Finalmente! di Franco Maria Puddu
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Dalla Marina Militare un esempio di tutela e salvaguardia delle tradizioni
na imbarcazione storica e a noi particolarmente cara, il San Giuseppe Due, il motoveliero con il quale il comandante Giovanni Ajmone Cat raggiunse l’Antartide nel corso di due compagne esplorative, nel 1969 e nel 1973, navigando nelle dure condizioni vissute dalla marineria di altri tempi (vedi Lega Navale del novembre-dicembre 2002), non rischia più di intristire su uno scalo di cemento nella tenuta di famiglia del comandante. La Marina Militare, infatti, a seguito di un accordo con la famiglia del navigatore (scomparso nel dicembre del 2007), con il Comune di Anzio, la locale Sezione LNI, la Capitaneria di Porto ed il cantiere Gallinari, sta provvedendo, in tempi brevi, a sistemare degnamente in un’apposita area museale i cimeli di Ajmone Cat. Il motoveliero, tolto dalla innaturale situazione nella quale versava, dopo essere stato riconsegnato al suo vero elemento, il mare, è stato invece portato al suddetto Cantiere per un adeguato e minuzioso restauro; quindi, anche se in carico alla Marina Militare, stazionerà in un ormeggio posto tra la Capitaneria di Anzio e la Base nautica della Sezione, integrato nei ruoli operativi di quest’ultima. Una bellissima notizia che addolcisce il cuore degli amanti del mare e delle sue tradizioni, prospettando possibili futuri più rosei di quelli vissuti
sino ad oggi, per il nostro patrimonio culturale; questa non è assolutamente una critica alla Marina, ma alle Istituzioni in generale. Cerchiamo però di approfondire il problema. L’Italia, come è noto, è il Paese che detiene la più alta concentrazione di opere d’arte del mondo. A fianco di queste vanta una enorme quantità di manufatti, edifici, reperti storici che, a buon diritto, sono parte integrante del suo patrimonio culturale; a questo punto nasce un problema legittimo: chi è preposto alla tutela di questo patrimonio, e in quali condizioni lo mantiene? Purtroppo le istituzioni che dovrebbero farsi carico di queste responsabilità, molto spesso si limitano a palleggiarsele tra loro, fino a che, come accade sovente, cessano di esistere perché manufatti ed opere d’arte sono andati distrutti per incuria, per vandalismo o, più semplicemente perché sono stati rubati su ordinazione di qualche “collezionista”. Queste non sono velleitarie tesi allarmistiche, e per dimostrarlo portiamo subito all’attenzione del lettore tre esempi eclatanti della veridicità del nostro assunto.
Un arsenale sul Tevere Il passante che, a Roma, si trovasse a transitare sul Viale di Porta Portese, sede del folcloristico mercato “aux puces” nato dopo il 1945 e che da
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con, sul frontale, due arcate neogotiche a sesto acuto dotate, ai lati, di pesanti cardini per grandi portali in legno, con due altre, identiche, nella parete opposta. Proseguendo, dal muro emergono alcuni edifici, uno dei quali con finestre di forma inusuale, chiuse da strane persiane in legno; altro non è dato di vedere se non il traffico intenso, rivendite di pezzi di ricambio per autovetture, e una targa, testimone della passata presenza, in loco, del canile municipale, da tempo trasferito altrove. Il capannone, invece, ancora in buone condizioni, è stracolmo di materiali per edilizia: calce, cemento, mattoni, mattonelle, quello che Dopo essere stato collocato su un carrello ruotato appositamente predisposto, a Roma viene definito uno “smoril San Giuseppe Due, finalmente libero dall’invaso semi interrato che lo ospitava, zo”, che conviene osservare dalla torna a viaggiare verso il mare (foto Loperfido); in apertura il San Giuseppe Due strada se non si vuole essere fatti sein navigazione gno di osservazioni, non sempre degne di monsignor Della Casa, da allora si tiene tutte le domeniche, poco dopo l’iniparte dei suoi gestori. zio della lunga strada alberata vedrà, sulla sinistra, Il complesso, un tempo era composto da due un alto muro interrotto da un cancello oltre il scali protetti da un grande capannone, un deposiquale si trova un enorme capannone in muratura to di sale, una corderia, varie officine, una caserma e gli uffici della dogana, e altro non è che l’Arsenale della Marina fluviale Pontificia dove, tra il 1400 e il 1600, vennero costruite e riparate le piccole navi della flotta papalina destinate al servizio doganale tra la foce del Tevere e l’entroterra. Vi vennero però realizzate anche alcune unità della Marina da guerra (lo Stato Pontificio disponeva di una Marina da guerra, una fluviale e una doganale), come, nel 1588, la galera San Bonaventura, destinata ad essere l’ammiraglia della flotta; altre vi subirono lavori anche di notevole entità fino alla metà del 1800, quando l’importanza dell’opificio era già calata per la costruzione, nel 1659, dell’arsenale berniniano di Civitavecchia. La vita dell’Arsenale non fu quieta: nel 1798, durante l’effimera Repubblica Romana, divenne il deposiAncora un’immagine dei nostri giorni: il vecchio scafo viene lentamente calato to delle opere d’arte razziate dalle da una gru verso il suo elemento naturale; la sua prossima meta sarà lo scalo del Cantiere Gallinari dove verrà completamente restaurato (foto Loperfido) truppe francesi; nel 1849, quando i
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francesi assediarono Roma, fu danneggiato dai cannoni del generale Oudinot; nel 1861, dopo la presa da parte delle truppe italiane, divenne bene del demanio, e sopravvisse in semiabbandono per arrivare, quasi intatto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questa data i suoi locali e le vie circostanti (Porta Portese era allora una zona periferica), vennero invasi da contrabbandieri, venditori abusivi, borsaneristi rimasti disoccupati per la fine della guerra, povera gente che vendeva quel poco che le era rimasto per sopravvivere, contadini che venivano dalla campagna con i loro prodotti, e divenne la coloratissima casbah che è tutt’oggi. Il desolante aspetto odierno dell’accesso agli scali dell’Arsenale pontificio; Si potrebbe pensare che, passata la nell’”occhialone” posto fra le due arcate neogotiche, lo stemma marmoreo di guerra, con il normalizzarsi della vita Papa Clemente XI Albani, che commissionò nel 1714 il potenziamento del lo stato delle cose sarebbe cambiato, complesso alla Camera Apostolica ma, passato il periodo della ricostruzione, del “boom” economico, della secoli di storia, fosse riportato ad un livello diripresa, dello sviluppo e così via, tutto è rimasto gnitoso; oltretutto non è occupato direttamente come era. dal mercato, ma sede dello “smorzo” abusivo. In A partire dal 1980 molti hanno levato la voce altri Paesi sarebbe stato considerato un fiore alperché l’antico Arsenale, che vanta oltre cinque l’occhiello e restaurato anche con una spesa contenuta, dato il suo buono stato di conservazione; ma a Roma ha ricevuto solo un grande interessamento e fiumi di belle parole da parte delle autorità capitoline oltre, alcuni anni fa, alla riverniciatura del muraglione perimetrale. Oggi le piante crescono al suo interno come in una giungla, mura e intonaci si sgretolano senza controllo; chi lo occupò, abusivamente, negli Anni 40, è ancora là e l’unica cosa che turba questa anomala normalità è il tonfo di una tegola o di un mattone che, ogni tanto, cade al suolo trascinando con se una briciola di storia della capitale.
Dall’Inghilterra a Ripa Grande L’edificio del magazzino del sale, con le sue particolari finestre che garantivano un certo tipo di illuminazione e di ventilazione all’interno dei locali che custodivano il primario e prezioso genere di consumo
Se risaliamo il fiume dal lato dell’Arsenale, dopo aver attraversato gran parte della città, poco oltre la mole di
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rò sino alla fine degli Anni 70, quando rese l’anima a Dio e il barcone agli Dei tutelari del Tevere. Rimasto in abbandono, circa 10 anni dopo attirò l’attenzione di un vecchio amico della nostra Rivista, il cap. di vasc. del Genio Navale Franco Gay, autorevole cultore di storia e costruzioni navali il quale, osservandolo, si accorse che lo scafo era in piastre di acciaio rivettate, aveva un dritto di prora verticale e rinforzato, una poppa dalla strana linea e, al centro, uno scasso che altro non poteva essere se non il passaggio di un asse destinato a a far ruotare due ruote a pale. Tutto questo, specie la fattura dello scafo in piastre e la struttura della prora, facevano pensare ad una nave militare, non certo ad una chiatta. Basandosi su questi ed altri riscontri, il comandante Gay giunse alla La Nave dei Folli fotografata in stato di semiabbandono nel 1982; è visibile, a convinzione che si trattasse dello scacentro scafo, lo scasso nel quale passava l’asse dei tamburi propulsivi, mentre si intravede, a sinistra, una prora dalla linea particolare fo di una unità fluviale, facente parte di una piccola squadra di tre piroscafi Castel Sant’Angelo, sporgendoci dalla spalletta del a pale da 72 tonnellate, acquistata il Inghilterra lungotevere, fino alla fine degli Anni 80, avremnel 1841 dalla Marina Pontificia. mo potuto vedere un grosso barcone in stato di Le tre navi erano state condotte a Roma dal tecompleto abbandono, costituito da uno scafo sul nente colonnello Enrico Cialdi, dopo un avvencui ponte sorgeva una lunga baracca costellata di turoso viaggio di quasi mille miglia iniziato nel oblò, con una scritta sui fianchi: La nave dei Folli. maggio 1842 a Blackwall, sul Tamigi, attraversanEra un vecchio scafo dalle incerte origini; si sado poi la Manica, i canali interni della Francia, il peva che un tempo era stato utilizzato come traMare Tirreno e, risalendo il Tevere, giungendo al sporto da Fiumicino al porto fluviale di Ripa porto di Ripa Grande. Grande; dopo la Grande Guerra, un “fiumarolo” I piroscafi erano il Blasco de Garay, il Papin e l’Arromano ne era entrato in possesso e, dopo avergli chimede. A sopravvivere alle vicissitudini della storia tolto il motore, aveva costruito quella lunga cabifu proprio quest’ultimo che, senza mai lasciare il Tena trasformandolo in uno stabilimento fluviale: vere, fu rimorchiatore, trasporto merci e, anche, allora il “biondo Tevere” non era una cloaca a cieunità doganale del Papa Re, giungendo a navigare, lo aperto, e molti romani vi si bagnavano. in questa veste, fino all’altezza di Passo Corese. Prima dell’ultima guerra la gestione passò al fiCaduto il Regno Pontificio, passò a quello d’Iglio del vecchio fiumarolo, di nome Rodolfo Betalia e fu attivo fino alla Grande Guerra; i registri nedetti, soprannominato “er Ciriola” perché in del naviglio lo indicavano come la più antica naacqua nuotava più lesto delle anguille, che a Rove a vapore italiana, ma con l’abbandono delma sono dette “ciriole”: anch’egli un vero fiumal’Arsenale di Porta Portese e il graduale passaggio rolo che, negli anni, salvò la vita a più di 50 peral trasporto delle merci per strada ferrata anziché sone in procinto di annegare. via fiume, l’Archimede fu abbandonato; ma la ruCon lui La nave dei Folli conobbe lunghi anni stica ristrutturazione prima del fiumarolo, poi spensierati fino a che, settantenne, gli acciacchi di del figlio (il Ciriola), lo riportarono a una nuova una vita passata letteralmente “a mollo” lo spensee scapigliata giovinezza durante la quale fu imro in un lettino dell’Ospedale Santo Spirito, verso mortalato anche dal cinema neorealista. la fine degli Anni 50, e il barcone, abbandonato, divenne l’asilo di un vecchio barbone che vi dimosegue a pag. 33
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Un’immagine al tratto dell’Archimede eseguita dal comandante Franco Gay; sono visibili, da sinistra, la poppa, una piccola tuga, il fumaiolo della macchina a vapore, uno dei due tamburi e il ponte di prora sul quale probabilmente era collocato un cannone di piccolo calibro
continua da pag. 32
A questo punto, nell’ottobre del 1987, il comandante Gay pensò bene di rivolgersi all’allora sindaco di Roma, il democristiano Umberto Signorello, illustrando brevemente il suo progetto: viste le buone condizioni di conservazione dello scafo e l’esiguità delle sovrastrutture originali, sarebbe stato agevole e poco costoso restaurare il vapore e restituirlo, anche se non navigante ma identico all’originale, alla città. Il progetto riscosse interesse, lodi e plausi ma.....niente di fattivo se non una copiosa messe di ma, di se, di forse e di vedremo. Fino a che, e forse fu una fortuna, l’antico Dio Tevere decise di dirimere tutte le controversie a modo suo: una piena improvvisa travolse il vecchio scafo durante una notte tempestosa, e alla mattina, là dove cigolava ormeggiata la Nave del Folli, si trovò solo un placido specchio d’acqua. Dell’Archimede, divenuto barcone del Ciriola, non si trovò più traccia.
Da Rovenska a Elettra Questa volta cambiamo scenario e ambientazione,
ma la storia ha in comune con le due che abbiamo citato, solo un tristissimo finale. Nel 1903, l’arciduca Carlo Stefano d’Austria, nipote dell’Imperatore Franz Joseph, ordinava ai Cantieri Ramage & Ferguson Ltd. di Leith, in Scozia, un panfilo, dalle linee vagamente marziali, lungo 63,4 metri f.t. con un tonnellaggio di 632,81 tsl. Consegnato l’anno seguente, gli venne imposto il nome di Rovenska dal nome di un’insenatura dell’isola di Lussino, e fu iscritto nel Geschwader Yacht (squadriglia yacht) della KuK Marine (la Marina austroungarica), ossia nella lista di yacht mo-
Una bella immagine colorata della fine degli Anni 20 mostra l’Elettra, con la sua alta antenna sperimentale tesa fra le sommità degli alberi, in navigazione presso Poldhu, in Cornovaglia, dove si trovava una stazione RT sperimentale
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marineria italiana (i transatlantici Rex e Conte di Savoia e le navi scuola Vespucci e Colombo), si sperava di allontanarlo dai rischi dei bombardamenti, ma dopo l’8 settembre venne requisito dai tedeschi che (sbarcati i cimeli, ad onor del vero) lo trasformarono in pattugliatore. Incagliatosi alla prima missione, colpito poi dai bombardieri alleati e infine spogliato dai saccheggiatori croati rimase, abbandonato, fino al 1962; in quell’anno il Presidente jugoslavo Tito, dopo varie vicissitudini, ne fece dono al Presidente Questo infame scempio mostra quello che avvenne della prora dell’Elettra: asportata dallo della Repubblica Antonio Sescafo, venne donata per volere del Governo come monumento commemorativo all’Area di gni, per cui fu recuperato e riRicerca Scientifica di Padriciano, presso Trieste morchiato nel porto di Trieste. Dopo quindici inutili anni bilitabili in caso di guerra. Cosa che avvenne pundi attesa alla fonda, a Muggia, il Governo stabilì tualmente, ma ... da parte del nemico. di essere troppo povero per un restauro e, mentre Infatti il Rovenska, che allo scoppio della Gransi costruivano aeroporti mal progettati, superstrade Guerra, era in Gran Bretagna per lavori, fu rede troppo strette e opere pubbliche mai terminaquisito dall’Ammiragliato, mobilitato e inviato te, lo consegnò ai “sezionatori”. come dragamine d’altura nel Canale. La nave, infatti, non venne demolita in un Sopravvissuto un po’ malconcio alla guerra, il cantiere o venduta a qualche eccentrico colleziopanfilo svernava a Southampton quando la sua nista, ma sulla base di un astruso principio seconpresenza fu notata, nel 1919, da Guglielmo Mardo il quale tagliando in 13 pezzi una cosa bella otconi (già cap. di corv. ad honorem), venuto in Inteniamo 13 cose belle, venne sezionata in altretghilterra per acquistare a buon mercato una nave tante parti, poi equamente distribuite ad altretche gli consentisse di proseguire le sue esperienze tanti enti, associazioni o istituzioni sparsi tra Triesullo studio delle onde radio in mare. ste, Venezia, Pontecchio, Roma, Milano, Santa Il Rovenska, dotato di due robustissimi alberi alti Margherita Ligure e Sydney, in Australia. 25 metri, parve l’ideale per sostenere le enormi antenne radio sperimentali dell’epoca, e fu acquistato E adesso? per 21.000 sterline e, ribattezzato Elettra, divenne il Visto il corretto e responabile comportamento panfilo – laboratorio del geniale inventore. della Marina (anche coraggioso, perché neanche Per lui, e con lui, lavorò fino all’esaurimento, per lei oggi sono tempi grassi), vorremmo timidanavigando in continuazione, e la sua caratteristica mente osar sperare che stia per avviarsi una nuosilohuette divenne nota ed amata ovunque. Marcova era dove, con calma, tempo e moderazione, ni si adoperò in tutti i modi per salvarlo dalla des’intende, le nostre “radici” vengano risparmiate e molizione (il vecchio panfilo era veramente molrispettate un poco di più. to usurato) e riuscì sempre ad allontanarne la fiNon pretendiamo certo l’impossibile, ma un ne, ma nel 1937, l’inventore venne a mancare. passo alla volta si può andare lontano, e d’altronSenza il suo protettore, l’Elettra venne acquide c’è tanto da fare. Ma, purtroppo, ogni volta stato dal Ministero delle Comunicazioni per esseche pensiamo al San Giuseppe Due, ci riecheggia re trasformato in un museo galleggiante, ma la nella testa il simpatico motivo di un’operetta itaguerra si accanì ancora contro l’ex yacht imperialiana che andava per la maggiore nel 1929, e che le. Dislocato presso Trieste con altre glorie della dice “Salomè, una rondine non fa primavera...”. ■
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