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I diritti degli altri: relazione introduttiva1 1. Al coordinatore centrale di questa ricerca spetta prima di tutto il compito di chiarire il significato del suo titolo, “I diritti degli altri”: si tratta di una locuzione sicuramente di moda2 ma che può apparire vaga e scientificamente improduttiva, se non irrilevante o addirittura fuorviante, in particolare se applicata al mondo classico. Analizziamo separatamente i due concetti. Parlare di diritti (soggettivi) per il mondo antico è certamente un anacronismo. Tuttavia proprio la distinzione fra un Sé e gli Altri implica la percezione di una serie di posizioni differenziate dal punto di vista della esplicazione delle potenzialità umane, dando luogo ad aspettative, al tempo stesso cognitive e normative, che possono legittimamente essere considerate un sistema embrionale di “diritti”. E’ a partire da questa base minima, e con tutte le cautele del caso, che la nozione di diritti è stata utilizzata nei contributi qui pubblicati. Oggi siamo soliti distinguere fra diritti umani, diritti politici, diritti civili, diritti sociali. Che nell’antichità vi sia stata una riflessione sui diritti umani, come vengono intesi oggi3 è da escludere: i giuristi romani hanno al massimo individuato una nozione di diritti “che la natura ha insegnato a tutti gli uomini”4, ma si tratta del risultato di una comparazione, non di un giudizio assiologico. E’ inoltre un luogo comune che non esistono nemmeno i diritti fondamentali dell’individuo nei --------------------------------------------
1 Benché la ricerca, di cui presentiamo qui i risultati, riguardi sia il mondo greco che il mondo romano, il numero dei contributi concernenti il mondo romano prevale nettamente. Tuttavia, poiché si tratta di un tema di ricerca tendenzialmente aperto, i risultati a cui siamo pervenuti per il mondo romano potranno essere ulteriormente estesi, fatte le debite distinzioni, anche alle corrispondenti tematiche greche, che qui non siano state oggetto di specifico approfondimento. Aggiungo doverosamente che le considerazioni da me svolte in questa relazione introduttiva, a prescindere da un’adesione di tutti all’impostazione generale della ricerca, sono espressione del mio personale punto di vista; il lettore del volume potrà rendersi conto se e in che misura trovano poi riscontro nei singoli contributi pubblicati. 2 S. BENHABIB, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge 2004, trad. it. I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Milano 2006. 3 M. FLORES (cur.), Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Torino 2005-2007, 8 voll. 4 G. PUGLIESE, Appunti per una storia della protezione dei diritti umani, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile 42 (1989), 619-659; M. TALAMANCA, L’antichità e i “diritti dell’uomo”, in Atti del Convegno in onore di P. Barile (Atti Lincei CLXXIV), Roma 2001, 41-89; P. VEYNE, La società romana, Bari 1990; U. VINCENTI, Diritto romano e diritti umani, in “Fides”, “humanitas”, “ius”. Studi Labruna, VIII, Napoli 2007; K.M. GIRARDET, U. NORTMANN (eds.), Menschenrechte und europäische Identität: die antiken Grundlagen, Stuttgart 2005.
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confronti della collettività (quelli che sono enunciati nella prima parte della Costituzione italiana): è la celebre contrapposizione della libertà degli antichi alla libertà dei moderni5. Nemmeno si può parlare di una rivendicazione di diritti sociali per l’antichità greca e romana6: il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla salute (non sempre chiaramente distinguibili dai diritti umani). Esistono, è vero, rivendicazioni sociali che tendono ad ottenere un riconoscimento anche in termini giuridici: mi riferisco, per quanto riguarda in particolare il mondo greco, alla redistribuzione della terra e alla cancellazione dei debiti. Ma non si tratta di rivendicazioni dirette a investire lo Stato della responsabilità di assicurare un livello minimo di benessere a tutti i cittadini; si tratta di rivendicazioni che implicano un riassetto delle strutture socio-economiche della comunità conseguibile di fatto solo attraverso la forza (la stasis in Grecia). E là dove emergono provvedimenti di carattere sociale, come le frumentationes a Roma, si tratta sempre di misure di carattere straordinario che non assurgono a diritti statualmente garantiti e non giungono a caratterizzare un regime politico o addirittura a creare strutture pubbliche permanenti. 2. Per quanto riguarda i diritti politici e i diritti civili, la differenza essenziale fra pensiero giuridico antico e moderno è che per gli antichi i diritti civili dipendono dal godimento dei diritti politici: il diritto di proprietà sugli immobili, il diritto a formare una famiglia fondata su un matrimonio riconosciuto, il diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti sono riservati ai cittadini (Aristotele dice alla fine del I libro della Politica che sono questioni politiche: 1260b). Schiavi e stranieri sono in linea di principio e per ragioni diverse, esclusi dal godimento di entrambi, anche se questo principio di esclusione conosce nel corso del tempo molteplici attenuazioni e trasformazioni. Ma nemmeno la categoria di cittadino si presenta come univoca e monolitica: l’esercizio ovvero il godimento dei diritti che derivano dalla cittadinanza può essere limitato da varie cause naturali o artificiali. Sono appunto questi dislivelli o queste discriminazioni all’esterno e all’interno della comunità di riferimento che ci portano a costruire la categoria di “altro” e a porci il problema se e in che senso agli “altri” fossero riconosciuti dei diritti. Va comunque subito osservato che la nozione di “altro” non può essere costruita prescindendo dalla nozione antica di persona, nozione che è stata al centro, in tempi recenti, di un ampio dibattito7. Senza poter dar conto qui nemmeno per sommi capi degli aspetti salienti di questo dibattito, mi --------------------------------------------
5 Su cui da ultimo E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari, Bologna 2010, 172, nt. 133. 6 C. FABRE, Social Rights under the Constitution, Oxford 2000; L. FERRAJOLI, “Principia iuris”: teoria del diritto e della democrazia, Roma-Bari 2007; P. COSTA, I diritti sociali: un diagramma del loro sviluppo, in “Iuris Quidditas”. Liber amicorum per B. Santalucia, Napoli 2010, 37-53. 7 V. di recente D. MANTOVANI, A. SCHIAVONE (curr.), “Homo” “Caput” “Persona”, Pavia 2007; E. STOLFI, Il diritto, cit., cap. V.
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limito a ricordare che in diritto romano persona, come mostra il celebre incipit delle Istituzioni di Gaio, viene inteso come soggetto astratto, a cui il diritto assegna un posto preciso nell’universo da lui costruito, mentre “la vivente concretezza dell’uomo”8 esula dall’ordine giuridico e, quando cade sotto l’attenzione del giurista, rappresenta quasi un elemento di disturbo, di cui il diritto è costretto, riluttante, a farsi carico9. Alla luce di questa considerazione mi pare quindi che gli “altri” vengano a collocarsi piuttosto sul versante della “nuda vita” per rifarci a una citazione da Benjamin, ormai diventata quasi una parola d’ordine. 3. Il tema, posto in questi termini, è vastissimo. Per tentare di circoscriverlo e di avvicinarci a quel che abbiamo inteso per “altri”, mi piace prendere le mosse da un’osservazione di Lelio Lantella, formulata, una trentina di anni fa, nell’ambito dello studio della struttura attanziale riscontrabile nel IV libro delle Istituzioni di Gaio, dedicato, come è noto, all’esposizione del diritto processuale romano (le actiones); un’osservazione che, a mio parere, è suscettibile di assumere un valore paradigmatico anche per il mondo greco. Cito: “Il Soggetto, cioè l’eroe positivo del racconto giurisdizionale … esce connotato come LiberoCittadino-Maschio-Padre-Proprietario-Creditore-Attore”. Prescindendo dalla temperie strutturalistica, a cui Lantella sapeva comunque ispirarsi con vigile intelligenza, mi pare che il tipo ideale definibile come Soggetto di diritto (ovvero il Sé: Lantella sottolineava l’uso dei pronomi io e noi per riferirsi appunto al soggetto di diritto nelle fonti giuridiche romane) rappresenti ancora un valido punto di riferimento per individuare a contrario chi sono gli altri. A ciascuna delle qualifiche che connotano il Sé (o l’Io) si potrebbero quindi contrapporre, in un gioco di opposizioni binarie, le principali figure dell’Altro per il diritto: Schiavo-Straniero-Donna-Figlio-Non proprietario (da distinguere da Nullatenente)Debitore-Convenuto. Già presso i giuristi romani si possono d’altronde riscontrare opposizioni in parte analoghe: si veda l’interessante serie enunciata da Ulpiano in D.22.4.6 (l’anziano è preferibile al giovane, la persona di maggior prestigio – honor – a quella di minore prestigio, l’uomo alla donna, il nato libero al liberto), dove il giudizio sociale orienta le scelte giuridicamente rilevanti10. 4. Una prima osservazione che si può fare, riguardo alle sequenze individuate sulla scorta del suggerimento di Lantella, è che alcuni di questi “tipi” cor-------------------------------------------8
E. STOLFI, Il diritto, cit., 149. Si v. anche A. SCHIAVONE, “Ius”: l’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 397: “il diritto romano costruito dai giuristi non fu mai … un diritto di individui, ma un diritto prima di cittadini e poi di sudditi possidenti, ancorati alla propria comunità o all’élite che governava l’impero”. 10 Su questo brano del Digesto v. D. DALLA, Le fonti giuridiche, in U. MATTIOLI (cur.), “Senectus”. La vecchiaia nel mondo classico, Bologna 1995, II, 292; per altri riflessi giuridici di valutazioni sociali differenziate v. infra. 9
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rispondono a realtà naturali che preesistono alla loro qualificazione giuridica e ne prescindono. Il diritto non fa altro che dare loro una disciplina e delle regole specifiche. E’ ovviamente il caso dei rapporti familiari: tra marito e moglie, tra padre (o genitori) e figli. La stessa cosa vale per realtà insieme politiche e socioculturali, come il rapporto fra cittadini e stranieri: il diritto interviene a qualificare e a disciplinare un dato socio-politico sottostante. La stessa osservazione vale per relazioni in cui viene in primo piano l’aspetto sociale ed economico, come il rapporto fra padrone e schiavi o fra creditore e debitore: il diritto elabora e traduce in termini giuridici il dato socio-economico. Ma perfino nel caso di rapporti costruiti dal diritto, che non hanno quindi un’esistenza indipendente dalla dimensione giuridica, come il rapporto fra attore e convenuto nel processo, l’idea di una qualche modalità pacifica di risolvere la lite fra due parti contrapposte è presente e operante nei rapporti sociali già prima che venga istituito un apposito apparato giudiziario11. Non sorprende quindi che queste relazioni, a prescindere dalla loro traduzione in rapporti giuridicamente regolati, possano essere e siano state studiate nell’ambito della storia sociale, anche se la storia sociale del mondo antico, a differenza della storia del diritto antico, è una disciplina relativamente recente (ricordo come in Italia l’insegnamento di storia sociale del mondo antico sia venuto alla ribalta negli anni ’70 del secolo scorso, nell’ambito del corso di laurea in storia, in corrispondenza d’altronde al periodo di massima fioritura di questo approccio specifico in ambito internazionale12). Risulta perciò evidente che, essendo la nozione di “altro” una categoria creata e utilizzata nell’ambito della storia sociale, lo storico del diritto che voglia indagare quando come e perché le varie figure di “altro” siano state oggetto di una regolamentazione giuridica non potrà prescindere dalla realtà sociale in cui tale figure sono state primariamente identificate. A questo fine appare allora opportuno confrontare gli strumenti di indagine e di classificazione che caratterizzano da un lato l’approccio degli storici sociali alla società greco-romana e dall’altro quello degli storici del diritto. Un simile confronto comporterebbe una valutazione dei risultati complessivamente ottenuti dalle ricerche di storia sociale del mondo antico negli ultimi decenni, compito che esula evidentemente dalle possibilità e dagli scopi di questa introduzione. Ci limiteremo qui ad accennare sinteticamente a quei filoni di ricerca socio-economica sulla stratificazione socia--------------------------------------------
11 V. U. WESEL, Frühformen des Rechts in vorstaatlichen Gesellschaften. Umrisse einer Frühgeschichte des Rechts bei Sammeln und Jägern und akephalen Ackerbauern und Hirten, Frankfurt am Main 1985 e, per il mondo greco, M. GAGARIN, Early Greek Law, Berkeley - Los Angeles - London 1986. 12 Si tratta di un tema di storia della storiografia che dovrebbe essere oggetto di specifica attenzione (dirò qualcosa più avanti): naturalmente c’era già stato Rostovzeff con le sue storie economiche e sociali, a cui si aggiungono, fra le opere più significative, E. GABBA, Del buon uso della ricchezza, Milano 1988; F. GSCHNITZER, Storia sociale dell’antica Grecia, Bologna 1997; G. ALFÖLDI, Römische Sozialgeschichte, Wiesbaden 1984.
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le ed economica nel mondo antico che più hanno stimolato adesioni o reazioni critiche da parte degli storici del diritto. 5. Per quanto riguarda il versante storico-sociale occorre partire dalla premessa che la realtà socio-economica della città-stato greca e romana non viene regolata sulla base di una stratificazione istituzionalizzata delle varie componenti della popolazione13, come era avvenuto nelle società medio-orientali, ma presenta un quadro mobile e contrastato. Ai cultori di storia sociale delle civiltà classiche si è posto così il problema di individuare le categorie per descrivere e comprendere una realtà così complessa e variegata. Da un lato sono state create categorie suscettibili di applicazione sia al mondo greco che al mondo romano, come tipicamente si è verificato nel caso degli studiosi che si ispira(va)no al marxismo, per i quali si tratta(va) comunque di società schiavistiche, che, in quanto incentrate essenzialmente sulla polarizzazione liberi/schiavi andavano analizzate in chiave di conflitto di classe14; più di recente i “gender studies” hanno isolato e messo in particolare rilievo la posizione delle donne, eventualmente ricomprese con gli schiavi sotto la categoria della subordinazione al capo famiglia, uomo e padrone, in una prospettiva che abbraccia mondo greco e mondo romano15. Dall’altro lato é dall’analisi delle fonti antiche che si è cercato di ricavare categorie applicabili in modo specifico rispettivamente alla società greca e alla società romana. Mi limito qui ad alcuni esempi fra i più significativi. Per quanto riguarda la Grecia vi sono studiosi che, facendo in particolare riferimento alla riflessione di Aristotele, individuano nel fattore economico l’elemento di differenziazione più rilevante e pensano a una società tripartita (ricchi, medi e poveri); oppure, per quanto riguarda in particolare le apparenti anomalie della realtà socio-politica ateniese, hanno proposto di applicare le categorie di analisi sociologica elaborate da Luhmann16. Per quanto riguarda Roma è stata messa in luce l’importanza della ripartizione in ordines17, e per l’età imperiale la ben nota distinzione, sociale ma con ricadute giuridiche almeno sul piano --------------------------------------------
13 Salvo eccezioni, come ad es. gli apetairoi a Gortina, che rappresentano sicuramente una categoria socialmente e giuridicamente intermedia fra cittadini e schiavi: v. S. LINK, Das griechische Kreta, Stuttgart 1994, 29. 14 Basti fare riferimento qui a G.E.M. DE S.TE CROIX, Class Struggle in the Ancient Greek World. From the Archaic Age to the Arab Conquests, London 1997². 15 La bibliografia è ovviamente vastissima. Mi limito qui a citare S.R. JOSHEL, S. MURNAGHAN, Women and Slaves in Greco-Roman Culture. Differential Equations, London - New York 1998; P. SCHMITT PANTEL, T. SPÄTH, Geschlecht und antike Gesellschaften im 21. Jahrhundert, in E. HARTMANN, U. HARTMANN, K. PIETZNER (Hrsg.), Geschlechterdefinitionen und Geschlechtergrenzen in der Antike, Stuttgart 2007, 23-36. 16 V. Ch. MANN, Politische Gleichheit und gesellschaftliche Stratifikation. Die Athenische Demokratie aus der Perspektive der Systemtheorie, in HZ 286 (2008), 1-36. 17 E. GABBA, Del buon uso, cit., e R. RILINGER, Moderne und zeitgenössische Vorstellungen der römischen Kaiserzeit, in Saeculum 36 (1985), 299-325; R. RILINGER, Humiliores-Honestiores. Zu einer sozialen Dichotomie im Strafrecht der römischen Kaiserzeit, München 1988.
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penalistico, honestiores/humiliores (e nel tardo antico fra potentiores e tenuiores)18. Ma nessuna di queste classificazioni è esaustiva ed è probabilmente proprio perché permetteva la massima elasticità nell’approccio e nella descrizione dei fenomeni sociali che ha avuto fortuna il ricorso a termini vaghi o generici come “altri” o “marginali”: lo studio dei “marginaux” in Francia19, o delle “Randgruppen” o degli “Aussenseiter” presso gli studiosi di lingua tedesca, ha avuto la sua massima fioritura nell’ultimo trentennio del ‘900. Particolare importanza va riconosciuta agli studi di Ingomar Weiler, che ha proposto di classificare le “soziale Randgruppen” sulla base di tre cause scatenanti la situazione di marginalità in cui tali persone vengono a trovarsi: a) destino personale (è il caso di vecchi, invalidi, malati, disabili, esposti, criminali, vedove e orfani); b) vittime di eventi collettivi, come guerre, catastrofi naturali, rivolgimenti politici o economici; c) comportamento ritenuto deviante o comunque difforme dai valori socialmente dominanti (è il caso di attori, prostitute, alcolisti, eretici, mendicanti ecc.)20. Gli studi di Weiler si riferiscono prevalentemente al mondo greco, ma le categorie da lui individuate sono idonee, con gli opportuni adattamenti, a descrivere anche la realtà romana. Oggi i “marginali” tendono a non essere più di moda21 (resiste il GIREA, con specifica attenzione alla schiavitù), forse perché si tratta di una categoria troppo generica per essere epistemologicamente significativa e si corre il rischio di limitarsi a sottolineare gli aspetti pittoreschi di una galleria di mostri (una sorta di “Wunderkammer” delle società antiche), isolandoli dal contesto sociale22. L’“Altro” o il “Diverso” sono termini più neutri rispetto a “Marginale”, in quanto appaiono dotati di una dignità pari a quella del Sé dal punto di vista terminologico; inoltre acquistano un senso proprio in quanto rinviano alle varie declinazioni sociali e giuridiche del Sé e non si limitano a designare una categoria residuale. Tuttavia, per comprendere come, quando e perché il diritto è intervenuto a rafforzare le norme sociali che regolano i rapporti fra il Sé e gli Altri, io credo che si debba guardare ancora con molta attenzione agli studi sui marginali condotti nel periodo che ho ricordato, proprio perché i -------------------------------------------18
R. RILINGER, Moderne und zeitgenössische, cit., e ID., Humiliores-Honestiores, cit. Si veda J.C. SCHMITT, L’histoire des marginaux, in J. LE GOFF, K. CHARTIER, J. REVEL (eds.), La nouvelle histoire, Paris 1978, 344-369. 20 I. WEILER, Witwen und Waisen im griechischen Altertum. Bemerkungen zu antiken Randgruppen, in H. KLOFT (Hrsg.), Sozialmassnahmen und Fürsorge. Zur Eigenart antiker Sozialpolitik, Graz 1988, 15-33. 21 Forse l’ultima grande sintesi in questa prospettiva è stato il bel libro di Valerio Neri, (V. NERI, I marginali nell’Occidente Tardoantico. Poveri, “infames” e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998), di cui vale la pena di riportare l’indice: Introduzione storiografica; Mendicanti e l’elemosina; Forestieri e vagabondi; Professioni infamanti: prostitute e lenoni, attori, gladiatori; Professioni proibite: maghi e indovini; Criminali: ladri, briganti, carcerati. V. ancora di recente R. MARINO, Povertà e malattia nella tarda antichità tra interventi pubblici e privati, in MediterrAnt. 10 (2006), 319-325. 22 Per una consapevolezza del rischio di procedere in modo troppo generico v. lo stesso I. WEILER, Soziale Randgruppen, in Die Gegenwart der Antike, Darmstadt 2004, 446-447. 19
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risultati cui sono pervenuti meritano ancora di essere messi a frutto dagli storici del diritto antico, che, per la maggior parte, non ne hanno colto l’importanza soprattutto sul piano del metodo. A margine si potrà osservare, in modo lapalissiano, come ogni epoca ponga al passato le domande del proprio tempo. Per rimanere nell’ambito della storia del diritto antico, basterà citare un solo esempio famoso: nel 1939 Francesco De Martino scriveva un vigoroso saggio23 per difendere il diritto romano dall’accusa di individualismo che gli rivolgevano soprattutto gli ideologi nazisti per sostenere la superiorità di una concezione organicistica del diritto. Oggi, che le società occidentali si interrogano sull’emersione di vecchie e nuove diseguaglianze e discriminazioni, è ben comprensibile che si passino al vaglio della nostra attuale sensibilità l’organizzazione sociale delle società classiche e i suoi riflessi giuridici. 6. Per quanto riguarda il versante della ricerca storico-giuridico, le figure, che la recente sensibilità storiografica identifica con gli “altri”, in particolare stranieri, schiavi e liberti, donne e minori, sono state prese in considerazione dalla dottrina in misura e in modo più o meno approfonditi. Tuttavia tali figure sono state studiate all’interno degli istituzioni pubbliche e private solo se e in quanto oggetto di specifica attenzione da parte del legislatore (in Grecia e a Roma) e dei giuristi (a Roma). Solo di rado ed eccezionalmente si è considerata la disciplina giuridica delle figure in questione partendo dalla realtà sociale sottostante, in ossequio a quel convincimento, divenuto da lungo tempo un luogo comune, che il diritto sia sempre in ritardo, nel senso che il diritto appare come il riflesso istituzionalizzato di un meccanismo sociale che si è costruito e ha incominciato a funzionare prima e al di fuori della sua regolazione giuridica. Applicato al tema della nostra ricerca, questo assioma implicherebbe che il diritto interviene a sancire l’alterità giuridica di soggetti socialmente già classificati come “altri”. Ma l’indagine storica mostra che la questione è più complessa: studiando il fenomeno della prostituzione a Roma McGinn ha notato che non ogni norma sociale diventa giuridica24. Esiste dunque un controllo sociale che copre un’area più vasta di quella che rientra nella previsione giuridica: esistono cioè categorie di persone il cui ruolo e il cui trattamento deriva dai valori socialmente dominanti e non, o almeno non esclusivamente, da definizioni e da norme giuridiche. Come ha scritto Stefano Rodotà 2006, “la questione decisiva rimane sempre quella di chi stabilisce il confine fra il diritto e il non diritto”. A Roma questa dialettica fra controllo sociale e controllo giuridico appare particolarmente --------------------------------------------
23 F. DE MARTINO, Individualismo e diritto romano privato, in Diritto e società nell’antica Roma, Roma 1979, 248-311. 24 T.A.J. MCGINN, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York - Oxford 1998.
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evidente25. Prima di tutto il punto di riferimento è comune: il mos maiorum da un lato sta alla base del controllo sociale diffuso e dall’altro costituisce il nucleo originario dello ius civile. Si aggiunga che sacerdoti, magistrati e giuristi, appartenenti tutti al ristretto ceto dominante, dapprima solo patrizio, poi patrizioplebeo, sono non soltanto i detentori del potere di controllo sociale ma sono anche gli unici legittimati a creare diritto. Si spiega così che vi siano meccanismi di controllo e di indirizzo che si collocano in una zona intermedia fra controllo sociale e controllo giuridico: esempio significativo di questo fenomeno è la nota censoria applicata dai censori, attraverso la quale si esercita un controllo istituzionalizzato che resta fuori dalla sfera propriamente giuridica; ma si pensi anche all’infamia/ignominia, misura di controllo sociale globale che, nella dimensione giuridica privata, è ricollegata in particolare alla rottura della fides e ha conseguenze limitate al piano processuale. Più complessa la situazione in Grecia, dove, dal punto di vista degli strumenti di controllo sociale, andrebbe meglio chiarito il rapporto fra leggi scritte, usi e costumi –ethe, e “leggi non scritte” – agraphoi nomoi26, e comunque affiorano, in periodi e luoghi diversi, strumenti di controllo sociale che esulano dalla sfera propriamente giuridica (come, ad esempio, i gynaikonomoi)27. Alla luce di queste considerazioni non si può dunque pensare ai “diritti degli altri” come al risultato di una pura e semplice duplicazione delle regole di classificazione e di valutazione sociale, allo scopo di rafforzarne l’efficacia, una prospettiva che consentirebbe di distinguere senza troppa difficoltà fra soggetti socialmente qualificati come “altri”, e perciò oggetto di studio da parte dello storico della società, e soggetti la cui “alterità” sociale è stata duplicata da una qualificazione giuridica che legittima il loro studio da parte dello storico del diritto. In realtà strumenti sociali e strumenti giuridici di controllo interagiscono ed esistono interferenze fra regolazione sociale e regolazione giuridica che vanno riconosciute e identificate prima che si possa procedere a una loro valutazione nel quadro di una ricostruzione storico-giuridica, quale è quella che la nostra ricerca intende approfondire. Per tentare di comprendere come quando e perché si ritiene opportuno o necessario rafforzare il controllo sociale trasferendolo in tutto o in parte nella dimensione giuridica o affiancandogli parzialmente il controllo giuridico, lo storico del diritto deve prima di tutto studiare l’interazione tra fattori sociali e fattori giuridici di regolazione del com--------------------------------------------
25 V. il bel saggio di J. MARTIN, Formen sozialer Kontrolle im republikanischen Rom, in D. COHEN (Hrsg.), Demokratie, Recht und soziale Kontrolle im klassischen Athen, Schriften des Historischen Kollegs. Kolloquien 49, Oldenbourg, München 2002, 155-172. 26 V. da ultimo M. TALAMANCA, “Ethe” e “nomos agraphos” nel corpus oratorum atticorum, in L. BOVE (ed.), Prassi e diritto. Valore e ruolo della consuetudine, Napoli 2008, 3-104; ma si pensi alla situazione di Sparta, dove l’assenza proclamata di leggi scritte rende molto problematica la distinzione fra norme giuridiche e norme sociali alla luce delle categorie moderne. 27 Si veda V.J. HUNTER, Policing Athens: Social Control in the Attic Lawsuits, 420-320 B.C., Princeton Mass. 1993; per il ruolo dei gynaikonomoi, v. da ultimo A. BANFI, Sovranità della legge. La legislazione di Demetrio del Falero ad Atene (317-307 a. C.), Milano 2011.
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portamento individuale e collettivo. A titolo di esempio possiamo qui menzionare le ricerche di quegli studiosi della Grecia classica (cito Ed Cohen negli USA e Josine Blok28 in Germania), secondo i quali, in determinate circostanze, le regole sociali tendono a ignorare le restrizioni poste dal diritto: nell’Atene classica figure apparentemente marginali, come le donne, gli stranieri residenti e gli schiavi, avrebbero ricoperto nella realtà dei rapporti economico-sociali ruoli da cui una stretta applicazione delle norme giuridiche li avrebbe esclusi. D’altra parte è stato rilevato come le regole giuridiche possano tentare di orientare diversamente regole sociali consolidate o possano recepire classificazioni di origine e rilevanza meramente sociale. Esempio del primo caso sono le leggi demografiche augustee, che, imponendo il matrimonio, quindi la procreazione, miravano a contrastare una tendenza in senso opposto, che si era andata affermando presso il ceto dirigente romano (si tratta di una vicenda interessante anche da un punto di vista teorico, perché qui la “diversità” connota un ceto socialmente non al di sotto, ma al di sopra della normalità del Sé). Esempi del secondo caso sono due testi normativi di età ellenistica, il decreto sull’esercizio del commercio all’interno dell’area sacra dell’Heraion di Samo29 e la legge ginnasiarchica di Berea sul comportamento da tenersi all’interno del ginnasio cittadino30. Ma l’interazione tra fattori sociali e giuridici di regolazione può assumere una configurazione ancora più complessa quando si prendono in considerazione fenomeni sociali di portata generale e di lungo periodo. E’ quanto possiamo osservare con riferimento alla posizione della donna a Roma (e in modi parzialmente diversi in Grecia): negli sviluppi di quel lungo e complicato processo storico, che ai nostri occhi appare soprattutto come una progressiva emancipazione di moglie (e figli), non è sempre riscontrabile una corrispondenza biunivoca fra mutamenti dei costumi, quindi delle regole sociali, e adeguamento della regolamentazione giuridica31. Spesso le innovazioni sul piano sociale non trovano conferma sul versante giuridico e viceversa. In definitiva l’elemento comune alle regole sociali e alle regole giuridiche, attraverso cui si costruisce la figura degli “altri”, è la disuguaglianza32: da questo punto di vista la nozione di “diritti degli altri”, finora intesa nel -------------------------------------------28
J. BLOK, Recht und Ritus der Polis, in HZ 278 (2004), 1-26. G. THÜR, H. TAEUBER, Prozessrechtlicher Kommentar zur “Krämerinschrift” aus Samos (Prozessrechtliche Inschriften der griechischen Poleis. Sonderheft A), Wien 1978. 30 Ph. GAUTHIER, M. B. HATZOPOULOS, La loi gymnasiarchique de Beroia (Centre de recherches de l'antiquité grecque et romaine), Atene 1993. 31 Per il mondo greco è molto più difficile tracciare delle linee di sviluppo o almeno di tendenza altrettanto chiare, sia per la disseminazione della nostra documentazione sia per il suo stato frammentario e lacunoso; tuttavia sembra di poter affermare che anche nel mondo greco si sia attuato un processo simile a quello che si verifica a Roma: v. E. CANTARELLA, Fathers and Sons in Athenian Law and Society, in G. THÜR (Hrsg.), Symposion 2009, Wien 2010, 1-13 e J. MÉLÈZE MODRZEJEWSKI, Pères et fils dans l’Egypte héllenistique. Réponse à Eva Cantarella, in G. THÜR (Hrsg.), Symposion 2009, Wien 2010, 15-22. 32 C. BUZZACCHI, Uguaglianza e gerarchia nel mondo antico, in Studi A. Metro, I, Milano 2009, 307-333. 29
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senso di “diritti soggettivi”, si trasforma nella nozione oggettivata di diritto che si applica agli “altri” o a una specifica categoria di “altri”, in quanto connotata da una condizione sociale o addirittura naturale che la pone in uno stato di inferiorità, risolvendosi in definitiva in una negazione di diritti. Ad esempio, nell’ambito della contrapposizione fra liberi e schiavi è caratteristico tanto del mondo greco quanto del mondo romano che lo schiavo possa testimoniare in giudizio soltanto sotto tortura33: è il diritto ad applicare qui, in un ambito da esso stesso creato, una regola che sancisce dolorosamente l’alterità dello schiavo. 7. Mi pare quindi che lo studio dei “diritti degli altri” richieda l’applicazione di metodi che realizzino l’integrazione fra prospettiva storico-sociale e prospettiva storico-giuridica34, nel senso che lo storico del diritto non potrà cogliere la specificità della figura giuridica degli “altri” senza collocarla in un contesto socio-economico il più possibile ampio. Ma per seguire questa strada occorre preliminarmente rovesciare la prospettiva con cui non solo la dottrina moderna ma lo stesso “sistema giuridico” antico guarda ai rapporti socio-economici, che è sicuramente la prospettiva dei privilegiati, del soggetto forte, dell’“eroe positivo” ridotto però a un soggetto astratto, come si diceva all’inizio. Un rovesciamento che, sul piano del metodo, non può che tradursi ancora una volta in una critica di quel postulato dell’Isolierung, che, da Fritz Schulz in poi, condiziona l’uso dei testi dei giuristi ai fini di una ricostruzione del ruolo del diritto nella storia della società romana35. La tesi di Schulz, come è noto, è che i giuristi romani hanno volutamente fatto astrazione dalle realtà sociali ed economiche, che pure il diritto è chiamato a regolare36. Uno dei principali argomenti a rinforzo di questa tesi è naturalmente il fatto che il diritto romano ha costituito il fondamento dei diritti continentali europei; cioè ha potuto essere utilizzato per regolare rapporti socio-economici calati in contesti storici ben diversi da quello antico proprio grazie alla capacità di formulare soluzioni astratte basate su categorie dogmatiche considerate in qualche modo eterne. Ma si tratta di una prospettiva -------------------------------------------33
Si veda in questo volume il contributo di Laura Pepe. In questo senso, fra gli altri, anche G. PUGLIESE, L’autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni e valori sociali nella giurisprudenza romana, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche – Atti del I Congresso internazionale della società italiana di storia del diritto, Firenze 1966, 161-192 (ora anche in ID., Scritti giuridici scelti, III, Diritto romano, Napoli 1985, 349-380) e M. PEACHIN, Introduction, in J.J. AUBERT, B. SIRKS (eds.), “Speculum iuris”: Roman Law as a Reflection of Social and Economic Life in Antiquity, Ann Arbor 2002, 1-8. 35 A. SCHIAVONE, “Ius”, cit., p. 32 ss. 36 Si tratta di una tesi che ha trovato in qualche modo un rispecchiamento in una disciplina apparentemente molto lontana dalla storia del diritto, cioè nella semiotica: mi riferisco al celebre saggio di uno dei maestri degli studi semiotici nel secondo ’900, A. GREIMAS, Sémiotique et sciences sociales, Paris 1977, che scorgeva appunto nel diritto una disciplina basata su una propria grammatica e semantica del reale; ma si tratta di un assioma ben noto anche agli storici del diritto romano: cito ad es. M. BRETONE, Diritto e tempo nella tradizione europea, Roma-Bari 2004, p. 197: “il diritto si costruisce un mondo proprio”. 34
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che impedisce una reale storicizzazione del fenomeno giuridico. L’inadeguatezza del dogma dell’isolamento giuridico appare particolarmente evidente proprio quando si prendano ad oggetto di studio i “diritti degli altri”, perché “gli altri”, come si è detto, rappresentano un elemento di disturbo nei confronti della costruzione di un sistema astratto incentrato su quel soggetto ideale da cui siamo partiti; un fattore che introduce nel sistema elementi di realtà difficilmente riducibili alle sue categorie. Mi pare allora che lo storico del diritto debba seguire un metodo di indagine che procede seguendo due binari paralleli: da un lato lo studio degli strumenti giuridici applicati di volta in volta alle varie figure di “altro”, il che è propriamente compito del giurista in forza della sua competenza tecnica; e dall’altro lo studio delle ragioni che hanno determinato il ricorso a quegli strumenti giuridici, uno studio che si colloca nell’ambito di ciò che per brevità potremmo definire, politica del diritto, e che è anch’esso certamente di competenza dello storico del diritto, ma non può prescindere dalla collaborazione degli storici della società e dell’economia. Certo non ne uscirà un quadro sistematico, proprio perché la categoria di “altro” si definisce sempre come eccezione alla norma a tutti i livelli sociali (e in questo senso, come si è detto, è più ampia della nozione di “marginali”, che presuppone un centro occupato in modo compatto dal gruppo dei privilegiati); tuttavia si tratta di un oggetto di studio essenziale per avvicinarsi il più possibile a una vera comprensione storica del funzionamento globale di un sistema giuridico nella sua concretezza. Mi viene allora fatto di pensare che, proprio procedendo lungo questi binari, gli storici del diritto possano rivendicare la legittimità epistemologica della loro disciplina nei confronti del severo monito di Momigliano, pronunciato in un convegno del 1963, che ancora inquieta (o dovrebbe inquietare) gli storici dei diritti dell’antichità: “siamo qui per celebrare la morte della storia del diritto”, che egli intendeva naturalmente come storia sistematica, in definitiva come pandettistica37. 8. Vediamo ora come precisare meglio, alla luce delle considerazioni finora svolte, la nozione e il trattamento degli “Altri” nella prospettiva storico-giuridica che informa nel suo complesso i contributi qui pubblicati. Prima di tutto “gli Altri” vanno intesi come soggetti privi in misura maggiore o minore di qualche prerogativa del “Sé”: si tratta dunque di figure il cui profilo giuridico si delinea per sottrazione delle prerogative spettanti al “Sé”. Per Roma la dottrina degli status personarum fornisce già una fondamentale griglia di riferimento contrapponendo liberi e schiavi, cittadini e non cittadini, persone sui iuris e persone alieni iuris. Con riferimento alla tripartizione degli status risulta di particolare interesse, ai fini di una ricerca sui “diritti degli altri”, la distinzione fra “gli Altri” --------------------------------------------
37 Le reazioni degli storici del diritto sono state in generale moderatamente (v. L. RAGGI, Scritti, Milano 1975, 120-123) o decisamente negative (P. GROSSI, Uno storico del diritto alla ricerca di se stesso, Bologna 2008).
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all’interno della comunità di riferimento e “gli Altri” che risultano tali per il solo fatto di essere stranieri, dunque estranei alla comunità di riferimento. Per quanto riguarda questi ultimi, richiamo qui alcune tappe fondamentali. Risalendo al periodo più antico, si potrebbe osservare che l’istituto dell’ospitalità privata, che gioca un ruolo così importante nel mondo arcaico tanto greco che romano, consentiva in pratica di annullare l’estraneità nei confronti della comunità di arrivo inserendo lo straniero nell’ambito di un gruppo familiare. Questo faceva sì che le differenziazioni di statuto giuridico o di rango sociale, che caratterizzavano lo straniero nel suo ordinamento giuridico o nella sua comunità, diventassero tendenzialmente irrilevanti per la comunità di approdo (paradossalmente ciò può condurre addirittura a un rovesciamento della distinzione, fondamentale per tutto il mondo antico, fra liberi e schiavi: mi chiedo ad es. se gli schiavi che si rifugiano presso il nemico in tempo di guerra, vengano considerati liberi da chi li accoglie: penso alle migliaia di schiavi ateniesi rifugiatisi a Decelea durante l’ultima fase della guerra del Peloponneso o ai trattati di pace che prevedono la restituzione degli schiavi rifugiatisi presso il nemico o da esso catturati. Questo modo di guardare allo straniero si prolunga in un certo senso anche nell’età classica della polis e nella Roma repubblicana. All’ospite privato si affianca o si sostituisce l’ospite pubblico (proxenia in Grecia, hospitium publicum a Roma): c’è quindi sempre l’idea di una mediazione necessaria da parte di un cittadino. Questa concezione si riflette anche sul piano del diritto privato. Come ha messo in luce H.J. Wolff in uno dei suoi ultimi fondamentali lavori, in Grecia nelle cause in cui era parte uno straniero, il diritto applicato era sempre il diritto locale, lo ius loci38, anche se occorre tenere conto dei trattati internazionali di “assistenza giudiziaria”, che permettevano allo straniero di essere tutelato nell’altro stato contraente39. Nella Roma tardo-repubblicana diviene essenziale la nozione di ius gentium, che sembrerebbe aprire la strada al riconoscimento dei diritti degli stranieri; in realtà, per trovare applicazione, deve essere filtrata attraverso il diritto romano. In senso analogo si può interpretare la fictio civitatis: un modo per far entrare l’“Altro” nel territorio del “Sé”, per cancellare, almeno momentaneamente la sua “alterità” assoluta. Si noti, tuttavia, che, almeno a Roma, la condizione di libero e di cittadino, di per sé, non garantisce la pienezza dei diritti del “Sé”: ciò vale sia per gli alieni iuris sia per i liberti.
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Per lo studio del diritto applicabile agli stranieri residenti nella Grecia classica resta fondamentale l’Eginetico di Isocrate (or. XVII), su cui v. A. MAFFI, La capacità di diritto privato dei meteci nel mondo greco classico, in Studi Scherillo, I, Milano 1972, 177-200 e H.J. WOLFF, Das Problem der Konkurrenz von Rechtsordnungen in der Antike (Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Kl. 5), Heidelberg 1979. 39 V. ancora Ph. GAUTHIER, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972.
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9. Abbiamo detto come la dottrina degli status personarum rappresenti un fondamentale sistema binario di contrapposizione fra “Sé” e gli “Altri”. Tuttavia si tratta di uno schema che è ben lungi dall’esaurire la vasta gamma degli statuti giuridici “altri”. Se si possono considerare relativamente ben delineate e stabili nel tempo le nozioni di libero, cittadino e pater familias , con cui si identifica, come abbiamo visto, il Sé in quanto soggetto di riferimento del sistema giuridico, non è certo così né per gli schiavi, né per i liberi non cittadini né infine per i liberi titolari di statuti personali interni alla compagine cittadina, ma non identificabili con il padre di famiglia. Per questi soggetti “altri” la varietà di situazioni che si registra nel corso del tempo dà luogo a trattamenti giuridici ad hoc, che vanno spiegati proprio in relazione alle esigenze socio-economiche da soddisfare. A ciò si aggiunga che la dottrina dei tre status non tiene conto di molte situazioni sociali che si trovano al margine fra norme sociali di comportamento e regolamentazione giuridica. Basti pensare, fra i temi che hanno formato oggetto di ricerche specifiche nel nostro progetto, al mondo della prostituzione o alla pratica dell’usura. Per quanto riguarda la Grecia il discorso può essere svolto in termini analoghi: alle ricerche di uno studioso come Ed Cohen, di cui pure non condivido molte conclusioni, va sicuramente riconosciuto il merito di aver messo in luce le contraddizioni fra regole sociali e regole giuridiche nella documentazione relativa all’Atene classica. Certo in Grecia l’indagine sui “diritti degli altri” è resa più difficile dal fatto che gli statuti giuridici non appaiono sempre delineati con lo stesso rigore che caratterizza il mondo romano. Se infatti la contrapposizione fra liberi e schiavi e fra cittadini e stranieri si presenta anche in Grecia con contorni giuridici abbastanza precisi, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i rapporti all’interno del gruppo familiare (è interessante a questo proposito notare come un testo normativo al limitare fra età arcaica ed età classica, quale il Codice di Gortina, sia dedicato in gran parte proprio a definire e a regolare in termini giuridici i rapporti personali e patrimoniali fra i membri della famiglia, ciò che a Roma non avrebbe certo richiesto un intervento legislativo). A questo punto dovrebbe essere chiaro che lo statuto delle singole figure di “Altro” è sempre definito in rapporto alla condizione privilegiata del “Sé”. Non è uno statuto autonomo, bensì eteronomo; i suoi elementi caratterizzanti sono imposti dal gruppo dei “Sé”. Certe situazioni – come ad esempio la condizione dello straniero, o certi rapporti – come il legame di parentela basato sulla cognatio, in origine non erano nemmeno presi in considerazione dal diritto40. I due --------------------------------------------
40 Di questi atteggiamenti del diritto dei dominatori nei confronti degli “altri” raramente emerge la consapevolezza nelle fonti antiche: per qualche accenno in questa direzione si veda D. NÖRR, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974 [con la recensione di M. TALAMANCA, Recensione a Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, in BIDR 80 (1983), 406-449], che distingue una critica dall’interno, condotta tutto sommato blandamente da letterati e giuristi integrati, dalla critica radicale degli “Aussenseiter”, condotta in particolare sul piano religioso da ebrei e cristiani, e sul piano filosofico da correnti di pensiero come i cinici.
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caratteri, a cui abbiamo testé accennato, sono sicuramente applicabili a tutte le figure di “altro” identificabili nel mondo classico, sia a quelle a cui il diritto attribuisce uno statuto più o meno definito (come schiavi, stranieri, donne, persone colpite da menomazioni fisiche o psichiche permanenti) sia a quelle che emergono in circostanze contingenti e che richiedono un criterio per risolvere un caso concreto. E’ quanto a mio parere viene confermato dagli esiti della nostra ricerca. 10. Venendo quindi a illustrare più specificamente il contenuto di questo volume, esso comprende in primo luogo i risultati delle ricerche condotte dai membri delle singole Università partecipanti al progetto; ad essi si aggiungono le relazioni presentate dagli studiosi invitati a partecipare al convegno conclusivo della ricerca, tenutosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli l’8 ottobre 2010, che ne ampliano le prospettive e ne integrano i contenuti (in particolare si tratta delle relazioni di Chiusi, CompatangeloSoussignan, Aubert, Bourigault, Licandro e Villone). Ai fini della pubblicazione, i contributi sono stati ripartiti in cinque sezioni. Le prime tre sono dedicate a figure la cui appartenenza a categorie di persone qualificabili come “altre” attiene alla struttura sociale e giuridica “profonda” delle società classiche, in quanto società basate sulla tendenziale esclusione dello straniero dai diritti di cui gode il cittadino, dalla posizione subordinata delle donne e dalla riduzione degli schiavi a oggetto di diritti. L’intento perseguito da coloro che hanno qui rivolto la loro attenzione a stranieri, donne e schiavi, non era ovviamente quello di ricostruire la disciplina giuridica di queste figure nel suo complessivo svolgimento storico, quanto piuttosto di mettere in luce singoli aspetti della loro caratterizzazione giuridica, nei quali è dato riscontrare la traduzione in termini normativi di un’alterità avvertita prima di tutto sul piano sociale. Per quanto riguarda gli stranieri nel mondo romano (sezione prima), Chiusi ha tracciato un ampio profilo della condizione dello straniero vista sotto il profilo diacronico come una progressiva riduzione del carattere di “alterità”, che sfocerà nella concessione universale della cittadinanza romana nel 212 d.C. Gli altri contributi racchiusi in questa sezione sono collegati da un filo rosso in quanto si interessano tutti, sia pure da punti di vista diversi, dei rapporti fra Romani e stranieri nelle varie unità territoriali in cui si articolava il dominio di Roma. Compatangelo-Soussignan si è occupata delle controversie territoriali fra comunità straniere, nella cui soluzione le autorità romane erano coinvolte a vario titolo. Gagliardi ha dedicato la sua attenzione ai rapporti fra cittadini romani e indigeni nell’ambito delle colonie, passando in rassegna i diversi statuti giuridici attraverso cui gli indigeni sono stati integrati nella comunità di nuova fondazione. Bourigault ha esaminato una categoria apparentemente marginale di cittadini
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romani in ambito provinciale, studiandone i rapporti con le varie realtà politiche e amministrative locali. Per quanto riguarda la condizione delle donne (sezione seconda), Pennacchio ha rivolto la sua attenzione alla figura della prostituta, mettendone in relazione la disciplina giuridica con il quadro sociale in cui la prostituzione si è via via collocata nel corso del tempo, culminata nelle Nov. 14 e 51 di Giustiniano. I contributi di Mancini, Roperto e Guasco hanno invece preso in considerazione situazioni “patologiche” in cui una donna può venire a trovarsi in relazione alla normalità sociale e giuridica del matrimonio nel periodo tardo antico, avendo trattato rispettivamente del matrimonio per ratto a partire dalla legislazione costantiniana, dell’adulterio alla luce della legislazione imperiale ispirata a valori cristiani, delle seconde nozze della vedova nel pensiero di Ambrogio e nella legislazione tardo antica. Infine il contributo di Donadio ha affrontato, proprio con riferimento alla controversia fra due donne nell’ambito del c.d. processo di Giusta, una questione di status che mette in luce le tensioni latenti fra liberi per nascita e schiavi liberati, una categoria quest’ultima, quella dei liberti, per la quale il confine tra inferiorità socialmente avvertita e discriminazione giuridica appare particolarmente sottile e frastagliato. Per quanto riguarda la sezione dedicata agli schiavi, i temi presi in considerazione coprono uno spettro molto ampio. Pepe ha riesaminato affermazioni di principio e attestazioni della prassi relative a una peculiarità della condizione giuridica degli schiavi, comune alla Grecia e a Roma, in base a cui la testimonianza dello schiavo in processo poteva essere raccolta solo mediante tortura. I restanti contributi di questa sezione riguardano la schiavitù a Roma. McClintock si è occupata della schiavitù penale, quindi della schiavitù nell’ambito del sistema sanzionatorio applicato ai liberi. I rimanenti hanno considerato il modo in cui si riflettono sul piano giuridico singoli aspetti della vita degli schiavi nella sua realtà quotidiana. Aubert ha ricostruito, attraverso i responsi giurisprudenziali, i profili psichici della personalità degli schiavi considerati giuridicamente rilevanti. Reduzzi ha messo in luce quale complessità di relazioni gerarchiche potesse assumere la stratificazione socio-economica e giuridica dello statuto servile. Infine Licandro ha indagato, mettendo a frutto un singolare documento epigrafico, come una veste giuridica, apparentemente semplice e univoca, possa celare relazioni ambigue, non facilmente inquadrabili, fra padrone e schiava. La quarta sezione raccoglie una serie di indagini a largo raggio relative a situazioni di diversità molto differenziate fra loro. Salomone ha inteso cogliere la specificità della figura del soggetto dichiarato sacer nel contesto del processo arcaico, un tema che è stato al centro negli ultimi tempi di un vivo dibattito interdisciplinare, specie in area italiana41. Tre contributi (Pasquino sulla figura dell’usuraio, Sepe su quella del lenone in Plauto, Bramante sul S.C. Macedonia-------------------------------------------41
Si veda da ultimo L. GAROFALO, Rubens e la devotio di Decio Mure, Napoli 2011.
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num) prendono in considerazione figure che hanno in comune un elemento riconducibile a un’istanza di difesa dei valori dominanti nei confronti di specifici fattori di degenerazione del comportamento socialmente approvato dei ceti dirigenti. Figura centrale in questa indagine plurima appare il filius familias, in quanto in lui si manifesta la tensione fra la pretesa a conseguire autonomia sociale ed economica e il freno costituito dalla condizione giuridicamente subordinata e dipendente (almeno per il periodo considerato, fra il II sec. a.C. e il I d.C.). Gli ultimi due contributi della sezione si interessano di situazioni di alterità legate rispettivamente all’insegnamento di dottrine filosofiche (Di Pinto) e alla professione di fede cristiana (Oliviero Niglio): entrambi si occupano di quella fase delicata attraversata dalla civiltà pagana fra I e II sec. d.C., in cui il potere imperiale tende sempre più a porsi come fattore che condiziona la libera espressione e manifestazione del pensiero anche nel campo del pensiero filosofico e della professione di fede, determinandone liceità o esclusione, di nuovo ai limiti fra svalutazione sociale e sanzione giuridica. La sezione quinta raccoglie infine i contributi dedicati a quella forma specifica di diversità che è data dalle menomazioni fisiche (congenite o provocate) e psichiche. Il lavoro di Monaco affronta in maniera approfondita il tema della deformità fisica: qui la diversità si colloca al crocevia fra le dimensioni naturale, religiosa, sociale e giuridica, creando nodi che i giuristi tentano pragmaticamente di sciogliere. Nel contributo di Meola l’attenzione cade soprattutto sulle diverse concezioni che stanno alla base, in progresso di tempo, del soddisfacimento dovuto a chi ha subito una lesione fisica da parte di chi lo ha posto in un tale stato di “diversità”. Minieri ha esaminato la condizione di sordi e muti a partire da una costituzione di Giustiniano nell’intento di mostrare come la regolamentazione imperiale in proposito (attinente soprattutto alla materia testamentaria) si innesti in una tradizione di pensiero giurisprudenziale risalente almeno al III sec. d.C. In chiusura Villone ha felicemente rintracciato alcune linee di continuità con il pensiero antico in materia di valutazione della malattia mentale da parte dell’ordinamento giuridico. 11. Le singole ricerche confluite nel nostro progetto complessivo hanno provato a rimettere insieme alcune tessere di quel vastissimo mosaico che rappresenta il complesso dei rapporti giuridici fra il Sé e gli Altri. Non aspiravano a tracciare una mappa completa o anche soltanto un perimetro del territorio abitato dagli “altri”42 (per cui sono rimaste sullo sfondo varie figure che sono tradizionalmente incluse negli studi di storia sociale, come poveri, mendicanti, delinquenti ecc.). Intendevano piuttosto mostrare, attraverso sondaggi mirati, come l’attenzione verso le varie figure di “altro” prese in considerazione permetta di --------------------------------------------
42 In particolare va osservato che al mondo greco, per quanto tenuto nella debita considerazione ogni volta che si è reso opportuno, è stata dedicato un solo contributo specifico.
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verificare la capacità di sistemi giuridici, già incentrati tendenzialmente, fin da epoca antica, su soggettività astratte e modelli di comportamento, di farsi carico di esigenze anomale, ma molto concrete, poste da soggetti irriducibili al modello dominante (identificabile con maschio libero, cittadino, capofamiglia, sano di corpo e di mente). I contributi qui pubblicati presentano una loro coerenza interna, ma al tempo stesso costituiscono una tappa in un percorso di ricerca che appare suscettibile di ulteriori approfondimenti. Fra i risultati più interessanti conseguiti dai partecipanti alla ricerca così conclusasi, vorrei, per finire, attirare l’attenzione sulle modalità con cui gli “Altri” entrano, quando ci entrano, nel discorso giuridico antico, nell’intento di fare un inventario degli strumenti utilizzati per dare rilievo, se del caso, agli eventuali “diritti degli altri”. In Grecia può essere la legge (per es. la legge delfica del IV sec. a.C. che prescrive ai figli di fornire gli alimenti ai genitori), ma è probabilmente la retorica lo strumento principale per rendere visibili i diritti degli altri; non solo la retorica in tutte le sue manifestazioni canoniche, cioè deliberativa, epidittica e soprattutto giudiziaria, ma anche la retorica letteraria, che funziona da veicolo di riflessione e di dibattito in materia: penso alla tragedia, alla commedia, alle opere filosofiche orientate verso temi etici. In particolare mi sembra che possa essere utilmente riletto nella prospettiva della nostra ricerca il I libro della Retorica aristotelica, con speciale attenzione, all’interno di questa, alle pagine dedicate all’epieikeia. A Roma è certamente attraverso fonti autoritative che possiamo vedere riconosciuti, o più spesso conculcati, i diritti di varie categorie di altri. Anche da questo punto di vista va naturalmente tenuto conto del diverso uso e del diverso “stile” degli interventi autoritativi nel tempo e nello spazio. Citiamo come esempio significativo le limitazioni ai diritti dei gladiatori documentate a cavallo fra I sec. a.C. e I sec. d.C.43: in base alla Tabula Heracleensis essi non sono ammessi nell’ordo decurionum e in base al S.C. di Larinum non possono essere ammessi ai posti d’onore in teatro anche se la loro condizione sociale glielo consentirebbe. Ma è soprattutto attraverso la giurisprudenza romana che possiamo meglio mettere a fuoco la mappa di coloro che vengono considerati “altri” e studiare le conseguenze a cui vanno incontro, nel caso concreto, per opera della sottile dialettica fra giudizio sociale e applicazione del diritto nei loro confronti: fino ai Severi i testi dei giuristi sono infatti anche la fonte principale per conoscere le motivazioni degli interventi imperiali. E’ allora la ricerca sui “valori” della società romana, in quanto applicati dai giuristi e dagli imperatori, che vale la pena di riprendere e modulare nella prospettiva che qui abbiamo adottato44. Possiamo -------------------------------------------43 Purtroppo l’indagine sulla posizione dei gladiatori non ha potuto trovar spazio in questa pubblicazione per motivi contingenti. 44 Per le opportune cautele da osservare in un’indagine sui valori si veda almeno S. REBENICH, Römische Wertbegriffe: Wissenschaftsgeschichtliche Anlerkungen aus althistorischer Sicht, in A. HALTENHOFF, A. HEIL, F.-H. MUTSCHLER (Hrsg.), Römische Werte als Gegenstand der Altertumswissenschaft, München-Leipzig 2005, 23-46.
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richiamare, a titolo di esempio, alcuni passi significativi del Digesto in materia di dignitas, una qualifica sociale dall’applicazione vasta e multiforme. La si trova applicata alla gerarchia degli ordines, come si ricava dalle prese di posizione dei giuristi severiani in materia di attribuzione della dignitas senatoria in D.1.9. Ma vi si fa ricorso anche per quanto riguarda l’inferiorità femminile: la constatazione di Papiniano dal tono singolarmente assertivo, che possiamo leggere in D.1.5.9, trova una motivazione proprio in termini di dignitas in D.1.9.1 pr. (maior dignitas est in sexu virili)45. Si prosegue con D.4.3.11 in materia di actio de dolo: l’azione non sarà concessa né ai figli nei confronti del proprio padre né ai liberti nei confronti del patrono; ma nemmeno all’umile nei confronti di chi eccelle per dignitas: i casi ricordati da Ulpiano, ma già addotti da Labeone, sono quelli del plebeo contro il consolare, del lussurioso o del prodigo, o di chi risulta altrimenti “vile”, nei confronti di un hominem vitae emendatioris. Interagiscono qui criteri di valutazione morale e criteri basati sulla collocazione sociale (resta da capire esattamente chi per i giuristi rientri fra le viles personae: secondo Callistrato in D.50.2.12 i negozianti che vendono al mercato non sono da considerarsi propriamente tali, contrariamente a un pregiudizio antico e radicato, che affonda le sue radici nel pensiero socio-politico greco e riecheggia ancora in Cic. off. 42.150; tuttavia, per ricoprire le cariche pubbliche è più dignitoso reclutare in primo luogo i viri honesti46). 12. Accanto alla dignitas, nei pareri dei giuristi troviamo altre motivazioni in cui si intrecciano valori etici e stratificazione sociale. Mi riferisco naturalmente all’aequitas, all’humanitas47, alla benignitas, pietas, caritas, clementia ecc., anche se l’applicazione di tutti questi valori48, come abbiamo già notato, si colloca all’interno dell’ordinamento e non ne supera i limiti oggettivi. Fra tutti questi criteri vorrei sottolineare il particolare interesse che per il nostro tema riveste il celebre principio conosciuto nella sua forma più sintetica come suum cuique tribuere (Ulp. D.1.1.10.1-2, ma già nella Rhetorica ad Herennium 3.2.3).49 Nel contesto del nostro discorso si potrebbe avanzare l’ipotesi che esso possa essere --------------------------------------------
45 V. anche R. QUADRATO, “Infirmitas sexus” e “levitas animi”: il sesso “debole” nel linguaggio dei giuristi romani, in “Scientia iuris” e linguaggio nel sistema giuridico romano, Milano 2001 (ora anche in “Gaius dixit”: la voce di un giurista di frontiera, Bari 2010, 137-194), U. VINCENTI, Diritti e dignità umana, Roma-Bari 2009 e C. GIACHI, “Dignitas” e “decus” del pretore. Un primo studio sul commento di Ulpiano all’editto “de postulando” (D. 3.1.1.pr.-6), in “Iuris Quidditas”. Liber amicorum per B. Santalucia, Napoli 2010, 81-104. 46 V. R. MACMULLEN, Roman Social Relations, 50 B.C. to A.D. 284, Yale 1974, cap. IV. 47 Su cui v. F. SCHULZ, I principi del diritto romano, Firenze 1946; P. VEYNE, “Humanitas”: romani e no , in A. GIARDINA (cur.), L’uomo romano, Bari 1994, 385-415; L. GAROFALO, L’“humanitas” nel pensiero della giurisprudenza classica, in Diritto & Storia 4 (2005). 48 Su cui A. PALMA, “Benignior interpretatio”, Torino 1997. 49 Su cui L. PEPPE, “Jedem das Seine”, “(uni)cuique suum”, a ciascuno il suo, in Tradizione romanistica e Costituzione, Napoli 2006, II, 1707-1748.
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inteso, fra l’altro, come un riconoscimento di diritti a tutti gli esseri umani, includendo quindi anche gli “altri”. Non è questo il luogo per addentrarsi nell’interpretazione di questa massima: mi limito a ricordare che una delle principali ragioni della sua ambiguità deriva dal fatto che acquista un senso solo a partire da un presupposto implicito. Se il presupposto è quello dell’eguaglianza, allora significa che tutti hanno diritto alla propria quota (uguale) del bene pubblico o comune (suum nel senso di ius suum). Se invece partiamo dal presupposto opposto, cioè quello della disuguaglianza, tutti dovranno essere trattati in conformità al loro statuto giuridico differenziato50; il che, per quanto possa sembrare iniquo, è già un progresso rispetto a una situazione di arbitrio assoluto: inteso in questo modo, cioè, il principio viene ad affermare che nessuno deve subire un trattamento rimesso al semplice arbitrio dell’autorità o comunque di chi ha di fatto il potere di decidere. E’ in fondo l’alternativa che ha le sue basi nelle due giustizie aristoteliche, la aritmetica e la geometrica e nel dianemetikon dikaion (che si estende anche ai morti, come intende dimostrare Antigone). Tuttavia ancora una volta si può osservare che l’applicazione del principio in questione non significa di per sé riconoscere diritti, sia pure differenziati e graduati, a soggetti diversi dal “sé”. Significa piuttosto che i soggetti dominanti (in cui si identifica il Sé) ammettono, ed è già molto, che tutti i membri della società siano presi in considerazione dal diritto (compresi gli schiavi: si veda il rescritto di Antonino Pio richiamato in D.1.6.2). Una conferma di questa interpretazione del principio in discussione può essere data dal fatto che esso viene ricollegato all’applicazione dell’aequitas in vari luoghi ciceroniani e in particolare nel § 90 dei Topica, un passo che è stato recentemente sottoposto ad un’acuta esegesi da Michel Humbert51. Dice Cicerone che i loci relativi all’aequitas si distinguono in due categorie: quelli che hanno il loro fondamento nella natura, cioè tributionem sui cuique e ulciscendi ius; e quelli che vanno cercati nella recezione dell’equità nelle istituzioni umane: una pars legitima est, altera conveniens, tertia moris vetustate firmata. (“Le second domaine pourvoyeur d’arguments fondés sur l’équité nous place dans celui de la réception humaine de l’équité naturelle sous l’aspect de la loi, des conventions (ou accords) et de la coutume »52). Attiro l’attenzione sull’altera pars, definita da Cicerone conveniens. Mi chiedo se il senso di questo aggettivo (inteso anche da Schiavone nel senso di “accordo”53) non debba essere semplicemente quello di criterio “conveniente”: a che cosa? Alle situazioni di conflitto o semplicemente di tensione sociale che non trovano il loro criterio di risoluzione né negli impulsi naturali, né nella legge né nella -------------------------------------------50
Cic. rep. 2.42.64 su cui L. PEPPE, “Jedem das Seine”, cit., 1742. Sull’aequitas v. anche A. SCHIAVONE, “Ius”, cit., cap. X VI. 52 M. HUMBERT, Equité et raison naturelle dans les oeuvres de Celse et de Julien, in D. MANTOVANI, A. SCHIAVONE (curr.), Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia 2007, 419473, a p. 424. 53 A. SCHIAVONE, “Ius”, cit., 261. 51
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Alberto Maffi
consuetudine (per suffragare questa mia interpretazione osservo che in Orazio ars 316-317 leggiamo: reddere personae convenientia cuique, e in Cic. inv. 1.39.41: iustitia servanda etiam adversus infimos). 13. Con queste ultime considerazioni ho soltanto inteso mostrare come i contributi qui pubblicati siano soltanto (auspicabilmente) l’avvio di un filone di ricerche suscettibile di espandersi in molte direzioni: una di esse, a mio parere assai promettente, consisterà nello studio del rapporto fra gli interventi legislativi o amministrativi e le soluzioni giurisprudenziali da un lato, e dall’altro il dibattito teorico che viene condotto, tanto in Grecia che a Roma, sul piano filosofico, retorico e letterario intorno ai valori sociali fondanti.