COMUNE DI PETTINENGO
L’Amministrazione Comunale di Pettinengo in collaborazione con l'Associazione Pacefuturo e con la partecipazione di tutte le Associazioni e l'Istituto Comprensivo di Pettinengo invitano
ALLA SCOPERTA DEI SENTIERI E DELLE RICCHEZZE DI PETTINENGO
prima tappa
il sentiero dei TESSITORI SABATO 7 GIUGNO ORE 14,30
passeggiata lungo la via dei Tessitori o Stra'd'la Gava, con visita alla "Machina Brusa”, per poi salire fino ai colmi di S.Eurosia di Pettinengo
accompagnatori ufficiali: i ragazzi della “Scuola Alpina di Pace” di Pettinengo
PROGRAMMA
ore
14.30
ritrovo a villa piazzo (la Caffetteria di villa piazzo sarà aperta dal mattino per colazioni e pranzo con prodotti tipici locali)
ore
14,45
partenza
ore
15,00
chiesa di San Rocco: presentazione progetto “Acquesantiere”
ore
15.15
piazza San Rocco: esibizione Banda Musicale di Pettinengo
ore
15.30
partenza per scoprire la storica “Machina Brusa'” uno dei più bei esempi italiani di archeologia industriale "come si tingeva una volta” a cura dell'Associazione Casa Clementina
ore 16,15
lungo il torrente Tamarone arriveremo alla cascina della “Galera” per poi giungere a Pianezze dove c’era il vecchio Mulino e la fabbrica Maggia, di proprietà della mamma del cardinale Maria Martini
ore 16.45
percorrendo la strada dei tessitori arriveremo alla “Gava”, luogo di estrazione di tutte le pietre da costruzione di Pettinengo “tic tuc tac, tic tuc tac” a cura dei ragazzi dell’ass. piccola fata Punto ristoro a cura dell’ass. Prato del Sole e AVIS Gruppo Colline Biellesi
ore 17.15
partenza per il Colmo di S. Eurosia , lungo il percorso si potrà assistere alla creazione di cesti di vimini da parte di Corrado Chiarini dell'Associazione Piccola Fata ed osservare una mostra sul Castagno curata della Pro Loco Vaglio Pettinengo
ore 17,45
arrivo al colmo di S.Eurosia, uno dei più bei punti panoramici di Pettinengo lettura del "Fiore della contentezza" in ricordo di Sergio Trivero a cura dei ragazzi dell’ass. Piccola Fata esibizione della Banda Musicale di Pettinengo punto ristoro curato dalla Pro Loco Vaglio Pettinengo a base di prodotti a base di castagne
ore 18,30
ritorno alla frazione Livera dove si potrà cenare presso l'ARCI (grigliate/panini .....) si consiglia di prenotare al numero 015-8445396
In caso di maltempo la manifestazione sarà rinviata al 28 GIUGNO 2014 Vuoi dormire a Pettinengo?
Vuoi mangiare a Pettinengo?
B&B Casa Clementina via Italia,6 tel 015-8446758 B&B Uva Fragola via Roma, 23 tel 015-8445585 Casa per ferie "La Casa" tel 015-8445714
La Caffetteria di Villa Piazzo Bar San Sebastiano Arci Pettinengo
il sentiero dei TESSITORI - SABATO 7 GIUGNO ORE 14,30
A Pettinengo il millenario percorso
della strà d’la gava poi detta la via dei tessitori i Se in una bella giornata estiva, per goder la frescura nella tranquilla ombra, c’incamminiamo dal Piazzo scendendo i 2100 passi (circa 1500m) che da S.Rocco (in Livera) ci portano al vecchio cantone Mulinetto di Pianezze, per risalire al colmo di S. Eurosia, e giungere allo storico trivio di Livera (circolo ARCI), può capitare che tra quei vetusti carpini e castagni, un leggero soffi, nel far stormir la fronda, vi racconti di un trascorso antico ormai dimenticato. Se così fortunati vi narrerà, del selvatico regno di orsi, lupi e cinghiali, oppure come la sua erba sfamò capre e pecore di quei primi nomadi cacciatori-pastori liguri che diedero il nome alle confluenti valli e riali (Tamarone dal suffisso celtico ona=acqua ed il più antico indoeuropeo tan=luogo ricco di acqua ossia “delle abbondanti acque risonanti”), come l’economia silvo-pastorale dell’“erbu” (il castagno: l’albero per antonomasia ancor oggi detto albero del pane) entrò in simbiosi con quella dell’onnivoro maiale. Due capisaldi dell’essenziale vivere delle passate genti, il cui risparmioso motto divenne “gnenti va sgarà” (nulla va sciupato). Fu su questi percorsi che le insubriche genti (salasse e libue) costruirono i primi rustici, nulla di più che un riparo, un muro perimetrale di pietrame posato a secco con un tetto di frasche: le celtiche tegge. Insediamenti che nel tempo si attorniarono di qualche campo coltivo, recintato di arbusti per proteggere il seminato che nella stagione fredda diveniva “al cios” ( il chiuso) dove ritirare pecoreii e altri animali. E ancora di come le ormai romanizzate genti presero a transumare con greggi e piccole mandrie, dalla piana delle betulle (Bedulium l’antico coronimo di Bioglio) o da quelle di Valdengo e Vigliano, risalendo le rive solive dei rispettivi corsi d’acqua (Guargnasca, Riasca, Cebbia…) verso i nostri dossi, proseguendo poi sull’atavico sentiero; diretta via che, attraversato il romanico “ponte concleis”, portava ai rigogliosi alpeggi valsesserini; la millenaria alpe Pixinula (alle pendici della Quara l’attuale “ piana del ponte”). Montagna affittata sin dal 1139, poi acquistata nel 1213 dalle genti di Bedulium tra cui in specifico “…gli Hominu de Pitignengo…”. Cosi mentre nel maggese alpare le tosate gregi lasciavano il loro vello a casa del Pettinario ( dal sec. VIII c.a il luogo dove si pettinava la lana e da cui il probabile etimo del toponimo Pettinengo), nel disalpare settembrino vi giungevano le saporite stagionate tome e nel ‘600 anche qualche contrabandata libbra del prezioso sale di “transito” iii. Un’attività pastorale nel tempo sempre più determinante per la ormai costituita nostra Comunità, le cui greggi venivano difese, scavavano sulle selle (bunde) di accesso alle valli, le“luvere”: trappole per i famelici lupiiv,da cui il nome di Livera. Sul fondo valle un’altra storia. Sin dal tardo medioevo sec.XV, la forza dell’acqua muove i primi mulini per macinare segala, grano, castagne, nel ‘700 in epoca preindustriale, attiva i mortai delle “folle”(folloni o gualchiere per rifinire con un leggero infeltrimento calze e maglie) riempiendo le “masere” per la macerazione della canapa. Poi dalla prima metà dell’’800, sugli stessi salti, la rivoluzione industriale ne sfrutta l’energia cinetica per azionare gli “ordigni meccanici ” delle sue nuove Macchine (Fabbriche) automatizzando le dispendiose fasi di filatura e tessitura. Oltre al dinamismo della forza idrica necessaria per le operazioni di lavaggio e tintura, si scoprì che la stessa acqua grazie all’insita sua dolcezzav, faceva risparmiare sapone, nel contempo migliorava la qualità dei capi rifiniti; una vera cuccagna! Questo è quanto si potrà rivivere calcando le nostre antiche orme!
Il percorso (rif. mappa allegorica con i punti di riferimento alfabetici A…Z di Marisa Rapa) Dai 740m di altitudine di Villa Piazzo (A), eretta agli albori della rivoluzione industriale (182030) dalla autoctona benestante famiglia Serratrice (tintori di casa reale in Torino sin dalla prima metà del ‘700), godiamo il magnifico panorama a 360° che nelle giornate terse spazia sulla sottostante pianura e l’intera coronatura alpina dalla Liguria sino al Lombardo-veneto. Scendiamo quindi lungo la strada sul versante nord del Piazzo rimirando le alpi Pennine per giungere in Livera all’oratorio di S.Rocco vi (B) sede in allestimento per l’esposizione della collezione di Acquasantiere di Sergio Trivero (un unicum europeo!) e dove al di là della via G.B.Maggia si apre la nuova omonima piazza. Prendendo a sinistra verso la soleggiata Pralba (la vecchia mulattiera per Selve Marcone) si entra nell’invaso del Tamarone e seguendo la ripida stradicciola a destra si nota la restaurata Cassin-a dl’Adele (C). Poco sotto lasciato alla sinistra il ponticello verso Selve alcune grosse pietre squadrate fungevano da reggi albero del mulino/follone Azario, costruito nel 1856 e demolito negli anni ‘80 del secolo scorso. Subito a destra una grande vasca (D) bordata da muri in pietra in relativo buono stato, la cui primaria funzione era quella di vasca di carico per far muovere più a valle gli “ordigni” della fabbrica Serra, inoltre fungeva da “masèra” ossia dove si mettevano a macerare i fasci della canapa per poi pestarli e ricavarne la rista da filare. Siamo sul tracciato della sua roggia (ormai inesistente) e con circa 140 passi gli appassionati di archeologia industriale vedranno le alte scheletriche murature della Machina brusà o fabbrica Serra (E) sorta nel 1835 (sull’ex mulino Faccio esistente nel 1798) distrutta da un incendio nel 1898vii. La foto ritrae ruderi della “machina brusà” e al Peru russ ( il sig.Lanza Piero negli anni 60) con il suo gregge. Ora la valle del Tamarone si stringe con un’ampia curva e ci si immette in regione Gora il cui nome deriva dall’esistere di due “gore”, alta e bassa, alimentanti i mulini di cantone Mulinetto. La gora alta (F) scendeva in leggera pendenza seguendo curvature altimetriche della riva destra per passare a ponente appena sotto delle case della borgata Mulinetto giungendo al mulino alto. Mentre la più breve gora bassa portava direttamente al grande mulino, il più antico ubicato sul Tamarone, questa partiva in regione Bruera dopo l’immettersi del rio Rossi (confine naturale tra Selve Marcone e Callabiana ) di cui ben esposta sulla riva soliva si vede la cascina Galera. Seguiamo tra gli alberi il sentiero per giungere ai prati della prima nuova casa della borgata Mulinetto il cui successivo vecchio nucleo raggiungiamo con una breve ripida salita. Girando intorno agli stabili fatti pochi passi in discesa troviamo (G), altitudine 600m, l’imbocco dell’antico percorso di transumanza (la strada della Gava) come ben illustra la piantina della regione Tamarona (catasto 1798). Verso il torrente scende una ripida stradina selciata: è quanto resta del nostro antico percorso che dal mulino alto dove si macinava la segala, porta a circa metà a quello medio la “pesta da riso” ed in fondo, appena sopra il torrente Tamarone dove perveniva la gora bassa il “Molino basso il più antico e grande con ben tre ruoteviii (H). Va ricordato che la pesta da riso ed il mulino alto nel 1864 vennero acquistati dalla Comunità di Pettinengo da Eusebio Maggia il quale contribuiva pure lui alla rivoluzione industriale in corso sfruttando il diritto d'acqua per la sua nuova fabbrica (I) di farsetti e “Spenser”, le particolari giacche di maglia pettinenghesiix.
La strada proseguiva sulla piana lungo il Tamarone, sotto il cucuzzolo di canton Ribatto (Callabiana) per attraversarlo verso la strada della Sorte che il passaggio obbligato del ponte Concleis” (con chiave) superava lo Strona portandoci all’alpe Camandona per raggiungere i pascoli degli alpeggi sesserini. Un passaggio obbligato dove i pastori pagavano al castellano di Zumaglia (dal 1379, e parte del secolo successivo) un odioso pedaggio x ;l’unico punto di pedaggio di animali storicamente documentato dell’intero Biellese Quello che oggi vediamo (L) nel bel mezzo dell’alveo dello Strona (altitudine 527m) non è lo storico ponte Concleis ma una versione a schiena d’asino, si pensa abbastanza simile ma eretta nel 1648 dal neo comune di Camandona dopo che una “bura” dello Strona aveva spazzato via il preesistente. Ma tornando sull’imbocco della strada della Gava (G) (il luogo più freddo di Pettinengo) segnaliamo la vicina “curva delle giasère”xi ghiacciaie; buche dove s’accatastava il ghiaccio. Da qui prendiamo a salire si seguono i bordi dei bei prati sovrastanti le case del Mulinetto e superato il dissestato sedime del tornante della cascina detta “dal Tavàn” ( epiteto della famiglia Prina Pera) troviamo i segni dei vari interventi da tempo fatti per contenere l’erosione delle acque e la limpida acqua di un piccolo riale che ci attraversa la via (M). Verso destra la regione Valgrosso dove nelle sue alte “lëmmi” (terrazzamenti artificiali in terra) si coltivava la canapa: poco è oggi visibile essendo la zona infestata dal ceduo. Invece i ruderi che si incontrano sulla destra sono i resti della cascina Brueraxii marcante l’omonima regione. Si prosegue verso una bella cappelletta (N) dedicata alla Madonna d’Oropa attorniata da santi. Ai loro piedi due peccatori penitenti ardono tra le fiamme. Nella mappa militare levata 1882 è già esistente e si tramanda che fosse stata eretta quale voto per una grazia ricevuta. Ripristinata una prima volta da Firminia Bodoria a metà del secolo scorso, nel 2008 è stata restaurata dal maestro Ugo Corsi su iniziativa di Pacefuturo. Al successivo bivio (O) che a sinistra porta alla ex cascina dal Runc (luogo dove avvenne un episodio di guerra 1943-45xiii) mentre a destra ai ruderi della cascina detta “della Gava”, un’importante proprietà ricca di terreni appartenente nel 1798 alla famiglia Bodoria la molto probabile costruttrice del predetto pilone votivo. In regione Gava, segnalata dal traliccio della linea elettrica aerea dell’alta tensione vi è una bella spianata coronata da una serie di secolari castagni le cui bianche castagne venivano un tempo non troppo lontano barattate alla pari con sacchi di meliga provenienti dalla pianura. Sul lato a monte l’ampio accesso dove si estraeva la pietra, la nostra Gava. (P) che si raggiunge zigzagando tra il bosco ceduo sino sotto alla zona d’estrazione. Rivolto all’insù lo sguardo davanti a quella muta e maestosa parete, si comprende quanto duro fosse il lavoro del cavatore. La pietra andava “cavata”, ossia staccata dalla montagna spaccandola con cunei, facendo leva con i levarini (o l’esplosivo), poi sbozzata con mazza e scalpello più altri arnesi, i “picaperi” ne ricavano colonne, architravi, soglie, cantùn, cubìt, che ritroviamo nelle vecchie case del paese. Queste lavorazioni si eseguivano nel successivo piccolo imbocco dove i manufatti venivano da lì caricati “sal tumbarel” (piccolo carro a due grandi ruote) e portati a destinazione xiv. La foto ritrae “al Pin “ (il proprietario sig. Giuseppe Selva) a fine anni 30 con il suo cavallo bardato per muovere il grosso pietrame e alcuni cavatori. Ritornando al percorso: a lato i grossi carpini ci conducono curvando a destra verso un grosso masso segnante il varco d’accesso (Q) al panoramico “Campaccio”: un ampio prato da cui la vista in alto
spazia dai monti di Oropa alla valle di Andorno e Bielmonte (panoramica Zegna), mentre sull’antistante collina vediamo adagiate le borgate di Selve Marcone. La strada diviene pianeggiante raggiungendo l’imboccatura della strettoia per Livera (R) (altitudine 703m) con a sinistra il recintato casotto del nuovo pozzo da cui verso valle scende il sentiero dell’antico lavatoio del “Nosuggiu”, mentre a destra prende lo sterrato che porta nelle regioni Gorghetto, Sella, Gavanella, Piane dove poco dopo prende a salire il sentiero verso il colmo di S. Eurosia. Proseguiamo in questa direzione passando a lato dei serbatoi dell’acquedotto comunale (S posizionato sopra Livera sul rialzo del “Basciat”) raggiungiamo così il falsopiano con tracce di vecchi prati e lime. I terrazzamenti dove ancora nella prima metà dell’800 si seminava orzo e segala quest’ultima molto duttile si prestava quale buon foraggio per muli e asini o per far farina di pane scuro (il pane bianco quello di grano divenne dì uso comune solo nella seconda metà dell‘800), impastata diveniva polenta o anche merce di scambio per onorare le decime ecclesiali. Raggiunto il crinale del colmo intermedio si discende lentamente intravedendo la borgata Piane per risalire verso gli 823m di altitudine del colmo di Sant’Eurosia (T). Dall’alto poggio si gode una vista spettacolare. L’antistante Panoramica Zegna con il suo monte Rubello pare lì a portata di mano. Per questa ragione nell’inverno del 1306-7 dalle truppe crociate del vescovo di Vercelli qui venne costruita una bastia al fine di controllare i gazzarri dell’eretico Dolcinoxv. Oggi la sola traccia rimasta sono dei terrazzamenti o fossati perimetrali, al centro dei quali probabilmente, dopo il XVII sec. venne eretta una cappelletta (restaurata nel settembre 2008 dal pittore Pietro Crida) intitolata alla giovine martire boema Sant’Eurosia protettrice dalle intemperie xvi. Ridiscendiamo tornando all’imbocco della strettoia (R) si prosegue tra due muri d’ala in pietra verso le prime case di Livera. Sul muro d’angolo di sinistra che segna un piccolo slargo all’altezza d’uomo (150 cm sul piano strada) in vista un cantun porta inciso “1762”, la piccola porta (U) che lo precede, immette nella cantina del sig. Achille Maggia dove esiste la bocca di un’antica fornace per terrecotte: piatti, pailàt, coppi. Fatti una cinquantina di passi lo slargo dove esisteva il forno comune (V) nello stabile di proprietà della fam.Chiappa, demolito ormai fatiscente nel 1969. Chi scrive ricorda la pesante macina (molto probabilmente mossa da un asino) locata nel vicino seminterrato antistante (di proprietà della signora Marì Trivero in Fantuzzi figlia del “Gaio”, il prestinaio pasticcere dei famosi “turcit ad Petneng” xvii. Siamo così giunti alla fine del nostro percorso sul trivio (Z), davanti al Circolo Famigliare A.R.C.I. Nel cuore della borgata Livera, punto d’origine dell’atavico nostro sentiero che attraversato il “ponte concleis” risaliva per giungere ai lontani e rigogliosi alpeggi valsesserini. Fu questo millenario rito di transumanza ad originare Pettinengo. Un percorso, che nel catastrofico evento dell’alluvione del 2-3 novembre 1968, risultò l’unico agibile, seppur a piedi, in grado di garantire l’affluire dei primari soccorsi alle sfortunate genti della Vallestrona. Diversi furono i morti e molte le fabbriche distrutte. Con i finanziamenti ottenuti per riavviare alcune aziende si decentrarono verso il piano dove vi era maggior spazio e migliore viabilità. Iniziò così la fine del comparto tessile stronese; le impetuose acque (questo è il significato celtico del nome Strona) che centocinquant’anni prima ne avevano promosso la nascita, divenute per una notte dirompenti, ne segnarono il suo declino. 2014-maggio-5
Derivato dalla ricerca di storia locale di Mario Menegon
i Per i più anziani l’indicato percorso viene detto “la strà d’la gava”, la strada della cava, da dove nel tempo sono state estratte le pietre ed il sabbione di tutte le vecchie case di borgata Livera. Solo recentemente viene denominato “ la strà dai tassiùr “, la strada percorsa dai tessitori, essendo la via più breve per raggiungere i sottostanti lanifici. Dall’odierna toponomastica ufficiale, questo tratto viene ad essere la parte più alta della via XXIV Maggio. La via inizia a Livera (700m di altitudine) per scendere nella valle della regione Tamarona poi, attraversata la regione Pianezze (527m di alt.), segue la riva sinistra dello Strona, per giungere alla Romanina: con i suoi 3,9 km risulta la via più lunga di Pettinengo. ii L’abbondante lana ricavata dalla tosa delle pecore (prima di alpare tra aprile maggio) veniva “pettinata” in fiocco (ossia mondata e scardassata) per essere da chi restava a casa poi filata. Un’attività che, una volta acquisita la materia prima, poteva esser programmata e svolta nella lunga stagione invernale o in altri momenti di relativa calma. Una produzione che prese piede al punto da creare col tempo il toponimo Pettinengo, ossia luogo dei pettinari. Col passar del tempo, Pettinengo si impose sul mercato producendo calze e calzetti grazie alla manodopera poco pagata e alla qualità resistente (essendo fatti a triplo filo). La produzione era controllata dai negozianti locali che, fornendone la lana, commissionavano ad alcune famiglie la filatura a mano e ad altre la successiva lavorazione a maglia. Si producevano non solo calzetti ma muffole (guanti ad un dito), berrette, farsetti, maglie, mutande. Il tutto frutto di un instancabile sferruzzare con l’ausilio dei classici quattro ferri, sfruttando ogni ritaglio di tempo sull’uscio di casa, al pascolo, alla sera nelle stalle an vëggia... praticamente un po’ ovunque. Nell’anno 1752 la relazione sulla comunità di Pettinengo dell’intendente provinciale delle finanze Blanciotti, riporta l’esistere di circa 2.000 anime in grado di produrre una media di .000 – 1.500 paia di calze al giorno e tutti i componenti della famiglia, donne, uomini e anziani, attivamente contribuivano a partire dai bambini di 4-5 anni. Nel lontano 1777 a Pettinengo esercitavano 15 negozianti-produttori con alle dipendenze ben 630 operai. iii Una curiosità: nel ‘600 e ‘700, come in quasi tutto il regno sabaudo, la gente di Pettinengo era soggetta “alla levata del sale”, ossia al forzato acquisto annuale di una definita quantità di sale in funzione del numero di componenti il gruppo famigliare e degli animali posseduti. Vera e propria tassa detta “del sale” da tutti pagata a prezzo rincarato, stabilito per legge delle regie finanze. La vicina ma lombarda Valsesia, godeva di un’autonomia amministrativa ed esenzioni fiscali per cui lì era possibile avere sale a costo di mercato. Era il cosiddetto sale “di transito” che finiva contrabbandato lungo le vie della transumanza dagli stessi pastori al rientro dagli alpeggi, in special modo da quelli posti ai confini con la Valsesia, di cui uno dei più estesi era la Peccia (che la nostra comunità acquistò intorno al 1630). Quindi nel disalpare autunnale, nelle dondolanti “cavagnole” risalenti da Pianezze a Livera sul basto sull’asino, con le stagionate tome sicuramente vi era modo d’infilare qualche libbra di prezioso sale, indispensabile ingrediente per dare sapore ai cibi non ultimi gli invernali salami e la rustica polenta. iv
Luvere fosse circolari con diametro di 1,5 - 2 metri, profonde circa 2 metri con l’imbocco svasato in alto ( ad imbuto). Queste venivano ricoperte con fogliame sorretto da leggere frasche e nel mezzo, si poneva l’esca (carcasse o parti di scarto d’animali). Nottetempo, spinto dalla fame, il lupo vi si avvicinava per procacciarsi la preda, rovinando nella fossa intrappolato. Il coronimo del nostro cantone “Livera” trae origine segnando il luogo dove esistevano copiose le predette “luvere”. v L’acqua del biellese orientale (particolarmente “dolce”) possedeva un valore intrinseco, riconosciuto già in passato vantaggioso per la lavorazione del vello ovino. Priva di durezza permanente o temporanea, perché scorrente in terreni privi di gesso o calcari, l’acqua biellese consente di ottenere le emulsioni necessarie per il lavaggio e la rifinitura delle stoffe con minore quantità di sapone e minori pericoli di precipitazione di sali. Così le tintorie potevano usufruire di acqua allo stato naturale, anziché di acqua corretta, il che portava a notevoli risparmi nell’uso di sostanze neutralizzanti. vi Antico oratorio esistente sin dal 1606 la cui attuale struttura barocca è il risultato di un rifacimento iniziato per la volontà degli uomini del cantone detto alla Piazza (ossia Livera) nel 1661 e conclusosi nel 1781. Gestito dalla determinata compagnia dei Disciplini a cui si deve nel lontano 1673 “l’acquisto con 2,5 lire “ il libero dal fabeto “ quindi un abecedario per fare scuola, spendono poi “ 3 lire per un para di calcetti donati a persona che ha servito la compagnia” : è il più remoto riferimento documentato di calzetti pettinenghesi! I Disciplini tra i costi del 1714, il più vetusto riferimento dell’arte magliaia pettinenghese, di 16 £ , “ per un rubbo (pari a 9,22 kg ossia 25 libre ) di lana per fare calcetti ...” è l'accenno più antico dell'attività del fare a maglia Pettinenghese. In data 20 ottobre 1715 è segnato " di aver tirato (incassato) per li calcetti venduti 56£”. vii Intorno alla metà dell’800 a Pettinengo inizia la produzione “industriale” della maglieria. In regione Gorra (sotto Livera) la fabbrica Serra (ex mulino Faccio ora “machina brusà”) non farà solo calzetti ma si amplierà producendo panni lana; a metà ‘800 nel bel mezzo del paese nasce la Bellia Bernardo che poco dopo prenderà a produrre a livello industriale maglie ma grazie alla forza delle importate macchine a vapore. viii
Il 26 ottobre 1425 il Capitano Aimone signore di Castelvecchio, a nome del Re rilascia le patenti per un mulino con 3 ruote in regione Molinetto Pianezze. Per quanto è dato sapere è il primo mulino della comunità di Pettinengo. Vi erano una pesta da canapa e due macine per la farina di segala. Si aggiungono poi una pesta da riso e una macina per meliga bianca. Come Luigi Spina informa, verso la fine del ’700 il locale della pesta da riso venne poi convertito in follone per “stoffa e calzetti” utilizzando la stessa forza idrica del torrente: il primo macchinario per attività tessile in Pettinengo. ix Per gli appassionati di archeologia industriale nella vicina Pianezze il mulino di Callabiana ( probabilmente sul torrente Soccasca) è rilevato dai pettinenghesi Fratelli Musso che sfruttandone la forza motrice ne faranno una tessitura sviluppatasi lungo il proseguo del torrente Strona. Ma nel territorio di Pettinengo lungo la Strona sorgeranno altri opifici: la fabbrica Mino, la ferriera Viotti e alla Romanina la ditta Quaregna. Cosi dicasi nella sottostante Vallemosso. Questo incremento produttivo richiese la movimentazione di nuovi e pesanti macchinari, grandi partite di materie prime da lavorare, notevoli quantità di prodotti da consegnare. Indispensabile diviene l’utilizzo di carriaggi a quattro ruote più grandi e
robusti, i cosiddetti “cartùn”, trainati da 2, 4 ed anche 6 coppie di robusti cavalli (che saliranno da Biella verso il neo polo industriale di Pianezze proseguendo per quelli di Mosso S.Maria e Vallemosso). L’imboccatura della Gava nel cuore di Livera risultava troppo stretta, l’ampliarla avrebbe significato sventrare tutta una serie di case. Così, a soddisfare le nuove esigenze, venne progettato un diverso percorso, ossia il prosieguo della provinciale BiellaValsesia ( realizzata negli 1840 lascito G.B.Maggia) ferma alla regione Riva (attuale trivio sotto le Piane) proseguisse verso Banchette per scendere da qui a Pianezze e proseguire lungo il fondo valle dello Strona verso Mosso. Il progetto è approvato nella seduta del consiglio provinciale del 3 settembre 1860. Ciò permise l’entrata in funzione di un corriere (carreggio trainato da cavalli) che prese a far servizio (passeggeri, posta e merci) da Biella a Valle Mosso. La nuova strada incontrerà la vecchia appena fuori del cantone Mulinetto esattamente nel curvone detto “delle giasère”. Comunque la nostra via resterà, ancora per circa un ¾ di secolo, il tradizionale percorso (risultando il più breve) scelto da coloro che dai vari cantoni di Livera, Gurgo, S. Francesco, Vaglio Pettinengo ogni giorno a piedi andavano e tornavano dagli opifici sul fondo valle. Nei primi siti industriali per avviare gli importati nuovi assortimenti di carderia, filatoi, telai meccanici, serviva aprire la saracinesca dell’acqua che mettesse in moto le trasmissioni “cinematiche”, tale azione divenne il tradizionale motto dei tessitori “dai l’aua”, ancor oggi utilizzato per dire “avvia il telaio”, ovviamente ora si schiaccia un pulsante; della saracinesca dell’acqua forse neanche più un vago ricordo. x Il 3 novembre del 1379, il Conte Verde Amedeo VI di Savoia nomina castellano di Zumaglia il nobile Domenico des Hérères dei signori di Vallesa, concedendogli il godimento del pedaggio del ponte Concleis. L’attraversamento per i pastori e loro famigliari era gratuito mentre gli animali pagavano 5 soldi ogni 30 capi di bestiame transumante. xi Un punto freddissimo, così definito perché una volta vi erano delle buche che durante l’inverno venivano riempite di neve e ghiaccio e ricoperte di paglia. Il ghiaccio veniva poi estratto nella bella stagione secondo la bisogna. xii Due considerazioni d’obbligo. Quelle che oggi appaiono ammassi di pietre abbandonate, sino alla prima metà del ‘900 erano delle fiorenti realtà abitate da intere famiglie con tanto di stalla, fienile e prati, esistevano ben prima della fine dal ‘700 e non a caso, a quei tempi, risultano di proprietà di possidenti del paese, fatto che di per sé mostra quanto fossero prospere le regioni sulla riva destra del Tamarone, mentre buona parte dei pascoli e dei boschi a monte, era di proprietà comunale (ossia della Comunità sino a circa il 1850). xiii Nella gelida notte tra il 14-15 gennaio 1945, l’Arabo (Il partigiano diciannovenne concittadino Vaglio Jors Cesare) mi raccontò come con altri compagni stremati dal freddo e dalla fatica di una marcia, raggiunta al cascina dal Runc, si addormentarono “sal tepu dal fen” ( sul fienile) ma a causa del rastrellamento da parte dei fascisti repubblichini e tedeschi, si videro la morte in faccia. xiv Dalla metà del 1800 la famiglia Selva è proprietaria della cava. Sino al 1944 vi si estraeva la sua pietra grigio-biancastra a volte rossastra di media granulometria detta gneiss. A ben guardare questa pietra la ritroviamo nei cantonali di quasi tutte le vecchie case di Livera, nell’oratorio di S. Rocco e ovviamente negli stabili delle limitrofe borgate e cascine, palese prova di quanto possa risultare ben più antico il suo sfruttamento. xv
Per questo nell’inverno del 1306-7, il vescovo Raniero Avogadro volendo stringere l’accerchiamento del monte Rubello, dove gli eretici di frate Dolcino s’erano asserragliati, fece costruire più a valle cinque bastie; punti d’osservazione per presidiare i valichi di accesso, una di queste venne innalzata proprio sul colmo sopra le Piane. xvi
S.Eurosia. Un culto per una giovinetta martire, a cui il saraceno Aben Lupo tagliò mani e testa, portato nell’Italia del nord tra i secoli XVI e XVII dalla dominazione spagnola; invocandola si sedavano temporali e tempeste. Quindi non più scudo contro le ormai obliate saette eretiche, ma per la ruspante credenza taumaturgica di saper debellare i neri nembi della grandine salvando i sudati raccolti. xvii
“turcit ad Petneng” Praticamente dei grissini (quindi pasta di pane) piegati in due per dargli la classica forma a goccia (larga 5-6cm e lunga una decina) le cui estremità si univano attorcigliate (“torte” da cui il nome torcetti), dolcificati con acqua e miele oppure spolverandoli di zucchero semolato, dopo due ore a lievitare erano cotti per una ventina di minuti sulla bocca del forno, quello comune del paese ( dove un tempo tutte le famiglie insieme cuocevano il pane). La cottura avveniva in attesa che il fuoco a legna portasse il forno in temperatura sufficientemente alta per il pane. Fu solo dal 1800-1830 in poi che quei grissini di pane dolce (dopo varie personalizzazioni dal tipo di farina all’aggiunta del burro e altro…) divennero un vero prodotto di pasticceria secca. Dopo la seconda metà dell’800 ormai dismesso l’utilizzo del forno comune, a Pettinengo diversi sono “i panettieri e pasticceri “ che sfornavano insieme ai grissini i loro “turcit” . Ancora attivi nella prima metà del ‘900 si rammentano il sig. Trivero Tancredi che riforniva l’ex alimentari Malvina, sua moglie (con il negozio sito poco prima del bivio che da Livera porta in cantone Chiappa) e Trivero Camillo detto Gaio (con il negozietto prospiciente all’attuale piazza S.Rocco). Ognuno con i propri turcit e relativa “segreta” ricetta. Il Tancredi, così raccontava il figlio Sergio “…nel ritrovato suo libricino delle dosi per fare i vari tipi di pane, riportava anche quelle per le meringhe, al panatun e altri dolci, ma non quella dei suoi torcetti ; la custodiva nel segreto della sua memoria, così quando se ne andò la portò con sè! Il pasticcere Gaio la passò alla figlia Marì che in là negli anni nel chiudere l’attività (anni ‘80) cedette la ricetta ad una rinomata pasticceria di Sala biellese, i cui torcetti industrializzati con stupore li ritrovai, confezionati in una infiocchettata scatola trasparente, in una vetrina di…Bari! Dovevano esser prelibati se sinanco ai primi anni 50 del secolo scorso vi erano donne che da Pettinengo con la gerla in spalla andavano a venderli nelle vicine sagre paesane e settimanalmente nei mercati di Biella, Andorno, Valle mosso a volte su sino a Mosso S.Maria.