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Ugo Degl’Innocenti
Giornalismo e politica SpA Un sodalizio canaglia
Prefazione di
Sergio Rizzo
Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it
[email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–6252–4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: settembre 2013
A Eugenia e Giuliano
Indice
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Prefazione di Sergio Rizzo
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Introduzione
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Capitolo I Giornalismo e politica oggi 1.1. Libero ma non troppo, 21 – 1.2. Il Giornale del Cavaliere, 29 – 1.3. Le macchine del fango, 36 – 1.4. Il “partito” Repubblica, 44 – 1.5. Il machiavellico Ferrara, 48 – 1.6. Le delicate riflessioni della “signora in rosso”, 52 – 1.7. Rai, icona del parallelismo politico, 58 – 1.8. Porte Rai chiuse per chi non è del partito, 68 – 1.9. No, non è la Bbc, 82 – 1.10. I giornali di partito: scuole a spese dello Stato, 84 – 1.11. Grillo, i grillini e i “Grandi Trombettieri del Sistema”, 89
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Capitolo II Un flirt lungo due secoli 2.1. La Rivoluzione francese arriva in Italia, 95 – 2.2. Il Risorgimento e “l’inchiostro del saggio”, 98 – 2.3. Dall’Unità d’Italia all’avvento del fascismo, 102 – 2.4. “Maestro di giornalismo”, poi Duce, 110 – 2.5. Stefani, veline e Minculpop, 120 – 2.6. Il Dopoguerra, 128 5
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Indice
Capitolo III A scuola di giornalismo 3.1. Se ne parla da oltre un secolo, 133 – 3.2. Si nasce o si diventa?, 139 – 3.3. L’idea fascista della scuola di giornalismo, 148 – 3.4. L’Ordine dei giornalisti e l’accesso alla professione, 162 – 3.5. Scuole e laurea: il legislatore repubblicano ha detto no, 169 – 3.6. La stretta di mano tra Ordine e Università, 175
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Capitolo IV Dove va la professione giornalistica 4.1. Dalla vocazione alla raccomandazione, 181 – 4.2. I giornalisti italiani intervistati dal Censis, 184 – 4.3. Sindacato, Ordine e mercato del lavoro 188 – 4.4. Modelli di giornalismo e parallelismo politico, 203 – 4.5. L’accesso alla professione giornalistica in Europa, 205
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Conclusioni
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Ringraziamenti
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Bibliografia
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Siti consultati
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Emerografia
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Indice dei nomi
Prefazione
di Sergio Rizzo Nulla sarà più come prima. La rivoluzione dell’informazione è cominciata e nessuno la potrà fermare, nemmeno in un Paese sclerotizzato e condizionato da lobby, corporazioni e gruppi di pressione qual è oggi l’Italia. Quello che sta accadendo con l’accelerazione imposta dalle nuove tecnologie è per l’umanità una trasformazione di portata paragonabile solo all’invenzione di Johannes Gutenberg. Le imprese editoriali non saranno più le stesse. I giornali non saranno più quelli che abbiamo conosciuto finora, dal tempo della “Einkommende Zeitungen”, il primo quotidiano pubblicato al mondo, nel 1660 a Lipsia. Anche per le televisioni e le radio si dovranno spalancare nuove frontiere. La concorrenza indotta dalle nuove tecnologie dilagherà, travolgendo barriere fisiche (la carta), economiche e culturali. Di questo si può stare certi, come del fatto che i cambiamenti avverranno con una rapidità sconosciuta. Neanche i giornalisti, dunque, saranno più gli stessi. Una transizione dolorosa e non priva delle incognite dovute al passaggio da mestiere privilegiato a mestiere volatile. Sarà possibile mantenere in vita un sistema previdenziale come quello attuale? E un’assistenza sanitaria integrativa degna di tal nome? E retribuzioni elevate, ma spesso assolutamente ingiustificate? E un sindacato con forti venature corporative? E un ordine professionale il cui costo non è certo proporzionale alla sua utilità, ma che ha finora garantito poltrone e poltroncine? Non c’è dubbio che tante certezze accumulate nei decenni sono destinate a crollare: meno male, si potrebbe perfino dire in
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alcuni casi. Tanto più considerando i cambiamenti profondi e positivi che investiranno la professione. Per molti ci saranno meno soldi e meno privilegi, ma il lavoro non mancherà: il mondo globalizzato chiederà sempre più informazione rispetto a quanta ce ne sia adesso sul mercato. La maggiore varietà di supporti, e sempre più economici, favorirà inoltre una libertà decisamente maggiore. La conseguenza professionalmente più importante, però, non potrà che essere la rottura di un cordone ombelicale che lega da quasi un secolo il nostro giornalismo al Palazzo. L’Italia è l’unico Paese al mondo nel quale il mestiere di giornalista sia storicamente così contiguo al potere e alla politica. Lo è certamente per ragioni storiche e culturali. Cui ha contribuito l’esistenza di un apparato dell’informazione pubblica pletorico e lottizzato fino al midollo: parliamo ovviamente della Rai. Ma è un rapporto insano e perverso. Perfino peggiore di quello che esiste fra i giornali e i gruppi industriali e finanziari che ne hanno il controllo. La distanza con l’informazione degli altri Paesi occidentali, e segnatamente quelli anglosassoni nei quali la libertà di stampa è da sempre considerata un bene supremo della democrazia, risulta abissale. Un esempio rende bene l’idea. Nel Regno Unito chi intenta una causa civile a un giornale rischia di pagare multipli del risarcimento preteso se la sua iniziativa viene giudicata temeraria o intimidatoria; in Italia gli editori sono subissati da procedimenti civili con richieste astronomiche che hanno il solo scopo di bloccare le inchieste giornalistiche. Inutile dire che nessuna forza politica, qui, si è mai posta concretamente il problema di mettere mano a una questione che rappresenta un condizionamento pesantissimo alla libertà di informazione. Per rendersi conto di quanto il giornalismo italiano sia legato alla politica basta del resto uno sguardo alle Navicelle parlamentari del dopoguerra, come dimostra qui Ugo Degl’Innocenti. Giornalista era Giulio Andreotti, per sette volte presidente del Consiglio. Giornalista (e direttore del “Corriere della Sera”) Giovanni Spadolini, premier e presidente del Senato.
Giornalista è Massimo D’Alema, premier, segretario del Pds e presidente dei Ds. Giornalista è Walter Veltroni, vicepremier e capo della coalizione del centrosinistra alle elezioni del 2008. Giornalisti sono Gianfranco Fini, Paolo Guzzanti, Ricardo Franco Levi, Giancarlo Mazzuca, Fiamma Nirenstein, Sergio Zavoli… E per quanto il loro numero in Parlamento si sia più che dimezzato con il grande rinnovamento delle elezioni del 2013, passando da 95 a 40, certe pessime abitudini non sono finite. In quale altro Paese l’ex direttore del principale telegiornale pubblico, una volta perduto quell’incarico, sarebbe stato candidato in un collegio sicuro al Senato dal partito che l’aveva proiettato a quella nomina nella tivù di Stato? Qui è accaduto nel febbraio del 2013. Dopo aver letto questo libro c’è da domandarsi se un’informazione tanto dipendente dal potere non abbia qualche responsabilità nella situazione che viviamo. In definitiva, se con una stampa più libera e coraggiosa nel mettere a nudo le degenerazioni del sistema e i peccati delle classi dirigenti oggi non avremmo un’Italia migliore. Credo proprio di sì. Sergio Rizzo
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Disorientati, ansiosi, qualcuno molto vicino a una crisi di nervi. Così sono apparsi i giornalisti televisivi italiani durante lo spoglio delle schede elettorali delle elezioni politiche 2013, mentre appariva evidente l’affermarsi del Movimento 5 Stelle, uscito dalle urne con un sorprendente venticinque per cento di consensi per la Camera. Presi alla sprovvista dal successo dell’ex comico Beppe Grillo, il quale snobba proprio loro, negandosi alle interviste e rivolgendosi ai suoi seguaci nelle piazze o tramite il web, molti giornalisti appaiono come cantori del potere, aedi dei partiti e quindi poco credibili a una generazione che di giornali e talk show se ne infischia. D’altronde, come si può dar loro torto? Qualche giornale ha scritto o telegiornale ha detto a chiare lettere che Partito Democratico e Popolo della Libertà hanno perso le elezioni? Macché: il Pd è arrivato primo, anche se non ha vinto, mentre di Silvio Berlusconi s’è cantata la formidabile rimonta rispetto ai sondaggi! È chiaro che poi la verità sostanziale dei fatti viene a galla, ma lì per lì appare una certa riluttanza a esporre fatti poco graditi ai “soci” politici della premiata ditta “Giornalismo e politica SpA”. La spiegazione va trovata nella storia del giornalismo italiano, da sempre avvinto come un’edera al potere. Da Giuseppe Mazzini a Benito Mussolini, da Eugenio Scalfari a Giuliano Ferrara, passando per David Sassoli e i governatori del Lazio Piero Badaloni, Francesco Storace e Piero Marrazzo, professione giornalistica e carriere politiche spesso s’intrecciano, dando 11
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vita a un modello tutto italiano di giornalismo schierato, lontano anni luce da quello liberale angloamericano, quello del “Washington Post”, il quotidiano che ha costretto alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, per intenderci. Dalla Rivoluzione francese al fascismo, dall’affermarsi dei giornali di partito nel secondo dopoguerra alla nascita dei “giornali–partito”, “la Repubblica” di Scalfari e “il Giornale” di Indro Montanelli negli anni Settanta, dagli attacchi di Vittorio Feltri e di Maurizio Belpietro agli avversari politici di Berlusconi e all’informazione militante di Concita De Gregorio, l’insano abbraccio tra politica e giornalismo più che l’indicatore di un flirt è rivelatore di un matrimonio indissolubile. La commistione tra giornalismo e politica, infatti, è stretta a tal punto che si passa dalla professione alla “Casta” e viceversa con tanta disinvoltura, come se per un giornalista non ci fosse alcun impedimento di carattere etico a tornare al proprio lavoro dopo essere sceso nell’arena della politica, come nel caso dell’ex direttore del “Tempo”, Mario Sechi. Candidatosi nelle liste del premier Mario Monti in Sardegna alle elezioni 2013, Sechi non è stato eletto. È invece diventato senatore l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini, candidato con Il Popolo della Libertà nella regione Liguria. Dopo lo spoglio, è risultato il primo dei non eletti della sua lista, ma è subentrato grazie alla decisione di Silvio Berlusconi, candidatosi in più regioni, di optare per il seggio della regione Molise. E ce l’ha fatta anche Massimo Mucchetti con il Pd. L’ex vicedirettore de «L’Espresso» poi passato al “Corsera” è adesso presidente della commissione industria del Senato. Certo, andando a guardare il curriculum dell’antagonista di Barack Obama alle elezioni del 2008, Sarah Palin, scopriamo che l’ex governatrice dell’Alaska è laureata in giornalismo e per un po’ ha pure lavorato in un’emittente privata, ma la sua esperienza giornalistica s’è fermata lì. Invece, in Italia c’è una Tv di Stato che di fatto è un trampolino di lancio per la politica, come nel caso degli ex parlamentari europei Michele Santoro e Lilli Gruber, entrambi “lanciati” dalla Rai ed entrambi tornati sul piccolo schermo una volta conclusa l’esperienza a Strasburgo.
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E forse solo in Italia ci sono politici che maturano il diritto a una pensione anche dall’istituto di previdenza dei giornalisti, grazie ai contributi figurativi versati a loro favore dalla categoria. Solo in Italia i giornalisti hanno l’obbligo di essere iscritti a un albo professionale, inventato durante il fascismo per schedare e tenere sotto controllo gli operatori dell’informazione. Certo, anche Winston Churchill è stato un corrispondente di guerra1, ma solo in Italia c’è un Ordine dei giornalisti istituito nel 1963 ma pensato da un giornalista diventato dittatore, vale a dire Benito Mussolini. Basta sfogliare qualsiasi quotidiano, accendere la televisione, ascoltare le news alla radio, per capire che l’informazione è fortemente e ingiustificatamente sbilanciata sulla politica. Certo, dopo l’epoca in cui tutti i giornali sembravano appiattiti su di un unico mainstream, tra i cambiamenti più significativi degli ultimi due decenni vi è certamente l’affermarsi sul mercato di due quotidiani di destra, “Libero” e “il Giornale”. Il loro successo non è altro che la cartina di tornasole del giornalismo italiano: da sempre legato al potere, secondo un modello che appare unico e difficilmente assimilabile ad altri modelli occidentali, per quanti sforzi facciano gli autori di Modelli di giornalismo, Daniel Hallin e Paolo Mancini, i quali mettono l’Italia nello stesso calderone di Spagna, Francia e Grecia e Portogallo2. Come affrancare la professione giornalistica dalla politica e dai potentati in genere? È proprio l’Ordine dei giornalisti a invocare una riforma dell’accesso alla professione tramite percorsi universitari che vuole sembrare liberale, talvolta utilizzando slogan del tipo: «Vogliamo togliere la possibilità agli editori di fare i giornalisti». In realtà, così facendo, l’Ordine ha deciso di condividere con il sistema universitario il rilascio della qualifica di giornalista. 1 Richard Newbury (traduzione di Marina Verna), Dal nostro inviato Winston Churchill, “LaStampa.it”, 25 settembre 2012. 2 D.C HALLIN, P. MANCINI, Modelli di giornalismo. Editori Laterza, Bari–Roma 2004.
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Cambiano i governi, ma la lobby che vuole far passare per forza i futuri giornalisti attraverso le università non desiste. Una siffatta riforma dell’accesso a prima vista potrebbe anche apparire congeniale alla professionalizzazione della categoria, vale a dire all’avvicinamento del giornalismo italiano al modello liberale angloamericano cui dovrebbero tendere in prospettiva i modelli democratico–corporativo dell’Europa continentale e quello polarizzato dei Paesi mediterranei3. In realtà, appare più utile al sistema universitario italiano, che così può dire la sua nel rilascio dell’abilitazione all’esercizio della professione giornalistica. Negli Stati Uniti, i primi corsi universitari di giornalismo voluti da Joseph Pulitzer nascono nei primi del Novecento, ma, a tutt’oggi, non esiste un titolo legale per accedere alla professione giornalistica. In Italia, invece, l’Ordine dei giornalisti tenta da anni d’imporre la via esclusiva tramite università. «Una rivoluzione copernicana»4: così è stata definita la riforma dell’accesso alla professione tramite università e corsi post laurea ad hoc. Non è una rivoluzione priva di vittime, visto che la riforma immette nel mercato del lavoro giornalistico professionisti senza contratto, con un conseguente indebolimento della categoria di fronte agli editori, per la fin troppo ovvia legge della domanda e dell’offerta. L’Ordine dei giornalisti, invece, sembra ignorare le leggi del mercato del lavoro (ma anche la legge che lo istituisce, come vedremo), o forse al suo interno c’è chi pensa che un aumento dell’offerta dovrebbe generare un aumento della domanda. Invece, è sotto gli occhi di tutti il generale abbassamento delle condizioni generali di chi svolge la professione giornalistica. Questo non è sfuggito neppure a un sostenitore della riforma, l’ex segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Vittorio Roidi, il quale un giorno si è accorto che «i giornali di Riffeser vogliono pagare due euro e mezzo i collaboratori esterni, (…), 3
Ibidem. Cfr. Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Documento di indirizzo per la riforma dell’Ordine, 2 luglio 2002.
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neppure un pacchetto di sigarette. Più che uno schiaffo, la si può definire una moneta lasciata cadere nel cappello, un’umiliazione»5. Se il deprezzamento del lavoro giornalistico colpisce in primo luogo i collaboratori esterni, su cui ormai si regge l’editoria italiana, anche i più garantiti, vale a dire i contrattualizzati, dovranno rinunciare ai benefici economici e normativi che hanno contribuito a rendere attraente la professione giornalistica in Italia. La riforma che l’Ordine vorrebbe s’innesta in un impianto normativo che ha più d’ottant’anni, oggi basato su due carte fondamentali: la legge sull’ordinamento della professione giornalistica (legge n. 69 del 1963) e il Contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico Fieg–Fnsi, la cui efficacia erga omnes è stata riconosciuta con decreto del 1961. Sia la legge professionale sia il contratto di lavoro prevedono la figura del praticante giornalista come unica forma d’apprendistato, già prevista dal regio decreto 384 del 1928 che altro non era che il regolamento d’attuazione della legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti del 1925. Per la legge 69 del 1963, il praticante giornalista è colui che ha un contratto di lavoro e che, dopo diciotto mesi, è ammesso all’esame d’idoneità professionale. In base alla lettera della norma, in linea teorica, nel mercato possono esistere soltanto professionisti occupati. È stato soprattutto così per ottanta anni. Oggi, invece, il praticantato può essere svolto nelle testate all’uopo costituite nei corsi riconosciuti dall’Ordine che, d’interpretazione in interpretazione, ha allargato le possibilità d’accesso previste dalla legge. In ogni caso, gli allievi di tali corsi passano alcuni mesi nelle redazioni, grazie alla cosiddetta legge Treu del 1997 che ha legittimato la figura dello stagista, anch’egli apprendista ma non retribuito come il praticante, con inevitabili ambiguità e sovrapposizioni di ruoli, oltre che gravi ripercussioni nel mercato del lavoro. Tutto questo avviene nonostante non ci sia oggi alcuna norma in vigore che lo preveda. Quindi, appare illegittimo 5
«Giornalisti», n. 3, anno V, maggio/giugno 2006, p. 4.
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l’accesso all’esame di Stato dei praticanti provenienti dai corsi di giornalismo riconosciuti dall’Ordine, come puntualmente hanno fatto notare all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano i deputati radicali eletti nel Partito Democratico con un’interrogazione parlamentare della fine del 2008. L’Ordine insiste e lamenta la mancanza di una legge di riforma. Ma nonostante i disegni di legge che pure sono stati presentati in più di una legislatura, le Camere non hanno ritenuto finora prioritario mettere mano alla legge 69 del 1963. Così l’Ordine dei giornalisti “interpreta” come meglio crede le norme esistenti. L’ultima novità: dare la possibilità ai pubblicisti, a determinate condizioni, di essere ammessi all’esame di Stato, senza passare per il praticantato prescritto dalla legge6. La decisione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha suscitato non poche polemiche, in quanto è stata presa poche settimane prima del voto per il rinnovo delle cariche sociali e, quindi, è sembrata demagogica. Strenuo difensore del provvedimento, il da poco non più vicepresidente dell’Ordine Mauro Paissan, politico e giornalista, già deputato dei Verdi. Tessere di giornalista a parte, in queste pagine si cercherà di capire la trasformazione della professione giornalistica e quali possibilità abbia di affrancarsi dalla politica. È evidente che il mestiere – come in molti preferiscono chiamarlo – di giornalista non è più “Sempre meglio che lavorare”, frase attribuita a Luigi Barzini7, e titolo di un libro di ricordi sulla vita professionale di un inviato del “Corriere della Sera” sempre in giro per il mondo8. Dunque, il mestiere si sta trasformando, in un’epoca di routine produttive che bloccano intere redazioni al desk (altroché in giro per il mondo) in cui spesso 6
Il Consiglio nazionale, riunito in Roma nei giorni 12, 13 e 14 marzo 2013, ha approvato il cosiddetto “Ricongiungimento” che costituisce un percorso transitorio per l’accesso al professionismo di quei pubblicisti che esercitano l’attività giornalistica in maniera esclusiva. 7 Vedi: E. BIAGI, “I” come italiani, Nuova Eri Roma/RCS Rizzoli Libri Milano 1993, p. 174: «Luigi Barzini senior diceva del mestiere: “Sempre meglio che lavorare”». 8 L. GOLDONI, Sempre meglio che lavorare, Rizzoli, Milano 1989.
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sembra che le fortune dell’editoria italiana si reggano su stagisti a costo zero e su freelance malpagati9. Un’epoca in cui la celebre frase di Barzini è diventata, con l’aggiunta di un punto interrogativo, il nome di una rubrica del «Barbiere della Sera»10, sito purtroppo scomparso dal web, che accoglieva i commenti e le testimonianze di numerosi giornalisti alle prese con mille problemi. Il giornalismo italiano, nella classificazione proposta da Hallin e Mancini per le democrazie occidentali, rientra nel modello “pluralista–polarizzato” dei Paesi mediterranei, caratterizzato da un basso sviluppo della stampa di massa, da alto parallelismo politico, vale a dire forte connessione organizzativa tra mezzi di comunicazione e partiti politici o altri tipi di associazione (sindacati, cooperative, chiese ecc.), bassa professionalizzazione e alto intervento dello Stato. Nel modello mediterraneo gli operatori del sistema dell’informazione tendono a esercitare un ruolo attivo nella vita politica, impegnati in partiti o organizzazioni sociali. Benché il modello sia caratterizzato anche da una certa partigianeria delle stesse audience, gli autori di Modelli di giornalismo individuano una tendenziale convergenza verso il sistema liberale che presenta, assieme all’altro modello proposto, quello democratico–corporativo dell’Europa continentale, un’alta professionalizzazione. Ci troveremmo di fronte a un’omogeneizzazione che starebbe corrodendo le differenze tra i sistemi che si sono affermati nel XX secolo. Ma gli autori di Modelli di giornalismo avvertono: «Il processo di commercializzazione, sebbene possa incrementare la differenziazione dei media dalle istituzioni politiche, tende a subordinarli alle logiche di mercato»11. Di male in peggio, si potrebbe dire. 9 Secondo il rapporto Le journalistes free–lances dans l’industrie médiatique européenne della Fédération Européenne des Journalistes del 2003, il salario lordo medio annuo dei freelance italiani è pari al 42 per cento del salario medio nel Paese. In Danimarca è pari al 131%, in Finlandia al 147%, Germania 104%, Norvegia 73%, Svezia 79%, Regno Unito 114%. 10 www.ilbarbieredellasera.com 11 D.C HALLIN, P. MANCINI, op. cit., p. 265.
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Ma non sembra ci siano problemi: l’intreccio tra politica e giornalismo in Italia sembra inscindibile, perché affonda le radici nelle origini della stampa moderna. Un altro autore, Carlo Sorrentino, considera quest’intreccio una grave e pericolosa distorsione, in grado di impedire o quantomeno attenuare la possibilità per il giornalismo italiano di praticare una libera e autentica informazione neutrale. Nel suo saggio Tutto fa notizia. Leggere il giornale, capire il giornalismo12, Sorrentino individua tre fasi della dipendenza del giornalismo italiano dalla politica: la fase dei notabili, il ventennio fascista, la fase che si è aperta con il secondo dopoguerra. I grandi quotidiani italiani come il “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Nazione” nascono nella fase in cui diversi notabili sono animati dagli ideali risorgimentali. Secondo Paolo Murialdi e Aurelio Magistà13, invece, i germi della politica s’insinuano nel giornalismo con il vento della Rivoluzione francese. Tutti però sembrano essere concordi sul fatto che la pervasività della politica nell’informazione raggiunge il suo culmine nel ventennio fascista, quando è lo stesso Mussolini, un giornalista, a dare il “la” a tutti i direttori di giornale. La terza fase di Sorrentino è quella che si è aperta con il secondo dopoguerra, in cui il sistema politico vuole mantenere un’egemonia forte sull’informazione, attraverso il consolidamento dei rapporti con i principali gruppi industriali presenti nel settore editoriale, cui si aggiunge il controllo da parte dei partiti del sistema pubblico radiotelevisivo. Alle tre fasi di Sorrentino, e alla fase della Rivoluzione francese, aggiungerei due ulteriori fasi storiche del giornalismo italiano: quella iniziata con l’affermarsi di una stampa di destra, in seguito alla “discesa in campo” di un addetto ai lavori, l’editore Silvio Berlusconi, e quella che stiamo vivendo del “non gradi-
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C. SORRENTINO, Tutto fa notizia. Leggere il giornale, capire il giornalismo, Carocci, Roma 2007. 13 Cfr. P. MURIALDI, Storia del giornalismo italiano, Il Mulino, Bologna 2000 e A. MAGISTÀ, L’Italia in prima pagina. Storia di un Paese nella storia dei suoi giornali, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2006.