Il controllo del “fronte interno” durante la Grande guerra di Alessandra Peretti Dalle carte della Censura politica dell’Archivio della Prefettura di Pisa
La verità dal fronte (1915, litografia)
Noi
sappiamo
che
la
Grande
guerra,
la
prima
terribile
carneficina del ‘900, viene considerata anche uno straordinario spartiacque storico, in cui arrivò a maturazione ed esplose la crisi
della
società
ottocentesca
e
nello
stesso
tempo
si
manifestarono per la prima volta in modo massiccio molti fenomeni tipici del XX secolo: dalla corsa all’innovazione tecnologica al controllo pubblico sull’economia, dalla coscrizione di massa alla militarizzazione all’uso
della
mobilitazione
della
società,
propaganda, bellica
con
l’intera
dall’emancipazione
cui
si
intese
opinione
femminile
coinvolgere
pubblica
dei
nella
paesi
in
guerra. Ma anche per un altro aspetto, che riguarda il ruolo e l’attività della censura, possiamo dire che vennero attuate allora per la prima volta in una società di massa forme di controllo dell’informazione
che
sarebbero
poi
state
tipiche
di
tutte
le
guerre del ‘900: fino a quelle a noi più vicine, che ci hanno costretto anche recentemente a dubitare perfino di quanto vedevamo con i nostri occhi sugli schermi televisivi.
Alla vigilia dell’entrata in guerra, in Italia venne istituita la censura preventiva sulla stampa, come già era accaduto negli altri
paesi.
Il
23
maggio
1915
un
Regio
decreto
vietava
la
pubblicazione di notizie non comunicate dal governo e dai comandi superiori dell’esercito e della marina “relative allo stato e ai movimenti dell’esercito e dell’armata, ai relativi alti comandi, agli apprestamenti offensivi e difensivi, ed al numero dei feriti, morti e prigionieri”. Del resto si trattava di una definizione ulteriore di norme già previste da una legge di due mesi prima, che
aveva
notizie
vietato
la
concernenti
“pubblicazione,
la
forza,
la
con
qualsiasi
preparazione,
o
mezzo, la
di
difesa
militare dello stato”. Tutte
le
notizie
riguardanti
gli
eventi
bellici
venivano
quindi sottratte alla libera informazione della stampa e demandate
alle
fonti
ufficiali
costituite
dai
bollettini
del
Comando
supremo. “Si vuole, in sostanza, che notizie concrete di carattere militare non circolino se non provengano dalle Autorità politiche e
militari,
le
quali
soltanto
hanno
i
mezzi
di
stabilirne
la
verità e di valutarne gli effetti in rapporto ai cittadini e ai nemici”: così ammoniva una circolare del Ministero dell’Interno diramata in seguito a tutte le Prefetture del Regno. Da questo momento in poi e per tutta la durata della guerra si sviluppò un enorme e complicato apparato burocratico preposto alla censura, di cui la stampa periodica fu solo uno degli oggetti. Fu istituita una censura postale militare sulla corrispondenza che i soldati inviavano alle famiglie, e in un primo tempo anche una censura
postale
civile
su
tutta
la
corrispondenza
in
partenza
dalla cosiddetta “zona di guerra”, che comprendeva anche province molto
lontane
dal
fronte.
Mentre
scoppiava
il
fenomeno
dell’inesauribile flusso di corrispondenza tra fronte e retrovie che avrebbe costituito un’altra novità di questa guerra, ci si sforzò in tutti i modi di evitare che il racconto delle prime carneficine,
fornito
dalle
lettere
dei
soldati
alle
famiglie,
gettasse l’allarme e l’angoscia in un paese ancora esaltato dagli entusiasmi patriottici dell’intervento. Degli nella
effetti
che
corrispondenza
litografia
del
questo
dei
1915,
controllo
soldati
intitolata
è
produceva
testimonianza
La
verità
del
nell’animo esemplare
fronte.
e
una
Vi
si
rappresenta un soldato austriaco intento a scrivere a casa, ma è evidente che la nazionalità è fittizia e legata ad esigenze di propaganda. Il soldato sta scrivendo: “Carissimi genitori, poche parole
per
dirvi
che
siamo
vittoriosi
su
tutta
la
linea
e
abbondiamo di viveri e munizioni. Dovunque siamo passati abbiamo rispettato abitazioni, campi, chiese, opere d’arte e perfino le donne. A rivederci presto. Vi abbraccio affettuosamente, vostro figlio. P. S. Fritz, il quale ieri l’altro scrisse l’opposto alla sua famiglia, è stato fucilato”. Dopo
alcuni
generalizzata
si
mesi rilevò
comunque
la
impraticabile,
censura a
causa
postale dei
civile
ritardi
e
disservizi che provocava. Rimasero in piedi, affidate in parte alle
autorità
parte
al
civili
Servizio
dipendenti di
dal
Ministero
Informazioni
Militari
dell’Interno
in
-
in
talvolta
concorrenza tra loro - la censura telegrafica, quella telefonica interurbana e la censura sulla posta estera e militare, oltre naturalmente alla censura sulla stampa. E tuttavia nel corso della guerra i compiti della censura si allargarono progressivamente, intrecciandosi
da
un
lato
con
l’ossessione
dello
spionaggio
e
dall’altro con le esigenze della propaganda: lo stesso S.I.M. fu costretto ad assumere nuovo personale civile e femminile per il controllo della corrispondenza dopo Caporetto, quando la ritirata lasciò nelle mani del nemico ben 300.000 prigionieri. Anche i pacchi mandati dalle famiglie ai loro cari in prigionia dovevano essere
sottoposti
prigionieri
si
a
censura
accumulò
negli
e
la
stessa
uffici
in
corrispondenza
proporzioni
tali
dei (17
tonnellate di posta arretrata nel marzo ’18!) che alla fine le autorità ordinarono di distruggerla.
Quanto alla stampa, gli storici hanno da tempo evidenziato come “in tempo di guerra si raccontano favole”. Quando c’è la guerra le notizie si misurano col metro dell’utilità militare e il giornalista o sta al gioco, diventando un efficace propagandista di sentimenti patriottici, o nemmeno viene accolto in zona di guerra.
Nella
Grande
guerra
fu
esemplare
di
questa
seconda
situazione il giornale ufficiale del Partito Socialista, in prima fila nella battaglia per la neutralità prima, per la pace poi: l’Avanti! non riuscì mai, per l’opposizione di Cadorna, a mandare i suoi corrispondenti in zona di guerra, ma fu anche in lotta quotidiana con la censura, costretto costantemente a imbiancare i suoi articoli, dopo Caporetto addirittura vietato in 30 province italiane. maggiore
Gli o
altri
minore
maggiori
entusiasmo
quotidiani all’aria
che
si
allinearono
tirava:
e
i
con loro
corrispondenti di guerra si prestarono a tutte le amplificazioni retoriche e a tutti i prudenti silenzi che la situazione militare
imponeva.
Molte volte si trattò di semplice opportunismo,
volte
una
di
forma
di
autocensura
determinata
da
altre
senso
di
responsabilità verso la patria in armi. E non fu un fenomeno solo italiano. Disse un giornalista inglese: ”Noi ci identificavamo in maniera assoluta con le armate al fronte[…]. I nostri dispacci non avevano
bisogno
di
censura.
Eravamo
noi
stessi
che
ci
censuravamo”. D’altra
parte
anche
nel
fronte
interno
il
controllo
sulle
notizie era ferreo. Il Regio decreto sulla stampa dava ai Prefetti il potere di sequestrare ogni stampato che a loro giudizio potesse “deprimere
lo
spirito
pubblico,
scuotendo
la
fiducia
nelle
autorità dello Stato, eccitando gli urti tra i partiti politici, o altrimenti essere gravemente pregiudizievole ai supremi interessi nazionali
connessi
internazionale
con
dello
la
guerra
stato”.
Nelle
e
con
Norme
e
la
situazione
Istruzioni
pel
Funzionamento del Servizio di Censura diffuse riservatamente dal Ministero dell’Interno all’inizio del ’17, si motivava così
tale
disposizione: “Le guerre moderne non si decidono solo, alle frontiere, dagli eserciti che stanno in campo: esse impegnano tutte le risorse materiali e morali dei popoli, di guisa che l’andamento della guerra può esser compromesso non meno dalla pubblicazione degli effettivi
militari,
dei
cannoni
e
delle
munizioni
di
cui
dispongano, che da qualsiasi altro mezzo il quale, con l’enorme, rapida diffusione della stampa contemporanea, porti negl’intimi tessuti
dell’organismo
sociale
un’azione
dissolvente,
o
anche
da
Roma
soltanto deprimente.” Per
questo
raggiungevano potevano
le
i
telegrammi
Prefetture
riguardare
che
per
qualsiasi
quotidianamente
sollecitare anche
il
innocuo
loro
intervento
episodio
che
si
prestasse a ”deprimere lo spirito pubblico”. Non dovevano apparire sui
giornali
determinate quelle
di
non
dal
solo
le
caroviveri
disgrazie
e
notizie o
dalle
incidenti
di
delle
agitazioni
lotte
operaie,
vario
genere
sociali
ma
neppure
come
scontri
ferroviari, terremoti, malattie a carattere epidemico. E poi era
proibita ogni informazione su arresti per spionaggio, condanne dei tribunali militari e civili, condizioni dei prigionieri di guerra, iniziative del papa, del presidente Wilson o del PSI a favore della pace; non si dovevano suscitare allarmi sulla nocività della saccarina
o
sulla
presenza
di
sommergibili
nemici
o
sulla
solidità delle banche; si dovevano censurare i toni accesi degli scontri
politici
dall’acqua
in
alta
a
parlamento Venezia.
e
Per
perfino non
i
danni
parlare
del
provocati divieto
di
pubblicare nomi e numeri dei morti, feriti e prigionieri, che comportava necrologi,
anche di
tassative
cui
si
regole
per
prescrivevano
quanto
perfino
le
riguardava dimensioni
i dei
caratteri e lo spessore delle listature a lutto. Le
affermazioni
pubbliche
del
governo
miravano
a
dare
un’immagine rassicurante di queste disposizioni e ad invitare alla prudenza
nella
loro
applicazione:
Salandra
affermava
che
la
censura è dannosa sia per chi la subisce che per chi la esercita, anche se è necessaria in guerra, e Orlando proclamava che una censura inutile e irritante danneggia gli stessi interessi della guerra. Tuttavia era inevitabile che un campo di intervento così ampio e discrezionale, affidato a una così numerosa schiera di censori
improvvisati,
desse
luogo
a
iniziative
anche
contraddittorie e ridicole, come testimoniano alcuni dei documenti qui riportati.
In base al Regio decreto del 23 maggio 1915 furono dunque istituiti presso le Prefetture gli Uffici di Censura Telegrafica e sulla
Stampa,
a
cui
era
assegnato
di
preferenza
personale
militare. A Pisa presiedeva l’ufficio il Viceprefetto Gioppi, ma i funzionari
addetti
erano
militari,
sia
pure
a
diverso
titolo.
L’ufficio comprendeva due sezioni, una incaricata del controllo sulla stampa e affidata all’avvocato Barsotti, sottotenente della milizia territoriale, l’altra relativa alla censura telegrafica, di cui era responsabile il professor Pratesi, Provveditore agli studi
e
colonnello
della
riserva.
Da
Pisa
dipendeva
poi
la
Sottoprefettura
di
Volterra,
a
cui
faceva
capo
anche
il
Commissario di P.S. di Piombino che si trovava a operare in una situazione
assai
difficile,
a
causa
delle
tensioni
determinate
dalla presenza di una forte classe operaia e di un’amministrazione socialista, ma forse anche delle indicazioni contraddittorie che riceveva dai superiori, nella lunga catena gerarchica di cui era l’ultimo anello. Nelle sette
carte
buste
dell’Archivio
intitolate
della
Censura
Prefettura politica
sono
che
conservate
testimoniano
dell’intensa attività svolta dall’ufficio negli anni 1915-19. Sono documenti raggruppati disordinatamente, soprattutto di due tipi. Il
primo
è
quello
quotidianamente
il
dei
telegrammi
Ministero
cifrati
dell’Interno
con
cui
inviava
a
pressoché tutti
i
Prefetti direttive sulle notizie da censurare e sulle disposizioni da dare alla stampa, con un crescendo di urgenza destinato ad aumentare in modo burocraticamente parossistico col passare degli anni: la sigla iniziale “precedenza” viene sostituita man mano da “precedenza
assoluta”,
da
“precedenza
su
tutte
le
precedenze
assolute” e infine da “precedenza assoluta su tutte le precedenze assolute” ai tempi della conferenza di pace. Un secondo tipo di documenti comprende le copie dei giornali stampati localmente e sottoposti a censura.
Per avere un’idea
della mole di lavoro dell’avvocato Barsotti, bisogna ricordare che la quantità di periodici stampati a Pisa era enorme se confrontata con quanto accade oggi. Da un appunto del viceprefetto risulta che nel
giugno
del
bisettimanale,
7
’17
solo
a
settimanali,
Pisa 1
uscivano
quindicinale,
3
quotidiani, 5
mensili.
1 In
concreto nelle buste della Censura politica sono presenti circa 25 testate
diverse,
Firenze.
Oggetto
stampa
socialista
ogniqualvolta
si
stampate di e
anche
a
Viareggio,
Piombino,
particolare
attenzione
era
anarchica,
anche
qui
ampiamente
un
commento
lasciasse
sfuggire
Lucca,
naturalmente
la
censurata
sull’immane
macello. Ma anche la presenza di due quotidiani (Il Messaggero Toscano e Il Corriere Toscano) e di diversi periodici cattolici
(o, come si diceva, clericali) era considerata con sospetto, date le posizioni favorevoli alla pace del papa e del clero. Un altro gruppo di documenti, spesso divertenti, si riferisce all’attività
di
controllo
svolta
dalle
autorità
locali
su
richiesta dei funzionari romani addetti alla censura telegrafica internazionale, cittadini dello
messi
stranieri
spionaggio
in
sospetto
dagli
uffici
mobilitava
da
telegrammi
postali
pisani.
forze
ingenti
spediti
a
L’ossessione
per
raccogliere
informazioni minuziose su piccoli eventi familiari o litigi di innamorati: e i tempi di recapito degli sfortunati telegrammi si allungavano all’infinito. Un caso esemplare riguarda il telegramma spedito a Tolone da una signora di Buti e intercettato dal censore a causa di un misterioso: “Fai attenzione ai treni”, che seguiva la comunicazione: “Giorno 20 mattina parto”. Dopo 10 giorni e le opportune
indagini,
i
carabinieri
di
Vicopisano
stesero
un’accurata relazione sul fatto che la signora in questione aveva “relazioni
amorose
illecite”
col
destinatario
e,
intendendo
raggiungerlo a Tolone, lo invitava a informarsi dell’orario di arrivo dei treni da Pisa. In un altro caso una dettagliatissima ricostruzione di genealogie e relazioni familiari venne presentata dai
carabinieri
di
Collesalvetti
per
dare
il
via
libera
a
un
telegramma in cui un figlio emigrato in Argentina chiedeva alla sorella dove si trovasse la madre. Non stupisce che il Ministero dell’Interno,
preoccupato
che
i
ritardi
prodotti
da
questi
controlli mettessero sull’avviso i controllati, raccomandasse a più
riprese
una
corrispondenza. Pisa
avevano
continuamente
maggior
celerità
nell’inoltro
della
E d’altra parte diversi titolari di aziende di
rapporti
commerciali
sottoposti
ai
rigori
con
l’estero
della
per
censura:
cui tanto
erano che
qualcuno finì per lamentarsene aspramente, denunciando di averne ricevuto un danno economico. Quanto alle disposizioni che arrivavano da Roma, a parte la già accennata tendenza a un controllo capillare e onnicomprensivo delle informazioni, si coglie in molti interventi un atteggiamento prudente e di sostanziale buon senso, in linea con la volontà del
Ministro Orlando di evitare inutili tensioni: “rigidezza unita a tatto”
è
il
Prefetti
motto
che
perché
lo
compendia.
sollecitino
i
È
frequente
direttori
l’invito
di
ai
giornali
all’autocensura, intervenendo in modo da “far valere più che il rigore
della
censura
la
personale
influenza”:
e
da
parte
dei
giornali moderati la risposta a queste sollecitazioni era sempre positiva.
C’è il richiamo a tener conto anche delle esigenze
economiche dei produttori di cartoline illustrate, quando venne introdotta
la
censura
su
quelle
di
propaganda
politica
o
di
contenuto militare. C’è un rimbrotto energico al Commissario di P.S. di Piombino che aveva censurato un articolo de L’Operaio solo perché a suo parere “menomava il prestigio dell’ufficio di P.S.”, cioè del censore stesso: “simili abusi, replica severamente il Capo
gabinetto
del
Ministro,
riescono
lesivi
al
prestigio
dell’autorità più che qualsiasi pubblicazione di giornali”.
I documenti che seguono rappresentano un esempio significativo di
quanto
è
raccolto
nelle
buste
della
Censura
politica
dell’Archivio della Prefettura, ma sono stati scelti anche in base alla
prevedibile
chiarezza
della
loro
riproduzione
e
alla
decifrabilità del loro testo. Quindi non è detto che siano i più importanti prestino
da
un
comunque
punto a
di
vista
sollecitare
storico. la
Penso
curiosità
però di
chi
che
si
abbia
interesse a un rapporto diretto con le fonti, nel confrontarsi con quell’evento
così
complesso
e
così
fondante
del
nostro
essere
italiani che è la Grande guerra: e quindi in particolare degli studenti, alle prese col complicato e pure essenziale rapporto con lo studio della storia.
Bibliografia: Luigi Ambrosoli, Né aderire né sabotare, Milano 1961 Vittorio Foa, Questo Novecento, Torino 1996 Antonio Gibelli, La Grande guerra degli Italiani, Firenze 1998 Mario Isnenghi, La Grande guerra, Firenze 1997 Mario
Isnenghi,
Le
guerre
degli
italiani.
Parole,
immagini,
ricordi (1848-1945), Milano 1989 Odoardo Marchetti, Il servizio informazioni dell’esercito italiano nella Grande guerra, Roma 1937 Piero
Melograni,
Storia
politica
della
Grande
guerra
1915-18,
Milano 1998 Piero Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965