ricordai che la compagna del professore era una nota cantante lirica in carriera proprio negli anni ’60; il suo nome era conosciuto
negli ambienti della musica lirica. Mi si fisso un dubbio nella testa e decisi di dare una risposta alle mie domande entro sera. Uscii dalla doccia, mi asciugai, mi vestii, presi il portatile, e mi accorsi che le mie mani stavano tremando dall’emozione. No, era impossibile che quei fatti, così come me li stavo immaginando, potessero essere accaduti realmente in quel paesino di montagna. 1965. Anche se era piena estate ed il freddo era quasi insopportabile, decisi ugualmente (com’era mia abitudine nelle notti stellate, quando rimanevo sola) di recarmi a piedi presso la chiesetta sconsacrata situata nella valle del silenzio, e con l’aiuto del piccolo Harmonium mi divertivo ad intonare le arie d’opera che avevo composto sulle poesie che mi avevi spedito quando eri al fronte. La chiesetta era distante all’incirca un’ora di cammino dal paese, il sentiero era pericoloso per l’oscurità della notte, ma con l’aiuto della torcia riuscivo a superare i punti più difficili e l’abitudine faceva il resto. Durante il percorso immaginavo di vederti seduto in cima alla montagna con al tuo fianco l’immancabile telescopio. Tutti in paese oramai ti avevano soprannominato il “guardiano delle stelle”: il tuo lavoro incuriosiva le persone del luogo e destava una sorta di invidia per la profonda conoscenza che avevi dell’universo. Arrivata davanti alla chiesa, spalancai la porta d’ingresso per permettere all’aria di entrare e la lasciai completamente aperta in modo che il canto potesse diffondersi in tutta la valle ed arrivare lassù in cima alle vette, dove tu stavi osservando galassie e stelle aspettando l’arrivo della mia voce. Poggiai il lume, che portavo con me durante quelle escursioni notturne, sull’armonium e l’accesi con un fiammifero, la fioca luce dava all’interno della chiesa un aspetto etereo ed eterno. Tirai fuori dalla borsa lo spartito, misi le mani sulla tastiera premendo i tasti che compongono l’accordo di re maggiore, ed infilando i piedi sulla 30
pedana del mantice in basso, sotto allo strumento, incominciai a muoverli spingendola avanti ed indietro. Con delicatezza il suono prese vita facendo animare una alla volta le ance dello strumento, chiusi gli occhi, respirai con il naso e lasciai che la mia voce si unisse a quella dell’armonium. Uscii fuori che era appena passata la mezzanotte, alzai lo sguardo al cielo, la luna crescente era al suo primo quarto, la sua falce sottile ed affilata mi stava sorridendo quando decisi di tornare a casa. Godi l’attimo ed è già passato il tempo di uno sguardo tutto è nel ricordo, il seguente sarà da scoprire ma così breve da dimenticare che sarà…pur sempre un attimo Martedì 8 Giugno 2004. Quel giorno compivo il mio quarantesimo compleanno. Seduta sullo sgabello e curva sul telescopio, stavo osservando Venere. La luce solare era offuscata dal filtro che avevo fissato sulla lente e che mi aiutava a percepire meglio i contorni del minuscolo pianeta. Venere è da sempre considerato dalla mitologia il pianeta dell’amore, della bellezza, dell’arte e in particolare del canto. A guardarlo con un telescopio la sensazione che trasmette è quella di un pianeta cordiale, ma in realtà nessuno potrebbe mai vivere lassù. Ero un po’ stanca perché la notte trascorsa era stata all’insegna dell’incredulità e non avevo dormito molto. Mi ero ricordata di avere nel mio portatile l’articolo del professore riguardante l’ultima eclissi totale di sole avvenuta in Italia. 31
Lo avevo di nuovo letto ed aveva confermato il mio dubbio. Così decisi di telefonargli. Mi aveva risposto la sua compagna informandomi che il professore non era in casa, allora facendomi coraggio le avevo chiesto: “signora volevo avere da lei soltanto una conferma” e lentamente avevo iniziato a leggere la prima poesia contenuta nel taccuino di Dante: “Quella musica giunse alle orecchie dolce e soave, accarezzò il cuore ..” mi fermai, perché dall’altra parte avevo sentito Carmen che commossa stava sussurrando: “… si unì con l’anima in una danza che estasiò la fantasia. Raggiungemmo l’eternità.” Mi ero lasciata cadere sul divano incredula. Era la risposta che stavo cercando. Mentre Venere, sottoforma di minuscolo neo stava pigramente arrivando a metà del suo percorso sul gigantesco disco solare, pensai al professore che in quel momento, di certo, era appoggiato con il suo occhio alla lente di un telescopio. La mia stima nei suoi confronti era infinita, perché aveva dato la possibilità alla gente di quel paese di sognare ad occhi aperti, e, ad essere sincera, provavo anche un pizzico d’ invidia, perché doveva aver vissuto una straordinaria storia d’amore. Mi tornarono in mente le parole che mi disse prima di salutarmi da quel pomeriggio passato insieme: “Credere nel soprannaturale fa bene perché ci porta a sognare ed a vivere ogni momento della nostra vita con intensità.” Scossi la testa come a cercare di convincermi che quei fatti non potevano essere accaduti realmente. Quando ci si trova davanti a questo tipo di storie si rimane senza respiro e sbalorditi, e per me, scienziata abituata a trovare la soluzione attraverso sperimentazioni e calcoli matematici, non era facile accettare quella realtà. Ma per nostra fortuna la mente umana va oltre la scienza. Riesce a superare i confini dell’universo, dove nessun occhio, lente o telescopio ha la capacità di osservare, perché in quel luogo c’è posto solo per la fantasia. Il mio lavoro terminò, dopo di che finii di scaricare
tutti i dati registrati sul mio portatile, poi, quando il computer mi diede l’ok, salvai tutto su un hard disk esterno e sistemai la strumentazione nelle apposite custodie. Prima di congedarmi dalla valle del silenzio, guardai per l’ultima volta le vette che la circondavano e la chiesa romanica laggiù in fondo; pensai a come è cambiato il mondo e la gente che lo abita. Mi ripromisi che al mio ritorno in città sarei andata di nuovo a far visita al professore, perché ero certa che avrebbe sicuramente provato piacere nel sentirsi dire che qualcuno lassù nella valle del silenzio aveva ritrovato il suo vecchio e caro taccuino, e che le persone del posto scrivevano ancora le sue parole d’amore su piccoli aeroplani di carta.
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