IL RIORDINO DELLA TASSAZIONE DEI REDDITI FINANZIARI NELLA PROSPETTIVA DELL’UME VINCENZO VISCO *
Alla fine di maggio del ’96 illustrai gli orientamenti di politica fiscale ai quali il governo appena formato si sarebbe attenuto alla Commissione Finanze della Camera dei Deputati. In quella sede istituzionale mi sembrò doveroso fare cenno all’intenzione di affrontare, oltre ai numerosi altri problemi della fiscalità italiana, anche quello della tassazione dei redditi da capitale. Mentre stavo ancora parlando, quelle mie poche battute vennero riprese dalle agenzie internazionali e un’agenzia inglese, traducendo in modo approssimativo il testo scritto del mio intervento, diramò dispacci che annunciavano la mia intenzione di reintrodurre la tassazione dei guadagni di capitale, che in Italia era stata sospesa dal 1992. In pochi minuti la Borsa ebbe una brusca caduta che venne recuperata solo dopo che feci diffondere comunicati tranquillizzanti in proposito. Questo episodio mi è tornato in mente quando, un anno più tardi, presentai al Parlamento il decreto delegato di riforma della tassazione dei redditi da capitale: in quel decreto era compresa, naturalmente, anche la reintroduzione della tassazione dei guadagni di Borsa. Ma la reazione dei mercati finanziari fu, in questo caso, positiva e numerosi osservatori attribuirono all’annuncio di quella riforma parte dell’origine dell’impennata dei mercati borsistici che si ebbe in Italia nell’estate del ’97. Adesso che siamo alla vigilia dell’entrata a regime della riforma, le aspettative dei mercati sono positive e si può riscontrare un generale favore verso il nuovo regime. Le uniche perplessità, infatti, riguardano alcuni settori del mondo bancario preoccupati della propria capacità di gestire tempestivamente dal punto di vista tecnico le nuove responsabilità che gli competono. Credo che due fattori siano alla base dell’accoglienza positiva riservata ad una riforma che alcuni commentatori meno attenti avevano preconizzato come portatrice di gravi turbative sui mercati borsi————————————— * Ministro delle Finanze.
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stici e come potenziale deterrente capace di scoraggiare gli investimenti e stimolare la fuga dei capitali. In primo luogo un’imposta semplice, razionalmente costruita e molto moderna come concezione appare preferibile ad una situazione in cui l’imposizione può anche essere evitata ma il regime fiscale complessivo è disordinato, incerto, ambiguo: il costo degli arbitraggi fiscali non è infatti irrilevante, mentre i nuovi criteri di neutralità del prelievo rispetto alle tipologie di reddito (interessi, dividendi, plusvalenze) introducono, nei mercati, forti elementi di libertà nell’allocazione degli impieghi. In secondo luogo un fattore di gradimento è certamente rappresentato dalle ampie possibilità di detrazione delle minusvalenze nei confronti di tutti i redditi da capitale, che per l’Italia e non solo per essa, rappresenta una novità assoluta. Aggiungerei però anche un terzo elemento di rilievo: la forte spinta verso un mercato dei capitali ordinato rappresentata dalla più favorevole tassazione prevista per il risparmio gestito o amministrato. Su questi concetti tornerò più avanti per un maggiore approfondimento. Per ora è bene chiarire le ragioni che hanno determinato l’urgenza di questa riforma, gli obiettivi che ci siamo prefissi e la loro convergenza con la politica fiscale che si sta cercando di affermare a livello europeo. Le principali finalità della riforma dell’ordinamento italiano sono due: — In primo luogo disegnare un sistema generale ed omogeneo di tassazione dei redditi finanziari, ivi comprese plusvalenze e proventi dei prodotti derivati, il più coerente possibile con la tassazione dei profitti societari nella consapevolezza che solo un sistema con queste caratteristiche può garantire l’equità e l’efficienza del prelievo e, in collegamento a ciò, può risultare capace di prevenire i diffusi fenomeni di elusione fiscale che alterano le condizioni di concorrenza sul mercato, hanno effetti distributivi non voluti e possono compromettere il gettito. — In secondo luogo disegnare un sistema trasparente e comprensibile, e quindi semplice per il contribuente, riducendo al minimo gli adempimenti richiesti al contribuente stesso. Questa finalità è in particolare perseguita attraverso il mantenimento dell’attuale sistema di prelievo sostitutivo sui redditi di capitale, anonimo e sufficientemente contenuto, anche ai fini di non incentivare la fuga di capitali verso altri paesi e il maggior coinvolgimento degli intermediari finanziari nell’accertamento e nel prelievo dell’imposta. Nella riforma viene quindi confermata ed accentuata la scelta di fondo, compiuta nel 1973 dal legislatore italiano, vale a dire assoggettare i proventi delle attività finanziarie ad un prelievo sostitutivo proporzionale, con ampio ricorso a ritenute alla fonte, piuttosto che al regime progressivo sui redditi personali. Nel tempo si erano andati 12
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stratificando numerosi interventi, quasi sempre suscitati dalla volontà politica di evitare il diffondersi di strumenti finanziari innovativi e quindi penalizzando di fatto le prospettive di evoluzione e ammodernamento dei mercati finanziari italiani. La situazione che si era creata, appariva pertanto caratterizzata: — per quanto riguarda i redditi di capitale, e secondo un’opinione ampiamente condivisa, da scarsa trasparenza, eccessiva complessità, iniquità e inefficienze, determinate dalla coesistenza di un insieme variegato di regimi, di aliquote ed esclusioni, non riconducibili ad un disegno razionale di prelievo; — per quanto riguarda invece le plusvalenze, da una tassazione confinata al solo comparto dei titoli partecipativi e sospesa, da fine ’92, per i titoli quotati. In sostanza, la situazione che si era creata conteneva il dato paradossale di rendere talune forme di reddito da capitale fortemente incentivate rispetto ai redditi d’impresa, ma contemporaneamente si soffocava ogni possibilità di sviluppo e di crescita dei mercati finanziari. Si trattava, in tutta evidenza, di una situazione sulla quale era urgente intervenire anche per non vanificare i benefici effetti che la riforma fiscale si proponeva sul versante della tassazione dei redditi da impresa, incentivando la capitalizzazione delle aziende e riducendo fortemente il prelievo sugli utili. La necessità di un riordino di fronte a tale stratificazione era poi consigliata dal processo di internazionalizzazione degli scambi e all’approssimarsi dell’UME. A partire dal 1º luglio 1998 saranno colpiti dall’imposta tutti i redditi derivanti dall’impiego finanziario del risparmio: i «redditi di capitale», cioè interessi obbligazionari e/o da depositi ed i dividendi delle azioni, e i « redditi diversi», cioè i guadagni di capitale. Tra questi ultimi sono comprese tutte le plusvalenze, anche quelle sui titoli obbligazionari e/o pubblici, sulle valute, sull’oro ed infine i proventi da operazioni sui derivati. La modifica del meccanismo del prelievo è articolata in modo tale da definire binari coerenti ed omogenei per la tassazione di tutte le tipologie di reddito finanziario così da permettere, attraverso un impianto normativo flessibile, un adeguamento alle possibili innovazioni provenienti dai mercati finanziari. È prevista dunque un’articolazione con due sole aliquote di tassazione – 12,5 e 27 per cento – non riferite alla tipologia delle rendite finanziarie e prelevate alla fonte attraverso gli intermediari. Per quanto riguarda i «redditi di capitale » sui titoli pubblici, indipendentemente dalla loro scadenza, è confermato un prelievo del 12,5 per cento come previsto nella legge delega. Le aliquote relative alle altre attività finanziarie vengono invece differenziate in funzione sia della scadenza che della natura delle partecipazioni azionarie. In rela13
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zione alla scadenza, sono soggetti al prelievo del 27 per cento i titoli a breve termine (sotto i 18 mesi), a quello del 12,5 le attività finanziarie a medio-lunga scadenza (oltre i 18 mesi). La tassazione dei « dividendi», invece, si articola secondo la natura della partecipazione: «qualificata» o « non qualificata». Per definire la natura « qualificata» delle partecipazioni le nuove regole seguono, rispetto al vecchio regime, criteri più ampi. Dal semplice riferimento alle percentuali di partecipazione al capitale della società (2, 5, 10 per cento, rispettivamente per Spa quotate, per Spa non quotate, per Srl e altre società) si passa a un doppio limite. Si tiene cioè conto del peso dei diritti di voto dell’azionista (con soglie: del 2 per cento delle azioni con diritto di voto e/o 5 per cento del capitale, nel caso di società quotate; del 20 per cento delle azioni o quote con diritto di voto ovvero del 25 per cento del capitale, per le società non quotate e per le Srl e le altre società). Per le partecipazioni « non qualificate» è prevista la tassazione ordinaria: vale a dire l’applicazione di una « cedolare secca » del 12,5 per cento. Anche i dividendi delle azioni non quotate – oltre a quelli delle azioni quotate, delle azioni di risparmio e di quelle delle banche popolari – saranno sottoposti al prelievo definitivo alla fonte. Il regime della « cedolare» sarà comunque lasciato alla scelta del risparmiatore il quale potrà scegliere l’imposizione progressiva in dichiarazione annuale, senza prelievo alla fonte e con riconoscimento del «credito d’imposta » per i tributi pagati a monte dalla società. In questo caso, il nome del risparmiatore sarà segnalato al Fisco. L’imposizione personale progressiva riguarda, comunque, tutti i dividendi e gli altri utili derivanti da partecipazioni « qualificate». Con questi criteri si coniuga, del resto, anche la riforma della tassazione delle operazioni di ristrutturazioni aziendali (fusioni, acquisizioni e scissioni) e le norme volte a semplificare l’imposizione sui dividendi degli investitori non residenti, particolarmente attente allo sviluppo della Borsa. Per queste ultime la misura del prelievo alla fonte viene ridotta dal 32,4 al 27 per cento; è altresì introdotta una procedura innovativa per consentire direttamente, attraverso la banca che corrisponde i dividendi, l’applicazione della minore ritenuta prevista dai Trattati contro la doppia imposizione. Nel corso di un processo di privatizzazione e quotazione del sistema paese appare evidente il beneficio per la Borsa di un flusso fresco di capitali esteri che potrebbe derivare da dette misure. Per le plusvalenze (cioè su quelli che abbiamo definito « redditi diversi ») viene applicata un’aliquota del 27 per cento se la partecipazione societaria è «qualificata ». Per le partecipazioni « non qualificate», l’aliquota è al 12,5 per cento, alla stregua dei titoli di Stato e delle altre obbligazioni e attività finanziarie. Anche le procedure stabilite per gli adempimenti e per il versamento dell’imposta rappresentano una rilevante novità. Esse favoriscono 14
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lo spostamento dell’onere degli adempimenti dai contribuenti agli investitori istituzionali, banche e altri intermediari. Ai contribuenti è conferita la facoltà di scegliere fra tre diversi regimi per la tassazione delle plusvalenze: il regime della dichiarazione annuale dei redditi; quello del risparmio « amministrato» (nel caso in cui il risparmiatore abbia depositato in custodia presso la banca i propri titoli e questa curi l’incasso delle cedole, il rimborso alla scadenza del titolo, il pagamento dei dividendi); quello del risparmio «gestito » (nel caso di un rapporto di gestione individuale, quando cioè il risparmiatore abbia affidato all’intermediario l’incarico di gestire il proprio patrimonio). L’opzione fra l’uno o l’altro dei tre sistemi, tuttavia, non è consentita per le plusvalenze derivanti da cessioni di partecipazioni qualificate, per le quali il prelievo si effettua sempre in sede di dichiarazione annuale dei redditi nella misura proporzionale del 27 per cento: gli intermediari dovranno sempre segnalare il nominativo del percettore e il prezzo di vendita della partecipazione. In questi casi, l’onere di calcolare e versare l’imposta sulle plusvalenze ricade sempre sul singolo risparmiatore e il prelievo definitivo, proporzionale del 12,5 per cento, avviene in via definitiva e liberatoria nell’anno successivo a quello in cui il guadagno è realizzato. Anche in questo caso, tuttavia, si potranno compensare le perdite subite e data l’assenza di un prelievo alla fonte, l’intermediario finanziario, di cui si avvalga il risparmiatore nelle operazioni, è tenuto in maniera sistematica ad effettuare una specifica segnalazione al Fisco. Diverso il caso in cui il risparmiatore si affidi ad un regime di «risparmio amministrato», o di «risparmio gestito ». Se questa è la scelta, il contribuente si libera di ogni carico burocratico-amministrativo nell’adempimento fiscale: il prelievo viene effettuato dall’intermediario presso cui il deposito è in amministrazione o in gestione, senza alcun obbligo di segnalazione del contribuente che mantiene così l’anonimato. Vi sono però due importanti differenze che vanno sottolineate fra i due regimi. La prima riguarda il momento del prelievo: per le gestioni patrimoniali il prelievo avviene al momento della mera maturazione; per i depositi amministrati avviene quando il guadagno è effettivamente realizzato. La seconda riguarda i diversi margini di compensazione fra perdite e guadagni. Da questo punto di vista, il regime del « risparmio gestito » appare più vantaggioso, in quanto è l’unico che permette un approccio aggregato alla tassazione attraverso la deducibilità delle minusvalenze e delle altre perdite, non solo nei confronti delle plusvalenze, ma anche nei confronti di importanti categorie di redditi di capitali (quelli tassati al 12,5 per cento), interessi sulle principali tipologie di titoli 15
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obbligazionari e dividendi. Tali redditi confluiscono infatti nel risultato di gestione, e ne costituiscono quindi una componente positiva, che può essere diminuita da componenti negative, rappresentate appunto dalle minusvalenze maturate o dalle perdite sui prodotti derivati. Anche per i fondi, come per le gestioni individuali, le perdite possono essere portate in deduzione su tutti i redditi conseguiti, senza distinzione tra interessi, dividendi, plusvalenze o altro genere di proventi. I risparmi collocati in diversi fondi, ma gestiti dalla stessa società, possono godere come ulteriore vantaggio di una innovativa forma di compensazione orizzontale. Il nuovo regime si applicherà ai guadagni che si configureranno a partire dal 1º luglio 1998. Per la determinazione delle plus/minusvalenze, il valore dovrà essere confrontato, in linea di principio, con il valore di mercato del titolo al 1º luglio 1998, secondo la media dei valori dell’ultimo mese di giugno. Resta ferma, naturalmente, la possibilità per il contribuente di assumere, quale valore di riferimento, il costo effettivo d’acquisto. Coerentemente con il riordino della tassazione delle attività finanziarie è stato varato un altro decreto che regola l’imposizione indiretta sulle transazioni dei valori mobiliari: dal gennaio scorso la tassa sulle operazioni svolte sui mercati regolamentati è stata abolita eliminando le distorsioni che potevano favorire l’attività degli intermediari esteri. A completamento ed integrazione del decreto di riforma il 3 giugno scorso il Governo ha approvato in via definitiva un ulteriore decreto. Con questo provvedimento viene introdotto il meccanismo del «silenzio-assenso » per permettere, in caso di mancato utilizzo dell’opzione da parte del contribuente-risparmiatore, l’automatica applicazione del regime di imposizione alla fonte, ribaltando in questo modo la precedente presunzione in favore dell’intermediazione. Significativa inoltre è la norma integrativa che equipara in via generale i titoli dello Stato italiano a quelli emessi da organismi internazionali, tra cui la nuova Banca centrale europea. L’avvento dell’UME ha reso poi necessaria l’introduzione di specifiche semplificazioni procedurali, nonché di un generale regime di esenzione dalla tassa sugli scambi per le operazioni di politica monetaria all’interno del nuovo Sistema Europeo delle Banche centrali. Infine si sono semplificati gli adempimenti per la stima dei valori da assumere come costo iniziale di riferimento per il computo delle plus o minusvalenze e si è reso più agevole l’assolvimento delle imposte sulle partecipazioni assoggettate al regime in vigore nel 1991, per le quali il risparmiatore desideri affrancare le plusvalenze maturate fino al 30 giugno. L’intento principale del decreto correttivo è evidentemente quello di facilitare il più possibile l’avvio del nuovo regime. 16
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L’impianto così predisposto appare completo e le richieste di posporre la sua entrata a regime, anche alla luce di recenti incontri con operatori nazionali ed internazionali, appaiono ad una più attenta analisi infondate e velleitarie. A maggior ragione se si considera l’entrata in vigore del suddetto decreto di rettifica nel quale, d’altra parte, sono state accolte molte delle recenti osservazioni della Commissione dei Trenta come significativamente il differimento, in linea generale, delle procedure di prelievo e versamento dell’imposta sostitutiva nel cosiddetto periodo transitorio con l’evidente intento di agevolare l’adattamento degli intermediari al nuovo sistema. Di fronte all’accelerazione dei processi di globalizzazione dei mercati dei capitali, la tassazione delle attività finanziarie appare sempre più un elemento discriminante nella competizione fiscale per il risparmio ed induce a ridisegnare i sistemi tributari in modo da adattarli al mutato contesto finanziario. La liberalizzazione del mercato dei capitali e la loro accentuata mobilità impongono ai sistemi di tassazione di non penalizzare il capitale rispetto a quanto avviene negli altri paesi. Il contenimento della fuoriuscita di risorse e la correzione delle distorsioni fiscali possono e devono conseguirsi attraverso una più stretta convergenza dei sistemi tributari. In particolare, per ciò che riguarda la fiscalità del risparmio, il Governo italiano è in completa sintonia con la Commissione Europea sulla necessità di provvedere al più presto ad un coordinamento comunitario nella tassazione delle rendite finanziarie. Sembra infatti assodato che nella tassazione il fattore capitale sia privilegiato, grazie anche alla mobilità, caratteristica che gli è propria, a discapito di altri fattori di produzione ed in particolare del fattore lavoro, compromettendo come sembra evidente la competitività internazionale della Unione Europea nel suo complesso. Inoltre, l’ormai certa realizzazione dell’Unione Monetaria Europea accentuerà enormemente la caratteristica di mobilità e volatilità del capitale accentuando considerevolmente le distorsioni che provocano significative erosioni del gettito per alcuni paesi membri. A livello europeo, la direttiva sui proventi del risparmio, che combina l’opzione della ritenuta alla fonte a quello dello scambio automatico delle informazioni, contribuisce al processo di armonizzazione tributaria e rappresenta un passo decisivo verso l’applicazione del principio di residenza europea anche nella materia fiscale. Ciò nondimeno l’adeguamento ad un maggiore e più efficace coordinamento fiscale ricade innanzitutto sugli ordinamenti nazionali dei paesi membri. La riforma varata in Italia muove anche da queste esigenze. Mira ad assicurare livelli dell’imposizione compatibili con i vincoli posti dalla competizione fiscale e con quelli derivanti dal rigore che tuttora si impone nella finanza pubblica. Rispetto agli altri sistemi fiscali europei, la riforma italiana supera 17
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l’impostazione tradizionale che prevede (anche se spesso, almeno in parte, solo formalmente) la tassazione dei proventi finanziari in sede di imposizione personale progressiva e quella dei guadagni di capitale solo se realizzati con intento «speculativo», o in seguito a cessioni di partecipazioni azionarie « qualificate». Essa inoltre si caratterizza per una sostanziale omnicomprensività delle basi imponibili, tanto che il valore complessivo delle attività finanziarie delle famiglie inclusi i derivati soggette alla nuova disciplina si aggira intorno ai 2,5 milioni di miliardi. Alla maggiore estensione della base imponibile fa riscontro la ridotta incidenza del prelievo: 2 aliquote con una netta prevalenza dell’aliquota del 12,5 per cento, rispetto a quella del 27 per cento il che evita ogni penalizzazione del mercato finanziario nazionale consentendo altresì un vantaggio di semplicità rispetto agli ordinamenti esteri tuttora caratterizzati da pluralità di aliquote, disomogeneità dei redditi tassabili, differenze nella modalità di applicazione delle imposte. Il nuovo sistema italiano, infine, è l’unico in Europa che prevede la tassazione delle plusvalenze maturate e non solo realizzate e la corrispondente deducibilità delle minusvalenze maturate che possono essere compensate oltre che con le plusvalenze anche con interessi, dividendi, ecc. Il nuovo sistema determinerà effetti sull’industria finanziaria italiana potenzialmente positivi. Canalizzerà gli investimenti verso le forme del risparmio gestito. In tal modo consentirà di conseguire i benefici offerti dalla professionalità degli intermediari nella gestione del portafoglio. Questi benefici supereranno, a detta degli stessi operatori, i maggiori costi amministrativi che ricadono nell’immediato sugli intermediari. La funzionalità dei mercati sarà poi favorita anche dal superamento delle segmentazioni preesistenti. Vediamo ora quali sono le finalità principali dell’intervento riformatore e la sua convergenza rispetto alle tendenze collegate all’evoluzione del processo unitario europeo. Un sistema di tassazione dei redditi finanziari con aliquote non eccessivamente differenziate, al limite con un’aliquota unica e contenuta, attenua gli effetti distorsivi dell’imposizione sulle scelte dei risparmiatori. Le ragioni che al momento ostacolano il passaggio a un’aliquota uniforme intermedia tra il 12,5 e il 27 per cento, attengono evidentemente alle esigenze di coordinamento in ambito europeo. Il grado di neutralità della fiscalità sul risparmio deve tenere conto anche del trattamento riservato al reddito di impresa. Se si considerano altri aspetti della riforma fiscale complessiva, come l’introduzione dell’IRAP o della DIT (dual income tax), appare evidente l’intento di riavvicinamento delle aliquote sui redditi d’impresa con quelle sulle rendite del capitale finanziario. Con l’introduzione della DIT, l’aliquota dell’Irpeg viene a situarsi su valori compresi tra il 37 e il 27 per cento, in funzione della composizione del capitale dell’impresa. Il reddito « normale » riconducibile agli incrementi di capitale e agli utili 18
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accantonati a riserva nell’impresa è tassato a un’aliquota ridotta del 19 per cento, in luogo dell’aliquota ordinaria del 37. Per motivi di gettito, si è stabilito che l’aliquota media gravante sul reddito complessivo delle imprese non possa comunque scendere al di sotto del 27 per cento. In assenza di tali vincoli, essa tenderebbe al 19 per cento e l’eventuale maggiore carico fiscale graverebbe solamente sulla componente del profitto eccedente il rendimento « normale» del capitale proprio. A questo proposito una apposita Commissione di studio è stata già istituita al fine di predisporre ulteriori interventi che possano accelerare tale tendenza. Vista nel complesso la Riforma italiana opera un recupero consistente della neutralità fiscale nei confronti delle scelte di finanziamento delle imprese. In questo senso, la maggiore uniformità nel prelievo, conseguita con il riordino della tassazione delle rendite finanziarie, è coerente con le scelte compiute nel disegnare la riforma sulla tassazione dei redditi di impresa, ed in particolare con l’introduzione della DIT. Come testimoniano i primi studi empirici sul tema, le due riforme, considerate congiuntamente, riducono enormemente, pur senza superarla integralmente, la discriminazione fiscale del preesistente regime nei confronti dei diversi canali di finanziamento delle imprese, che vedeva ampiamente favorito l’indebitamento rispetto alle capitalizzazioni e quotazioni. La globalizzazione della finanza fa sì che la convergenza tra le aliquote di tassazione sui rendimenti del capitale reale e di quello finanziario tenda a realizzarsi su livelli contenuti rispetto a quelli gravanti sui redditi da lavoro. I motivi aderiscono principalmente alla diversa mobilità dei due fattori della produzione. Ad una elasticità elevata della mobilità del capitale ai differenziali tributari si contrappone, in Europa, un’elasticità particolarmente bassa della mobilità del lavoro ai differenziali salariali e di disoccupazione tra aree. Nel contesto nazionale, come internazionale, le soluzioni dibattute e proposte comportano, alternativamente o congiuntamente, in primo luogo il ricorso all’applicazione di ritenute alla fonte generali ed omogenee, in secondo luogo la trasmissione, da parte degli intermediari, di informazioni circa l’identità e gli scambi effettuati dal beneficiario dei redditi corrisposti alle autorità fiscali del paese di residenza del beneficiario stesso. L’applicazione di ritenute alla fonte o la gestione di altri prelievi sostitutivi, già previste nel nostro ordinamento, sono confermate con la riforma. A sua volta l’utilizzo degli intermediari per trasmettere informazioni al Fisco, già ampiamente sperimentato nel nostro Paese (si pensi alla Legge 102/91 relativa ai capital gains e alla disciplina del monitoraggio) viene confermato ed ampliato. Sulla necessità di mantenere e di rafforzare queste caratteristiche nel sistema di imposizione sulle rendite finanziarie convergono anche le recenti proposte avanzate a livello comunitario sul trattamento 19
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fiscale dei redditi di capitale percepiti da non residenti. Il dibattito sui problemi della competizione fiscale muove appunto verso il ricorso generalizzato a ritenute alla fonte omogenee operate dagli intermediari e la cooperazione nella trasmissione di informazioni tra le Autorità fiscali dei vari paesi. Su entrambi i fronti l’Italia dispone oggi di strumenti forse più adeguati sotto il profilo normativo e amministrativo rispetto ad altri paesi. Si potrebbe addirittura affermare che l’innovativo sistema di tassazione italiano delle attività finanziarie possa essere considerato un modello di riferimento negli ulteriori sviluppi del processo di armonizzazione comunitario nel campo della fiscalità del risparmio. In base a quanto stabilito nella riunione del Consiglio Ecofin dello scorso dicembre, la Commissione della UE ha presentato una proposta di Direttiva sulla tassazione dei proventi del risparmio di cui ci siamo occupati nella riunione di Lussemburgo del giugno scorso. La sottrazione alla tassazione degli interessi riconosciuti a non residenti, infatti, ormai divenuta prassi comune tra i paesi europei, genera distorsioni incompatibili con il mercato unico, provoca una perdita generale di gettito che mina la disciplina di bilancio voluta dagli accordi comunitari, rende, paradossalmente, i paesi della UE paradisi fiscali l’uno nei confronti dell’altro. La proposta di Direttiva prevede, pertanto, – in base al principio della «coesistenza» – un livello minimo di tassazione (pari al 20 per cento) da applicare da parte di ogni Stato membro sugli interessi versati a non residenti attraverso una ritenuta alla fonte operata dagli intermediari; in alternativa, impone all’amministrazione finanziaria di rilasciare al Fisco del paese di residenza dell’investitore le informazioni necessarie per gli accertamenti. Vediamo ora quali effetti benefici si aspettano sul mercato finanziario italiano dalla riforma. La riforma dell’imposizione del risparmio elimina, dopo anni di attesa, le incertezze degli operatori istituzionali e degli stessi risparmiatori. Aumenta così la «stabilità regolamentare » della piazza finanziaria italiana. L’accresciuta neutralità fiscale e la riduzione delle opportunità di comportamenti elusivi nelle scelte di portafoglio rafforzano l’efficienza allocativa del mercato finanziario italiano. Con particolare riferimento al comparto obbligazionario vengono eliminate con la riforma alcune segmentazioni fiscali per categorie importanti di investitori (famiglie e fondi comuni). L’abolizione per i fondi comuni dei prelievi alla fonte sui titoli obbligazionari rende più fluidi gli scambi; ne beneficia anche la gestione del debito pubblico. Il livello contenuto, anche nel confronto internazionale, dell’aliquota base del 12,5 per cento limita l’impatto che, l’estensione del prelievo alle plusvalenze finanziarie di tali titoli potrebbe avere sul mercato dei capitali. Al contrario le modifiche apportate al sistema di tassazione dei dividendi dei soggetti non residenti, prima colpiti da 20
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un’aliquota del 32,4 per cento, favoriranno la domanda di investitori esteri sul mercato azionario. Il nuovo sistema, che prevede un’applicazione diretta per i non residenti delle minori aliquote convenzionali, in genere non superiori al 15 per cento, aumenta il grado di attrattività del mercato italiano. L’abolizione della tassa sui contratti di Borsa per gli scambi sui mercati regolamentati e nelle transazioni degli intermediari, compresi i fondi, agevola gli scambi. Soprattutto, la riforma rafforza le tendenze al consolidamento nell’industria del risparmio gestito. Dal lato della domanda, le famiglie saranno incentivate ad affidare i propri risparmi ai gestori professionali, per liberarsi del peso « amministrativo » della dichiarazione dei redditi e per il beneficio dell’anonimato che le gestioni consentono. Dal lato dell’offerta, è ragionevole ipotizzare che gli intermediari, nel medio termine, trovino conveniente concentrare l’offerta su prodotti congruenti con uno solo dei due regimi fiscali previsti, al fine di contenere costi che altrimenti finirebbero col gravare sui risparmiatori. Il «risparmio amministrato » potrà essere infatti più costoso per gli intermediari, richiedendo per la determinazione dell’imponibile la raccolta di dati dei quali gli intermediari non terrebbero traccia. Ulteriori difficoltà nel calcolo dell’imposta potrebbero derivare dall’applicazione degli equalizzatori. Il regime del «risparmio gestito» sembra avere la flessibilità per soddisfare anche le esigenze di quei risparmiatori che non intendono delegare completamente la gestione del proprio portafoglio all’intermediario. Gli incentivi indotti dal nuovo regime fiscale si inscrivono nella tendenza delle famiglie a trasferire titoli dalla custodia alla gestione professionale. Nel 1996-97 la riduzione dei titoli di Stato a custodia presso le banche (per conto della clientela) è stata di 160.000 miliardi. Nello stesso biennio la raccolta affluita ai gestori professionali (fondi comuni e gestioni patrimoniali) è stata imponente, pari a 335.000 miliardi. Lo spostamento verso la gestione professionale del risparmio è destinato a proseguire. Alla fine dello scorso anno le attività finanziarie amministrate dai gestori professionali ammontavano a un milione di miliardi, il 50 per cento del PIL; la stessa percentuale è dell’ordine del 110 per cento nella media dei paesi dell’OCSE. Una maggiore incisività ed efficienza nella tassazione del capitale, in particolare dei proventi del risparmio, non appare più una posizione ideologica ma una necessità economica. L’impianto complessivo è in linea con le raccomandazioni dell’OCSE onde rispondere nella maniera più efficace alle forze che stimolano alle riforme di politica economica nella UE e mettono l’Italia nell’avanguardia dei paesi membri che affrontano questi fattori di modifica in un contesto globale. In conclusione si può affermare che l’impianto predisposto con la riforma appare completo e tale da rispondere in pieno alle tendenze emergenti in sede comunitaria. La convergenza della tassazione dei 21
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capitali applicata nei diversi paesi dell’Unione Europea, del resto, appare improcrastinabile proprio per evitare quelle forme di concorrenza fiscale illecita che la Direttiva vuole combattere e che sono stimolate vieppiù dal processo di unificazione che rende impraticabili altre forme di concorrenza impropria come il regime dei tassi o quello del cambio. Noi siamo convinti non solo di aver operato per introdurre in Italia un primo robusto intervento di riequilibrio fiscale, ma anche di aver fornito all’Europa un esempio di buona volontà su un versante che alcuni paesi ancora giudicano con forti resistenze.
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