Harry Bingham
Il cerchio dei morti Traduzione di Laura Melosi
Titolo originale: Love Story, with Murders Copyright © Harry Bingham 2013 All rights reserved Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.
http://narrativa.giunti.it © 2013 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia Prima edizione: ottobre 2013 Ristampa
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(non so cos’è di te che chiude e apre; solo qualcosa dentro di me comprende che la voce dei tuoi occhi è più profonda di tutte le rose) nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani E. E. Cummings Da In un luogo che non ho mai raggiunto coi miei viaggi, piacevolmente oltre (1931)
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Carcere di Cardiff, settembre 2010 «Benvenuta.» Penry allarga le mani in quello che vorrebbe essere un gesto di accoglienza, ma non riesce ad allontanarle a più di una ventina di centimetri l’una dall’altra. Come se ci fosse ancora lo spettro delle manette sopra. «Carino qui» gli dico. Tavoli di formica con gambe di metallo, lampade al neon sul soffitto, nessuna luce naturale, avvisi ufficiali sulla parete e un paio di guardie che tengono d’occhio tutto. Ci sono altri 785 detenuti, di cui 94 ergastolani. Bello. «Be’, sai, avevo intenzione di riverniciare. Dare una rinfrescata all’ambiente. Ma…» scrolla le spalle. «Sai com’è.» «Ce la farai?» A ingannare il tempo, non a tinteggiare la cella. I giudici lo hanno condannato a quattro anni di carcere, e se li merita proprio tutti. Io ho contribuito a farlo finire dietro le sbarre: Brian Penry, un ex poliziotto corrotto con una storia di truffe e un paio di altre cose più gravi – non dovrebbe starmi simpatico, e invece… «Quattro anni, ne sconterò due. Sì, ce la farò.» Varie espressioni 11
gli attraversano il viso, finché non ne assume una piuttosto neutra. «La prima settimana che ero qui, un tizio della mia ala si è ucciso. Con un pezzo di vetro.» Mima il gesto sull’interno di entrambi i polsi. «Se ne sono accorti solo quando il sangue ha cominciato a colare fuori dalla porta. Che cazzo di…» Scuote la testa senza concludere la frase, io però capisco dove vuole andare a parare. «Quello stronzo doveva scontare solo diciotto mesi e a vederlo non sembrava neanche depresso.» Ricordo la storia, ma in modo vago, come capita spesso quando si tratta di qualcosa che succede dietro le sbarre. Quello che invece ricordo bene è l’arresto. Un giovane padre di famiglia che lavorava per un’azienda di ingegneria di precisione. Un tipo in gamba, se la cavava bene. Finito dentro per aver tentato di importare cocaina dalla Spagna meridionale con una spedizione di tubi di acciaio. Perde il lavoro, la moglie, i figli e lo sbattono in prigione. Fine della vita. «Te la caverai, Brian» gli dico. «Sì. Sì, basta che dia una rinfrescata all’ambiente, no?» Parliamo un’altra mezz’ora, ma mi sembra un’eternità. Uscendo dal carcere mi accorgo che mi sono quasi messa a correre.
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Cardiff. Fine ottobre 2010 È un venerdì pomeriggio di ottobre in Galles, anche se non sembrerebbe. Nuvole alte solcano il cielo da occidente, ma c’è un bel sole. Gli ultimi brandelli di estate, e pazienza se cadono le foglie. Sono in una gazzella con l’agente di polizia Adrian Condon, di ritorno da un inutile giro di cinque ore casa per casa a Rumney. Cercavamo informazioni su una rissa in strada, in cui sono rimasti feriti una passante e due uomini, uno dei quali è in ospedale con una frattura al cranio. Non abbiamo ricavato niente di utile, ma non ce lo aspettavamo, né se lo aspettavano i nostri capi. Era una di quelle cose da fare. La fai solo perché devi. L’ atmosfera è quella da fine turno, parliamo di lavoro, facciamo programmi per il fine settimana, quando la radio di Condon gracchia. Intervento richiesto a Cyncoed. Qualcosa che ha a che fare con dei rifiuti illegali trovati durante uno sgombero. Condon mi guarda. Potremmo fare finta di nulla, oppure comportarci da bravi soldatini. Scrollo le spalle. Non mi importa. Rifiuti illegali a Cyncoed, ecco il motivo per cui sono entrata in polizia. Anche Condon scrolla le spalle. Mentre io allungo le mani verso la radio, lui ha già fatto inversione. 13
Il collega alla radio ci dà un indirizzo di Rhyd-y-penau Road, sopra il lago artificiale. Non è il tipo di strada che di solito ci crea problemi. È una zona di siepi perfettamente potate, giardini ben tenuti, bungalow con tende di pizzo e cani di porcellana come soprammobili. Arriviamo lì in dieci minuti. Un furgone blu, con gli sportelli sbatacchiati dal vento, ci indica la destinazione. Condon gira la macchina nello spazio rimasto libero sul vialetto di accesso e parcheggia sotto un ciliegio spoglio. Scendiamo. Condon è in uniforme, io no, lui è un uomo, io evidentemente no. Per cui, anche se in teoria sono io il poliziotto di grado più elevato, è a lui che si rivolgono gli addetti allo sgombero, mentre si sfilano i guanti e gli stringono la mano in modo virile. Non mi importa, rimango in disparte e osservo le nubi che solcano il cielo. Rifiuti illegali. Quanto potrà essere difficile questo incarico? Sento solo frammenti di conversazione. Il bungalow apparteneva a una vecchia signora, morta due mesi fa, il cui parente più stretto vive in Australia. Bla, bla, bla. Il furgone blu è strapieno di mobili della donna. Gambe di mogano piegate, guarnizioni di velours verde, cuscini beige con nappine color oro chiaro. Non riesco a vedere altro per via dello sportello, ancora scosso dal vento. Condon si sposta verso il garage con gli addetti al trasloco. Io li seguo. La porta del garage è alzata, e c’è un cassone lì davanti, mezzo pieno. Vecchi attrezzi da giardino, barattoli di vernice sciupata, scope senza setole, una sedia a sdraio pieghevole piena di ragni. Dentro, il garage è per metà ripulito, per metà no. Mobili da giardino in tek. Di quelli abbastanza buoni da tenere al chiuso d’inverno e quando è brutto tempo, da tirare fuori quando è caldo. 14
E poi c’è un congelatore. Capiente. Grosso come due vasche da bagno. Il tipo di oggetto in cui una simpatica vecchietta, che vive con le tende di pizzo e i cani di porcellana sopra il lago artificiale di Llanishen, tiene le scorte di composta di mele cotte d’autunno e tranci di agnello presi in offerta dal macellaio del quartiere. Ovviamente manca la corrente da un paio di mesi, per cui le confezioni di agnello e le mele cotte non sono più buone. In una pattumiera puzzolente c’è il primo strato di sacchetti estratti dal freezer. Una serie di pacchetti di plastica è appoggiata per terra: il colore è quello giallo grigiastro della carne andata a male, e la condensa gocciola fuori da ogni busta. Non è questo che salta agli occhi, però. Quello che salta agli occhi si trova davanti all’agnello e allo stomaco di maiale sul pavimento di cemento del garage. Una busta di polietilene lunga più di un metro. Altra carne andata a male, con lo stesso giallo grigiastro, la stessa condensa, lo stesso odore. Solo che questo pezzo di carne assomiglia terribilmente a una gamba umana. E per di più indossa una scarpa con il tacco alto. Condon la vede un attimo prima di me e, da bravo poliziotto, sa che deve andare a vomitare fuori. Per mantenere la scena del crimine intatta. Io? Io non vomito davanti a un cadavere. Mentre Condon adorna l’aiuola, io mi avvicino al sacchetto e tocco la carne da sopra lo spesso involucro. Sembra una vecchia bistecca fredda. Mi accovaccio accanto al corpo della ragazza, per tenerle compagnia, lasciandomi pervadere dalla pace che emana. Condon e gli addetti al trasloco sono sagome che si muovono sulla soglia del garage. Tenendo sempre la mano sulla coscia della ragazza, chiamo l’ufficio. Rhiannon Watkins, l’unico ispettore in servizio, a quanto so. Le faccio una sintesi. Condon probabilmente comincerà a dare l’allerta anche via radio, ma da ora in avanti il 15
caso passerà al dipartimento di indagini criminali. Un allettante omicidio. Mi sento travolgere da un profondo senso di rilassamento. Di piacere. Non avevo grandi programmi per il fine settimana. E questo sarà comunque meglio di qualsiasi altra cosa che avrei potuto fare. Do un’ultima stretta lunga e affettuosa alla coscia e mi alzo per guardare in fondo al congelatore. Mi aspetto altra roba del genere. Le braccia, la testa, l’altra gamba. Il torace segato a pezzi e conservato. Ma non c’è niente. Solo un purè di mele molliccio. Buste di fagioli, ormai inutilizzabili. Qualche contenitore di plastica con la data scritta a mano su etichette ormai illeggibili per via dell’umidità e del buio. Non c’è niente che assomigli a pezzi di corpo umano. Niente che assomigli al resto di questo fetido puzzle. Sulla soglia del garage gli operai cominciano a capire che dovranno cambiare i programmi per la serata. Avremo bisogno delle loro dichiarazioni. Avremo bisogno del loro furgone, se è per questo. Fa parte della scena del crimine adesso, un camioncino pieno di prove. A Cathays Park si starà già spargendo la voce, i turni verranno ridistribuiti, i colleghi si infileranno in macchina e si precipiteranno qui, con le luci lampeggianti, a sirene spiegate. Mi piace l’idea, ma non sono ancora pronta. Mentre Condon è indaffarato sul davanti, io entro in casa dalla porta del garage. Per respirarne l’atmosfera prima che venga invasa. C’è sempre l’ora legale, per cui c’è ancora tanta luce. La casa è quasi vuota: un tappeto a pelo lungo giallo e marrone, i segni dove prima c’erano i mobili, e in salotto la mensola del camino con ancora le foto sopra. Non tante, forse perché non è una famiglia numerosa. Ce n’è una di un matrimonio, della vedova presumibilmente e del defunto marito. Lui indossa la divisa dell’esercito, sembra una foto 16
della Seconda guerra mondiale. Significa che la vedova doveva avere quasi novant’anni o addirittura qualcosa di più, anche se era giovane quando è convolata a nozze. Era una bella sposina, con un sorriso accennato sulle labbra, che non sapeva se guardare l’obiettivo o il novello sposo. Ci sono altre foto accanto. La stessa coppia, qualche anno dopo. Con una neonata. Una bambina piccola. La stessa bambina da adolescente, poi da giovane e infine vestita da sposa – immagino sia lei il parente più stretto che vive in Australia. Nell’ultima foto del marito della vedova, lui avrà una cinquantina d’anni, poco più poco meno, e una sigaretta in mano. Non c’è nessuna prova che sia arrivato ai sessanta. La scarpa al piede della ragazza morta è di camoscio rosa con plateau, tacco a rocchetto sottilissimo, punta rotonda e laccetto alla caviglia. Non sono certo la più grande esperta di moda al mondo, ma non mi sembra né una scarpa nuova di zecca, né antidiluviana. Un vintage alla Christina Aguilera, all’incirca. Allineo le foto con l’unghia del pollice. Non è granché come schedario criminale: un’anziana vedova, un marito morto, una figlia in Australia. Non molto, e una vittima di omicidio di cui rimane solo una gamba e la passione per le scarpe in stile Christina Aguilera. Sorrido come un’ebete. Non esistono fine settimana più belli.
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Una gran baraonda arriva sulla collina e la invade. La regina della festa è Rhiannon Watkins. La maledetta Rhiannon Watkins. L’ encomiabile Rhiannon Watkins. La più giovane donna mai nominata ispettore a Cardiff, attualmente l’ufficiale del suo grado con maggiore anzianità di servizio. Una donna che per le sue capacità sarebbe potuta diventare ispettore capo o perfino capo della polizia della contea, ma la cui abilità nel rendersi antipatica avrebbe potuto trasformarla nella prima vittima di un omicidio con più di un milione di possibili sospetti. Un gruppo che avrebbe incluso tutti i suoi colleghi del dipartimento di indagini criminali. Come sempre, la Watkins è nell’auto a capofila. Come sempre, è la prima a scendere. Come sempre, c’è un esercito di persone in giacca nera che si dispiega alle sue spalle. Delimitano la scena del crimine con l’apposito nastro. Cominciano a parlare con i vicini. Trasferiscono il furgone della ditta di traslochi in un deposito della polizia per proteggere la serie di prove in nostro possesso. Cominciano a interrogare gli operai, separatamente però, in modo da confrontare le loro dichiarazioni. E, senza un attimo di tregua, il telefono e la radio lavorano a pieno ritmo in collegamento con Cathays Park. 18
Mi gingillo con il cellulare, cercando di farmi notare il meno possibile, ma sento la Watkins che sgrida i ragazzi sulla scena del crimine per la loro lentezza. Probabilmente anche per altre cose, non appena ne ha l’opportunità. Mancanza di integrità. Disattenzione ai dettagli. Piega dei pantaloni storta. Un sorriso di troppo. Anche Condon viene sbranato per qualche motivo. Non so quale, ma mi passa davanti pallido in viso. Poi tocca a me. La Watkins – sobrio tailleur nero, camicia bianca, sguardo da lesbica incavolata – mi fa cenno di avvicinarmi. «Sei entrata in casa. Perché?» Le rivolgo il mio sorriso più smagliante. Una delle cose positive del mio strano cervello è che questi stupidi giochetti psicologici non mi turbano molto, per cui mi ci diverto parecchio. «Non sapevamo se c’erano altre prove all’interno dell’edificio e, nel caso, se le eventuali prove erano debitamente protette. Mi sono presa la briga di controllare.» «L’ interno della casa fa parte della scena del crimine e…» «Non ho toccato niente. Non volevo contaminare la scena prima dell’arrivo della scientifica. Immagino che lei abbia notato la scarpa, no?» L’ ispettore Watkins si diverte. Si diverte come si divertirebbe un serpente se saltasse fuori un topo a chiedere se qualcuno ha fame. Per poi colpire, deglutire e digerire la preda. Lei mi sorride, e io contraccambio il sorriso. Condivido la sua gioia. «Se ho notato la scarpa?» Ha un tono di voce lento, esitante. «Sissignora. La gamba che abbiamo trovato aveva una scarpa al piede.» «Be’, sì, ho dato un’occhiata alla gamba, e i miei ventotto anni 19
di esperienza nel dipartimento di indagini criminali mi hanno aiutato a notare, anche attraverso il polietilene, che…» «Mi scusi. Non mi sono spiegata bene. La scarpa non ha uno stile attuale.» Le mostro il cellulare e le foto che ho appena scaricato da Internet. «Ho avuto poco tempo, ma direi che è una scarpa del 2001 o 2002, più o meno. Questo fa pensare a un delitto che potrebbe risalire a dieci anni fa. Suppongo che ci sia qualcuno a Cathays Park che sta selezionando tutte le indagini in cui il cadavere non è mai stato recuperato in toto. Magari le converrebbe chiedere ai membri di quella squadra di concentrare gli sforzi sui primissimi anni dell’ultimo decennio.» Le regalo il mio sorriso più amabile. Ci troviamo nel cortile sul davanti della casa, e l’ultimo sprazzo di sole sta scomparendo in una bolla di nubi a nordovest. La Watkins vorrebbe staccarmi la testa a morsi, ma non può. Peggio ancora, deve rimanere lì, mentre io la guardo che chiama Cathays per riferire le mie informazioni. Dietro di noi, scorgo altre auto che cominciano a oscurare la strada. Foto con il flash. Quelli della stampa di solito sono i primi ad arrivare in situazioni del genere, ma questa potrebbe essere una storia abbastanza grossa da attirare una troupe cinematografica entro breve. La Watkins riattacca. Ha visto anche lei quello che ho visto io. Non so cosa ne pensi. Nessun ufficiale superiore è indifferente all’attenzione dei media. Alcuni la amano, altri la detestano. Non conosco la Watkins abbastanza bene da sapere le sue preferenze. Ma anche se sta concentrando l’attenzione su quelli della stampa, non si è dimenticata di dover essere tremenda con me. In tono gelido mi dice che le informazioni sulla scarpa sono state utili e se per cortesia torno a Cathays Park per lavorare insieme alla squadra di investigazione, visto che evidentemente sono 20
stata attenta a certi dettagli. Potrò farle avere una sintesi delle nostre conclusioni in mattinata. È convinta di avermi rifilato una grana perché dovrò trascorrere metà nottata a lavorare. Io invece sono felice, perché lo volevo fare comunque, e me la svigno a cercare Condon per farmi riportare in città. Lo trovo sulla strada. Sta parlando a uno degli operai, che vuole sapere quando potrà riavere il suo furgone. Condon gestisce la situazione come siamo addestrati a fare, ma mi accorgo che dentro di sé è ancora scosso per lo scontro avuto con la Regina delle Nevi. «Ehi, Adrian!» Gli do un colpetto sul braccio con un gesto che vorrebbe essere solidale, ma nei limiti del professionale. E al tizio della ditta di traslochi dico: «Riavrà il suo furgone quando lo dirà l’ispettore Watkins. E siccome è una stronza, ci potrebbe volere un bel po’. Mi dispiace». L’ uomo ride per la mia schiettezza, ma io proseguo nonostante la risata. «Quando ha trovato la gamba, dov’era esattamente? Insomma, nel freezer, lo so, ma in quale punto di preciso? Sul davanti? Sul retro? In fondo? In cima?» Non appena capisce cosa gli sto chiedendo, il tizio della ditta di traslochi – che a quanto pare ha un nome, Geoff – si dimostra collaborativo. La gamba era distesa lungo la parete posteriore del freezer, non proprio sul fondo ma quasi. «In modo ordinato?» chiedo. «Come se fosse stata riposta con cura, senza lasciare spazi vuoti? Oppure sembrava buttata lì di corsa?» «Oh no, con molta cura, insomma. Se lei, se…» Geoff diventa verde, anche se non ne sono sicura sotto la luce del sole che svanisce e il primo bagliore dei lampioni al sodio. Ci sono, a rigor di termini, due laghi artificiali a Llanishen. Quello 21
più piccolo, più in alto, contiene ancora acqua, ma l’altro – quello che la gente intende di norma quando parla del lago di Llanishen – quest’anno è stato svuotato prima. Svuotato, recintato e riempito di avvisi di sicurezza gialli e neri. Qualche compagnia vuole trasformare la zona in un quartiere residenziale d’élite, e a me non dispiacerebbe se non fosse per il fatto che Llanishen offre rifugio a bisce, rospi, orbettini e ovuli buoni, e queste cose mi piacciono più dell’asfalto e delle abitazioni di lusso. Pelli come ciottoli d’argento e un lieve fruscio nell’oscurità. Dico a Geoff di non preoccuparsi, che mi è stato d’aiuto. Prendo il suo numero di cellulare per ogni eventualità, poi scrocco un passaggio a Condon e gli dico che arrivo subito. Torno di corsa verso la casa. La mia versione della corsa, voglio dire, che non sempre significa correre sul serio. Torno in garage. C’è un fotografo della scientifica, con indosso una di quelle tute di propilene bianco con il cappuccio e i polsini elasticizzati, che sta sistemando le luci. Gli chiedo di leggermi alcune date dei pacchetti ancora in fondo al freezer. Non sa se aiutarmi, perché da qualche parte, strada facendo, si è divorato un manuale di addestramento che gli dice di fare le cose in un ordine diverso. Gli chiedo se vuole che riferisca le sue perplessità professionali all’ispettore Watkins. Al che decide di darmi una mano e si china dentro il freezer con una torcia. Nel frattempo io ispeziono i pacchetti sparsi per terra. Non tutti hanno la data, ma alcuni sì. C’è un mucchio di sacchetti sottili con la composta di mele che risalgono al 2005. Alcune confezioni di carne del 2006, 2007, 2008 e 2009. Un pacco di non so cosa datato 1984, ma con una grafia così tremolante che propendo a credere che la mente dell’anziana signora abbia vaneggiato. Il fotografo si allontana dal freezer. Indossa una maschera, 22
che io non ho, ma anche così il tanfo lì dentro dev’essere stato terribile. «Non riesco a vederle tutte, e non sposto niente finché non abbiamo finito con le immagini. Ma da quello che vedo, la più vecchia è del 1996, la più nuova probabilmente del 2002. Forse del 2003, perché l’inchiostro è sbavato e…» Scrolla le spalle. «Lo scopriremo non appena potremo spostarle e guardarle per bene.» Con il cellulare scatto alcune foto alla scarpa della ragazza morta. Il fotografo mi promette di spedirmi per e-mail alcune immagini di qualità migliore non appena arriva a quella fase. Alzo il pollice in segno di approvazione e torno da Condon, pronta a partire.
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