Il ricercatore e il contadino COSA SIGNIFICA FARE RICERCA SUL LAVORO SOCIALE? IN QUESTO ARTICOLO VENGONO PRESENTATE ALCUNE RIFLESSIONI METODOLOGICHE CHE STANNO EMERGENDO DURANTE UN PERCORSO DI RICERCA QUALITATIVA CONDOTTO NEL NORD ITALIA SUL TEMA DELLE POLITICHE SOCIALI LOCALI E DELL’IMMIGRAZIONE. ALLA RICERCA DI UNA SCIENZA SOCIALE UTILE, ANZI NECESSARIA, ALLO SVILUPPO DI RIFLESSIVITÀ RECIPROCA TRA Mauro Ferrari Dottorando di ricerca in Sociologia, RICERCA E LAVORO SOCIALE. Università degli Studi di Padova
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CONTADINI E RICERCATORI
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Di solito il contadino lavora dove vive; non sceglie i campi. Sono loro che lo precedono e lo condizionano, che ne hanno condizionato addirittura la nascita come categoria, da cacciatore-raccoglitore che era (Diamond, 2000). Egli adatta le colture alle caratteristiche del terreno, del clima, delle stagioni. Vero che al tempo degli Ogm alcune verità consolidate si sono rarefatte, e la rappresentazione del contadino “locale” è soppiantata dal coltivatore globalizzato, poco o per nulla autonomo, pronto a coltivare qualsiasi essenza il mercato richieda; il terreno ridotto a mero supporto dell’onnipotenza tecnologica. Il ricercatore invece è, per definizione, libero dai campi. Nel senso che, vincolato dalle proprie passioni, o interessi, può, compatibilmente con gli investimenti necessari (tempo, denaro, fattibilità) e con l’oggetto della ricerca, scegliere il terreno da indagare. Chi scrive invece si è ritrovato a percorrere un percorso per certi versi inverso. Da operatore-coltivatore relativamente autonomo, con velleità di approfondimento e combinazione tra studio e lavoro, a ricercatore a tempo pieno, di colpo sem terra; incappato in un crollo della routine organizzativa e professionale. Il passaggio non è stato facile, tanto meno indolore, è stato un passaggio di stato: in fisica, come in sociologia, lo si potrebbe individuare come una transizione verso una maggiore liquidità, magmaticità. Che ha condizionato, preferiremmo dire “che ha informato”, il percorso della ricerca, il ruolo del ricercatore, gli esiti intermedi, che in parte vengono qui rappresentati.
Problematizzati, più che risolti. Con il ricercatore come un apprendista, un bricoleur (Douglas, 1990). Per questo motivo le note che seguono indicano una pista del tutto particolare, la cui mappa risiede in elaborati di tutt’altro peso e significatività, ma comunque forse utile a chi si voglia cimentare (sopravvivere) in una simile avventura.
DUE PREMESSE: LAVORO SOCIALE E ORGANIZZAZIONE Lavoro sociale
Cosa sia il lavoro sociale dovrebbe costituire una formulazione condivisa; ma un ripasso, oltre a non guastare, può costituire un’importante “premessa di valore”. Il lavoro sociale è nella sua essenza lavoro di relazione; “opera incorporata nell’azione”(Arendt, 2000), perciò condannato alla imprevedibilità, alla sconfinatezza, alla resilienza; al rischio, e al fascino, del perdono e della promessa. I suoi vincoli (e le sue risorse) stanno nella sua matrice relazionale. Una relazione composita, diretta sia all’interno (di sé, dell’organizzazione), che all’esterno (l’utenza, le reti). Un equilibrio difficile, in continua trasformazione. Anche il ruolo degli operatori-attori sociali cambia, con il cambiare del welfare state e dei suoi modelli regionalilocali; i temi e le pratiche di governance, del welfare mix (Folgheraiter, 1999), del lavoro per progetti e del lavoro di rete, della promozione delle capabilities (Sen, 2002; Colaianni, 2004) mettono in gioco con ancora più rilevanza da un lato la capacità di gestirsi nella, e gestire la, relazione diretta con l’uten-
za (l’autoconsapevolezza emozionale di Sclavi, 2003) e, dall’altro, un approccio relazionale con il sistema locale, in termini di investimenti sulle reti (Olivetti Manoukian, 2005). L’operatore sociale è chiamato ad operare con un atteggiamento riflessivo (De Sandre, 2005) su più fronti: • a rapportarsi alla complessità dell’integrazione organizzativa (la l. 328/00, la “cattedrale rappresentata dall’integrazione”), “complesso lavoro di ibridazione dei saperi in un processo di costante apprendimento collettivo”; • a far emergere gli esiti di buone prassi e sperimentazioni; • a convincere i diversi attori che la partecipazione ai processi di programmazione e di azione integrata può veramente costituire un fattore vincente, in un approccio che si colloca nell’“ecologia sistemica”, che coniuga pensiero ed azione e che “presuppone la partecipazione attiva del «sociale» nell’individuare, assumere, tentare di risolvere i problemi individuali e collettivi che nel sociale stesso insorgono” (Olivetti Manoukian, 2002). Attori in gioco sono assistenti sociali, educatori, psicologi, ma anche figure nuove (nel campo dell’immigrazione i mediatori linguistico-culturali, i consulenti legali); di ruolo o, sempre più, precari, di servizi pubblici o privati ma con forte vocazione pubblica (De Leonardis, 1999). Coinvolti, soprattutto nello specifico del lavoro con utenza immigrata, in una rottura delle routine (Goffman, 1969), i soggetti implicati nel lavoro sociale sono chiamati a fronteggiare situazioni nuove con strumenti spesso inediti (Lanzara, 1993).
Organizzazioni
Occuparsi (pre-occuparsi dei contenuti e delle forme in cui si svolge il lavoro sociale oggi significa anche impegnarsi in una lettura organizzativa. Narrata dagli interlocutori, che esprimono così le proprie rappresentazioni, e insieme a questi dai diversi referenti interni (dirigenti, responsabili di area, presidenti di associazioni, assessori), il riferimento è alla lettura etnografica, processuale, che incrina i modelli razional/strumentali, “si alimenta di anomalìe”, degli errori, delle ambiguità. Che riconosce il protagonismo degli attori ed assegna loro “la capacità di rischiare” (Bifulco, 1999), di esplorare. Ma non sempre le organizzazioni accettano questa sfida, diventano learning organizations. Tantomeno ammettono correzioni di rotta. In altre parole, nonostante le istituzioni “pensino” non a prescindere ma grazie ai soggetti che le compongono (Douglas, 1984), non
A maggior ragione, fare ricerca nel campo del lavoro sociale assume molteplici significati: • Di frontiera,. il lavoro sociale è un lavoro di frontiera, o meglio di confine interno; sportelli, punti, finestre (i nomi che spesso assumono in servizi, specie quelli rivolti all’immigrazione) raccontano di una collocazione (fisica e organizzativa) ai confini del sistema di protezione sociale; ne fanno un luogo emblematico di relazioni, di scambi tra il “dentro” (gli operatori, le organizzazioni) e il fuori (la dimensione sociale locale), un punto di osservazione strategico. • Di integrazione per i soggetti, che dipendano da enti pubblici o del privato sociale gli operatori sono comunque implicati sia sul piano personale, emotivo, sia su quello professionale; catturati da un doppio vincolo (motivazioni e saperi da un lato; mandato istituzionale, dall’altro) sperimentano quotidianamente le potenzialità del proprio compito e i limiti del welfare locale. Il loro lavoro-nel-campo è un sapere esperto che viene continuamente sollecitato a individuare soluzioni nuove a partire da risorse scarse, a individuare nuovi compiti (ne segnaliamo brevemente tre: la promozione delle capacità individuali, l’attivazione e il coordinamento di reti, il lavoro per progetti).
QUALE RICERCA?
Cosa significa fare ricerca sul/col lavoro sociale? Che diverse forme può assumere una ricerca che interroga operatori quotidianamente impegnati in servizi alla persona (e alla comunità locale)? Anche qui, una premessa. Una ricerca che dura più anni rischia molto di invecchiare. Nel senso che la vita prosegue, le dinamiche locali proseguono, la ricerca rischia di essere avviata in un contesto (personale-professionale, ma anche sociale) e conclusa in condizioni molto differenti, per il ricercatore, per l’ambiente. Diventa una zavorra, un compito da portare a termine perché ormai lo si è iniziato. Oppure la ricerca stana, incalza, la realtà, e a sua volta ne viene interrogata. Percorre le sue trame, la accompagna. Lei e la realtà sociale si indagano, si usano. Si annusano. La ricerca riflette sulla realtà, che a sua volta le permette di riflettere (su contenuti, metodi, scopi). Sono entrambe riflessive, nel senso che si riflettono. Che vibrano insieme, simpaticamente. Per questo una ricerca di rapina è vigliacca, uno strumento neo-coloniale che si risolve in un gioco intra-accademico: “vado, studio, porto via”. Ai soggetti, anzi agli oggetti non rimane nulla. Però produce: convegni, pubblicazioni, docenze, altre ricerche finanziate. Un circolo vizioso. Desertificante (basata sul presupposto che il ricerca-
tore, esaurito questo lavoro, non tornerà su quel tema, in quel luogo, con quei soggetti, quindi può permettersi di non preoccuparsi delle conseguenze dei suoi gesti). Biopirateria (Shiva, 2000). A noi interessa invece una ricerca forse non più militante (la conricerca di Montaldi, in Ferrari, 2006), ma di certo trasformativa, indirizzata al “bene comune” (Petrella, 1997), eticamente sostenibile. Una “ricerca operativa” (Cardano, 2003); che si proietta, dove le condizioni lo consentono, verso una ricerca-performativa, in continuo divenire. Che accede al campo, elabora, per poi cedere agli interlocutori il proprio sapere rielaborato, che permette agli interlocutori, quindi, di accedere ai propri esiti. Che, in definitiva, opta perché, dove possibile, qualcosa succeda. Allora sì, agli operatori qualcosa rimane; altri attrezzi per la propria cassetta, suggestioni, categorie spesso impliciti nel lavoro quotidiano.
Terreni
Per iniziare una ricerca, una volta messe a punto le ipotesi, le domande a cui cercare risposte (il “cosa”), il “dove”, serve cercare un terreno. Se l’ipotesi di partenza è, come nel nostro caso, il cambiamento provocato dall’impatto di utenza immigrata con la rete locale dei servizi, sorgono subito alcuni dubbi: indagare le eccellenze, celebrate in letteratura, nel web, o alcune esperienze “ordinarie”? usare una scala d’indagine molto ridotta, approfondire le narrazioni nei contesti locali, oppure allargare lo sguardo? Due quesiti non esattamente propri di questa indagine, ma del più ampio “desiderio di riscatto” della sociologia qualitativa di matrice etnografica, criticata perché troppo “vicina”, attenta ai dettagli, alla quotidianità e dimentica dei dati e delle dimensioni di tipo “macro”. Ecco cosa abbiamo scoperto.
Tra eccellenza e quotidianità
La perplessità iniziale di chi scrive, rispetto alla possibilità che una ricerca di questo tipo potesse mettere in luce aspetti rilevanti del lavoro sociale con immigrate ed immigrati, ha dovuto ben presto fare i conti con la restrizione del campo: “solo” il lavoro sociale, “solo” territori relativamente raggiungibili. In questo modo si sarebbero “persi”: • tutti i soggetti coinvolti (oltre ai servizi sociali i campi riguardano la salute, quindi gli ospedali, l’educazione, il lavoro, la casa, cioè gran parte, se non tutta, la cosmogonia del welfare locale); • i progetti di eccellenza (le best practices).
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Integrazioni
• Di integrazione per le organizzazioni, le istituzioni, anche grazie ai propri appartenenti, rappresentano il sedimentarsi di scelte politico-strategiche, di integrazioni tra soggetti, servizi, operatori. Sono informate, e informano, i propri “terminali” (o relèes, per dirla con Crozier-Friedberg, 1978). Pensano e sono pensate. Il tema dell’immigrazione, di nuovo, condensa e traduce i discorsi pubblici (di discontinuità tra maggioranze diverse, di continuità nella gestione dei servizi; Caponio, 2004) e tentativi multiformi di connessione tra servizi nuovi, dedicati, e servizi integrati (Tognetti Bordogna, 2004). Sollecitare questi ambiti nel corso di una ricerca rappresenta dunque una sfida su dimensioni differenti: sui contenuti, rispetto all’innovatività del tema, sugli ambiti, con riferimento ai diversi piani coinvolti (operatori, servizi, politiche, dimensione locale e dimensione globale); infine, per quel che qui ci riguarda, sui metodi, rispetto all’interrogare saperi esperti, il che implica il sollecitare competenze diverse e spesso maggiori di quelle del ricercatore.
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sempre comunicazioni e apprendimenti viaggiano con criteri di reciprocità, e i processi decisionali appaiono ancora oggi troppo spesso legati a imperativi apparentemente razionali, che inibiscono il pensiero riflessivo. È come se l’elemento centrale della produzione del servizio, la relazione operatore/utente (produttore/consumatore), faticasse ad essere riconosciuto, legittimato; in questo modo inibendo, nei luoghi interrogati dalla ricerca, il passaggio da una visione statica (centrata sul modello classico delle competenze chiuse, connesse al mandato) a una dinamica (nella quale i servizi non ”servono” solo agli utenti ma alla società in cui sono collocati, Olivetti Manoukian, 1998). Sul binomio lavoro sociale/organizzazioni, è significativo l’apporto fornito da alcuni studi (le “cose-mai-viste” di Olivetti Manoukian, Mazzoni, D’Angella, 2003), dedicati a settori particolari, in questo caso i servizi relativi all’area dipendenze (con una forte attenzione al mandato istituzionale e alle rappresentazioni del servizio); questi rimangono tra i pochi esempi in letteratura a dare voce alle rappresentazioni degli operatori, non già, non solo, ai dirigenti o all’analisi di documenti prodotti dalle organizzazioni.
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Nel corso della ricerca questi limiti si sono rivelati, invece, proficui: • restringere la gamma degli operatori ha permesso di concentrarsi su alcune pratiche intrecciandole con i diversi assetti organizzativi, oltre che di costruire una traccia di intervista che tenesse conto dei saperi particolari di quelle categorie di operatori, di testarla, controllarne la durata, ma soprattutto la tenuta; • conoscere le esperienze locali sta significando approfondire gli aspetti peculiari di ciascun terreno, imprevedibilmente ricco e peculiare, permettendo di attivare un confronto serrato con gli attori presenti, negoziando l’accesso al campo, personalizzando il progetto, organizzando la restituzione delle riflessioni; • infine, lo sguardo alle scelte organizzative, a partire dalle riflessioni degli attori coinvolti, sta stimolando negli attori, oltre che nel ricercatore, elementi riflessivi importanti. Sguardi oltre la (spesso difficile) quotidianità. Talvolta premesse a trasformazioni almeno auspicate, intraviste. Elementi imprevisti prima dell’accesso, impossibili da raggiungere con una lettura distante. Ma se queste riflessioni sono vere per chi ricerca, dovrebbero valere anche per chi opera: questa dimensione locale, contingente, non-eccellente, contiene un insieme di risorse e vincoli in certa misura utilizzabile anche dall’attore sociale in questione.
Tra micro e macro
Micro e macro, intesi come organismi, rendono i terreni fertili. Ne condizionano le sorti. Entrambi indispensabili. Ma altrove non sempre è così. In fotografia usare un obiettivo “macro” significa, al contrario che nella ricerca sociale, mettere a fuoco, da vicinissimo, i particolari di un soggetto. La visione macro, cioè, porta ad un approfondimento, ma implica, letteralmente, una sfocatura dello sfondo; una visione che assomiglia allo sguardo di un miope. Viceversa, il “micro” è equiparabile ad una visione fotograficamente “grandangolare”, il più ampia, comprendente, possibile. Lo sguardo ampio include tutti i soggetti, ma li rimpicciolisce, al punto che quasi scompaiono inclusi nel paesaggio: è l’esaltazione dello sfondo. Due modi di fotografare differenti, che nessuno mette in competizione tra loro. Banalmente, dipende dalla vocazione del fotografo, ma più probabilmente dall’oggetto (anche un fotografo naturalista spesso è interessato a mostrare l’ecosistema, insieme ai dettagli); inoltre, non sempre la macro-
fotografia è applicabile: se, ad esempio, i soggetti sono in rapido movimento, o inavvicinabili. In sociologia l’apparente contraddizione non è, ovviamente, facilmente risolvibile, e porta storicamente a schierarsi: da una parte i metodi qualitativi (“rimproverati” per la troppa attenzione ai dettagli, quindi simili al “macro” fotografico), dall’altra le survey. Difficile, in una ricerca, riuscire ad esplorare entrambe le opportunità. Forse occorre tentare di procedere per gruppi di ricerca, tentativi che consentano di oscillare (il termine è mutuato da La Mendola, 2006) tra le due posizioni, cercando da un lato di amplificare le voci dei soggetti; e, dall’altro, di tenere conto, attraverso dati contestuali e ricerche su ampia scala, dello sfondo, necessario a collocare e comprendere le diverse rappresentazioni.
Entrare nel campo
Stabilito che all’incirca in qualsiasi campo possiamo trovare caratteristiche simili, fondanti il lavoro sociale (certo, dipendenti dai contesti regionali, dagli assetti organizzativi, dalle caratteristiche degli operatori; differenti tra città e campagna), nel campo, adesso, bisogna entrarci. La prima questione riguarda proprio il tema dell’accesso.
QUESTIONI DI ACCESSO: CI SONO TERRENI E TERRENI
Entrare in un campo significa negoziare con i referenti locali una modalità di accesso. Nella fattispecie scrivendo e adattando il progetto di ricerca, da subito, alle prime intuizioni, agli esiti dei primi colloqui, alle analisi di documenti strategici (i piani di zona, i dati demografici). Affrontare il rischio che le proprie ipotesi non vengano accettate. Inoltre: che tipo di “contratto” con i gatekeeper? Da un lato il rischio di una negoziazione intensa, che preveda anche momenti di restituzione, è di procedere per affinità, escludendo punti di vista differenti. Di registrare quindi solo posizioni omologhe a quelle del ricercatore. Ma anche i terreni più aridi riservano sorprese. Confrontarsi con posizioni e rappresentazioni (politiche, professionali) meno prossime costituisce un fascino (nuove scoperte), una sfida (proporsi in ambienti “ostili”, o “non amici”), una scelta di rigore (verificare le ipotesi, e verificarsi, in contesti diversi, quindi anche con modalità di accesso differenti), un approccio anti-ideologico (cosa significa, per chi vive e lavora, come per chi ricerca, operare “altrove”?). Al fine di poter esplorare le bio (le socio) diversità.
Morfologie
Una volta “dentro il campo” ecco, allora, le diverse forme (forme-per) che abbiamo scoperto: a. Ricerca riflessiva. Innanzi tutto, una ricerca che stimoli i saperi esperti dei propri interlocutori a riflettere sulle proprie esperienze e competenze, insieme a quelle del ricercatore, assume i contorni di una ricerca riflessiva; momento di sospensione dall’agire quotidiano, elemento se non di cambiamento almeno di un possibile ri-posizionamento. Il ricercatore in questo caso diventa un mediatore, un traghettatore di altri mondi, un potenziale ponte rispetto ad altri saperi. La spendibilità, anche solo individuale, delle riflessioni che si sviluppano a partire dalla ricerca svolge una funzione di reciprocità anche solo individuale; non per questo meno significativa. Al tempo stesso consapevole delle diverse implicazioni che l’applicazione del principio di reciprocità comporta: “il modo riflessivo non rinuncia affatto, naturalmente, alle descrizioni scientifiche del mondo, realizzate come-se il mondo da descrivere fosse posto làdi-fronte, rispetto al descrittore; ma non rinuncia neppure, nel contempo, all’ipotesi «costruttivista» per cui le idee che «vengono in mente» all’osservatore sono in ogni caso il frutto creativo, largamente inconsapevole e mai del tutto prevedibile, di dinamiche relazionali: delle relazioni interattive tra l’osservatore e l’osservato da un lato, e tra l’osservatore e gli altri osservatori, dall’altro” (Manghi, 2000). Un ricercatore sensibile alla trama relazionale di cui è parte, alle “strutture che connettono” (Bateson, 1984). b. Ricerca valutativa. Il ricercatore è un valutatore? Attraverso gli atti e i fatti (veicolati dalle parole) il ricercatore scopre, può scoprire cose che gli stessi attori non colgono, che “danno per scontato”. La tentazione di autocandidarsi a una valutazione-senza-partecipazione è forte (in questo caso il ricercatore diventa colui che “capisce di più”, che conosce più cose, ma le tiene per sé, annuendo, assecondando, trainando l’intervista e l’intervistato verso territori del sapere che, dei due, solo lui padroneggia). La ricerca diviene così uno strumento da spendere in altri territori, verso altri mandanti, affini a chi ricerca, non a chi opera. Ma se è innegabile che uno sguardo esterno può cogliere aspetti impliciti delle relazioni, delle organizzazioni, è altrettanto vero che, non solo sul piano etico (cioè del rispetto degli interlocutori, del rispetto dei patti negoziali, ma anche su quello metodologico, la verifica delle ipotesi, dei materiali raccolti,
osservazioni partecipanti, dei focus group, della raccolta dei materiali empirici e dei documenti strategici); • ri-elaborazione (dei materiali raccolti); • restituzione (ai soggetti). In questo “agire allo scoperto” da un lato si può individuare il rischio di sovraesposizione al campo (interferenze, confusioni di ruoli), dall’altro invece il vantaggio della verifica per passaggi successivi delle proprie ipotesi e delle riflessioni man mano che vengono elaborate. Una ibridazione di ruoli. La possibilità di uno spandimento dei semi, cioè dei dubbi, delle ipotesi che si sviluppano per via. Una proposta di fertilità.
CONCLUSIONI Questioni di costruzione partecipata
Il tentativo di una ricerca così impostata sta quindi nel sollecitare una rappresentazione condivisa, o almeno capace di confrontarsi. Circolare, o meglio ancora spiraleggiante (Gobo, 2003), incrementale, in continua evoluzione. Ogni intervista, individuale o di gruppo, diventa una discussione che si avvale dei contenuti emersi nelle precedenti. Una restituzione in lieve differita. Che aiuta anche la ricerca, e il ricercatore, a inventare soluzioni nuove. Ad apprendere ad apprendere ad apprendere. Dal “from nowhere” dell’osservazione prescrittiva (alla ricerca di leggi universali, non localizzate) passando per il “from somewhere” della narrazione riflessiva (in questo luogo e in questo tempo, Simoni, 2003) quello che si sta ipotizzando è un “we were there”, riconoscimento reciproco e consapevole; atto generativo, nominativo. Noi eravamo lì, nel momento stesso dell’intervista e, riflettendo, elaboravamo saperi.
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Che incide, nel senso che lascia un segno nel campo. Come non ricordare, a questo riguardo, la lezione del pedagogista brasiliano Paulo Freire (1974), riconosciuto come uno dei fondatori della ricerca-che-trasforma (Reason, 1994)? Ricerca-azione e ricerca performativa hanno evidentemente molto in comune. Dal punto di vista metodologico proviamo ad isolare due aspetti: 1. La restituzione. Dalla rapina alla coltura. Una ripresa. Un ritorno sul campo a controllare le colture, a validare i risultati anche con gli interlocutori, permette al ricercatore di evitare alcuni rischi, e anzi può produrre vantaggi. Tra i rischi: • attenti al loop, occorre sottrarsi a un loop pericoloso soprattutto nell’accademia (vado, raccolgo informazioni, le “brevetto”, cioè le pubblico; nessuno come il ricercatore probabilmente conosce, in quel particolare circuito universitario, quel terreno, forse quella materia; quindi la validazione potrebbe divenire autoreferenziale, salvo venire smentita più avanti). Tra i vantaggi: • ho capito bene? di verificare, prima della conclusione, la correttezza delle riflessioni, con il vantaggio di evitare clamorose sviste, visioni parziali; • un ricercatore da riporto?: sono arrivato, ho cercato, ho rielaborato, ritorno confermando (o correggendo) le nostre reciproche rappresentazioni. Certo, non è detto che le rappresentazioni (del ricercatore e dei diversi soggetti coinvolti nel campo) coincidano; nulla di grave, se vengono esplicitate. Come minimo si rinforzeranno convincimenti differenti. Si sarà trattato allora di un allenamento al confronto tra diverse ipotesi, un ottimo preludio alla gestione di reti di soggetti, di equipe composte di rappresentazioni differenti. La ricerca va quindi restituita (e quindi re-istituita; cioè re-interpretata, riletta) nello stesso ambito in cui viene generata. Questo ci sembra l’elemento centrale, strategico, dal punto di vista metodologico, dell’intero processo di ricerca. 2. La coltivazione in campo aperto. Nelle diverse fasi finora incontrate nel percorso di ricerca, di seguito riportate, solo le due fasi di elaborazione e ri-elaborazione sono nascoste agli attori nel campo:: • elaborazione (del disegno della ricerca); • presentazione/negoziazione (della traduzione in ambito locale, dell’accesso al campo); • conduzione (delle interviste, delle
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Questioni di etiche e di etichette
Avere a che fare (trattare) con interlocutori motivati, pubblici e del privato sociale, significa interrogare e interrogarsi con saperi non solo consapevoli, ma anche eticamente fondati. Con rappresentazioni diverse, matrici valoriali differenti. Ma presenti nella relazione (con il ricercatore, ma anche e soprattutto con gli utenti, con i colleghi, con l’organizzazione, con l’ambiente esterno). Una ragione in più perché il lavoro di ricerca assuma anch’esso (negli strumenti, oltre che nei contenuti), tenga conto di questa chiave di lettura. Senza la fretta di ideal-tipizzare
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delle conclusioni) avvenga una qualche forma di restituzione. Allora anche la valutazione, proprio per la sua inevitabilità, può assumere una valenza partecipativa. Concedersi ai soggetti, negoziare la sua ragion d’essere. Ritornare nel campo. L’analisi discorsiva delle pratiche e dei saperi, posto che non necessariamente potrà trovare d’accordo tutti gli interlocutori, potrà costituire anch’essa una premessa riflessiva al cambiamento (valutazione e apprendimento diventano due processi interrelati, De Ambrogio, 2003). D’altra parte, è lo stesso ricercatore il primo a subire un processo di valutazione: quando si presenta, e negozia la ricerca, la sua credibilità viene messa in gioco, riducendo in questo modo l’asimmetria tra i due interlocutori. Un simile approccio può contribuire a due processi: • uno intrinseco, che abbiamo appena chiamato relazionale-riflessivo (la ricerca tenta di innescare un processo virtuoso negli interlocutori, tra gli interlocutori, operatori, mediatori, responsabili, infine tra questi e il ricercatore). L’atteggiamento riflessivo genera a sua volta riflessività. • uno estrinseco, poiché contribuisce, interagendo con gli attori del campo, a sistematizzare conoscenze; quindi a registrare, evidenziare, processi di mutamento o di stallo. Talvolta ad innescare o rinforzare, oltre a riflessioni, valutazioni. E a comprendere (“svelare”) almeno alcuni dei motivi per cui movimenti, o stagnazioni, avvengono. c. Ricerca-azione. Siamo a un passo dalla “ricerca operativa” (Cardano, 2003; Olivetti Manoukian, Mazzoli, D’Angella, 2003) che conferma un atteggiamento relazionale, in cui “il ricercatore, che non si considera esterno e distanziato dall’oggetto di ricerca, attraverso l’analisi di ciò che accade e si sviluppa nelle relazioni con e tra gli attori all’interno della ricerca stessa, può accedere alla realtà (psicologica, sociale, gruppale, istituzionale) che ci si propone di meglio comprendere“; essa, soprattutto dal lato dell’intervento, “consiste nell’istituire con gli attori, dei dispositivi (interviste, riunioni di gruppo, analisi di processi, osservazioni…) che facilitino gli scambi tra tutti gli attori a vario titolo interessati e che sostengano un lavoro a partire dalle loro percezioni e rappresentazioni” (Dubost, Lévi, 2005); d. Ricerca-performazione. Una variante ancor più marcata di ricerca-azione potrebbe essere individuata in una “ricerca-performazione”, che si avvicina ambiziosamente a una strategia di intervento forte, esplicita, condivisa dall’ambiente. Formativa, quindi trasformativa.
(etichettare) a tutti i costi, cioè di ridurre e semplificare questioni etiche, valoriali per incastonarle a forza dentro una rappresentazioni forzate, forse coerenti con il disegno della ricerca, meno con i suoi protagonisti.
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Questioni di relazione tra attori
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Nel rapporto fra enti di ricerca/ università e enti locali si giocano spesso due livelli non sempre interagenti: • la ricerca, che spesso si trasforma nella presentazione, cui partecipano sia le agenzie di riferimento, l’accademia che gli amministratori (con relativo purtroppo costante disprezzo da parte dell’accademia verso gli enti ed i soggetti locali); un gioco di vetrine, più che di specchi (anche nelle vetrine ci si specchia, ma “da fuori”, quando si guardano i prodotti esposti), luoghi di rappresentazione dei prodotti; • la vita quotidiana, la gestione dei servizi, in cui sono coinvolti sia operatori che utenti (e su un altro piano, contiguo, i dirigenti, gli stessi amministratori); luogo, spesso nascosto nel retrobottega, di generazione di processi, di frustrazioni e di scoperte. Una ricerca, talvolta azione, almeno in parte indipendente dalle committenze, può contribuire a coniugare questi due livelli. Può mettere a disposizione del ricercatore (e dei soggetti che costituiscono il materiale vivente con cui si svolge la ricerca) spunti non disponibili altrimenti. Spazi, e tempi, di riflessione e rielaborazione. Può diventare generativa, anzi, insistiamo, cogenerativa (De Sandre, 2002). Un’opportunità non sempre percorribile per le agenzie di ricerca, ma che per l’ambiente accademico diventa addirittura una sfida. Che coniuga ricerca, consulenza, formazione e autoformazione, processi e prodotti. Purché ci si renda disponibili a mettere in circolo saperi ed elaborazioni. Di nuovo, rappresenta una scelta di campo: tornarci rappresenta una sfida, oltre che una fatica, nient’affatto scontata; un approccio ecologico. Di cura. Camminare su un terreno, coltivare un terreno,1 come contadini consapevoli delle loro diversità, in un’agricoltura (in una ricerca) altrimenti globalizzata e privatizzante. Per dirla in altre parole, gli operatori (pubblici, del privato sociale; e i dirigenti, e gli amministratori, i volontari) sono già nel campo. Ma il ricercatore non può chiamarsi fuori. Fosse solo per i debiti che ciascun ricercatore-consulente dovrebbe riconoscere ai soggetti che consentono la ricerca, quindi per uno sdebitamento nei confronti dei propri interlocutori.
Che lo accetti o no, egli è nel campo (Melucci, 1998). Può scappare col malloppo o rimanerci, almeno per un po’. Allora anche la messa in gioco iniziale, questo tentativo di ricucire strappi tra ruoli, di comporre un bricolage tra attori, tra ruoli, tra luoghi, questa possibilità di frequentare terreni diversi si può trasformare, si sta trasformando, in un’ipotesi a sua volta trasformativa, per il ricercatore, per la ricerca, ma anche per i soggetti (non più “oggetti”, ma soggetti narranti, competenti); un elemento che connette, che accetta il rischio dello smarrimento e della contaminazione e che da questo frequentarsi trae spunto per nuovi sviluppi e relazioni. Fra saperi, fra ruoli, fra luoghi; finalmente e reciprocamente utile, cioè utilizzabile; frastornante e trasformante; per entrambi, contadini e ricercatori. Note
1 Insieme, tra gli altri, al Gruppo Abele, che con tre seminari nazionali dal titolo emblematico “reimmaginare il lavoro sociale” ha lanciato nel corso del 2005 messaggi, culturali e colturali, in questa direzione.
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SEGNALAZIONI S. Pasquinelli (a cura di)
BUONI E VOUCHER SOCIALI IN LOMBARDIA
Franco Angeli, Milano, 2006 Questo volume presenta i risultati di una ricerca sui buoni voucher e sociali promossa dalla Regione Lombardia – DG Famiglia e solidarietà sociale assieme all’Irer e realizzata dall’Irs di Milano. Il libro presenta i risultati della prima ricerca che analizza in modo sistematico l’applicazione dei buoni e dei voucher sociali nella regione. La metodologia adottata è di tipo sia quantitativo, con l’analisi dei dati regionali del monitoraggio dei Piani di zona, sia qualitativo, con l’approfondimento di sette casi studio. Sono indagati e discussi i pregi e i limiti dei titoli sociali, i modi in cui vengono usati, il loro “valore aggiunto”. La ricerca esplora inoltre le conseguenze che buoni e voucher producono sui cittadini, il sistema dei servizi, le professioni coinvolte, ed elabora una serie di indicazioni anche operative riguardanti questi strumenti di “welfare leggero”. Ne emerge un quadro complesso e ricco di spunti sia per la comprensione della realtà sia per l’elaborazione di misure pubbliche di intervento. Le evidenze empiriche qui presentate consentono di utilizzare buoni e voucher in modo sempre più mirato e consapevole.