IL BILANCIO SOCIALE COME STRUMENTO DI COMUNICAZIONE °°°°° di Sergio Ricci 1 °°°°° Introduzione Lo scopo del presente contributo è presentare un insieme di idee sul bilancio sociale del terzo settore e dell’economia sociale italiana, in modo da esaminare come le realtà del non profit relazionano e comunicano la loro “mission” istituzionale e la loro dimensione socio-economica. Attraverso tale analisi si vuole vagliare quindi le varie esperienze. Inoltre, per dovere di ricerca si ricordano comunque di seguito le principali (ma non le uniche) correnti di analisi, standard e redazione del bilancio sociale. Esse sono: 1. l’ISAE (Institute of Social and Ethical Accountability) che è una Associazione internazionale impegnata nello sviluppo della responsabilità sociale e del comportamento etico nelle imprese e nelle Organizzazioni Non Profit. Ha prodotto tra gli altri documenti il “Copenaghen Charter” che è una guida allo stakeholders reporting, e l’”Accountability 1000” (AA1000) che è uno standard di processo 2. il GRI (Global Reporting Initiative) organizzato da CERES (Coalition for Environmentlally Responsible Economies) in partnership con le Nazioni 1
Esperto di economia e diritto del non profit. Laureato all’Università Bocconi di Milano e specializzato all’Université H. Poincaré di Nancy. Esperto della rivista TerzoSettore del Sole 24 Ore e del Quotidiano Avvenire. Autore di oltre duecentotrenta pubblicazioni sul tema del non profit sulle maggiori riviste italiane ed estere. Tra i clienti dello Studio da lui fondato, specializzato e rivolto esclusivamente al terzo settore, si annoverano anche alcune tra le più note realtà italiane del non profit . Tale contributo riporta le idee elaborate ed espresse durante il seminario del giorno 8 novembre 2008 presso il CSV di Padova. Per commenti ed informazioni inviare una mail a =
[email protected]
Unite e che ha prodotto “linee guida” internazionali per la redazione di report sulle prestazioni economiche, ambientali e sociali sostenibili; 3. il CEPAA (Council for Economic Priorities Accreditation Agency) che è una società internazionale di accreditamento per la certificazione etica e che ha emesso uno standard internazionale (SA8000) che copre sette aree di rendicontazione sociale: lavoro infantile, salute e sicurezza sul lavoro, libertà di associazione e rappresentanza sindacale, discriminazioni (sessuale e razziale), pratiche disciplinari, orario di lavoro, retribuzioni minime; 4. il CSR Europe che ha prodotto linee guida (volontarie) per la comunicazione ed il reporting della Corporate Social Responsability; 5. il GBS (Gruppo di Studio per la statuizione dei principi di redazione del Bilancio Sociale), per le tematiche italiane, che ha emesso, nel 2001 linee guida “Principi di redazione del Bilancio Sociale”. Di seguito invece si presentano, suddivise, in paragrafi, alcune idee chiave sul concetto di bilancio e rendicontazione sociale che, ad avviso dell’autore, riflettono la natura di comunicazione e “strumento esterno” del bilancio sociale stesso. Tali idee sono : criteri generali del bilancio sociale; il codice etico come strumento integrato al bilancio sociale anche con riferimento alla “politica” delle erogazioni liberali; il bilancio sociale come strumento di responsabilità sociale; l’aspetto di ricchezza ridistribuita alla società da parte di un ente non profit come concetto che può essere evidenziato in un bilancio sociale. Il concetto di bilancio sociale e di bilancio di missione. Le parole chiave: la dimensione economica, la dimensione sociale, gli stakeholders e la comunicazione del bilancio sociale
Il bilancio sociale nasce storicamente nel mondo profit 2 per rispondere ad una esigenza di responsabilità sociale, invece quando passa nel settore non profit diventa lo strumento più adatto ad esprimere gli obiettivi di organizzazioni, per loro stessa mission istituzionale, votate ad obiettivi di interesse sociale e/o comune. Nel non profit il bilancio sociale (o bilancio di missione) si trasforma nello strumento essenziale per monitorare e misurare processi e risultati, in relazione alle specifiche necessità ed alle specifiche attività di interesse sociale svolte. Diversi autori hanno già sottolineato che il bilancio di missione o sociale (con gli opportuni richiami alle attività di natura finanziaria e patrimoniale, all’analisi del valore aggiunto e della dimensione economica), dovrebbe forse essere l’unico bilancio realmente presentato da un’organizzazione senza scopo di lucro per la finalità istituzionale connessa al suo esistere. Per analizzare i bilanci sociali delle organizzazioni non profit, è interessante vedere come organizzazioni che non hanno come prioritario il risultato economico di periodo avendo un obiettivo di carattere sociale come fine precipuo della propria attività, hanno fatto proprio lo strumento del bilancio sociale. Infatti i documenti contabili tradizionali, pur essendo necessari per monitorare l’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale non forniscono alcuna indicazione aggiuntiva sulle capacità dell’ente non-profit di perseguire i propri fini, difficilmente valutabili da un punto di vista numerico. Un esempio per tutti : la valorizzazione del numero di interventi svolti 2
Nel 1978 negli Stati Uniti d’America, la maggioranza delle 500 principali società secondo la classifica pubblicata da Fortune, forniva delle informazioni di natura sociale. Successivamente molte imprese tra cui : Ben & Jerry, Avon, Starbucks, Johnson&Johnson pubblicavano per prime dei bilanci sociali. In Germania, nel luglio 1973 viene pubblicato il primo bilancio sociale da parte della Steag di Essen e nel 1977 il gruppo di lavoro Sozialbilanz-Praxis definisce un modello di base per il bilancio sociale. Non dimentichiamo infine la Francia che è l’unico paese che ha approvato una legge riguardante il bilancio sociale ( prima di quella italiana sull’impresa sociale che ne prevede l’obbligatorietà). La legge del 12 luglio 1977 sancisce l’obbigatorietà del bilancio sociale per aziende con più 750 dipendenti ed a partire dal 1981 l’obbligo è stato esteso a società con più di 300 dipendenti. La norma prevede uno schema di bilancio che si basa su vari indicatori sociali e che mira in particolare alle esigenze dei lavoratori presenti nell’impresa.
da personale volontario non viene affatto valorizzata all’interno di un bilancio di natura contabile ed invece sarebbe interessante la sua valorizzazione (non solo ai fini di una rendicontazione sociale ma anche ad esempio ai fini del rispetto delle norme sul volontariato). Ecco allora che il bilancio sociale può aiutare l’ente non profit a superare i limiti del bilancio tradizionale nel verificare che si stiano conseguendo gli scopi non lucrativi prefissati e che formano l’oggetto statutario, determinando nello stesso tempo una misura dell’efficienza e dell’efficacia con cui l’ente non profit sta realizzando gli stessi attraverso l’individuazione di appositi parametri di intervento sociale, per l’individuazione di una corretta dimensione sociale in cui opera l’ente stesso. Infatti, se applichiamo ad un ente non profit il generale principio di coerenza fra obiettivi di gestione sociale, sistema informativo e rendiconto di comunicazione, il bilancio, dovendo soddisfare le esigenze conoscitive dell’ente, non potrà che tradursi in un bilancio sociale ancor prima che economico, non essendo il reddito di periodo l’obiettivo finale a cui tende la gestione dell’ente non profit stesso. Tutte le organizzazioni non profit hanno quindi questa necessità di rendicontazione che superi i sistemi tradizionali, e quindi anche una ricerca di trasparenza e di chiarezza nei confronti di alcune categorie di stakeholders, dei finanziatori in primis, ma anche della comunità di riferimento 3 e dei vari interlocutori che relazionano con l’ente. Gli enti non profit approntano pertanto strumenti vari di rendicontazione sociale per esprimere la loro mission e le modalità di relalizzazione della stessa
e che
possono coesistere o lievemente sovrapporsi: relazione sociale, bilancio sociale, bilancio di missione. L’accento ( visionando i vari bilanci e relazioni sociali degli enti ) è posto su profili leggermente diversi: il coinvolgimento degli stakeholder, l’approfondimento della mission, la dimensione economica, la dimensione sociale, 3
Non a caso da qualche anno l’esigenza comincia ad affermarsi anche nelle amministrazioni pubbliche. Per un riferimento vedi S. Ricci in Terzo Settore n. 5/2006 pg.44 e in Terzo Settore n.
la comunicazione all’esterno. Il fine comune è permettere una lettura differente da quella meramente contabile dell’attività svolta e fornire, attraverso l’analisi dei loro bilanci sociali, l’importanza della finalità sociale svolta dagli enti non profit. Se vogliamo, dunque, realizzare quella potenzialità che indubbiamente i bilanci sociali hanno, sia per il settore profit che per quello non profit, vale la pena partire da queste considerazioni generali e fare riferimento a strumenti concreti che esistono e che permettono di riempire di contenuti questo strumento, evitando i rischi di operazioni puramente strumentali e di facciata. Inoltre, le esperienze fatte evidenziano la valenza strategica del processo di rendicontazione, che sfocia nello strumento del bilancio sociale. Infatti, il bilancio sociale rappresenta un’opportunità per innescare processi d’innovazione
collegando a un unico
strumento di gestione: •
la strategia dell’ente;
•
la gestione delle relazioni con gli stakeholder interni ed esterni;
•
le attività di programmazione, controllo, verifica e miglioramento.
L’efficacia di questo approccio dipende in gran parte dalla volontà dell’ente non profit di impegnarsi nello sviluppo di uno strumento innovativo che va sostenuto in termini politici e organizzativi, facendosi carico anche di decisioni importanti per la vita dell’ente. Il bilancio sociale dovrebbe in sostanza permettere all’ente di dimostrare se e come ha creato valore pubblico per la comunità locale. Per far ciò non è sufficiente comunicare solo i risultati conseguiti, ma occorre innanzitutto comunicare e condividere i valori di riferimento e le politiche che si intendono attuare per lo sviluppo della comunità e del territorio. Tentiamo quindi una definizione di bilancio sociale quale strumento che permette all’organizzazione di delineare, gestire e comunicare il proprio ruolo nel contesto socio-economico in cui opera. Un mezzo strategico per governare e migliorare la responsabilità 9/2007 pg.57-59.
sociale e le relazioni con i soggetti direttamente e indirettamente collegati all’organizzazione (stakeholder interni ed esterni), al fine di ottenere maggiore legittimazione sociale e visibilità, rafforzare la fiducia e ampliare le manifestazioni di consenso. Va sottolineato quello che potrebbe sembrare una debolezza e che invece, costituisce un punto di forza del bilancio sociale: il fatto di essere non obbligatorio, ma frutto di una scelta ragionata da parte dell’ente. Questo è un punto di ricchezza, in quanto appare quasi una scelta “obbligata” dalla responsabilità verso la comunità. In termini di ritorno d’immagine, questo non è un dettaglio. Aspetti essenziali del bilancio sociale
L’importanza del codice etico Dalla lettura di numerosi bilanci sociali predisposti da organizzazioni non profit si evidenzia come sia poco diffusa la redazione di codici etici che dovrebbero invece integrare e affiancare il bilancio sociale. Quando si analizza la mission istituzionale di un ente non profit si possono evincere due attività che vanno di pari passo: una più generale rivolta al controllo delle politiche dell’organizzazione e che può essere esposto compiutamente nel bilancio sociale; l’altra legata ai
comportamenti individuali delle persone che concretamente si adoperano per le attività organizzative e gestionali dell’ente stesso e le cui attività, comportamenti e proposte possono confluire ed essere evidenziate nel codice etico. Il codice etico è un mezzo efficace a disposizione delle organizzazioni non profit per prevenire comportamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell’ente senza scopo di lucro, poiché introduce una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche e sociali dei propri dirigenti, dipendenti e collaboratori dell’ente stesso. La diffusione di tali documenti, sia pure di struttura e contenuto assai diversi tra loro, è cresciuta nel corso degli anni. In particolare negli Stati Uniti, dove la redazione dei codici etici ha avuto una diffusione straordinaria, tanto che circa l’85% delle principali imprese del Paese ha adottato tale strumento. L’impulso è stato dato a partire dal 1991 quando il Governo americano ha emanato delle norme specifiche i in materia di azioni criminali compiute da parte delle imprese. In sostanza, si afferma che, nei casi di contestazione, già il fatto di aver realizzato un codice etico consente di provare la buona fede dell’ente non profit.La redazione del codice etico dovrebbe variare da ente a ente (anche in virtù della diversità delle tipologie giuridiche del Terzo Settore), ma generalmente la struttura viene sviluppata su quattro livelli: 1. i principi etici generali che raccolgono la missione istituzionale dell’organizzazione non profit, le finalità statutarie e il modo più corretto di realizzarla; 2. le norme etiche per le relazioni dell’organizzazione non profit con i vari stakeholders (soci, utenti, fornitori, collaboratori,dipendenti ecc); 3. gli standard etici di comportamento e violazione delle norme del codice; 4. gli strumenti di attuazione.
le sanzioni interne per la
L’attuazione dei principi contenuti nel codice etico è affidata di solito a un “comitato etico” che ha il compito di diffondere la conoscenza e la comprensione del codice all’interno dell’ente, monitorare l’effettiva attivazione dei principi contenuti nel documento, ricevere segnalazioni in merito alle violazioni, intraprendere indagini e comminare sanzioni. La metodologia realizzativa prevede: •
un’analisi della struttura aziendale per l’individuazione della mission e dei gruppi di interlocutori di riferimento;
•
la discussione interna per l’individuazione dei principi etici generali da perseguire, le norme etiche per la relazioni dell’impresa con i vari stakeholders, gli standard etici di comportamenti;
•
la consultazione degli stakeholders per la condivisione dei principi etici generali e particolari per ogni gruppo;
•
l’adeguamento dell’organizzazione dell’ente non profit, delle procedure, delle politiche imprenditoriali con riferimento ai principi etici del codice. In particolare, riveste una notevole importanza l’attività di formazione etica finalizzata a mettere a conoscenza tutti i soggetti dell’impresa dell’esistenza del codice e di assimilarne i contenuti. Il dialogo e la partecipazione sono indispensabili per far condividere a tutto il personale e ai collaboratori dell’ente i valori presenti in questo importante documento.
Un esempio interessante del rapporto profit/non profit nella redazione del codice etico : la politica delle erogazioni liberali In tale paragrafo si vuole mettere in evidenza, con riferimento al codice etico, un rapporto di particolare potenziale interesse sia per gli enti non profit che per le aziende for profit: quello relativo alla politica delle erogazioni liberali, vista nella differente fattispecie del donatore e del donante e di come questa potrebbe essere
codificata in un codice etico in entrambe le realtà. Andiamo ad esaminare brevemente le due tipologie. Dal versante dell’azienda for profit, nel ricordare che la politica delle erogazioni liberali è senz’altro una parte importante della strategia di responsabilità sociale di una azienda, andiamo a vedere cosa potrebbe contenere un paragrafo del codice etico legato a tale disciplina. Innanzitutto potrebbe essere richiesta e codificata nel codice etico : •
la presenza di ogni condizione statutaria e di comportamento coerente con la natura giuridica presentata dall’ente non profit nella richiesta di partnership
•
la richiesta di una rendicontazione, di progetto e/o attività legata alla donazione, precisa e conforme alla legislazione contabile e fiscale
•
l’adozione degli standard contabili e fiscali previsti dalle norme ( si pensi agli obblighi della legge 80/2005 “Più dai meno Versi”)
•
la verifica della progettualità svolta dall’ente non profit e la sua continuità nel tempo
Altre condizioni più specifiche e per aziende for profit più legate all’ambito territoriale e/o specifico potrebbero essere : •
la richiesta che l’attività sociale dell’ente possa essere legata al territorio di riferimento in cui opera l’azienda
•
la proposta e il coinvolgimento in via prioritaria di enti non profit in cui il personale
dell’azienda
presta
attività
di
volontariato,
con
un
riconoscimento formale anche dell’attività di dipendenti e/o collaboratori dell’azienda che svolgono attività di natura sociale •
la coerenza della mission istituzionale dell’ente non profit con l’attività svolta dall’azienda ( evitando, ovviamente, rapporti di pura strumentalità fiscale)
•
la possibilità di finanziare, in totale trasparenza, partiti o movimenti politici
Invece , dal versante dell’ente non profit, il paragrafo relativo alle valutazione delle erogazioni liberali delle aziende for profit dovrebbe comprendere almeno: •
una precisa valutazione di natura socio/ambientale dell’azienda che intende essere donatrice dell’ente non profit
•
la verifica del rispetto da parte dell’azienda donatrice di politiche di responsabilità sociale oppure l’adozione di bilanci sociali, codice etici e certificazioni sociali ed ambientali
•
la richiesta di mancanza di “strumentalità” della donazione se non rivolta all’attuazione di specifici progetti sociali
•
la precisa e netta distinzione tra donazione e/o erogazione liberale a fondo perduto ed iniziative di “cause related marketing” o di “co-marketing”
•
la totale indipendenza delle decisioni dell’ente non profit rispetto alla decisionalità dell’azienda profit di concedere la donazione e quindi il vincolo dell’indipendenza dell’ente rispetto alla donazione stessa
Come visto, differenti e certamente non esaustive possono essere le “condizioni” poste in un codice etico relativamente a tali aspetti. Del resto, in un sviluppo del settore non profit, che porterà a sviluppi sempre più ampi nelle relazioni , anche economiche, tra cittadinanza/ aziende for profit ed enti non profit, la presenza di un codice etico che “autoregolamenta” determinatei aspetti potrebbe e dovrebbe essere una ennesima ulteriore barriera di garanzia per comportamenti opportunistici ed eccessivamente strumentali. Il bilancio sociale come fattore strategico di responsabilita’ sociale d’impresa Il bilancio sociale può essere anche uno strumento che promuove efficacemente un concetto di Responsabilità Sociale delle Imprese, basata sul rispetto dei diritti e dell’ambiente? La risposta potrebbe essere “sì”, ma il condizionale è d’obbligo
poiché ci sono una serie di fattori rilevanti che devono essere tenuti in considerazione per stendere un bilancio sociale che si concentri sulla sostanza e non solo sulla forma e che possa fornire degli efficaci indicatori per misurare la responsabilità sociale d’impresa. Richard Howitt – il Parlamentare Europeo britannico che ha promosso presso il Parlamento Europeo l’adozione della Risoluzione su un nuovo partenariato per la RSI – si è espresso in termini di bilancio sociale obbligatorio per le imprese europee; un bilancio sociale che, fornito di opportune linee guida, fornisca delle informazioni complete sull’impatto sociale ed ambientale dell’attività dell’impresa su tutta la filiera di produzione del valore e che dunque diventi tanto più significativo quando l’impresa delocalizza la produzione in Paesi terzi o quando la fornitura avviene in questi stessi Paesi. Richiamare
il
bilancio
sociale
nella
Risoluzione
Howitt
e
chiederne
l’obbligatorietà non significa solamente riconoscerne l’importanza, ma accogliere le richieste che da diverse categorie di stakeholders, innanzitutto dalla società civile, vengono effettuate perché, in ogni caso, ai rapporti economici e finanziari sull’attività delle imprese venga affiancato un rapporto sociale che tenga conto di un insieme comprensivo di indicatori sociali ed ambientali collegati agli indicatori economici. Ma quali parametri possono essere indicati per un bilancio sociale affinché possa fornire un valido aiuto nella valutazione della responsabilità sociale d’impresa? L’ideale, rispetto ai parametri di riferimento, sarebbe un approccio standardizzato che permetta di mettere a confronto l’attività, i risultati e le criticità sollevate dalle imprese europee: in pratica, questo può essere fattibile se i bilanci sociali vengono approvati da un organo indipendente incaricato della verifica dei bilanci sociali stessi. Pubblicare un bilancio sociale in questi termini significa anche “sollevare il velo” sulle catene di fornitura e di produzione del valore: il monitoraggio e l’informazione su quanto avviene nella supply chain, nell’attuale scenario globale, è uno dei punti più controversi e certamente problematici della
RSI soprattutto in settori specifici e spesso frammentati e difficilmente tracciabili. Può un bilancio sociale fornire informazioni su quanto avviene nelle catene dell’appalto e del subappalto? Le imprese possono, ad esempio, benissimo inserire queste informazioni all’interno del bilancio sociale. Quali dovrebbero essere, quindi, i criteri che guidano un bilancio sociale che, nell’attuale scenario internazionale, sia in grado di collocarsi in una reale prospettiva di RSI? Ci sono alcuni parametri che si possono identificare e che si stanno affermando in maniera crescente. Questi parametri si possono così riassumere : •
Applicazione effettiva del bilancio sociale all’interno dell’azienda;
•
Sistemi di gestione e strategie di responsabilità sociale condivise da tutti gli stakeholders;
•
Un’analisi chiara e veritiera dei limiti
e delle criticità dell’attività
d’impresa; •
L’identificazione delle strategie e degli obiettivi per superare tale criticità;
•
La previsione di meccanismi di monitoraggio e di verifica con il coinvolgimento di attori esterni;
•
Lo sviluppo e la gestione delle strategie per il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente in tutta la filiera produttiva.
Pensare ad un bilancio sociale in questi termini vuol dire tenere effettivamente conto dell’approccio multistakeholder – uno degli elementi essenziali della RSI – che prevede il coinvolgimento di tutti i portatori di interessi, a partire dai lavoratori e dalle comunità in cui avviene la produzione. Questi parametri e le strategie per incorporarli all’interno dei bilanci sociali, sono stati evidenziati anche nell’ambito del primo rapporto di verifica sul Global Compact - il programma sulla responsabilità sociale basato su 10 principi in relazione ai diritti umani, agli standards sul lavoro, all’ambiente ed alla lotta alla corruzione (lanciato da Kofi Annan nel 2000), effettuato dalle Nazioni Unite a Ginevra nel
luglio di questo anno. Certamente, la volontarietà nella redazione del bilancio sociale e la mancanza di criteri uniformi possono essere elementi che vanno a scapito della reale inclusione dei parametri indicati. Tra le esperienze interessanti, che tentano appunto di dare uniformità alla stesura di bilanci sociali che includono strategicamente la priorità del rispetto dei diritti e dell’ambiente anche con riferimento alla filiera, va certamente citata la Global reporting Initiative che è stata lanciata nel 1997 sviluppando inizialmente attenzione all’impatto ambientale, ma espandendo in seguito la copertura anche alla dimensione sociale delle attività d’impresa. La Global Reporting Initiative ha avuto il merito di sviluppare delle linee guida, attraverso uno lavoro comune svolto da una serie di attori, per la stesura di rapporti sociali che vengono aggiornate da una rete di soggetti attivi sui temi della RSI a livello globale. Ovviamente, di cruciale importanza per la stesura di bilanci sociali che si riferiscano ai 6 criteri indicati, è il contenuto che a tali criteri si dà: in particolare per quanto riguarda il reporting sui diritti. A questo proposito, ci sono – oltre agli strumenti giuridici a livello internazionale e nazionale cui fare riferimento nel bilancio sociale – delle indicazioni importanti sulle aree più a rischio rispetto all’impatto sociale e sui diritti di cui le aziende dovrebbero tenere conto nel momento in cui relazionano sui propri meccanismi di produzione. Il Danish Institute for Human Rights, che da anni si occupa di assistere le imprese nello sviluppo di politiche e di strumenti di RSI, ha sviluppato lo strumento Country Risk Assessment, cui le imprese possono fare riferimento sia nel momento in cui avviano la propria attività in un Paese, sia nel momento in cui devono riportare le informazione sulla produzione in quel Paese nel bilancio sociale. Il Country Risk Assessment classifica le aree a rischio per i diritti umani, inserendole in tre categorie (alto, medio e basso rischio) e fornendo strategie per affrontare le situazioni collegate: quando un’impresa stende un rapporto sociale relativo a queste aree potrebbe riferirsi a tali categorie
per dare un’informazione completa che tenga conto delle aree potenzialmente più critiche a livello di impatto sociale dell’attività. L’ente sceglie di avvicinarsi al cittadino con una comunicazione semplificata più idonea a mostrare il valore sociale prodotto, lo rende più partecipe nella valutazione dell’operato dell’amministrazione e gli permette anche di contribuire al miglioramento delle attività.Per rispondere pienamente alle finalità di accountability, il bilancio sociale dovrebbe affiancare, alla rendicontazione dei risultati in rapporto agli obiettivi, la rendicontazione dei comportamenti in rapporto ai valori di riferimento. La correttezza dei processi di attuazione delle politiche chiama in causa principi quali l’equità e la trasparenza, i quali incidono significativamente su questioni quali l’accessibilità ai servizi, la legittimità dei procedimenti, la tutela dei diritti di tutte le parti interessate, la chiarezza delle modalità di partecipazione e di inclusione di tutti gli attori potenzialmente interessati, la trasparenza delle regole interne di funzionamento. Il concetto di “ricchezza redistribuita” nella riclassificazione economica del bilancio sociale delle organizzazioni non profit Come noto, la sola rendicontazione economica fornita dal bilancio e/o rendiconto economico non è in grado di chiarire appieno i risultati dell’impegno dell’organizzazione nell’orientare le proprie azioni al raggiungimento della missione ed al soddisfacimento delle aspettative e dei bisogni degli stakeholders. L’attività di una organizzazione non profi determina, infatti, una serie di ricadute sociali ed ambientali che certamente non si esauriscono nella logica della performance economica. D’altra parte, le informazioni raccolte nel bilancio sociale, che esprimono più compiutamente il ruolo dell’organizzazione non profit ed i risultati che è in grado di raggiungere, devono essere coerenti e devono raccordarsi con quelle fornite nel bilancio economico. Questo paragrafo si propone pertanto di descrivere le risorse economiche ed i più importanti dati del
bilancio economico che aiutano a qualificare il legame tra performance economiche e ricadute sociali delle attività svolte dalle organizzazioni non profit. L’analisi della composizione delle fonti finanziarie costituisce un aspetto particolarmente
importante,
perché
dà
conto
dell’impegno
profuso
dall’organizzazione non profit nella raccolta fondi e per la diversificazione delle stesse; in particolare, risulta rilevante la distinzione tra fonti istituzionali pubbliche e fonti private, che consente di evidenziare la “costante” capacità dell’organizzazio di gestire risorse finanziarie da impiegare nelle attività e, quindi, nel perseguimento degli scopi istituzionali. Il concetto da proporre per un’organizzazione non profit nel suo bilancio sociale il calcolo della cd. “ricchezza distribuita”. Tale calcolo prevede una riclassificazione del Conto Economico orientata all’individuazione della quota parte di risorse che va a beneficio di specifici ambiti territoriali o di intervento (destinati alle attività nelle diverse aree geografiche di realizzazione dei progetti) e a determinare la remunerazione
degli
stakeholders
(personale
e
collaboratori;
Pubblica
Amministrazione, sotto forma di imposte & tasse; finanziatori, sotto forma di interessi passivi). Nell’ambito del non profit in generale ( con l’esclusione di alcune realtà societarie del terzo settore), una logica strettamente contabile ed orientata al cd. “valore aggiunto” non sarebbe ovviamente spesso pertinente, visto che il “Totale ricavi” non deriva dalla vendita di prodotti e servizi, né da un processo operativo di trasformazione di fattori produttivi; le organizzazioni non profit, infatti, raccolgono risorse finanziarie per destinarle, in primis, ai progetti istituzionali per le quali sono state costituite e agli altri ambiti di attività. L’idea sottostante al concetto di ricchezza distribuita é in estrema sintesi, la seguente. Le organizzazioni non profit raccolgono risorse da diversi finanziatori ed in diverse forme. Tali risorse vengono destinate in minima parte alla copertura dei costi della cd. Area Generale (Servizi generali), nonché dei costi di fund
raising e altri costi per attività accessorie. La quota più consistente è la “ricchezza da distribuire”, ovvero quella parte di risorse che l’organizzazione non profit riconosce ai propri stakeholders per i servizi da ricevuti
o a diverso titolo
(stipendi, compensi, rimborsi, interessi passivi, imposte e tasse, ecc.). L’ammontare residuo coincide con la ricchezza “trattenuta” dall’ente, ovvero con il risultato d’esercizio, che misura quella parte di ricchezza economica prodotta, ma non distribuita, che viene pertanto trattenuta per l’autofinanziamento e che accresce la capacità operativa prospettica dell’ente stesso. Milano, 8 novembre 2008 Tutti i diritti riservati.
Dr. Ricci Sergio
i
Federal Sentencing Commission Guidelines for Organizations