Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi
70 ANNO
periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia € 2.70
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se la storia volta pagina
energie alternative piccoli produttori crescono
il golpe d’agosto la coda avvelenata del contributo di solidarietà licenza di licenziare religioni a scuola progetto aconfessionale dei licei torinesi
perché il mondo ha fame? inserto Vito Mancuso riscoprire il fascino e la forza del bene
perché un fornaio vale meno di un impiegato? TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
per insegnanti, genitori, operatori sociali
Rocca promuove un convegno in Assisi, 11-13 novembre 2011 per affrontare con massimi esperti del settore le problematiche inerenti l’apprendimento e il linguaggio della nuova generazione tecnologica, l’insegnamento nella scuola e la comunicazione tra le generazioni
la scuola nell’era della tecnologia digitale RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011)
Chi sono i “nativi digitali”? Sono solo i ragazzi nati quando già esistevano i computer, internet, i telefoni cellulari, gli iPod, gli iPad, gli MP3 e che hanno bisogno, rispetto ai loro padri, solo di qualche nozione tecnologica in più per utilizzare i nuovi strumenti elettronici? O sono portatori di una “nuova intelligenza” e, quindi di un “nuovo modo di apprendere” di cui la scuola deve tener conto? A partire dalle nuove conoscenze su mente e cervello e sull’interazione tra questi e le nuove tecnologie elettroniche, occorre modificare le forme di trasmissione del sapere per una generazione che vive in un mondo di relazioni, di comunicazione e di conoscenza completamente diverso da quello di ogni altra generazione passata? Come devono porsi gli insegnanti di fronte allo scarto crescente tra il modello tradizionale di apprendimento e di insegnamento e l’impatto delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) sugli stili cognitivi dei loro allievi? Devono elaborare nuove metodologie didattiche? Esiste oggi un nuovo pensiero pedagogico o almeno una nuova direzione di ricerca? Quali sono gli aspetti di “attivazione” delle capacità e delle risorse personali e relazionali che le nuove tecnologie sembrano favorire e quali sono gli aspetti da “disabilitare” per un’educazione attenta e consapevole?
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Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità
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Vignette Il meglio della quindicina Raniero La Valle Resistenza e pace Il golpe d’agosto Maurizio Salvi Rapporti internazionali Se la storia volta pagina Romolo Menighetti Oltre la cronaca Licenza di licenziare Roberta Carlini Manovra finanziaria La coda velenosa del contributo di solidarietà Tonio Dell’Olio Camineiro Il prezzo della benzina Brunetto Salvarani Religioni a scuola Il progetto aconfessionale dei licei torinesi Oliviero Motta Terre di vetro Vite e destini Fiorella Farinelli Lavoro Perché un fornaio vale meno di un impiegato? Vito Mancuso Inserto Riscoprire il fascino e la forza del bene Pietro Greco Energie alternative Piccoli produttori crescono Claudio Cagnazzo Pallone e dintorni Se il calciatore gioca a fare il metalmeccanico Cristiana Pulcinelli Denutrizione Perché il mondo ha fame? Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Ian Hacking L’ontologia storica Giuseppe Moscati Nuova Antologia David Maria Turoldo Un grande comunicatore in dialogo poetico con Dio
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Giancarlo Zizola Disegno Vaticano Sanità cattolica Enrico Peyretti Fatti e segni La mammelle degli uomini Carlo Molari Teologia L’etica nell’era della globalizzazione Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Discernere Paolo Vecchi Cinema Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma Roberto Carusi Teatro Un raffinato apologo Renzo Salvi Rf&Tv Miracolo-spot Mariano Apa Arte Verità e carità Alberto Pellegrino Spettacoli Sferisterio Opera Festival Enrico Romani Musica La morte di Amy Winehouse Giovanni Ruggeri Siti Internet Grazie, Jobs Libri Carlo Timio Rocca Schede Paesi in primo piano Francia Luigina Morsolin Fraternità Haiti: qualche spiraglio...
ci scrivonoi lettori
Il concilio
quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 18 – 15 settembre 2011
70 ANNO
Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista
Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa-LaPresse, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, LaPresse, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Natale G. M., Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F.
Redazione-Amministrazione Via Ancaiani, 3 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione:
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Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Numero di iscrizione al ROC: 5196 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541
Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono
Questo numero è stato chiuso il 10/09/2011 e spedito da Città di Castello il 13/09/2011
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Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute
Leggo sempre con interesse gli articoli del teologo Carlo Molari che specificano in modo chiaro e lineare, almeno per quanto lo consentano le questioni trattate, la riflessione sui modi di pensare e vivere la fede. A volte anch’io mi diverto a seguire su Internet (vedi il blog di Sandro Magister ricordato dallo stesso Molari nell’articolo «L’impegno di far avanzare il Concilio», Rocca 15/2011) il dibattito sulle aperture del Concilio contrapposte alle molte nostalgie dei tradizionalisti che sembrano incontrare sempre maggiori consensi ed entusiasmi in chi desidera confidare più nelle regole e nei dogmi umani che nella grazia e nelle novità dello Spirito Santo ricordate in chiusura dell’articolo. Personalmente non ho la preparazione culturale per cogliere tutti i problemi e le sfumature poste da questo dibattito però, lavorando di fantasia, mi viene da pensare che se Cristo tornasse di nuovo in carne ed ossa su questa terra, probabilmente saremmo noi cristiani, ed in particolare i cattolici tutti di un pezzo, a ricondannarlo: le sue parole, le sue azioni, le sue aperture si scontrerebbero ancora una volta con la meschinità delle nostre regole, delle nostre liturgie, del nostro egoismo e della nostra sete di potere. «Non c’è niente di nuovo sotto il sole», ricordava il Qoelet, ma Gesù ci dice sempre la Scrittura, è venuto per fare nuove tutte le cose. Forse più che il Concilio, o meglio attraverso anche ad esso, auguriamoci che ad avanzare sia sempre più il regno di Dio. Anche se nel quoti-
CI SCRIVONO I LETTORI
Franco Peci
[email protected] Gentilissimo Signor Franco, se è giusta la sua osservazione sulla reazione che Cristo avrebbe se tornasse sulla terra, vuol dire che anche oggi lo sguardo di Cristo sulla sua Chiesa è pieno di compassione nei confronti di molti suoi discepoli. Credono che la fedeltà a un passato più o meno recente sia sigillo di garanzia dell’autenticità delle scelte, quando invece essa è stabilita dalla fedeltà al futuro. Credono di salvare la Chiesa con i loro decreti e le loro dottrine e dimenticano che la forza trasformante è solo l’amore che lo Spirito è in grado di far fiorire nelle nostre comunità. Faccio mio il suo augurio. Preghiamo insieme perché possa realizzarsi presto, almeno in qualche luogo della terra. Carlo Molari
Speranza in un mondo migliore In una triste occasione oggi sono venuto in contatto con la vostra rivista «Rocca» nn. 16/17. Era qui, sul tavolo della sala d’attesa. E mi sta facendo grande compagnia in questa nottata.
Da anni (i lontani ’77) non leggevo una rivista così intensa e coerente. Così eversiva e onesta, così utopica a reale, stupefacente nel panorama acconsenziente e privo di mete di questi tempi. Milito da sempre nella sinistra, e sono rimasto «stupito» molto piacevolmente della radice cattolica che vi guida (vuole dire che certe analisi e idee non hanno origine che nella buona volontà e nell’onestà degli uomini). Poche volte in questi tempi bui ho letto, nella mia stampa di riferimento un’analisi così attenta e cruda, del mondo capitalista odierno. Ho letto l’intero numero, compresi gli articoli di carattere strettamente teologico (argomento cui non sono molto addentro), non ho trovato momenti di riduzione della tensione intellettuale, incredibile. Complimenti quindi! Alle vostre idee, ai redattori, a chi ha scritto gli articoli, e grazie per queste ore.
Paolo Colusso
[email protected]
Da una categoria a persone Anche quest’estate ho deciso di portare in vacanza con la mia famiglia A., una bimba rom compagna di scuola di mia figlia. A. ha dei begli occhi scuri scintillanti, dei capelli neri lunghi e morbidi, è molto gentile e socievole, è tranquilla, affettuosa e serena. Da quando la conosco, e cioè dallo sgombero, nel novembre 2009, del campo Rom di Rubattino a Milano avvenuto nel freddo, nel buio, nel fango e nella distruzione, lei, giorno per giorno, ha acquistato gradualmente fiducia nelle persone che l’hanno sostenuta: mamme, maestre, compagni di scuola e volontari della Comunità di Sant’Egidio (per chi volesse aiutare e contribuire alle borse di studio: santegidio.
[email protected]); ha permesso che si potessero tessere intorno a lei delle relazioni di amicizia, di aiuto e i suoi momenti di buio e di chiusura sono stati sempre meno, i suoi occhi hanno cominciato a ridere e si è affidata completamente alla nostra compagnia,
Rocca all’estero La quota di abbonamento estero è stata fino ad ora di € 85,00, ma le nuove tariffe postali sono state portate ogni due numeri di Rocca, spediti insieme, a € 5,50 per l’Europa, € 8,50 per Africa, Asia, America, € 12,00 per l’Oceania. Le nuove quote di abbonamento estero, spedendo risultano pertanto: € 130,00 per l’Europa € 160,00 per Africa, Asia, Americhe € 200,00 per l’Oceania. Per mantenere la quota attuale di € 85,00, siamo disponibili a inviare fin da ora on line la rivista agli abbonati all’estero, qualora il destinatario disponga di posta elettronica e ce ne comunichi l’indirizzo.
alle nostre attenzioni e alle nostre cure e la mia famiglia è diventata anche la sua. A. ha una mamma, un papà e dei fratellini con cui, da un po’ vive in una casa ad affitto calmierato: il suo papà è riuscito a trovare un lavoro, i suoi fratellini entreranno anche loro a scuola e all’asilo e così avranno il giusto posto in mezzo agli altri bimbi, la sua mamma sta migliorando il suo italiano grazie alla frequenza di un corso per stranieri e sta facendo lavori come domestica in un agriturismo e in qualche abitazione privata e lei A. continuerà il suo percorso scolastico: studio che è diritto fondamentale di ogni bambino e che per lei significa anche conquista di rispetto, di dignità e promessa di un futuro migliore e meno fragile. Quest’estate A. ha imparato a giocare a ping pong, ha fatto i compiti, ha letto tanto, è stata all’aria aperta e ha conquistato anche i nonni (i miei genitori) raccontando tante storie dei suoi parenti in Romania... È talmente entrata in famiglia che ho dovuto dirimere e gestire momenti di gelosia da parte della mia bimba che ha percepito come questo legame stia diventando sempre più forte e profondo e da figlia unica ha dovuto fare i conti con un’altra presenza con cui dividere affetto, attenzioni, spazi, giochi e attività. Questo, anche se a volte un po’ faticoso per me e difficile per mia figlia, penso sia un altro bel risultato insieme al fatto che si è iniziato ad abbattere dei pregiudizi, ad accorciare le distanze, a difendere dei diritti fondamentali e a creare relazioni strette.
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diano alcune regole personali e sociali sono indispensabili, auguriamoci che i cristiani, accogliendo la forza dello Spirito, divengano sempre più i testimoni dell’amore, dell’accoglienza e della fiducia in Dio, ma anche in ogni uomo che incontrano sulla strada.
Anna Cossovich Milano 5
DOCUMENTI
69° Corso di studi cristiani
Appello al Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature (...) Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba i appelliamo a Lei, signor Presidente, al termine di una settimana di studi che ha portato alla coscienza di ciascuno l’irreversibile dissipazione della bellezza dei paesaggi storici e naturali per i quali il nostro Paese è famoso nel mondo. Essi rappresentano la risorsa preziosa e comune di tutta la nazione, e ad essi si lega una delle poche residue possibilità di una sua ripresa culturale, economica e civile.
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Ci appelliamo a Lei, nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, perché la Sua autorevole voce si levi a fermare questa dissipazione, che rappresenta un crimine senza pari nella sua globalità e irreversibilità. Essa distrugge un patrimonio di bellezza, memoria e cultura che è il fondamento della nostra identità morale, civile e spirituale. Inoltre sfigura letteralmente il volto 6
della nostra nazione, e spegne la speranza di tutti quei giovani che si sono preparati e formati alla tutela, alla valorizzazione, alla crescita di questa inestimabile ma intaccata ricchezza di tutti. Dalle Alpi alla Sicilia, dall’Altopiano a Pantelleria, dalle isole maggiori e minori al Cilento: per tutta la lunghezza dei litorali umiliati dalla svendita delle spiagge e dalla moltiplicazione forsennata dei porti turistici, per tutti i parchi naturali che subiscono riduzioni e manomissioni, per tutti i luoghi incantevoli stuprati dalla costruzione di autostrade e strade quasi sempre superflue a fronte di una viabilità già ampiamente assicurata, e certamente dannose ai fini della valorizzazione turistica dei territori che attraversano, assistiamo oggi a una vera e propria distruzione di un patrimonio che non è solo nostro ma dell’umanità tutta intera, e delle generazioni future. Il paesaggio naturale e il paesaggio storico della penisola sono sottoposti a dissipazioni, cementificazioni e sconvolgimenti artificiali che non solo hanno aumentato la loro scala e intensità negli ultimi vent’anni in modo esponenziale, ma
vedono proprio ora un’accelerazione improvvisa, a dispetto di ogni crisi, come se ci fosse una sinistra pulsione a rapinare tutto quello che si può, finché si è in tempo. Autorevoli studiosi di ogni disciplina pertinente, dalla storia dell’arte all’economia, dalle scienze naturali e ambientali all’architettura, dall’ingegneria alle scienze dell’amministrazione, hanno a più riprese e sotto molteplici punti di vista argomentato il carattere fallimentare dell’affidare progetti di sviluppo e crescita economica alla cementificazione indiscriminata e invasiva del territorio. Studiosi dell’evoluzione dei fenomeni mafiosi nel nostro Paese hanno dimostrato al di là di ogni dubbio il coinvolgimento della criminalità organizzata in una parte crescente del mondo dell’edilizia e del movimento terra. Profondamente preoccupante è inoltre l’ipotesi, recentemente formulata dal Governo, di ricorrere alla vendita di parte dell’ingente patrimonio immobiliare dello Stato ai fini del risanamento finanziario, per ottenere un’immediata liquidità svincolata da ogni garanzia sia
sull’affidabilità delle agenzie coinvolte sia sui criteri di selezione e di utilizzo degli immobili da alienare. Ci appelliamo a quest’ultima speranza: che la Sua autorevole voce possa indurre le istituzioni pubbliche e locali preposte al controllo del territorio e la magistratura ad attivarsi prontamente per fermare gli scempi che violano apertamente le vigenti disposizioni di legge, nonché lo spirito dell’articolo 9 della nostra Costituzione sulla tutela del paesaggio. Invitiamo tutti coloro che hanno a cuore l’Italia e la sua bellezza, italiani e non, a firmare questo appello inviando la propria adesione all’indirizzo http// ospitassisi.cittadella.org con la dicitura «adesione lettera aperta agosto 2011». Quando una nazione rinuncia alla difesa del suo patrimonio di cultura e bellezza, compie virtualmente un suicidio morale e civile. Per questo tutti gli istigatori di questo suicidio stanno commettendo un crimine senza pari. Ci appelliamo a Lei perché a questo crimine sia posto fine. seguono 300 firme
Norvegia l’uccisore ha perduto
Monaco religioni e culture in dialogo
Ricordiamo i fatti: il 22 luglio una bomba esplode al centro di Oslo, causando la morte di otto persone mentre un uomo armato uccide 69 persone – soprattutto giovani – in un campo estivo della contigua isola di Utaya. André Breivik, il norvegese arrestato, confessa di aver agito per difendere la «cultura cristiana». È convinto che le diverse civiltà devono «scontrarsi». Il pastore norvegese Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, sostiene che l’uccisore si sbaglia, che le Chiese di Norvegia hanno manifestato «una responsabilità pastorale concorde», espressione di una «cultura cristiana autentica». Ha ricordato l’immagine di un pastore cristiano e di un imam musulmano, fianco a fianco nel seppellimento di una delle giovani vittime... «È quasi un simbolo emblematico della determinazione a edificare una società duratura, accogliente e aperta». (da Eni). Intervistato qualche giorno dopo l’orribile massacro, il sindaco della città Fabian Stang, a chi gli chiede come rinforzerà la sicurezza della città non ha dubbi e risponde: «Preferiamo concentrare i nostri sforzi a costruire scuole di qualità, a fare in modo che gli immigrati sappiano parlare il norvegese e trovino un lavoro. Tocca alla polizia prendere misure di sicurezza, ma io voglio una capitale aperta, trasparente. Non daremo ragione ai terroristi. Guardando ieri questa folla tranquilla, persone senza numero che si raccoglievano, questi fiori dappertutto, ho capito che l’uccisore aveva perduto: lo puniremo reagendo con più tolleranza e democrazia. Ci ha preso esseri cari, ma non ciò che siamo. Lui sperava di entrare nella Storia lanciando un messaggio al mondo intero: ci ha saldati e rafforzati. Alla fine dei conti ci si ricorderà delle vittime, non di lui». (da Le Monde 28 luglio).
È in corso a Monaco di Baviera, dall’11 al 13 settembre, l’incontro internazionale di preghiera per la pace «Religioni e culture in dialogo» organizzato dalla Comunità di sant’Egidio. È una preparazione del 25mo anniversario dello storico incontro di Assisi, al quale Benedetto XVI ha invitato il 27 ottobre i leader delle grandi religioni mondiali nel luogo-simbolo dell’esperienza di fraternità e di comunione. La comunità di san’Egidio ha anticipato in qualche modo l’evento nel cuore dell’Europa, in un momento non facile. Personalità religiose e politiche da circa 60 Paesi del mondo animano l’incontro. Ci sono responsabili dei dicasteri della Santa Sede tra i quali i cardinali Kurt Koch, Roger Etchegaray, Leonardo Sandri e il Presidente della Conferenza Episcopale Robert Zollitsch. Non mancano illustri rappresentanti del mondo evangelico e riformato internazionale e tedesco. Le Chiese ortodosse e orientali hanno inviato prestigiose delegazioni, alcune delle quali al massimo livello. È significativo che anche le delegazioni ebraica e islamica si presentino numerose e qualificate, segno di un’importante impegno nel dialogo. In rappresentanza del mondo islamico: Mohammed Rifaah alTahtaw, dell’Egyptian Council of Foreign Affairs; il Presidente del Centro Islamico di New Delhi Wahiduddin Khan; il Presidente della Nahdlatul Ulama, la più grande organizzazione islamica dell’Indonesia – e del mondo – Said Aqil Siroj. Si segnalano le presenze dei Gran Mufti di Sarajevo e di Istanbul. Partecipano i rappresentanti del Buddismo giapponese, cingalese e cambogiano; delle antiche religioni indiane, compreso il giainismo e il parsismo, delle religioni tradizionali, come lo scintoismo.
Torre Pellice il Sinodo valdo metodista Le Chiese valdesi e metodiste hanno celebrato a fine agosto a Torre Pellice, nelle Valli valdesi, il loro Sinodo, principale organo decisionale. I 180 partecipanti, fedeli e pastori, il 40% donne, hanno dibattuto problematiche ecclesiali ma anche questioni sociali e politiche. Rieletta alla moderazione la pastora Maria Bonafede (nella foto) che ha ribadito: «Non muri, ma l’incontro, il dialogo, l’apertura, l’accoglienza sono elementi fondamentali della nostra predicazione». La stampa si è soffermata sulla «benedizione delle coppie omosessuali», tema controverso anche all’interno del Sinodo, ma alla fine, in ripresa di consensi. Tema com’è noto, che vede i cattolici su altre posizioni.. Il dibattito sul testamento biologico, ha ridefinito «oscurantista» l’attuale legge. E, per rimanere in campo politico, c’è stata la bocciatura senza appello della manovra economica in corso. Si è discusso della primavera democratica nei paesi arabi, delle politiche migratorie italiane e del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. È stata soprattutto l’occasione per una profonda, corale, riflessione di una consistente minoranza cristiana.
ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
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a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
Nepal eletto il nuovo premier
Kabul pacifisti nella drammatica situazione
Siria i tre no degli insorti
Si è chiuso il lungo periodo di crisi politica in Nepal con la votazione del Parlamento che ha eletto il 28 agosto come guida del governo Baburan Bhattarai, 57 anni, già vice presidente del partito maoista. Si tratterà di portare avanti, finalmente, la riforma dello Stato, auspicata da diverse parti politiche. Difatti in Nepal, dopo le rivolte di piazza dell’aprile del 2006 e la conseguente rinuncia del potere esecutivo da parte di re Gyanendra, è iniziato il cammino del disarmo e del riavvicinamento tra il governo e i maoisti fino a giungere all’accordo del 16 dicembre 2006. Da allora i maoisti sono entrati in Parlamento presentandosi – divenuto ormai il Nepal una repubblica – alle elezioni per l’Assemblea costituente il 10 aprile del 2010 in cui hanno ottenuto la maggioranza relativa dei seggi. Il neopresidente Bhattarai ha annunciato ora di voler porre come priorità il completamento del processo di pace e la stesura della nuova Costituzione. Nepal.
A 10 anni dall'attentato alle torri gemelle, una delegazione della Tavola della Pace con un cospicuo gruppo di leader pacifisti e di «Peaceful Tomorrows» (associazione americana dei familiari delle vittime dell’11 settembre) si sono recati a Kabul dal 31 agosto al 5 settembre: «Dopo dieci anni di ‘guerra al terrorismo’, notano, la violenza, la miseria e l’insicurezza continuano a dominare la vita quotidiana del popolo afgano e dell’intera regione. Bin Laden è stato ammazzato ma noi siamo ancora profondamente coinvolti in questa tragedia senza sapere come uscirne». La missione ha voluto innanzitutto essere un forte gesto di solidarietà con il popolo afgano e rendere omaggio a tutte le vittime della guerra e del terrorismo. Allo stesso tempo ha raccolto valutazioni e proposte per uscire dalla drammatica situazione. Al ritorno le ha presentate in una conferenza stampa di cui daremo ulteriori notizie. (
[email protected])
L’opposizione siriana si organizza. Secondo il prof. JeanPierre Filiu, autore del recentissimo studio sulla primavera araba, «La Révolution arabe, dix leçons sur le soulèvement democratique» (Fayard, Paris), i comitati che strutturano la contestazione siriana (tansiqiyyat) sono categorici in un triplice rifiuto: no alla violenza, no alla confessionalizzazione, no all’internalizzazione della protesta. In tale modo essi cercano di indebolire le manipolazioni del regime che gioca sulla sedizione comunitaria e l’ingerenza straniera. Malgrado la furia della persistente repressione, gli insorti non passeranno alla lotta armata (che farebbe il gioco del potere) e, secondo lo studioso francese, l’aver potuto globalmente mantenere finora questa disciplina non violenta connota la grandezza della rivolta siriana e potrebbe essere la carta vincente della Siria di domani.
Cile il Presidente dialoga con gli studenti
ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
Da oltre tre mesi le manifestazioni studentesche cilene (di cui demmo notizia) non sono cessate. All’indomani dell’uccisione di un ragazzo sedicenne, accaduta il 26 agosto a Santiago da parte della polizia, il presidente Sebastian Piñera si è convinto di dover intraprendere un dialogo con i manifestanti. Questi domandano una riforma del sistema educativo, (risalente tuttora all’epoca di Pinochet), e contestano il liberismo politico dalle conseguenti disuguaglianze economico-sociali. L’80% della popolazione, dicono i sondaggi, è d’accordo con i ragazzi. I dirigenti della Confederazione nazionale studentesca, che propugna un’educazione pubblica, gratuita e di qualità, hanno chiesto le dimissioni del ministro degli Interni e intrapreso il dialogo che finora il Presidente affidava solo ai suoi ministri. Sono riusciti a ottenere le dimissioni del ministro dell’Istruzione, già collaboratore di Pinochet.
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ATTUALITÀ
Per la pubblicazione in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a: a.portoghese@ cittadella.org
RECAPITI UTILI DELLA PRO CIVITATE CHRISTIANA BIBLIOTECA tel. 075/813231 e-mail:
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[email protected] (uff. abbonam.)
23-25 settembre. Novellara (Re). IV Edizione Festival «Uguali=Diversi» con iniziative anche a Correggio e Bagnolo in Piano. Interventi – tra gli altri – di Enzo Bianchi, Paolo Branca, Tonio Dell’Olio, Alberto Melloni, teatro, mostre, laboratori. Coordinamento scientifico di Brunetto Salvarani. Informazioni: Comune di Novellara, tel. 0522 655454;
[email protected]. 24 settembre-2 ottobre. Palermo. 17° Settimana Alfonsiana sul tema «I suoi uscirono per prendere Gesù: dicevano ‘È fuori di sé’» (Mc 3,21). Oltre ai concerti di apertura e chiusura, relazioni di Maurizio Campa, Nino Fasullo, Roberto Lagalla, Davide Perdonò, Luca Rastello, Ruggero Cappuccio, Vito Mancuso, Raffaele Cantore, Michele Cometa, Giancarlo Gaeta, Paolo Ricca, Remo Bodei, Gioacchino Lanza Tomasi, Mauro Pesce, Massimo Cacciari, Salvatore Ferita, Caterina Resta. Programma e informazioni: Padri Redentoristi, Via Badia 52 – 90145 Palermo, tel. 0912 2831; email:
[email protected]. 25 settembre. Perugia-Assisi. Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli, a cinquant’anni dalla prima Perugia-Assisi organizzata da Aldo Capitini. Partenza dai Giardini del Frontone di Perugia alle 9.00, arrivo alla Rocca di Assisi alle ore 15.00, dove si svolgerà la manifestazione conclusiva. L’iniziativa è preceduta dagli incontri a Perugia «1000 giovani per la pace». Informazioni: Tavola della Pace, via della viola 1 (06122) Perugia – Tel. 075/ 5736890 – fax 075/5739337 email:
[email protected] 26-28 settembre. Caorle (Ve). Al monastero di Marango, VII convegno sulla vita monastica «Per una vita buona. Il coraggio di educare». Relatori: Vinicio Albanesi, Piero Stefani, Laura Natali. Informazioni: tel. 0421 88142; www.monasteromarango.it 30 settembre-2 ottobre. Assisi (Pg). Incontro teologico/ culturale organizzato dalla Fondazione Federico Ozanam-Vincenzo de Paoli e altre associazioni sul tema: «Le sfi-
de della carità nel nostro tempo». Introdotto dal vescovo emerito mons. Alessandro Plotti, l’incontro si snoda con relazioni e dibattiti (sociologo Mario Brutti, Daniela e Maurizio Bellomaria dell’Az. Cattolica), tavola rotonda (teologo Giuseppe Lorizio, prof. Robero Cipriani dell’Univ. di Roma, Alessandro Floris della San Vincenzo, Lidia De Lucia Fusco dei gruppi di Volontariato). Moderatore lo storico Marco Paolino. Informazioni: Fondazione Federico Ozanam Via della Pigna 13 a, 00186 Roma, tel. 06 64012718; e-mail
[email protected]. Sede: Suore Francescane Missionarie, 06088 Santa Maria degli Angeli, Assisi (Pg). 1-2 ottobre. Lecco Valsassina. Week-end per coppie in attesa e famiglie adottive con i propri bambini presso la Casa Alpina a Maggio, confortevole baita nel bosco. E-mail:
[email protected]; tel. 333 6700721 (Anna De Gaspari); 02 6470815. 2 ottobre. Polignano a Mare (Ba). Presso l’Abbazia di San Vito continuano gli incontri «Spezzare la Bibbia» sul tema «Amare» con la biblista Rosanna Virgili. La giornata è organizzata dai Volontari della Pro Civitate Christiana e dagli amici di Puglia, Basilicata, Campania. Informazioni: tel. 075 813231, 347 9657431 e-mail:
[email protected];
[email protected].
[email protected];
[email protected]. 6 ottobre. Firenze-Rifredi. Pomeriggio di approfondimento biblico per insegnanti di materie umanistiche, predisposto dall’associazione laica di cultura biblica «Biblia» e dal Miur, corredati da specifici suggerimenti didattici. Lezioni di Amos Luzzato presidente della Comunità ebraica di Venezia, e don Luca Mazzinghi, presidente dell’Associazione biblica italiana, sul tema: «Qhoelet e l’autunno della vita». Coordinatore Piero Stefani. Sede. Istituto Tecnico Leonardo da Vinci, via del Terzollo, 91 – Fi-Rifredi. Altri approfondimenti a seguire. Partecipazione gratuita.
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seminari & convegni
10, 14, 22 settembre. Faenza (Ra). Un gruppo cospicuo di associazioni pacifiste organizza – anche in preparazione alla 50° Marcia Perugia-Assisi del 25 settembre – le seguenti manifestazioni: il 10 (ore 17,30-20) Dialogo interreligioso sulla custodia della terra e festa al Parco Tassinari, via Cavour; il 14 settembre (ore 21) Conferenza sulla nonviolenza di Giuseppe Moscati e Mao Valpiana alla Sala Consiliare del Comune; il 22 mattina incontro con le IV e V Superiori su «Parliamo di Pace e di Nonviolenza» presso il Cinema Sarti. Informazioni: Consulta Faentina delle Associazioni, via Laderchi 3, tel. O546 27206, fax 665890. 11-17 settembre. Desenzano sul Garda (Bs). Al centro «Mericianum» in Località Brodazzo, Giornate di spiritualità con don Carlo Molari sul tema: «Un cammino spirituale con gli Atti degli Apostoli». Informazioni: Centro «Mericianum», 25015 Desenzano sul Garda (Bs) tel. 0309 120 356, fax 030 991 2435, www.mericianum.it 19-25 settembre. Lucca. Seconda edizione del Festival con il progetto «I Teatri del Sacro», promosso dalla Federazione Gruppi Attività Teatrali, Fondazione Comunicazione e Cultura, Progetto culturale Cei, Azione Cattolica esercenti cinema, con 27 spettacoli teatrali in luoghi suggestivi della città. Informazioni: Federgat e-mail:
[email protected] tel. 3490734578. 17-18 settembre. Roma. Quarto incontro nazionale «Ma voi non così», organizzato dagli amici e amiche del «Vangelo che abbiamo ricevuto» sul tema eucaristico scandito in tre sessioni, presso la Domus Pacis, via di Torre Rossa, 94 Roma. Informazioni:
[email protected]. 19-27 settembre. Torino. Esercizi spirituali sul tema: «Il Signore è il mio pastore» guidati da p. Vincenzo Voccia. Sede: Nostra Signora del Cenacolo, piazza G. Gozzano 4. 10132 Torino. Tel.011 8195445; e-mail: casa.spiritua
[email protected]
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a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
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Myanmar San Suu Kyi ricevuta dal governo
Madrid Benedetto XVI e i giovani della Gmg
Il 19 agosto i vertici del regime birmano hanno accolto la leader dell’opposizione, Aung San Su Kyi, con tutti gli onori riservati ad una personalità di primo piano. «Sono stata molto soddisfatta dell’incontro», ha detto la premio Nobel per la pace dopo aver partecipato ad un workshop sullo sviluppo economico nazionale, seguito da thé con alti esponenti del regime, fra cui il ministro del Lavoro Aung Kyi e il ministro per gli Affari del Confine, Thein Htay. Dopo le elezioni contestate del novembre 2010, la Giunta aveva passato la mano, a fine marzo, a un governo cosiddetto «civile», ma interamente controllato dai militari. Durante il workshop, la leader dell’opposizione era seduta di fronte al presidente del Myanamar, Thein Sein, anche lui ex militare. Suu Kyi è arrivata nella remota capitale del regime, Naypyitaw, su invito del suddetto presidente che l’ha ricevuta in giornata e l’ha poi presentata alla moglie e i figli. I colloqui sono stati descritti come «cordiali e amichevoli» dalla televisione di stato, che ha mostrato immagini dei due leader in una stanza dove campeggiava un ritratto di Aung San, eroe dell’indipendenza birmana e padre di Suu Kyi. «Penso sia un buon segno», ha detto Nyan Win, portavoce della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), il partito di opposizione (dissolto) guidato da Suu Kyi. I critici dicono invece che è solo l’ennesimo tentativo di legittimazione dell’esecutivo agli occhi di Stati Uniti e Unione europea, che mantengono le sanzioni economiche e commerciali nei confronti del Myanmar. A questo si aggiunge la corsa per la presidenza dell’Asean (Associazione che riunisce 10 Paesi del Sud-est asiatico), alla quale il governo birmano si è candidato per il 2014.
Fin dal suo arrivo all’aeroporto di Barajas, Benedetto XVI spiega chiaramente lo scopo della sua visita. Perché i ragazzi sono venuti a Madrid? Circa due milioni da ogni parte del mondo sono infatti convenuti, dal 16 al 21 agosto dietro la parola-guida: «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede» (col. 2,7). Ma tante sono le sfide, dice il Papa, che i giovani si trovano di fronte: superficialità, consumismo, edonismo, «tanta banalizzazione nel vivere la sessualità», «tanta mancanza di solidarietà», tanta corruzione. Sfide ardue da affrontare ma «con Lui accanto, essi avranno luce per camminare e ragioni per sperare». Anche per Benedetto XVI la Gmg è stata dunque un’occasione privilegiata per sostenere e «animare un cammino di fede e di vita, nel quale alcuni si credono soli o ignorati... Invece no, non sono soli». La preghiera adorante, la Via Crucis, la confessione di quattro ragazzi sono stati i gesti più significativi di Benedetto XVI. E poi le molto calibrate parole, pur nella convinzione che «la fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, ma suppone una relazione personale con lui». Indimenticabile anche una frase ripresa da Platone: «Cerca la verità finché sei giovane perché, se non lo farai, poi ti scapperà dalle mani». Benedetto XVI si rivolge non solo ai molti ragazzi che, fidandosi completamente di Cristo, «non temono gli impegni decisivi che danno pienezza a tutta la vita», ma anche alle responsabilità degli adulti: «Oggi la giustizia e il valore della persona umana si sottomettono facilmente a interessi materiali, egoisti e ideologici, c’è preoccupazione nei giovani per le difficoltà di trovare un lavoro degno, o l’hanno perduto o è precario».
Perù finalmente si ascoltano gli indios Il 23 agosto il Parlamento peruviano ha adottato una legge che fa obbligo allo Stato di consultare le comunità amerindie sui progetti di concessione di miniere sui loro territori, diritto dagli indigeni reclamato più volte e da lungo tempo. Purtroppo la legge non arriva al punto di concedere agli amerindi il diritto di veto, tuttavia obbliga allo Stato, in caso di contrasto, di addivenire a patti che rispettino gli abitanti e l’ambiente. (È, infatti, ancora vivo il ricordo degli scontri tra gli amerindi e le forze governative, a Bagua, con 24 morti e 200 feriti). Gli indigeni riusciranno a condizionare il Governo nella politica ambientale-energetica, quantomeno regolando le concessioni minerarie e petrolifere nella foresta? Attualmente in tale settore il Perù detiene un portafoglio di 47 miliardi di dollari (32,6 miliardi di euro) di investimenti per i dieci prossimi anni.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da L’UNITÀ, 14 agosto
da L’UNITÀ, 2 settembre
da L’UNITÀ, 8 agosto
da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 settembre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 settembre
da LA REPUBBLICA, 2 settembre
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da IL CORRIERE DELLA SERA, 6 agosto
da L’UNITÀ, 5 settembre
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cittadella convegni 2011 27 ottobre
Papa Benedetto XVI ad Assisi
pellegrini della verità, pellegrini della pace un invito ai fratelli cristiani delle diverse confessioni, agli esponenti delle tradizioni religiose del mondo, e, idealmente, a tutti gli uomini di buona volontà, a trovarsi insieme, in una giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo. Un impegno per tutti a essere costruttori di fraternità e di pace.
7-11 novembre
esercizi spirituali per presbiteri, suore, laici
libertà sulle Tavole: il libro dell’Esodo con don Daniele MORETTO, monaco di Bose Il libro che è il “lieto annuncio” dell’Antico Testamento, la “lettera” in cui dobbiamo entrare per cercare il volto di Dio e il volto dell’uomo. Nella storia di un pugno di uomini Dio ha scelto di svelarsi, di dare le coordinate del suo agire verso tutti, di offrire una relazione. Conoscere Dio, me stesso, il mondo, la storia per rispondere ad un appello di comunione nella libertà. Un tuffo nell’Esodo, relativizzandolo in nome dell’oggi, attenti all’azione di Dio che è in atto (cf. Is 43,16-21). inizio: lunedì 7, ore 18,30 indice tematico: promesse di Dio e desideri dell’uomo (1,1-22); storie di donne: salvezza attraverso l’umano (2,1-22); paura di guardare: rivelazione, vocazione, missione (2,23-4,17); lascia partire...: un cuore che resiste (4,18-11,10); che significa questo?: liturgia che celebra (12,1-15,21); stare sulla roccia: la difficile libertà (15,22-18,27); se vorrete ascoltare: alleanza (19,1-20; 24,1-18); tutte queste parole: la strada insegnata (20,1-23,33); se ho trovato grazia ai tuoi occhi: alleanza nella misericordia (32,1-34,35); una dimora secondo quanto ti mostrerò: presenza di Dio e obbedienza dell’uomo (25,1-31,19); come il Signore aveva ordinato a Mosè: presenza di Dio e obbedienza dell’uomo (35,1-39,43); seguire una nuvola (40,1-38). Una liturgia eucaristica sarà celebrata a San Masseo, antica abbazia benedettina, nuova sede della fraternità monastica di Bose in Umbria.
Corsi di Formazione La Pro Civitate Christiana prosegue nell’attivazione di Corsi di Formazione anche grazie al Riconoscimento del MIUR con Decreto 3 agosto 2011.
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Il Corso triennale per l’acquisizione di ABILITÀ di COUNSELLING volto a valorizzare competenze trasversali: saper comunicare, costruire relazioni, gestire conflitti, offre l’occasione per una crescita personale, per migliorare la propria professionalità a servizio delle relazioni di aiuto. Il Corso si svolge a cadenza modulare, per 160 ore di aula, 10 ore di supervisione, 40 ore di tirocinio e 50 ore di integrazione culturale. Iscrizione entro il 15 gennaio 2012 completa di curriculum. Si rilascia attestato di qualifica professionale. Il Corso triennale di Formazione in ARTETERAPIA, già al 2° anno di vita, favorisce attraverso la pratica di diverse tecniche espressive, la capacità di facilitazione delle relazioni, recupero e potenziamento della identità e creatività personale. Si svolge in otto moduli mensili a fine settimana per 150 ore di aula; termina con una valutazione finale e un attestato di frequenza con profitto. La domanda di iscrizione munita di curriculum personale scade il 15 gennaio 2012. Informazioni iscrizioni soggiorno CITTADELLA OSPITALITA’ - via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG - tel.075/812308-075/813231 - fax 075/812445;
[email protected];
[email protected] - http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org 12
RESISTENZA E PACE
Raniero La Valle
li uomini contano. Alla conferenza di pace di Parigi De Gasperi salvò l’Italia: era, in quel consesso, un Paese nemico, distrutto dalla guerra, gravido di miseria; tutto, tranne l’enorme prestigio del presidente del Consiglio italiano e la dignità con cui difese l’Italia, era contro di lui. Ma De Gasperi colpì gli Alleati, apparve credibile, e l’Italia rientrò ben presto a pieno titolo nella comunità internazionale, e cominciò la sua ricostruzione, prima della Germania, prima del Giappone, suoi alleati di guerra, prima della Cina. Nell’agosto angoscioso appena trascorso, Berlusconi ha portato l’Italia fino all’orlo dell’abisso: l’ha considerata lui stesso un Paese spregevole, l’ha mostrata senza dignità, con un governo indifferente e cinico in ogni sua scelta, fino al punto di poter decidere in poche ore tutto e il contrario di tutto; un Paese giudicato inaffidabile eticamente, e non solo finanziariamente, perfino dai mercati; un potere politico interno irriso dalla stampa internazionale, incapace, per le sue false analisi, di affrontare la crisi, impossibilitato, per le sue contraddizioni, a governarla e indegno, per i suoi comportamenti, di fare appello alle risorse materiali e morali dei cittadini. Eppure all’Italia non mancherebbe nulla; è un Paese ancora ricco, seppure di una ricchezza ignorata dal fisco, lavora, produce e risparmia, si dà da fare nell’aiuto reciproco, e ai giovani, se è matrigna la società, resta madre la famiglia. Certo, da quando è finito il «caso italiano» e l’Italia ha cessato di essere un grande laboratorio politico per un diverso futuro, essa è ridiventata politicamente bambina e arrendevole (altrimenti non si farebbe guidare così), ma è un Paese straordinario che ha pur sempre grandi risorse di intelligenza, di creatività, di lavoro. Ora dobbiamo trarre le lezioni che ci ha impartito quest’agosto (agosto è sempre un mese pericoloso, fu il 15 agosto 1972 che Nixon distrusse l’ordine monetario del dopoguerra sancito a Bretton Woods, aprendo la strada all’attuale cataclisma). Il nostro agosto 2011 ci ha insegnato come una crisi economica possa diventare il momento e l’alibi di un grande tentativo reazionario, fino ai limiti di un sovvertimento del sistema. Questi sono i colpi di mano che il governo ha tentato col pretesto della crisi: 1) Liquidare l’art. 41 della Costituzione che unisce la libertà economica all’utilità – o almeno non dannosità – sociale, per rendere discrezionale ai privati tutto ciò che non è proibito. 2) Mettere nell’art. 81 il vincolo del pareggio del bilancio, il che toglierebbe allo Stato ogni margine di manovra economica e renderebbe incostituzionale anche il pagamento degli stipendi pubblici quando il li-
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mite fosse raggiunto (come stava succedendo disastrosamente ad Obama). 3) Demolire un’intera branca del diritto, quello del lavoro, distruggere la contrattazione collettiva e il ruolo dei grandi sindacati, rimuovere l’obbligo della giusta causa e con esso lo stesso Statuto dei lavoratori, tornare ai rapporti tra «padroni» e operai dell’età preindustriale. 4) Revocare i diritti acquisiti in tema di riscatto della leva e della laurea per il calcolo dell’età pensionabile, in tema di tredicesime e liquidazioni, introdurre nuove disuguaglianze tra dipendenti pubblici e privati, residenti e immigrati, ricchi evasori e poveri tartassati. 5) Mortificare il valore simbolico della Repubblica nata dalla Resistenza impedendo la celebrazione festiva del 25 aprile, del 1 maggio e del 2 giugno. 6) Cavalcare il risentimento verso la politica, tagliando demagogicamente quelli che vengono chiamati i costi della politica e che sono invece i costi della corruzione e i costi della democrazia; attaccare al cuore il principio rappresentativo riducendo drasticamente la rappresentanza popolare dai comuni alle province al Parlamento fuori di qualsiasi piano organico e razionale di riordinamento dello Stato. Non tutte queste cose sono riuscite, per la debolezza e la confusione della leadership, la difesa corporativa dei propri interessi elettorali da parte della Lega, la resistenza degli Enti locali, i veti incrociati nell’ambito della stessa maggioranza e la reazione vigorosa delle classi attaccate e umiliate; mentre un minimo di continuità istituzionale è stato assicurato da quanto resta della divisione dei poteri, che ha permesso il dispiegarsi di un ruolo di supplenza da parte del Presidente della Repubblica e di controllo di legalità da parte dei magistrati. Ma resta da chiedersi come tutto ciò sia potuto accadere. È accaduto perché il sistema, grazie agli apprendisti stregoni dei patiti della «Seconda Repubblica», era stato privato di tutte le sue difese, al Parlamento era stata tolta ogni autonomia mentre un’artificiale, esorbitante maggioranza parlamentare era stata messa per legge nelle mani di un padre padrone, e a quest’ultimo era stato permesso di difendere ossessivamente il potere e di mantenerlo con ogni artificio, mentre tutto il resto era abbandonato alla rovina. La tanto agognata «governabilità» è stata realizzata nel modo peggiore, senza un governo che potesse veramente governare e una democrazia che potesse difendersi; per di più senza che si potesse dare una vera, efficace e giusta risposta alla crisi economica. Perciò, per uscirne, bisogna ora ripartire da qui, cioè dall’idea stessa di cosa debba essere una Repubblica parlamentare e rappresentativa, contro la cecità di chi, anche a sinistra, insiste nel dire che «non si può tornare indietro». ❑ 13
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il golpe d’agosto
RAPPORTI INTERNAZIONALI
se la storia volta pagina
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Maurizio Salvi
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li sconvolgimenti in atto in Libia e le polemiche politiche legate agli sforzi del governo per reperire il denaro necessario per scongiurare in Italia una crisi economica peggiore di quella che ha investito in generale tutto l’Occidente hanno monopolizzato nell’estate che sta per concludersi l’attenzione dell’opinione pubblica. In termini tali che essa non ha avuto abbastanza tempo per riflettere sulla gravità della crisi stessa e su quanto essa influisca sul mutamento degli equilibri di potere a livello mondiale. E ciò mentre le nuvole minacciose che sovrastano il cielo di Stati Uniti ed Europa sono ben intenzionate a restare al loro posto, e mentre governi e popolazione delle nazioni coinvolte sembrano ancora non voler prendere atto di una dura ma ineluttabile realtà: l’asse del potere sta scivolando via dalle mani delle nazioni che lo hanno detenuto negli ultimi 300 anni dopo la rivoluzione industriale. Il fenomeno, avvertono gli analisti, sta favorendo i paesi in forte e costante crescita dell’Asia (Cina e India), America latina (Brasile e Argentina) e perfino Africa (Sudafrica).
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una cruda realtà L’emergenza è massima e l’operazione messa in campo per il rovesciamento di Muammar Gheddafi ha mostrato meglio di ogni altra situazione questa cruda realtà, evidenziando gli sforzi di Washington e delle capitali europee per frenare uno scivolamento che ha gravi conseguenze economiche. Con crescite del Prodotto interno lordo (Pil) minime (dall’1 al 3%), e di fronte alla necessità di assicurarsi fonti energetiche (petrolio e gas) a basso costo, gli Stati Uniti, ma soprattutto Francia, Gran Bretagna ed Italia, hanno montato una operazione militare «umanitaria» senza precedenti attraverso la Nato, come se il Rais fosse un novello Pol Pot. Risultato, una crisi che ancora si trascina, decine di migliaia di morti ed un paese affidato a un Consiglio nazionale di transizione (Cnt) formato da personaggi dal curriculum molto dubbio. Al riguardo il professor Bernard Badie, membro del Centro di studi e ricerche internazionali (Ceri) di Parigi, ha detto che «i ribelli che si accingono a prendere il potere sono diversi fra loro e appartengono spesso a correnti politiche in pas-
il presidente cinese Hu Jintao durante l’incontro del 25 agosto scorso con il presidente francese Nicolas Sarkozy
sato in conflitto. La questione da un milione è riuscire a capire chi vincerà dentro questa coalizione e come i vincitori imporranno il loro volere agli sconfitti». Bisogna avere il coraggio di ammettere che, aldilà dell’operazione mediatica (unilaterale) costruita sulla vicenda libica, la crisi ha mostrato la vera natura di un’Europa che, dibattendosi in grandi difficoltà economiche, non è riuscita a fare altro che adottare misure protettive, non preoccupata degli individui ma delle grandi imprese multinazionali e delle banche che hanno ricevuto un forte sostegno, di cui non si è giovato invece il cittadino comune.
Dicevamo che quello che in questo momento più duole ai governanti europei è la mancanza di crescita del Pil che si riflette in una modesta capacità di produzione industriale, con una flessione dei consumi e un aumento della disoccupazione, fattori che persistono ormai da tre anni. Molti Stati fanno fatica a mettere sotto controllo i loro conti, minacciando la stabilità dell’euro con gli at15
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precarietà dell’euro
RAPPORTI INTERNAZIONALI
tacchi a ripetizione degli speculatori ai paesi comunitari attualmente più deboli: Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia. Politiche di austerità che implicano ancor più disoccupazione e meno danaro a disposizione delle famiglie sono state messe in atto nel Vecchio Continente, con il provvidenziale soccorso della Banca centrale europea (Bce) che ha acquistato grandi quantità di titoli pubblici offerti nel mercato dalle nazioni in difficoltà maggiore.
il ruolo della Cina
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Ma, grande novità, in questo esercizio si è cimentata anche la Cina, ed in misura minore altri paesi asiatici, che ha rastrellato titoli del debito pubblico europeo per rendere vano l’attacco speculativo. Certamente lo ha dovuto fare per impedire svalutazioni monetarie di euro e dollaro che ridurrebbero il valore delle gigantesche riserve monetarie cinesi. Martine Bulard sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique (settembre 2011) ha osservato: «Gli Stati Uniti sgridati e privati del voto di miglior alunno della classe (capitalista); la Cina sollecitata a finanziare le casse (degli Stati in crisi) e stimolare la crescita mondiale. Anche nei loro sogni nazionalisti più pazzi, i dirigenti cinesi non avrebbero mai potuto immaginare uno sconvolgimento così spettacolare della storia». Ma pratici come sono, i cinesi hanno assunto rapidamente questo ruolo ed in agosto abbiamo assistito ad una serie di raccomandazioni pronunciate dai responsabili di Pechino e rivolte ad americani ed europei. Il Quotidiano del Popolo dell’8 agosto scriveva in prima pagina che «se i paesi sviluppati, fra cui gli Stati Uniti e quelli dell’Europa, rifiutano di assumersi le loro responsabilità, questo avrà gravi conseguenze sulla stabilità dello sviluppo dell’economia mondiale». Ed a testimoniare che non si trattava di una osservazione isolata, qualche giorno dopo l’agenzia di stampa Nuova Cina scriveva che è tempo che Usa ed Europa «agiscano nell’interesse fondamentale della comunità internazionale tutta intera», adottando le misure che permettano loro di ritrovare una buona salute economica e di risanare i bilanci.
preoccupazioni in Oriente Queste pressioni, che effettivamente evidenziano un rimescolamento nelle gerarchie economiche degli Stati a cui, salvo miracoli non immaginabili al momento dovremo abituarci, sono legittimate anche dal fatto che Pechino, insieme agli altri paesi asiatici più for16
ti (India, Indonesia, Giappone, Corea del sud, Thailandia e Malaysia) sono preoccupati perché la crisi occidentale sta allungando i suoi tentacoli anche verso l’Oriente. Questo ha già provocato una riduzione della produzione industriale e delle esportazioni di vari paesi asiatici, per il momento compensata con un aumento della domanda interna.
aumento del costo della vita Ma ciò ha sviluppato un processo inflattivo che ha aumentato troppo rapidamente il costo della vita. E questo non è accettabile perché, ricorda uno studio recente della Banca asiatica di sviluppo (Dab), questa regione che accoglie la più forte crescita del mondo (oltre 9% la Cina, l’8% l’India) ospita allo stesso tempo quasi la metà dei poveri del pianeta che vivono con 1,25 dollari (molto meno di un euro) al giorno. E la Banca ipotizza anche che se i paesi asiatici riusciranno a superare alcuni ostacoli (le disuguaglianze economiche, la corruzione e le avversità meteorologiche) l’Asia potrebbe perfino eguagliare la ricchezza europea intorno al 2050. Questa possibilità che la storia volti pagina a favore dell’Asia non è praticamente ancora presa in cosiderazione dalla gente comune in Occidente che dai media riceve quasi solo l’avvertimento dell’esistenza di un «pericolo extra-comunitario» e quindi della necessità di difendere la «cittadella assediata» che però, purtroppo, cade a pezzi, è invece ben presente nella mente dei principali governanti mondiali.
indebolimento delle grandi potenze Da una parte di fatto lo storico G7 (organo di consultazione dei principali paesi occidentali come Usa, Germania, Gran Bretagna, Giappone, Francia, Italia, Canada), poi ampliato a G8 con l’inclusione della Russia, è tramontato lasciando il posto ad un più logico G20, che include potenze asiatiche, sudamericane e africane. Dall’altra i paesi (Usa, Giappone, Europa) che non sembrano intenzionati a lasciare troppo presto le leve di comando del potere mondiale a favore di potenze emergenti, hanno rallentato le previste riforme degli organismi finanziari internazionali (fra cui Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) e quelli politici (come il Consiglio di sicurezza dell’Onu). La posta in gioco in queste ristrutturazioni è grande, e non è certo questa l’epoca per le grandi potenze in crisi, di fare concessioni che le indebolirebbero ulteriormente. Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
Romolo Menighetti
dello stesso Autore LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa pagg. 112 - € 13,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca € 10,00 anziché € 13,00 spedizione compresa richiedere a Rocca - Cittadella 06081 Assisi e-mail
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o sciopero indetto dalla sola Cgil il 6 settembre contro la manovra finanziaria, e in particolare contro l’articolo 8, è un estremo tentativo per evitare che l’intero diritto del lavoro italiano sia radicalmente stravolto. La breccia attraverso la quale l’attuale governo di Destra intende espugnare i diritti dei cittadini lavoratori è l’affermazione e il riconoscimento della prevalenza del contratto di lavoro aziendale e locale sul contratto nazionale. Ciò comporta la possibilità per i sindacati costituiti su base territoriale (regionale, provinciale, comunale, aziendale) di stipulare intese con le aziende riguardanti la totalità delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione. Intese in deroga non solo al contratto nazionale, ma anche alla legge. L’articolo 8 determina così un «diritto alla deroga» e realizza un «federalismo contrattuale» che, se da un lato conferisce un potere inedito ai sindacati territoriali e aziendali, determina un forte indebolimento dei lavoratori nei confronti dei «padroni». Specie nelle piccole aziende, dove il sindacato, quando c’è, o è di comodo o è rappresentato da uno o due delegati nominati, sui quali si scaricherebbe una pressione padronale enorme, con la minaccia di chiusura o di delocalizzazione. Nell’insieme, l’articolo 8 con le ultime modifiche produrrà effetti ancora più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali, di quanto non promettesse la prima versione. Si avrà, infatti, una frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali, il che tra l’altro porterebbe a rendere insignificante la presenza sindacale a livello confederale nazionale. Obiettivo questo perseguito da anni dal Governo. Quali le materie soggette a deroga? Innanzi tutto quella regolata dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Si sancisce così il diritto di licenziare anche senza giusta causa. Ma la deroga si estende anche all’orario di lavoro, alle mansioni, alla turnistica, alle modalità di assunzione, al controllo mediante apparecchi audiovisivi, e altro. Basterà che la maggioranza delle
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Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) dei sindacati firmatari dell’accordo dia parere favorevole, e le «disposizioni di legge» e le «regolamentazioni contrattuali» saranno modificate. Nel tentativo di coinvolgere i sindacati, il Governo incorpora nella legge anche l’accordo del 28 giugno, però tale accordo è vanificato dal fatto che esso prevedeva deroghe solo rispetto al contratto nazionale, ma non rispetto alla legge dello Stato. Inoltre, se l’articolo 8 diventerà legge, le intese sottoscritte dalle associazioni dei lavoratori più rappresentative sul piano territoriale, varranno anche per tutto il territorio. Un inquietante esempio delle conseguenze di tale disposizione lo propone il sociologo del lavoro Luciano Gallino su «La Repubblica» del 5/9: se il sindacato locale dovesse accettare che un lavoratore sia licenziato con tre mesi di salario come indennità, e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale condizione. Ancora, le intese, come già accennato, riguarderanno anche le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e le partite Iva. Il che significa che il sindacato locale potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedano l’impiego di lavoratori autonomi (come sono appunto quelli su menzionati) sostanzialmente come lavoratori dipendenti. Questi perciò saranno soggetti sia ai rischi e all’alea del lavoro in proprio, e sia alle limitazioni tipiche del lavoro dipendente. Si tratta di un’aberrazione, che prima portava l’imprenditore diritto in Tribunale. Tutto ciò giustifica ampiamente la dura opposizione e lo sciopero della Cgil, cui Cisl, Uil e Ugl, nei loro vertici, non hanno aderito, anche se in molte piazze le basi locali hanno proclamato scioperi concomitanti. In conclusione, non è a mio parere una forzatura affermare che, ancora una volta, la classe lavoratrice ha sfilato il 6 settembre a difesa dell’intera Nazione, perché difendendo il lavoro e i suoi diritti difende la base su cui si fonda la nostra Repubblica. ❑ 17
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licenza di licenziare
MANOVRA FINANZIARIA
la coda velenosa del contributo di solidarietà
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Roberta Carlini
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così, al termine dell’estate finanziaria più pazza del mondo, abbiamo finalmente trovato i ricchi che stavolta devono piangere, gli abbienti chiamati alla solidarietà, il top del top a cui finalmente chiedere sacrifici: l’asticella è stata fissata dal governo guidato da uno di loro, ed è a quota 300mila. Trecentomila euro all’anno di reddito, soglia sopra la quale in via assai temporanea si pagherà un «contributo di solidarietà» (vietato chiamarlo «tassa», la parola è proibita) del 3%. Questa scelta, arrivata in extremis nella quinta e ultima versione della manovra finanziaria del governo, porterà pochissimi soldi nelle casse dello stato, forse neanche 200 milioni all’anno. Ma merita di essere discussa, poiché illumina e spiega lo scandalo della manovra finanziaria più pesante degli ultimi vent’anni, uscita a rate dai palazzi del governo mentre a rate, da altre sedi, uscivano i verbali del degrado degli stessi palazzi. Anche questi spesso pieni di cifre, fitti di passaggi di denaro in contanti, forse meno interessanti per la Bce ma urticanti per i cittadini chiamati a pagare la grande manovra da più di cinquanta miliardi.
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ma i patrimoni no La somma è imponente: 52,2 miliardi di euro in tre anni. La manovra del governo ci è arrivata per versioni successive, e sotto la costrizione della Banca centrale europea che ha posto la stangata come condizione per sostenere un po’ sui mercati i titoli italiani, nel mirino di una speculazione internazionale che, sempre in cerca di governi deboli e scenari incerti su cui scommettere, ha trovato dalle parti di Roma l’albero della cuccagna. Di questa montagna di miliardi, i «super-ricchi» pagheranno una minima parte: meno di 200 milioni all’anno, e il prelievo si interromperà non appena sarà raggiunto l’obiettivo, cioè il pareggio d bilancio (previsto dalla manovra nel 2013). In una delle tante versioni della manovra, il «contributo di solidarietà» era più sostanzioso, e più bassa l’asticella del reddito; la qual cosa aveva fatto sanguinare il cuore del premier, indignato i suoi parlamentari, scatenato gli emendatori: così, era stata cancellata, per poi essere rimessa all’ultimo momento in versione ancor più ridicola. I «ricchi» colpiti dalla manovra sono
negli ultimi mesi – aborrisce la patrimoniale, considerata una parolaccia, una iattura, uno spauracchio, sicuramente un modo per perdere voti. Al punto che, persino quando si deve mettere mano a un prelievo straordinario, puntato esplicitamente sui più ricchi (in nome della «solidarietà»), non al patrimonio si guarda ma al reddito. Così facendo, oltre a perdere tempo (perché darsi da fare per una somma così piccola?), cadono anche in un’altra ingiustizia: i redditi sfuggono al fisco assai più del patrimonio, com’è evidente anche nei piccoli numeri prima citati: chi può credere davvero che in Italia ci siano solo 34mila persone che guadagnano più di 300mila euro l’anno? Semmai, sono solo 34mila quelle che ricevono tali compensi regolarmente nei nostri confini, e li dichiarano al fisco. Dunque, saranno «solidali» solo i ricchi «onesti»: aggettivi che avvicinano il fenomeno di cui stiamo parlando alle specie meritevoli di protezione Wwf.
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34.000: lo 0,075% dei contribuenti italiani. Sono così pochi, i cosiddetti «paperoni»? E a quale misuratore del benessere materiale personale il governo fa riferimento? In realtà, nel fissare il «contributo», mai i testi governativi hanno fatto riferimento alla ricchezza accumulata, ma sempre al reddito guadagnato. Ricchezza e reddito sono due indicatori diversi, e i sistemi fiscali che funzionano li usano entrambi per misurare la capacità di ciascuno di contribuire alle entrate collettive. C’è una differenza tra chi guadagna 100mila euro l’anno e ha un patrimonio di 1 milione (tra case, Bot, azioni, barche o altro), e chi guadagna la stessa cifra ma non ha patrimonio. Entrambi sono (assai) benestanti, ma è chiaro che il primo sta molto meglio. E dovrebbe pagare di più, secondo quanto dice anche la nostra Costituzione a proposito di capacità contributiva. Invece il nostro sistema fiscale ignora quasi del tutto i patrimoni: colpisce un po’ quelli immobiliari (ma solo un po’, dopo l’abolizione dell’Ici sulla prima casa), per niente gli altri. E il nostro sistema politico – in modo bipartisan, salvo qualche ripensamento
discriminazioni elettorali Ma la manovra del «contributo di solidarietà» ha in sé anche un’altra coda vele19
MANOVRA FINANZIARIA
nosa, spesso dimenticata nel dibattito pubblico. L’asticella della ricchezza, a quanto pare, è diversa a seconda del lavoro che fai. Così, i «ricchi» dipendenti pubblici saranno chiamati a essere più solidali degli altri, perché per loro l’aggravio parte (sopra i 90.000 euro l’anno). Per esempio: un medico che lavora in ospedale e guadagna, poniamo, 100.000 euro l’anno, dovrà pagare la tassa di solidarietà, il suo collega che sta in clinica privata la pagherà solo se supera (non in nero) i 300.000. Difficile trovare una spiegazione razionale a questa discriminazione, ed è assai probabile che la faccenda finirà alla Corte costituzionale. Ma la spiegazione politica è chiarissima: il governo considera già «persi» ai fini del suo consenso elettorale, i dipendenti pubblici. Perciò non perde occasione per mazzolarli. La qual cosa vale purtroppo assai più in generale, con elenchi delle vittime dei tagli e delle tasse che si sovrappongono quasi perfettamente a quelli delle categorie più spostate a sinistra, o più lontane dall’elettorato di destra. Insegnanti e pubblici impiegati sono al primo posto, gli universitari seguono a ruota; poi ci sono le cooperative, stangate dalla manovra; gli operai affezionati ai contratti collettivi, peggio se iscritti alla Cgil; e in coda, nell’elenco, coloro che a votare non possono proprio andarci, come gli immigrati che saranno borseggiati con un prelievo al momento in cui vanno a mandare i soldi alle famiglie in patria.
minilotta all’evasione
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C’è poi il capitolo dell’evasione fiscale, l’altro faro che illumina la manovra. Man mano che cadevano, per la rivolta della maggioranza, pezzi delle misure a cui Tremonti era stato costretto dalla Bce e dalle pressioni internazionali, saliva il ruolo salvifico della «lotta all’evasione». Anche in questo caso, molti degli annunci sono poi spariti: pubblicazione on line delle dichiarazioni dei redditi, limitazione dell’uso del contante, superpoteri ai comuni contro gli evasori... Misure scritte con l’inchiostro simpatico (e al cui gettito infatti la Bce ha già detto di non credere affatto), da parte di un ministro che ha fatto almeno un condono per ogni suo passaggio al governo – il primo è quello tombale del 1994, l’ultimo è per ora lo scudo fiscale sui capitali fuggiti all’estero –, e che nel 2008, appena messo piede al ministero, ha come prima cosa abolito le misure sulla tracciabilità introdotte dal suo predecessore Visco, che 20
avevano portato a un recupero di 30 miliardi di evasione. E’ vero che le vie della storia sono strane e a volte anche comiche; è possibile anche che, per motivi straordinari e terribili, il governo prenda in mano la bandiera della lotta all’evasione, e tiri fuori gli strumenti contro cui lottava strenuamente, a partire dalla drastica riduzione dell’uso del contante – anche se il ministro Tremonti ha fatto sulla sua lotta contro «Dracula-Visco» la sua fortuna, per non parlare dei trascorsi giudiziari del presidente Berlusconi in tema fiscale e delle numerose testimonianze sull’uso disinvolto del contante dalle parti sue e dell’Olgettina. Ma è poco probabile che qualcuno ci creda. E infatti ai 2,4 miliardi messi in conto alla lotta all’evasione credono ormai in pochi.
clausola di salvaguardia Ma allora, se la manovra sui «ricchi» è di quelle da lente di ingrandimento e quella sugli «evasori» è scritta sull’acqua, cosa resta? Quello che è noto: l’aumento delle tasse, prima di tutto attraverso l’Iva sui consumi, e in secondo luogo attraverso gli enti locali, che saranno costretti a aumentarle per compensare i drastici tagli centrali. Il taglio delle spese, a cui gli stessi comuni saranno costretti. E la doppia trappola sulle famiglie, che è contenuta nella cosiddetta riforma dell’assistenza: che dovrà recuperare la bellezza di 20 miliardi, tagliando dunque le prestazioni sociali e assistenziali. Se non ce la farà, è già prevista una clausola di salvaguardia che garantisca comunque il gettito, con il taglio delle attuali detrazioni e deduzioni fiscali: un taglio che colpirà soprattutto i redditi da lavoro, e in particolare quelli con carichi familiari. Questa la parte più consistente della manovra, nascosta sotto la cortina fumogena di «tasse sui ricchi» e «lotta all’evasione»; che si va ad aggiungere ai tagli già fatti negli anni, e ad altre disposizioni infilate in corsa che poco hanno a che vedere con l’urgenza finanziaria: come l’anticipo dell’aumento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato, che non porterà praticamente alcun risparmio nei prossimi tre anni, ma che, evidentemente, pareva necessario al governo per poter mostrare un decisionismo su tutti i fronti. Laddove, purtroppo, il fronte colpito resta sempre lo stesso, quello del lavoro. Roberta Carlini
CAMINEIRO
il prezzo della benzina
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miniere d’oro in Guatemala Non è passato un anno da quando anche i vescovi del Guatemala hanno denunciato i danni sociali e ambientali derivanti dall’attività estrattiva operata da multinazionali
straniere che hanno ottenuto facilmente concessioni dal governo del Paese in nome dei vantaggi economici che ne deriverebbero per le popolazioni locali. Visitando alcune delle zone interessate da queste attività ho ritrovato il medesimo schema. Le imprese dedite all’estrazione (e all’annientamento della biodiversità) costruiscono scuole ed ospedali, assicurano maggiore occupazione e tanta tanta beneficenza. Ma il prezzo per le popolazioni locali è francamente molto alto. C’è di mezzo anche l’Enel che, incalzata da Mons. Alvaro Ramazzini, il vescovo delegato dalla Conferenza Episcopale del Guatemala per le questioni ambientali, finora non ha dato alcun segno di volontà di dialogo.
dacci oggi la nostra acqua quotidiana Mi è capitato di incontrare anche un altro vescovo impegnato sugli stessi temi della salvaguardia del creato, Mons. Luis Infanti de la Mora, autore del libro «Dacci oggi la nostra acqua quotidiana». Un udinese che da 35 anni è in Cile e che adesso guida la diocesi di Aysèn nella Patagonia cilena dove si vorrebbe realizzare un progetto – complice una legge del periodo di Pinochet –, che prevede la costruzione di 5 mega dighe sui fiumi Baker e Pascua e una linea di trasmissione di 2300 chilometri con torri alte dai 60 ai 70 metri che attraverserebbero il 51 per cento del territorio cileno, 16 aree protette dallo Stato, 32 aree protette dai privati e migliaia di proprietà tra cui i terreni dei Mapuche, ottenuti a caro prezzo. Il tutto per rifornire di energia la capitale e le miniere del nord. La zona di cui parliamo è definita «l’aorta del mondo». Una chiesa del sud del mondo impegnata a difendere il proprio ambiente. Che è anche il nostro. Terra madre. Di tutti. Perché quando Dio creò il mondo lo fece senza confini. L’aria, l’acqua, l’ambiente non si fermano alle dogane e lasciano vivere meglio anche noi. Per queste semplici ragioni siamo chiamati a una corresponsabilità nuova. Creazionale e, pertanto, creativa nel senso biblico del termine. 21
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sempre più urgente ed attuale l’elaborazione di una teologia della creazione che ponga al centro i diritti della terra, dell’acqua e dell’aria. È sempre più urgente perché ci sentiamo orfani di una riflessione organica sulla salvaguardia dell’ambiente in cui i credenti scoprono di avere riferimenti e radici lontane e importanti nella Scrittura. È sempre più urgente ed attuale che nessuno si senta escluso dal prendere posizione contro lo scempio della natura operato da multinazionali senza scrupolo il cui conto viene puntualmente pagato per intero dalle popolazioni più povere del pianeta. Avviene così che i vescovi della Nigeria denuncino senza riserve e con franchezza apostolica quanto è stato operato dalla società anglo-olandese Royal Dutch Shell e dal governo nigeriano. Coperti da un silenzio internazionale scandaloso, per anni hanno continuato a sfruttare le risorse petrolifere del delta del Niger assolutamente incuranti dello stravolgimento dell’habitat e dei danni provocati alla salute degli abitanti di quell’area. Nei giorni scorsi, i vescovi hanno diffuso una dichiarazione ispirata al rapporto pubblicato a inizio agosto dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Uno studio dettagliato, frutto di 20 anni di lavoro nella zona di Ogoniland, fondato su interviste a oltre 20.000 persone e sull’esame di migliaia di cartelle cliniche. Ogni pieno di benzina delle nostre automobili costa anche dolore, sofferenza e morte. Ogni pieno di benzina viene pagato a caro prezzo dal creato sconvolto per garantire il nostro benessere. I vescovi concludono con la richiesta di un miliardo di dollari per apportare le misure indispensabili che nei prossimi 30 anni possano porre rimedio a questa offesa profonda operata contro i più poveri e l’ambiente in cui abitano.
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Brunetto Salvarani
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titolo esemplificativo, in attesa di ulteriori approfondimenti collegati alle Nuove indicazioni e alla revisione dei curricoli della scuola, si segnala la necessità di superare le proposte marcatamente identitarie e eurocentriche nel campo dell’insegnamento della storia, concettualizzando il nesso storia-cittadinanza; di considerare la geografia un’occasione quanto mai privilegiata per la formazione di una coscienza mondialistica; o l’opportunità di allargare lo sguardo degli alunni stessi in chiave multireligiosa, consapevoli del pluralismo religioso che caratterizza le nostre società e le nostre istituzioni educative e della rilevanza della dimensione religiosa in ambito interculturale» (corsivo mio). Ecco cosa è possibile leggere in un documento ideato dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale, attivo presso il Ministero della Pubblica Istruzione dal 2006 al 2009. Il titolo del documento, letto oggi, mette un po’ malinconia: La via italiana alla scuola interculturale. Non solo il titolo... L’Osservatorio, infatti, non esiste più, perché l’attuale ministra ha ritenuto di poterne fare a meno, senza mai spiegare la cosa, nonostante diverse richieste al riguardo; e non si dà più, evidentemente, anche l’opportunità di allargare lo sguardo, ecc. ecc. (salvo atti eroici di buona volontà, da parte di singoli docenti o collegi lungimiranti). Da Roma, in altri termini, la questione di come rispondere al delicato problema di adeguare gli insegnamenti all’attuale situazione di pluralismo religioso sempre più diffuso anche nel nostro paese sembra non interessare. Tema, certo, complesso da molti punti di vista, al quale l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc) non può, di fatto, rispondere appieno: se non altro per il
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ben noto carattere di facoltatività che lo caratterizza. Ciò che accade, allora, è, come si diceva una volta, sul territorio: e non è poco, a ben vedere.
l’apripista In proposito, la notizia, fresca e appetitosa, è che dall’anno scolastico 2011-2012 saranno sei licei torinesi a proporsi quali apripista per un esperimento che potrebbe aprire una nuova strada nel discutere di religione (anzi, di religioni, al plurale) a scuola. Il progetto, elaborato dalla locale Consulta Laica, prevede come materia alternativa all’ora di Irc un corso di Storia delle religioni e del libero pensiero, realizzato in collaborazione col Cesedi (la struttura della Provincia che seleziona e sostiene i corsi a tema per le secondarie superiori). Hanno già risposto positivamente l’Alfieri, il Cavour, l’Einstein, il Gobetti, il Giordano Bruno e il Majorana-Marro di Moncalieri, tutte scuole con una certa storia alle spalle. Ma cosa contiene il pacchetto? «Vogliamo proporre elementi di storia e di riflessione sul fatto religioso e sul pluralismo oggi esistente in Italia – spiega Tullio Monti, presidente della Consulta –. Siamo partiti dalla constatazione che, come sostiene lo storico Alberto Melloni, in Italia l’analfabetismo religioso continua a dilagare nonostante o grazie al sistema di insegnamento. Noi proveremo a inserire i fatti religiosi e le loro interpretazioni nei loro aspetti storici, ma anche antropologici e psicologici, partendo dai testi fondanti di ciascuna di esse». Uno studio, evidentemente, aconfessionale, cioè che non assume la prospettiva o le finalità di una singola religione: cosa ben diversa, precisano gli organizzatori, da uno studio interconfessionale, dove ciascuno parla della propria fede. Il modello, al qua-
RELIGIONI A SCUOLA
progettoaconfessionale dei licei torinesi La domanda, a dispetto delle apparenze, è tutt’altro che scontata, in uno scenario, si sente ripetere spesso con ottime ragioni, multireligioso e multiculturale, e in quella che Edgar Morin designa come la quarta èra dell’umanità (l’età planetaria). Perché, a sorpresa, le religioni hanno saputo uscire indenni dalla sfida sferrata loro dai processi di secolarizzazione e di modernizzazione.
perché le religioni a scuola? Materia sempre più incandescente, ovvio, soprattutto in tempi liquidi (Z. Bauman) quali i nostri, contrassegnati dalla crisi dei legami comunitari e della politica, da identitarismi costruiti ad arte, e fondamentalismi (religiosi e non), molto più che da dialoghi e accoglienza. Le religioni, nelle scuole italiane, «ci sono» perché tanti studenti fanno riferimento a diversi mondi religiosi; ci sono perché da tempo si discute più o meno strumentalmente del senso della presenza del crocifisso nelle aule, dei presepi e dei canti sacri da insegnare o meno agli alunni. Ma non ci sono, se non in maniera del tutto periferica, come materia di studio e connotato essenziale per una cultura che si pretenda completa e al passo coi tempi. Com’è noto, esiste una disciplina, la citata Irc, ma facoltativa e di marca confessionale. Come uscire da questa situazione ingessata e apparentemente priva di sbocchi? Il fatto è che, dopo la stagione dell’eclissi di Dio, avvertono gli studiosi dei fatti sociali, siamo in presenza di un’epoca di ritorno del sacro. Evidenza della sociologia del quotidiano: ce lo raccontano i media, ma anche la piazza che frequentiamo, la scuola dei nostri figli, i megastore cui ci rivolgiamo. Le religioni, vale a dire le persone che in
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le ha collaborato anche l’Università di Torino, prende spunto da studi spagnoli: al suo interno convivono competenze linguistiche, storiche, filosofiche, civiche. Si partirà dunque dalle parole-chiave per passare alla presentazione dei principali filoni storico-religiosi nella storia dell’umanità: religioni primitive, universali, etniche, per arrivare alle nuove religioni, alle (cosiddette) sette e alle correnti di opposizione. Spazio dunque a ebraismo e cristianesimo, ma anche agli orientalismi contemporanei, all’hinduismo e naturalmente all’islam, semmai con l’aiuto di film e cartoni animati (ad esempio i benemeriti Simpson di Matt Groening) o fumetti come Persepolis dell’iraniana Marjan Satrapi, e con percorsi differenziati per il biennio e il triennio. Ci si può legittimamente domandare: questi riferimenti saranno un incentivo per chi non segue il corso di Insegnamento religioso cattolico (Irc) a rinunciare alla tradizionale ora passata a bighellonare in giro per la scuola? Chi sceglierà il percorso alternativo potrà dedicarvi l’ora settimanale normalmente dedicata alla religione cattolica per chi la sceglie, e alla libera uscita, o al misterioso studio individuale, per tutti gli altri. Un itinerario ambizioso, anche sul piano culturale, e una novità significativa nel panorama scolastico. Che, ovvio, non risolve alla radice il problema di cui sopra, ma contribuisce se non altro a segnalare la necessità di un cambio di rotta, o almeno di una franca discussione sull’andamento dell’Irc a un quarto di secolo dall’avvio dell’odierna modalità (nel frattempo, si badi, è cambiato radicalmente il mondo, con la globalizzazione e la fine dei regimi comunisti, l’11 settembre e lo scontro di civiltà, fino all’emersione quali protagonisti planetari dei Brics e la crisi finanziaria, tanto per gradire).
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RELIGIONI A SCUOLA
esse s’identificano, sono tema del vivere civile prima ancora che credere. Eppure, proprio i contesti educativi come la scuola sembrano fare ed educare come se così non fosse o quasi. Magari si discute anche intorno e sulla pluralità delle religioni, spesso come emergenza o problema piuttosto che come realtà da indagare e decodificare, ma il fatto religioso continua ad essere presentato ancora dentro le categorie di una stagione caratterizzata da quella che storicamente è stata chiamata la religione degli italiani. Anche a scuola, insomma, il pluralismo religioso è tema di frontiera, lasciato alle iniziative di insegnanti virtuosi e di alunni interessati, mentre i genitori seguono distratti. innanzitutto, il fatto religioso a scuola non viene tematizzato. La religione a scuola è entrata, potremmo dire, per decreto istituzionale e non per statuto epistemologico. Quando la scienza teologica è stata estromessa dalle università e confinata nel recinto ecclesiastico (era il 1873), il prezzo da pagare è stato un analfabetismo religioso di cui ora, in tempi di confronto con altre «cosmovisioni», avvertiamo le conseguenze. Davanti a tanta ignoranza, il pluralismo religioso diventa una minaccia piuttosto che uno spazio di confronto e crescita. Il recupero della religione come esperienza identitaria che, per alcuni, giustificherebbe la presenza e la necessità della religione a scuola regge sul vuoto culturale: per questo si presta a strumentalizzazioni pericolose. Tuttavia, anche se non fosse così, la pedagogia come arte educativa ha bisogno di temi e non di decreti. Proprio la tematizzazione del fatto religioso, infatti, aiuterebbe a capire che l’identità nazionale è ricca degli apporti di altre e diverse tradizioni: da quella protestante, a quella ortodossa per non dire di quella ebraica e islamica. Mettere a tema di indagine il fatto religioso aiuterebbe a capire il processo di «meticciamento» dello stesso (tema, fra l’altro, assai caro al nuovo arcivescovo di Milano, Scola). Stiamo rischiando che il vuoto culturale in ordine al fatto religioso faccia male alla religione stessa, non aiutandoci a capire, ad esempio, la legittimità della sua presenza a scuola.
laicità di intelligenza Ma la questione religiosa non viene tematizzata anche per un altro evidente equivoco: quello legato all’idea di laicità. Una scuola laica sembra essere quella che rinuncia al tema religioso. Laicità di sottrazione. Clericalismo da una parte e laicismo dal24
l’altra hanno spinto verso un’idea di scuola neutra in ordine alla religione, le cui tematiche sono di fatto assenti. Salvo concedere uno spazio confessionale regolato da un meccanismo sempre più in crisi e salvo vedersi entrare dalla porta i temi religiosi fatti uscire dalla finestra. La religione è diventata un angolo per i credenti, le domande legate ai fatti religiosi lasciate a qualche dibattito di volenterosi. Una laicità che, per paura di incontrarsi e misurarsi con temi ritenuti personali e non pubblici, dell’anima piuttosto che del corpo sociale, ha reso un cattivo servizio educativo. La scuola laica e aconfessionale è quella che deve educare cittadini, e non far crescere credenti (di questo si occupano le famiglie e le comunità religiose di appartenenza). Il pluralismo religioso come tema educativo aiuterebbe pertanto a ripensare la laicità in termini inclusivi, piuttosto che esclusivi. A vantaggio dei cittadini e non solo dei credenti. Perché solo una forte competenza religiosa è garanzia di laicità, e la laicità non può prescindere da una forte competenza religiosa: per passare, riprendendo un’intuizione di Régis Debray, da una laicità di incompetenza a una laicità di intelligenza. Mentre la vasta presenza delle seconde generazioni (i G2) nelle aule italiane mostra chiaramente, con l’evidenza dei numeri in progress, che il mosaico delle fedi richiede un’analisi della situazione dell’insegnamento religioso a scuola a più alto livello di una semplice contrapposizione ideologica. Se avrà successo o meno, il progetto torinese, lo decideranno, da settembre in poi, gli studenti: in un tempo in cui sono sempre di più a dichiararsi agnostici, uno studio delle religioni in ottica laica potrebbe essere una soluzione, almeno iniziale, per un ritorno di interesse orientato al rispetto del diverso. Perché – in ogni caso – la scuola che verrà è quella dove le religioni verranno messe a tema come disciplina formativa, capace di educare al dialogo, all’incontro, alla dimensione critica e all’utopia. Capace, in fondo, di dire parole inaudite come quelle di un mistico russo che afferma: «Se io ho fame, questo è un problema materiale; se l’altro ha fame, questo è un problema spirituale». Al concorso per un mondo migliore sono convocate anche le religioni. Questa la titolarità ultima che hanno da spendere a scuola. Come si può immaginare che i cittadini di domani possano vivere assieme gestendo nonviolentemente i conflitti (religiosi e culturali) se, in pratica, si fa di tutto perché rimangano analfabeti dal punto di vista (multi) religioso? Brunetto Salvarani
TERRE DI VETRO
Oliviero Motta
unque, se la memoria non m’inganna, mi sono beccato tre vaffa e un paio d’altri insulti. E che sono un uomo senza onore e un massone. Tutto ad alta voce, mentre dagli altri tavoli si giravano a vedere che diavolo stesse succedendo. Il tutto, caro Roberto, perché non appartengo al tuo movimento di cattolici integrali apparenti. La discussione e il confronto mi erano sembrati, fino a quel momento, nell’ordine delle cose; d’altra parte, non puoi pretendere di dire che Carlo Maria Martini è un «protestante fuori dalla fede cattolica» e pensare che io stia lì a sentirti senza fiatare. Finché etichetti me come protestante, passi. Ma via, Carlo Maria Martini... E poi, insomma, la vostra serie di frasi fatte per costruire una realtà tutta vostra. Dopo un po’, è difficile non scendere nella polemica. Gli ingredienti, quelli classici: il complotto massonico contro i cattolici, il divo Giulio e compagnia cantante, Englaro e l’eutanasia, la vita e la famiglia. Comunque, lo scontro dell’altra sera ha rappresentato anche un’occasione per riflettere sul mio percorso di ricerca. Lo faccio anche qui, utilizzando uno di quei libri che usate come totem (o, al bisogno, come clave) e così di rado leggete per davvero: «Vita e destino». Uno dei punti di arrivo del mio percorso corrisponde, infatti, alle parole scritte da uno dei personaggi del libro di Grossman, Ikonnikov: «Il bene non è nella natura, non è nelle prediche di apostoli e profeti né nelle teorie di grandi sociologi o capi di Stato, né nell’etica dei filosofi. La gente comune ha nel cuore l’amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura in modo naturale e spontaneo, è felice nel calore della propria casa dopo una giornata di lavoro e non accen-
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de roghi e falò sulle piazze. E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla. La bontà degli uomini al di là del bene religioso e sociale. (...) È una bontà senza voce, senza senso. Istintiva, cieca. Ha cominciato ad offuscarsi quando il cristianesimo l’ha vestita della dottrina dei padri della Chiesa e il seme è diventato vuota scorza. Essa è forte finché è muta, inconsapevole e illogica, finché non diventa strumento e mercanzia dei predicatori, finché il suo oro non viene coniato in monete di saggezza. La bontà è semplice, come la vita. Persino Cristo e il suo insegnamento le hanno tolto forza, perché la sua forza è nel silenzio del cuore umano. Come trasformarla in forza senza inaridirla, senza disperderla come l’ha inaridita e dispersa la Chiesa? Perché la bontà è forte sino a quando è priva di forza. Appena la si vuole trasformare in forza, la bontà si perde, scolora, si offusca, svanisce». Penso che questa «bontà illogica», sepolta nel profondo di ciascuno, sia una delle molle che spinge me, te e tanti altri a lavorare ancora con e per le persone che più fanno fatica: tossicodipendenti, disabili, famiglie in difficoltà, persone con problemi di salute mentale. Spero che almeno su questo minimo comun denominatore si possa essere d’accordo. Per il resto, ognuno faccia la sua strada, senza insultare gli altri. Quanto ad appartenere, prendo indegnamente in prestito le parole di Erri De Luca: «Non devo appartenere, sto con i tredicesimi, estranei alla dozzina convocata. Mio titolo di viaggio è seguire in disparte». 25
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vite e destini
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Fiorella Farinelli
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acconta il giornalista della Stampa Massimo Gramellini (1) che a Roma non si trovano 300 ragazzi disposti a fare il mestiere di fornaio. Neanche a 2000 Euro netti al mese, un salario cui un insegnante di scuola secondaria superiore arriva solo dopo 35 anni di anzianità. L’Unione Panificatori che ha denunciato il caso avrà forse esagerato un po’ coi numeri, ma è un dato indiscutibile, sotto gli occhi di tutti, che in certi posti di lavoro – per esempio quelli che come i ristoranti e le pizzerie richiedono di fare le ore piccole – di ragazzi italiani ce ne sono sempre meno, e di immigrati stranieri giovani e adulti sempre di più. Succede anche per altri mestieri, primo fra tutti quello di infermiere, e anche qui il fatto che si debba qualche volta lavorare anche di notte, senza rispetto alcuno per le sacrosante sere del venerdì e del sabato, e che si tratti di una professione che oltre all’uso della testa richiede anche anche quello delle mani, potrebbe avere un suo peso. Mancano, del resto, aspiranti qualificati anche per altri profili/figure professionali. Quelle ad alto rischio di «non reperibilità», come le definisce l’indagine Excelsior-Unioncamere che ogni anno sonda le intenzioni di nuove assunzioni delle imprese italiane. Si tratta sempre o soprattutto di lavori esecutivi, tecnici o specialistici in vari campi della produzione e dei servizi, unificati per lo più dall’essere caratterizzati da prestazioni di tipo operativo anche manuale.
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pregiudizio sociale del lavoro manuale Gramellini, che cita per contrasto i soliti concorsi per cinque posti di vigile urbano su cui si abbattono immancabili le solite decine di migliaia di domande, dice che il problema di certi mestieri è la loro «scarsa considerazione sociale». Come se ci fosse qualcosa di disprezzabile nei lavori «che producono beni materiali e che richiedono uno sforzo fisico diverso dal tirare calci a un pallone». Irragionevole, sicuramente – «perché mai un impiegato di Borsa dovrebbe essere considerato più ‘giusto’ di un falegname?» – tanto più con una disoccupazione giovanile arrivata recentemente al picco del 27 e rotti per cento. E con tanti giovani, magari diplomati e laureati, costretti a lunghe ed estenuanti attese prima di arrivare ad occupazioni non solo precarie ma anche malpagate. C’è una fuga dei ragazzi italiani dal lavoro manuale? E come si spiega? È un tema, questo del difficile allineamento tra quello che i giovani italiani chiedono al mondo del lavoro e quello che il mondo del lavoro chiede ai giovani italiani, sempre più frequentato negli ultimi tempi dalle polemiche politiche. O meglio, dalle campagne di discredito o denigrazione che vengono via via scatenate per ragioni politiche contro i giovani.
si può fare il barbiere e leggere Umberto Eco Negli ultimi tempi, Sacconi docet, sembra
LAVORO
perché un fornaio vale meno di un impiegato?
diverse cause e diverse responsabilità E meglio sarebbe, invece che dare tutte le colpe ai giovani, analizzare i diversi ingredienti di questo stato di cose. Le diverse responsabilità e le diverse cause, che ci sono, e su diversi versanti. Dell’anomalia italiana di un ingresso dei giovani nel mondo del lavoro più tardivo e riluttante rispet-
to a quella della media europea, e del mancato incontro tra titoli di studio e fabbisogni professionali del mercato del lavoro hanno una qualche responsabilità, per esempio, le stesse imprese. Che solo raramente decidono di stipulare i contratti di apprendistato formativo dedicati ai ragazzi che hanno meno di 18 anni, e proprio perché questi contratti prevedono degli obblighi formativi, sia interni che esterni alle aziende, che numerose aziende – magari le stesse che poi lamentano di non trovare giovani formati e qualificati come vorrebbero – considerano un costo più che un investimento. Eppure è proprio questa la via che in diversi paesi europei – prima di tutto Svizzera, Germania, Austria, Olanda, Danimarca – permette alle imprese di contribuire direttamente tramite la qualificazione dei giovani alla formazione di alcuni di quei profili/figure professionali ad alto rischio di «non reperibilità». Ma l’XI Rapporto Isfol sull’apprendistato mostra che l’apprendistato sotto i 18 anni, sebbene incentivato con importanti sgravi fiscali e contributivi, non costituisce da noi neppure il 4% del totale degli apprendisti. Non solo, neanche la metà degli apprendisti più giovani usufruisce effettivamente della formazione esterna prevista e sono pochi quelli che conseguono, tramite questo percorso formativo, una qualifica «formale», riconosciuta cioè oltre che dall’azienda di appartenenza, dall’insieme del mondo del lavoro e dal sistema di
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fortemente sostenuta l’idea che tutto ciò avvenga perché i ragazzi italiani non sarebbero abbastanza «umili» per accettare opportunità di lavoro troppo diverse dalle aspettative di vita – di status sociale, di retribuzione, di consumi – maturate nell’esperienza scolastica e universitaria. Idea malevola, perfino offensiva – giovani parassiti che perdono tempo campando ancora a trent’anni delle pensioni dei nonni? – che per di più accredita l’interpretazione sbagliata secondo cui, appunto, i lavori manuali sarebbero disprezzabili, o comunque di minor valore di quelli che non lo sono. «Ma perché, chiede Gramellini, uno che passa otto ore davanti al computer, a fare neppure lui sa cosa, dovrebbe sentirsi più elevato socialmente di un altro dalle cui mani escono un vestito, una scarpa, una pagnotta? Si può fare il barbiere leggendo Umberto Eco, come lavorare in uno studio legale e rimanere un caprone». Il significato e il valore del lavoro, insomma, vanno ricercati altrove, non nel fatto di essere o di non essere manuale.
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LAVORO
istruzione e formazione. Come non vedere che anche questo incoraggia i ragazzi a restare il più a lungo possibile nei circuiti scolastico-formativi e comunque, anche quando se ne sia usciti precocemente, a vedere in un lavoro prima dei vent’anni più il pericolo di restare intrappolati in occupazioni non gratificanti e senza possibilità di ulteriore sviluppo che un percorso certo di inserimento e di crescita professionale?
carenze di scuola e formazione professionale
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Ma è vero che le responsabilità maggiori sono sul versante del sistema di istruzione e formazione. Che non contrasta abbastanza, e anzi spesso conferma il pregiudizio sociale, diffusissimo nelle famiglie, secondo cui i percorsi di tipo professionalizzante che si affacciano direttamente sul mondo del lavoro sarebbero di minor valore rispetto a quelli che hanno invece come esito pressoché obbligato l’università. Col risultato che ad essere «orientati» verso il comparto tecnico-professionale sono solo gli studenti che a scuola vanno peggio, o che sono di condizione sociale più modesta. Ogni anno, infatti, cresce il peso specifico dei licei, perfino del liceo classico, mentre stentano a tenere la posizione gli istituti tecnici e perdono continuamente terreno gli istituti professionali. Anche i percorsi triennali di istruzione e formazione, avviati nel 2005 con un accordo tra Stato e Regioni proprio per intercettare i ragazzi meno motivati ai percorsi lunghi della scuola secondaria superiore e più interessati a conseguire in fretta titoli utili all’inserimento lavorativo, stentano a coinvolgere l’intera area dei giovani (uno su cinque) che tra i 15 e i 20 anni sono fuori sia dallo studio che dal lavoro. Sebbene gli iscritti siano ormai più di 160.000, il loro addensarsi quasi unicamente nelle regioni del CentroNord e il progressivo calare delle risorse economiche dedicate, sono segnali e vincoli di serie difficoltà di sviluppo. Un vero peccato visto che, come emerge da diverse indagini (2), i loro risultati sono decisamente positivi. Più di metà dei ragazzi che attraverso i triennali conseguono una qualifica professionale trovano infatti un lavoro a breve distanza dalla qualificazione e il 30% circa, più nelle aree del Centro che in quelle delle Nord, rientra successivamente nella scuola secondaria superiore per conseguire un diploma. Continua a mancare, comunque, tranne in poche Regioni, un solido, visibile, autorevole canale di istruzione e formazione professionale capace, con un quarto anno postqualifica, di traghettare i giovani verso diplomi professionali di livello medio-alto e apprezzati dal mondo del lavoro. Mentre gran parte della scuola secondaria superio28
re, licei in testa, propone saperi e metodi di apprendimento lontanissimi dalla realtà del mondo del lavoro e delle professioni.
antichi stereotipi culturali Un insieme di condizioni, dunque, che non aiuta i nostri giovani a familiarizzarsi, fin dall’istruzione iniziale, con la cultura e i valori del lavoro. Che ripropone instancabilmente un’immagine negativa dei mestieri e delle professioni tecnico-operative contribuendo a tenere sempre viva l’illusione che solo attraverso percorsi di istruzione lunghi – preferibilmente liceali, e poi universitari – si possano avere chances concrete di un inserimento professionale di qualità. Ma oggi non è così. Lo dicono le lunghe attese di un posto di lavoro dei diplomati e dei laureati, le bolle di disoccupazione strutturale dei tanti che escono dalla scuola e dall’università con titoli di studio che trovano poca o nessuna rispondenza con il mondo del lavoro. La fannullaggine, l’eccesso di aspettative, il parassitismo invocati dai governanti di turno per spiegare perché tanti giovani restano ai margini del mondo del lavoro, o addirittura si autoescludono dalle opportunità che pure in diversi campi ci sarebbero, portano spesso fuori strada. Può essere, come scrive Gramellini, che su queste distorsioni del rapporto tra domanda e offerta di lavoro incidano le culture sociali di un capitalismo finanziarizzato che ha perso di vista l’economia reale e la produzione. È sicuro, almeno in Italia, che sui comportamenti delle famiglie e dei giovani, incidano anche antichi stereotipi culturali che attribuiscono scarso valore ai lavori manuali e tecnici. Ma altrettanto certo è che non si può uscirne con la denigrazione di un’intera generazione di giovani. Dimostrare che l’«ascensore sociale» può funzionare anche attraverso l’esperienza lavorativa, anche attraverso una qualificazione professionale per diventare fornai, infermieri, operai specializzati, tecnici della produzione e dei servizi spetta, come sempre, a chi ha le responsabilità del mercato del lavoro, delle condizioni del lavoro giovanile, delle scelte delle imprese e dell’apprendistato, del funzionamento dei sistemi di istruzione e formazione. Che però oggi guardano altrove. Fiorella Farinelli
Note (1) Il pane quotidiano, La Stampa, 3 settembre. (2) A. Teselli, L’efficacia della formazione professionale iniziale, Donzelli, Roma 2011; Isfol, Dalla formazione al lavoro. Gli esiti dei percorsi triennali, 2011.
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riscoprire il fascino e la forza del bene testo integrale della relazione tenuta alla Cittadella di Assisi al 69° Corso di studi cristiani
Vito Mancuso
I
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l titolo che gli organizzatori di questo convegno sul male mi hanno assegnato è «riscoprire il fascino e la forza del bene», il che mi fa particolarmente piacere perché il valore-guida del mio pensiero è esattamente l’idea pratica del bene, e se credo in Dio è esattamente perché sento che solo alla luce dell’esistenza di Dio si dà un primato ontologico, e non solo assiologico, del bene. Ritengo che per raggiungere l’obiettivo assegnatomi (quello di indicare alcune piste di ricerca per riscoprire il fascino e la forza del bene) il primo passo debba consistere nell’individuazione delle principali obiezioni contro l’idea del bene, obiezioni a causa delle quali il bene oggi per lo più non risulta né affascinante né tanto meno forte. 29
INSERTO
ETICA
conoscere e affrontare le obiezioni
Ho parlato del bene come valore-guida, come criterio supremo o punto fermo per mettere ordine nella propria vita e in base al quale gerarchizzare e dare valore alle cose, e poi orientare in modo equilibrato e sapiente l’esistenza.
a) no ai valori
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Ebbene la prima radicale obiezione contro il bene consiste nel sostenere che questa esigenza di un valore-guida sia un segnale di uno stadio ancora immaturo della coscienza, perché la coscienza veramente matura sa che non deve gerarchizzare, sa che non deve «pensare per valori», ma rimanere aperta al continuo flusso della vita, facendo sì che sia la vita stessa a rivelarsi dentro di noi. Il nostro compito dovrebbe essere solo l’apertura alla continua rivelazione della vita, senza valutazioni aprioristiche. Heidegger rimprovera tutto il pensiero orientato moralmente, alla ricerca dei valori o peggio ancora del valore, con queste parole: «Si tratta di capire finalmente che proprio quando si caratterizza qualcosa come «valore», ciò che è così valutato viene privato della sua dignità… Ogni valutazione non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare... Pensare per valori è la più grande bestemmia che si possa pensare contro l’essere» (Lettera sull’umanismo, 1946, in Segnavia, 301). C’è del vero in questa prospettiva: è l’affermazione del primato della vita con le sue situazioni concrete contro ogni dogmatismo dottrinale. Un esempio al riguardo si è avuto nel marzo 2009 quando il vescovo di Recife in Brasile (il successore scelto da Giovanni Paolo II nella diocesi che fu di Helder Camara) ha scomunicato la madre e i medici di una bambina di 9 anni e naturalmente i medici coinvolti per aver fatto abortire la bambina rimasta incinta di due gemelli a seguito delle violenze sessuali ricevute dal patrigno e in evidente pericolo di vita. Il vescovo dichiarò di aver né più né meno applicato il Codice di diritto canonico, il che è vero, ed esattamente qui sta l’errore nell’applicare il codice senza tener conto dei contesti concreti, della vita reale. Occorre bandire ogni dottrinalismo che non legge la realtà nella sua specificità, e che considera la dottrina e la legge canonica (i Vangeli direbbero il sabato) più importanti dell’uomo concreto, piegando l’uomo concreto alla rigidità della dottrina. 30
Ma in questa prospettiva c’è anche del falso, anzi per me c’è soprattutto del falso. L’assenza di un valore ultimo nel leggere la realtà può infatti portare a osannare ciò che appare nella «radura dell’essere» (la Lichtung di cui amava parlare Heidegger) per il fatto stesso di essere apparso, come accadde in Germania nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler, non a caso salutata con favore da Heidegger (1). Non si trattò di un abbaglio, di una svista, ma di una logica conseguenza della sua filosofia allergica a ogni valutazione etica, come è dimostrato dal fatto che dal 1945 al 1976 Heidegger non fece mai una pubblica ammenda della sua compromissione col nazismo. Un criterio-guida per leggere la vita è necessario per non rimanere succubi dell’ambiguità della vita e della storia e per poterla interpretare e, quando è il caso, combattere. Occorre prendere le distanze dal dogmatismo di chi non legge la storia concreta, ma insieme non bisogna cadere nelle braccia del relativismo che non conosce valori se non quello della comoda opportunità o della forza.
b) Kant o Nietzsche? Per non cadere nel dogmatismo occorre che il primato sia sempre della vita concreta, quindi la risposta deve scaturire da un’analisi della vita, senza inserire in essa nulla di estraneo, senza nessuna contaminazione. Agere sequitur esse, l’agire consegue dall’essere. Qual è il valore-guida che emerge dall’essere concreto, dalla natura e dalla storia quale si manifestano davanti a noi, anzi dentro di noi, visto che anche noi siamo natura e siamo storia? La partita si gioca nel rispondere a questa questione, la questione della logica della vita, di questa vita qui e ora, perché è solo a partire dalla logica della vita concreta che è possibile individuare il criterio con cui orientarsi senza cadere nella prigione della mente e del cuore che è il dogmatismo. Io sono convinto che a questo livello la battaglia decisiva si dia tra due colossi della filosofia moderna, Kant da un lato, Nietzsche dall’altro. Kant afferma che il criterio dell’azione deve essere questo: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, con altre tre edizioni successive; ed. it. p. 48). È la prospettiva che gli esperti definiscono «Zweckformel», una formulazione cioè orientata al fine. Tre anni dopo nella Critica della ra-
oggi, dopo poco più di un secolo, il suo pensiero è diventato a mio avviso un sentire diffuso. Ma chi ha ragione: Kant oppure Nietzsche? Attenzione non sto chiedendo chi ci piacerebbe che avesse ragione, ma chi ha veramente ragione? Chi parla davvero nel nome della vita, e non di un noioso moralismo? Ovvero: qual è la logica della vita? È il bene o è la potenza? È la relazione o è la lotta? È l’armonia o è il dominio?
il bene come emozione vitale Così Teilhard de Chardin, mentre si trovava nelle trincee del fronte della Prima guerra mondiale, scriveva in una lettera alla cugina: «Adotta come principio questa massima, e non stancarti di ripetere in giro: uno dei segni più certi della verità della religione (...) si ha osservando fino a che punto essa spinge all’azione, ossia in che misura essa riesce a far scaturire, dalle sorgenti profonde che sono in ciascuno di noi, un massimo di energia e sforzo» (2). Qui sta l’essenza della spiritualità occidentale, la medesima che si ritrova in Florenskij, Hillesum, Bonhoeffer, Schweitzer, una spiritualità come gusto e passione di vivere, gioia di agire e di lavorare. È in questa prospettiva che ora intendo parlare del bene quale emozione vitale. L’emozione è un movimento interiore. Il termine rimanda al movimento già nella sua etimologia, visto che il verbo latino emoveo significa «scuotere dal basso all’alto», come si fa con un succo di frutta o con uno yogurt liquido prima di aprirli. Quando si prova emozione, si viene mossi interiormente, si è come il mare che da calmo diventa agitato, mosso, molto mosso, burrascoso, tempestoso. Qualcuno potrebbe pensare che il mare meno è mosso, meglio è. Ma non è così, almeno per la navigazione a vela, perché l’assenza di vento significa bonaccia, che i latini chiamavano malacia (malacia maris) e che usavano in senso figurato come sinonimo di «languore, mancanza di appetito, apatia, assenza di energia vitale». Il mare della vita deve trovare il giusto equilibrio tra tempesta e bonaccia. Ne viene quello che tutti sappiamo, cioè la preziosità e insieme la pericolosità delle emozioni. Il movimento emotivo è flusso, cammino, apertura. Se è troppo intenso può condurre alla tempesta e alla dissipazione, se è troppo debole può portare all’apatia e alla perdita dell’energia vitale: disciplinare il movimento emotivo può mettere ordine e contribuire a vivere meglio, ma può anche reprimere lo slancio vitale. Ed è innegabile
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gion pratica (1788) Kant presenta l’imperativo categorico in un’altra versione, che gli esperti definiscono «Gesetzformel», cioè formulazione orientata alla legge: «Agisci in modo che la tua azione possa valere come massima della morale universale». Al fondo di queste due massime, soprattutto della seconda, c’è l’idea dell’equità, della giustizia come equità, dell’uguaglianza degli esseri umani per quanto attiene ai diritti. C’è l’idea del bene, e in particolare del bene comune, come criterio-guida assoluto (imperativo) dell’azione e del pensare. Nietzsche al contrario afferma: «Esigere una sola morale per tutti costituisce un pregiudizio proprio a danno dell’uomo superiore» (Al di là del bene e del male, 1886; ed. it. p. 137); e ne trae le conseguenze: «L’essenziale di una buona e sana aristocrazia è che essa… accolga con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che per amor suo devono essere spinti in basso e diminuiti fino a diventare uomini incompleti, schiavi, strumenti» (Al di là del bene e del male; ed. it. p. 176). Queste frasi sono la logica conseguenza di una certa visione della vita in quanto natura + storia. Se la natura (ovvero noi stessi) non è altro che «struggle for life» (lotta dura per la vita), che cosa è possibile dire contro questa prospettiva di Nietzsche? Nulla, anzi essa è la più fedele alla logica della vita. Io non vedo nessuna differenza qualitativa tra lo «struggle for life» di Spencer e di Darwin – visto che Darwin inserì l’espressione nella sesta edizione del suo capolavoro «L’origine delle specie» – e la «Wille zur Macht» di Nietzsche (la quale poi è diventata in Heidegger «Wille zum Willen», volontà di volontà, cf. Franco Volpi, Glossario in Segnavia, p. 520). Da sempre e in tutti i luoghi l’etica (cioè il primato del bene) si è costruita sulla convinzione: bonum facendum, malum vitandum. Poi è arrivato Nietzsche a porre per il nostro tempo la grande questione: è poi vero che bisogna fare il bene ed evitare il male? Perché mai dovrebbe essere così? Chi l’ha detto che c’è un primato del bene e della giustizia oggettivi rispetto alla convenienza soggettiva, se tutta la logica della vita è lotta per affermare se stessi? Ecco altre sue parole: «Abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori… fino a oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabilire ‘il buono’ come superiore al ‘malvagio’... come? e se la verità fosse il contrario?» (Genealogia della morale, 1887; ed. it. p. 8-9). Nietzsche scriveva queste cose nel 1887 e
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INSERTO
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che spesso nel passato, e talora anche nel presente, l’educazione al bene ha avuto l’effetto di spegnere le emozioni, di castigare lo spirito vitale, sicché oggi il male risulta spesso più attraente e noi siamo costretti a dover «riscoprire» il fascino e la forza del bene. Si riscopre il fascino e la forza del bene comprendendo che esso è la più forte emozione vitale. Per emozione vitale più forte intendo quella che, al di sopra o al di sotto delle molte emozioni che quotidianamente si generano per il semplice fatto di esistere, consente di navigare nel mare della vita generando sempre nuove energie e insieme evitando di venire travolti dalle pericolose correnti, una specie di emozione alla seconda che insieme mette in ordine e rafforza le emozioni ordinarie che derivano dal nostro essere al mondo. Il bene infatti è l’armonia che rende possibile il fluire del movimento che è la vita. Bene ovvero armonia. Il bene è quella particolare disposizione dell’essere che consente l’armonia, che attua la relazione armoniosa, che produce il concerto di relazioni armoniose necessarie alla vita, in particolare alla vita sana e felice. Più c’è armonia, più si è in presenza di quella particolare disposizione dell’essere designata dal pensiero come bene. Più c’è armonia, più c’è bene. E più c’è bene, più la vita fiorisce in tutti i suoi livelli, che ora esprimo facendo uso dei termini greci perché sono i più antichi che io conosca nella loro capacità analitica di individuare i molteplici livelli di consistenza dell’esistenza umana: 1) bios, ovvero vita biologica-vegetativa; 2) zoé, ovvero vita animale; 3) psyché, ovvero vita psichica; 4) logos, ovvero vita razionale; 5) nous, ovvero vita intellettuale; 6) pneuma, ovvero vita spirituale. Il bene è ciò che consente la relazione armoniosa all’interno del quantum di energia che ciascuno di noi è, consentendogli di sviluppare il suo essere in tutti i livelli menzionati. Il bene quindi ha anzitutto un valore fisico, rimanda in primo luogo allo stare-bene, designa ciò che serve la vita, esprime la vita che si realizza nelle sue diverse possibilità, è la forma della vita pienamente realizzata. In un mio libro precedente, L’anima e il suo destino, ho parlato al riguardo di «archeologia del bene», dicendo che il bene in sé non è qualcosa di straordinario, ma di ordinario, di normale, e se appare inusuale è solo perché la coscienza vive perlopiù nell’ignoranza. La sua archeologia infatti è il corpo di nostra madre. Nel nostro stesso venire all’essere il bene si manifesta come armonia delle relazioni che si intrecciano in modo sempre più ricco portando il puntino primor32
diale dello zigote a evolversi in embrione, feto, neonato, bambino. In questo processo che è la nostra archeologia l’essere è sempre e solo bene, ed è lì che in noi si forma la fiducia nell’essere e nella vita, da cui poi la volontà di bene e di giustizia. Le radici dell’etica sono nella fisica e nella biologia, nel fatto che l’essere ci nutre, ci forma, ci sostiene: questa è l’esperienza primordiale, la sorgente immacolata dell’infanzia, la più basilare rivelazione dell’essere che viene a coincidere con la nostra stessa creazione. Il Logos che presiede la natura diviene carne anche dentro di noi, esattamente come avvenne venti secoli fa: «E il Logos si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni 1,14). Ogni volta che nasce un essere umano il Logos si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi, anzi è meglio dire, più fedelmente al greco del Quarto Vangelo, «in noi» (en emîn), cioè dentro di noi, dentro la nostra carne, nelle fibre del nostro essere materiale. Alla nascita è connessa la più potente rivelazione del mistero divino che è la vita. [Per questo l’aborto è da condannare con forza, ma sempre per questo non si deve più continuare a parlare di «peccato originale». Altro che peccato originale, alla natura è legata la rivelazione originaria, la benedizione originaria (original blessing, non original sin) come scrive il teologo americano Matthew Fox. (3)] Tale esperienza primordiale dell’essere come bene è depositata nelle favole, nei libri e nei film dell’infanzia, dove il bene è l’elemento indubitabile, la realtà di fondo, il valore avvertito come il più degno della nostra vita, per il quale si parteggia istintivamente di fronte alle minacce del male sempre in agguato. È alla luce di tale archeologia che io penso che il bene sia l’emozione vitale più intensa e più duratura che c’è: un’emozione che diventa vita armoniosa, storia durevole, capacità di generare giustizia, luce pulita degli occhi. Per questo Aristotele ha potuto scrivere che il bene è quod omnia appetunt, ciò che tutti cercano (Etica nicomachea, I, 1, 1094 A, 3; cf. Retorica, I, 6, 2, e I, 7, 2). Tutti hanno appetito di bene, perché il bene è la logica armoniosa che consente la vita e la fa fiorire, crescere, dilatarsi in tutte le sue dimensioni.
il bene e Dio: un conflitto di autorità? C’entra qualcosa Dio in tutto questo? L’anima di molti esseri umani, tra i quali pongo anche me stesso, sente che questo bene radicato nelle fibre del nostro essere
la realtà concreta del bene Ma qual è il rapporto tra Dio come Sommo Bene e il bene concreto della vita quotidiana? Non è per nulla un rapporto lineare come in prima battuta sarebbe lecito attendersi, ovvero tale da generare la seguente conseguenzialità: fede in Dio Sommo Bene è pratica del bene nella vita concreta. Noi vediamo che anzi talora avviene l’opposto, cioè che da persone che si ritengono fortemente credenti provengano azioni che negano il bene concreto degli uomini: dalle lapidazioni ai roghi e agli attentati la lista sarebbe lunghissima e tale da interessare tutte le religioni, ma in particolar modo quelle che più delle altre insistono sul valore della fede in un Dio personale e sulla sua rivelazione. Ne viene che ognuno deve decidere qual è il suo assoluto, intendendo con ciò la fonte dell’energia vitale, ciò che regola il suo pensare e il suo vivere, la norma al suo intelletto e alla sua volontà. Qual è? È l’idea dottrinale di Dio quale codificata dagli insegnamenti della sua religione o è la pratica concreta per ricercare in ogni situazione concreta il miglior bene possibile? Per quanto mi riguarda io rispondo in tutta franchezza che il mio assoluto non è Dio, inteso come «essere perfettissimo creatore
e signore» del tutto distinto dal mondo e da me, e non è neppure Gesù Cristo. Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me. Il mio assoluto è il bene, l’idea e la pratica del bene. Il mio assoluto è il bene che all’interno dei nostri corpi esprime la realtà fisica della relazione armoniosa tra i diversi elementi che ci costituiscono e che si dice come salute, e che poi, riproducendosi all’esterno, dà origine alla tensione etica che ci spinge a introdurre tale logica armoniosa anche nell’ambito spesso disordinato della libertà e che si dice come giustizia. Il mio assoluto è percepire la meraviglia che tutto questo esista in virtù di una non dovuta e inattesa generosità dell’essere-energia che nel linguaggio teologico tradizionale viene detta grazia. Aggiungo di credere che l’esistenza di tale bene rimandi a un Bene eterno, sussistente, definibile come Sommo Bene, come «Dio» nel senso comune del termine. A partire dal bene, io credo in un Sommo Bene a cui penso vada attribuita anche la personalità, per quanto sia ben lontano dall’essere identificabile con una persona nel senso comune del termine. [In questo concordo con Martin Buber, che dopo aver parlato di Dio come assoluta persona, aggiunge: «Questo significa che Dio ‘è’ persona? Il carattere assoluto della sua persona, il paradosso dei paradossi, vieta una tale affermazione» (5).]
papà, tu mi uccideresti? È esattamente da come si gestisce il rapporto tra la realtà concreta del bene e l’idea di Dio che si generano una modalità giusta e una modalità sbagliata di intendere il divino e la sua assolutezza. Per spiegarmi mi riferisco a un episodio accaduto nella mia famiglia qualche anno fa, quando fui costretto a scegliere tra l’immagine tradizionale di Dio e il bene. Allora abitavamo in campagna e io svegliavo i miei figli alle 6.45, visto che la scuola era lontana. Quella mattina Stefano, il mio figlio maggiore allora undicenne, al mattino di solito taciturno, mi chiede: «Papà, ma chi era quello che doveva uccidere suo figlio per ordine di Dio?». Mi viene da pensare: ma guarda questo qui, a quest’ora, con gli occhi cisposi e i capelli all’aria, che cosa si mette a pensare, chissà che sogno avrà fatto. Poi gli dico che si trattava di Abramo. A quel punto Caterina, che allora aveva sette anni e dormiva ancora nella medesima camera del fratello, mi chiede: «Papà, ma se Dio ti ordina di uccidermi, tu mi uccidi?». Momento di difficoltà. Non rispondo e inizio ad allacciarle le scarpe. Poi però sento dentro di me che
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possiede una dimensione universale ed eterna. Il bene per loro diviene Bene. Dio è il termine coniato dalla mente destatasi alla riflessione per esprimere il sentimento di questo Bene sussistente, ontologico, non riducibile alla semplice convenienza del singolo (è bene per me) ma dotato di respiro universale (è bene per me, per te, per tutti), una realtà al contempo fisica e morale, ma prima ancora più fisica che morale. Bene come Sommo Bene. Non esiste popolo o civiltà che non sia giunto al pensiero del divino, ovviamente formulato in modi diversi a seconda delle lingue e delle culture, ma tale da essere percepito dalla gran parte degli uomini come qualcosa di immediato. Al riguardo gli antichi parlavano di consensus gentium, invitando a prestare molta attenzione a quelle esperienze e a quei concetti posseduti da tutti i popoli. Cicerone scriveva: «L’esistenza degli Dei è una nozione innata e per così dire scolpita nella mente di tutti» (4). Esprimeva ciò che io chiamo archeologia del bene. Mediante il termine Dio moltissimi esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno portato al pensiero la loro certezza, sentimentale prima ancora che intellettuale, della vita come bene perché fondata sul Bene.
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INSERTO una risposta a mia figlia la devo, e le dico senza esitare: «No Caterina, non se ne parla nemmeno. Se Dio mi dovesse ordinare una cosa del genere, gli direi di no. Sta’ tranquilla, papà non ti tradirà mai». Ricordo che lo sguardo di mia figlia si fece luminoso, di quella luce che viene dalla gioia più intima, così difficile da descrivere, ma che penso tutti conosciamo. Poi colazione in cucina, di corsa in macchina verso la scuola, Abramo e tutto il resto dimenticato. Non da parte mia però, che mentre guidavo ero alle prese con una serie di dubbi: avevo fatto bene a rispondere così seguendo il mio istinto? Non avevo sminuito agli occhi dei miei figli la maestà di Dio e della Bibbia? Non avevo polverizzato con quella risposta così umana da poter essere troppo umana una tradizione millenaria di timore di fronte alla sacralità del mistero divino?
quale Dio?
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La domanda di mio figlio aveva fatto riferimento al celebre episodio di Genesi 22, il cosiddetto sacrificio di Isacco, oggetto di innumerevoli opere d’arte, dai mosaici di San Vitale a Ravenna ai dipinti di Caravaggio, Rembrandt e altri illustri pittori. La storia è arcinota e non occorre certo ricordarla a voi. Mi limito solo ai versetti capitali di Genesi 22,9-10 quando, arrivati al luogo indicato, «Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò suo figlio e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio». Quanto tempo sarà passato dal momento in cui Abramo iniziò a legare suo figlio a quando alzò il coltello su di lui? Trenta secondi, un minuto, due minuti? Quanto ci vuole a legare un bambino in modo che non si muova quando vedrà il coltello scendere verso di lui? Chissà che cosa avrà pensato in quella serie di interminabili attimi il piccolo Isacco, dopo aver capito che l’animale per il sacrificio di cui aveva chiesto notizia al padre lungo la via era lui. Chissà quali immagini si andavano ammassando in quei momenti nella mente di quel bambino, quali immagini di Dio, della vita, di suo padre. Qualcuno ricorda il volto con il quale lo ha dipinto Caravaggio? Tutti sanno che ad Abramo appare un angelo che gli dice «non stendere la mano contro il ragazzo, non fargli niente!», e gli fa trovare lì accanto un ariete e tutto si conclude in un trionfo con la voce celeste che proclama: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cie34
lo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Genesi 22,16-18). Qual è il succo di questo episodio? La totale, assoluta, indiscussa obbedienza. Che cosa c’è infatti per un essere umano di più prezioso di un figlio? Nulla, e quando poi è unico, e quando poi è piccolo, la tenerezza è assoluta. Ebbene, Dio arriva a chiedere ad Abramo di sacrificargli il figlio, di ucciderlo e poi di bruciarglielo interamente in sacrificio. Per quale motivo? Per provare la sua fede, per verificare se c’era qualcosa che Abramo gli avrebbe anteposto, per verificare se lui con la sua volontà era davvero il signore assoluto. Il filosofo luterano Søren Kierkegaard ha dedicato ad Abramo e al sacrificio del figlio Isacco un’intera opera, Timore e tremore, nella quale presenta Abramo come il tipo ideale della fede, «il cavaliere della fede» (6). Abramo è tale perché, accettando il comando divino riguardo al figlio, sospende e oltrepassa l’universalità dell’etica e così entra in un rapporto assoluto con Dio. Abramo scavalca l’universalità dell’etica ed entra nella particolarità della religione, la quale però, ecco il paradosso kierkegaardiano, pretende di valere di più dell’universalità etica: «La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale» (7). La tradizione ha visto in questo episodio il modello del vero uomo di fede in quanto esibisce un’assoluta obbedienza a Dio. Il volere divino può risultare terribile alla coscienza, il Dio «totalmente altro» può ordinare le cose più inaspettate, persino orribili crimini, ma non importa: quello che conta non è il bene in sé, ma solo il legame di assoluta devozione e obbedienza verso di lui: non l’universalità dell’etica, ma il rapporto particolare del singolo con Dio. Se c’è questa obbedienza totale, anche i crimini più orrendi risultano atti eroici (nel linguaggio della fede, «sacrifici») e chi è disposto a compierli diviene il modello della fede più pura. Di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio la cui essenza è volontà assoluta, da nulla determinata se non dal suo volere, e che è logico che generi nell’anima degli uomini che gli si accostano un senso di «timore e tremore». Quante volte le Chiese hanno fatto uso della paura per parlare di Dio, quante sofferenze e quante vite segnate dall’angoscia ne sono scaturite. Era un tema su cui Ingmar Bergman (scandinavo come Kierkegaard) ritornava spesso nei suoi film, ricor-
l’autentico volto di Dio Mi soffermo su Kant. Per il filosofo di Königsberg la «sospensione teologica dell’etica» di cui parlerà Kierkegaard qualche decennio dopo di lui, è inammissibile. Occorre piuttosto pensare che qualunque cosa sia in contrasto con la legge morale non viene da Dio, essendo Dio precisamente il bene, la realtà sussistente del bene, die Idee des guten Prinzip (l’idea del principio buono) (9), e quindi non potendo in alcun modo volere il male (e con ciò Kant non fa che esprimere la medesima prospettiva della più pura teologia cattolica) (10). In una delle ultime opere della sua vita, Il conflitto delle facoltà, precisamente in una nota a piè di pagina alle quali talora egli usava affidare pensieri su tematiche delicate (immagino per avere meno problemi con la censura), Kant commenta proprio Genesi 22 dicendo che Abramo avrebbe dovuto agire in ben altro modo, non solo rifiutandosi di compiere quanto ordinatogli dalla voce celeste, ma giungendo a mettere in questione che la voce potesse essere davvero quella di Dio, visto che quanto è in contrasto con la morale non può venire da Dio. Ecco le parole di Kant: «Può servire
come esempio il mito del sacrificio che Abramo voleva offrire, per ordine divino, scannando e bruciando il suo unico figlio (il povero fanciullo, per giunta, portò inconsapevolmente la legna). A quella presunta voce divina Abramo avrebbe dovuto rispondere: ‘Che io non debba uccidere il mio caro figlio, è assolutamente certo; ma che tu che ti manifesti a me sia proprio Dio, di ciò io non sono né posso diventare sicuro’, anche se tale voce risuonò dall’alto del cielo (visibile)» (11). Chi, teologicamente parlando, ha ragione? Chi tra Kierkegaard e Kant individua meglio l’autentico volto di Dio? Se la risposta è Kierkegaard, io quella mattina ho sbagliato a rispondere a mia figlia nel modo in cui ho fatto; avrei dovuto farle comprendere che comunque Dio viene prima di lei, dicendole, certamente in modo soft per non traumatizzarne la delicata psiche infantile, che quello era un antico racconto scritto apposta per condannare i sacrifici umani e che non c’è nulla da temere da parte di un Dio che non solo non chiede sacrifici umani ma che si sacrifica lui stesso per noi nella persona del figlio, e che il primato di Dio non è contro ma è a favore degli uomini, e tante altre cose di questo genere, ma comunque facendole al fondo capire che il primato spetta a Dio, al quale dobbiamo sempre obbedire, e non c’è nulla di più importante di questa obbedienza dovuta. Se la risposta invece è Kant, io quella mattina non ho sbagliato. Ma chi, teologicamente parlando, ha ragione? A mio avviso è decisivo quanto scrive Martin Buber, che di Bibbia se ne intendeva parecchio. Interrogandosi proprio sulla legittimità della proposta kierkegaardiana di qualificare la fede come «sospensione dell’etica», Buber si sofferma a sua volta su Genesi 22: «Kierkegaard presuppone qui una cosa che non si può presupporre nemmeno nel mondo di Abramo e tanto meno nel nostro. Egli non tiene conto che la problematica della decisione di fede è preceduta da quella dell’ascolto: Chi è colui di cui si ode la voce?». Buber sta avanzando il medesimo dubbio di Kant. Poi prosegue nell’argomentazione: «Per Kierkegaard, partendo dalla tradizione cristiana in cui è cresciuto, è naturale che a esigere il sacrificio non possa essere altro che Dio. Per la Bibbia e certamente per l’Antico Testamento ciò non è del tutto evidente» (12). L’esempio portato da Buber per sottolineare il dovere di sottoporre a discernimento critico ogni presunta voce divina riguarda il censimento del popolo voluto dal re Davide, che secondo un libro biblico (2Samuele) è volu-
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do in particolare Il settimo sigillo e Fanny e Alexander. Questa immagine di Dio e quindi di fede si ritrova nel ’900 nella prima fase della teologia di Karl Barth, nella quale il teologo svizzero di tradizione calvinista presenta l’idea di un Dio così slegato dai valori del bene e della giustizia da poter essere «la dannazione anche di un san Francesco d’Assisi e l’assoluzione anche di un Cesare Borgia… un No opposto a ogni Sì umano e un Sì opposto a ogni No umano» (8). Questa figura arbitraria di un Dio quale sovrano terribile che per chissà quale insondabile volontà può ordinarti di uccidere il figlio e mandare all’inferno Francesco d’Assisi, è fortemente avversata dal filone umanistico (detto anche liberale o dialogico) della teologia cristiana, rappresentato durante l’umanesimo e il rinascimento da Niccolò Cusano, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Sebastiano Castellione; in epoca moderna da pensatori quali Lessing, Kant, Fichte, Hegel, Schelling, e dalla teologia liberale di Schleiermacher, von Harnack, Troeltsch; nel ‘900 dalla teologia di Bonhoeffer e di Tillich in ambito protestante, e in ambito cattolico dai teologi all’origine del Vaticano II come Teilhard de Chardin, Chenu, Congar, Rahner, Küng, Schillebeeckx; ai nostri giorni dalla teologia della liberazione e dalla teologia del pluralismo religioso.
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INSERTO to da Dio, secondo un altro (1Cronache) è voluto da Satana (13). A tale cautela di ordine oggettivo sottolineata da Buber, io credo se ne debba aggiungere un’altra in considerazione della fragilità del nostro ascolto e della nostra capacità di comprensione, come attestato dalla stessa Bibbia: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (Salmo 62,12). È quindi per motivi sia oggettivi sia soggettivi che si deve diffidare da ogni tendenza a pensarsi come singoli (tanto più se scritto enfaticamente con la maiuscola alla Kierkegaard, Singolo) e a strapparsi dalle regole universali. «Potrebbe succedere», continua Buber, «che un peccatore pensi di dover sacrificare a Dio per espiazione il proprio figlio». In realtà, conclude il grande filosofo e teologo ebraico, Dio «altro non esige che giustizia e amore, e che l’uomo tratti umilmente con lui, vale a dire non chiede molto di più dell’etica fondamentale» (14), e il rimando di Buber è un passo del profeta Michea che contiene una chiara critica a Genesi 22. Ecco le parole di Michea, che traducono dapprima i dubbi di un uomo che si interroga su come relazionarsi adeguatamente a Dio: «Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato?». Ed ecco la risposta profetica: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Michea 6,6-8). Qui non c’è nessuna sospensione dell’etica, qui il bene è osservato ed esprime tutto il suo fascino e tutta la sua forza. Vito Mancuso
Note
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(1) Cf. il celebre discorso del rettorato in Scritti politici, 129 ss.; in una allocuzione del 17 maggio 1933 Heidegger definisce Hitler «la nostra grande guida» e poi conclude dicendo «alla nostra grande guida, Adolf Hitler, un Sieg Heil tedesco», 143; qualcuno potrebbe controbattere che il contesto dell’epoca ecc. ecc., ma si devono tener presenti due cose: 1- già in quell’epoca vi era chi aveva le idee molto chiare su Hitler: per esempio Jaspers, Jonas, Bultmann, Barth, Tillich, Bonhoeffer; 2- dopo la guerra Heidegger non ha mai ritrattato, non ha mai ammesso di aver sbagliato, cf. Hans Jonas, Memorie, 246 e 251). (2) Pierre Teilhard de Chardin, lettera del 4 luglio 1915 a Marguerite Teillard-Chambon (Claude 36
Aragonnès), citata da Jacques Arnould, Teilhard de Chardin. Eretico o profeta?, tr. di Lucilla Congiu, Lindau, Torino 2009 (ed. or. 2005), p. 102. (3) Matthew Fox, Original Blessing, Bear & Company, Santa Fe 1983; ed. it. In principio era la gioia. Original Blessing, tr. di Gianluigi Gugliermetto, Fazi Editore, Roma 2011. (4) Cicerone, De natura deorum, II,4,12; ed. it. La natura divina, a cura di Cesare Marco Calcante, Bur, Milano 1992, p. 161. Vedi anche Tuscolanae Disputationes, I, 13, 30 e 14, 35. (5) Martin Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia [1953], tr. di Ursula Schnabel, Mondadori, Milano 1990, p. 66. (6) Søren Kierkegaard, Timore e tremore [1843], in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Piemme, Casale Monferrato 1995, I, p. 214. Cf. in particolare le pp. 251-256 per la contrapposizione tra eroe tragico e cavaliere della fede. (7) Søren Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, I, p. 231. (8) Karl Barth, L’Epistola ai Romani [19222], ed. it. a cura di Giovanni Miegge, Feltrinelli, Milano 1978, p. 269. La teologia barthiana ebbe una svolta umanistica individuata solitamente nella conferenza del 25 settembre 1956 tenuta ad Aarau in Svizzera, nella quale lo stesso Barth parla esplicitamente di «svolta nel pensiero della teologia evangelica»: Karl Barth, L’umanità di Dio, tr. it. di Saverio Merlo, Claudiana, Torino 1975, p. 29. (9) Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione [1793], Introduzione e apparati di Massimo Roncoroni, traduzione e note di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 156. (10) Cf. Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, I, capitoli 37-39, 73-74 e 95. (11) Immanuel Kant, Il conflitto delle facoltà [1798], tr. di Andrea Poma, in Scritti di filosofia della religione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1989, p. 272. (12) Martin Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia [1953], tr. di Ursula Schnabel, Mondadori, Milano 1990, p. 117. (13) Ecco il testo di 2Samuele 24,1: «L’ira del Signore si accese di nuovo contro Israele e incitò Davide contro il popolo in questo modo: Su, fa’ il censimento di Israele e di Giuda». Ed ecco 1Cronache 21,1: «Satana insorse contro Israele e incitò Davide a censire Israele». (14) Martin Buber, L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia [1953], tr. di Ursula Schnabel, Mondadori, Milano 1990, p. 118.
La relazione contiene materiali inediti e in parte pagine del nuovo libro dell’Autore
IO E DIO una guida dei perplessi (Garzanti, Milano) in libreria dall’8 settembre
ENERGIEALTERNATIVE
Pietro Greco
S
ì, d’accordo, cambiare il paradigma energetico. Passare da un’economia ad alto consumo e un’economia a basso consumo di energia. Passare dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili e «carbon free», che non producono carbonio e non accelerano i cambiamenti del clima. Possono e devono agire le Nazioni Unite, gli stati e le imprese. Ma noi a casa, nel nostro piccolo, cosa possiamo fare? La domanda ammette diverse risposte. Alcune riguardano la nostra cultura energetica. Dobbiamo e possiamo assumere stili di vita improntati al risparmio. Evitiamo
di comprare un Suv per gironzolare in città. Seguiamo il consiglio dei nostri nonni, che ci suggerivano di spegnere la luce quando usciamo dalla stanza. Il consiglio, reinterpretato oggi, suggerisce di spegnere i led di televisori, computer ed elettrodomestici vari che consumano molto più di quanto non si pensi. Ma affinché il pianeta se ne accorga occorre che tutti questi micro comportamenti di vita improntati alla sobrietà energetica producano un effetto macroscopico. Ebbene, da questo punto di vista le novità non sono poche. Nell’opportunità da 2.300 miliardi di dollari che si apre con lo sviluppo 37
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piccoli produttori crescono
ENERGIEALTERNATIVE delle «energie pulite», secondo un recente rapporto della Pew Charitable Trust, una quota parte notevole riguarderà proprio la produzione in piccolo di energia. A livello di famiglia o di piccola comunità (il condominio). I settori principali sono quattro (più due): il solare termodinamico, il solare fotovoltaico, il mini-eolico e il micro-idroelettrico.
il mini solare termodinamico
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Il solare termodinamico è, in buona sostanza, il sistema che cattura energia solare per scaldare l’acqua. Il sistema può funzionare a grande scala, ma anche e soprattutto a piccola scala. Ed è in rapida crescita. L’energia termica prodotta col solare termodinamico nel 2009, per esempio, è aumentato del 20% rispetto all’anno precedente ed è raddoppiato rispetto al 2005: raggiungendo i 180 Gw (gigawatt) termici. In termini assoluti è quantità di energia enorme: pari alla metà dell’energia prodotta da tutte le centrali nucleari del mondo. Il guaio è che quella termica è la forma più degradata di energia, capace di svolgere poco lavoro. Al contrario l’energia elettrica (fornita dalle centrali nucleari) è una delle forme più nobili e dunque più efficienti di energia. Sta di fatto che 180 Gw termici sono una bella quantità. Il mini solare termodinamico serve, appunto, per riscaldare l’acqua in casa. È un’ottima fonte per il nostro scaldabagno. Per ottenere questa energia occorre impiantare semplici pannelli solari. Il mercato mondiale è ormai controllato per il 70% dalla Cina. Il paese asiatico esporta pannelli, ma li utilizza anche all’interno. Attualmente la superficie coperta ammonta a oltre 150 Km2, ma si prevede un raddoppio entro il 2020. Grazie a questa fonte, anche le case più remote dell’immenso paese possono avere acqua calda. Il risparmio di energia elettrica è notevole. La riduzione delle emissioni è al momento pari a 60 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno. Certo, si tratta di appena lo 0,1% delle emissioni complessive cinesi. Ma è pur sempre una cifra uguale alle emissioni complessive di paesi come il Portogallo o l’Ungheria. Non si deve pensare che, quella dei pannelli solari termodinamici, sia una tecnologia per poveri. Tant’è che l’Europa costi38
tuisce il secondo mercato al mondo (12% del totale) e, all’interno dell’Europa, sono la Germania e l’Austria ad avere la maggiore copertura. In Germania sono stati istallati 200.000 impianti solari termodinamici, per una produzione che raggiunge gli 1,5 Gw termici. L’Unione europea impone che nel 2020 almeno il 20% della domanda energetica dei 27 paesi membri dovrà essere soddisfatta con fonti rinnovabili. Ebbene, si pensa che il solare termodinamico soddisferà una quota compresa tra il 2,5 e il 6,5% della domanda energetica. Che la superficie coperta sfiorerà i 390 km2 e che il settore consentirà di aumentare l’occupazione di almeno 500.000 persone.
il grande solare fotovoltaico Il solare fotovoltaico. Il solare fotovoltaico si realizza con tecnologie capaci di trasformare l’energia solare direttamente in energia elettrica. Il sistema è in rapida crescita – anzi è il settore energetico che cresce più rapidamente di ogni altro – sebbene il costo del chilowattora prodotto in questo modo sia ancora più alto di quello prodotto con le fonti fossili tradizionali o con il nucleare. Ma non c’è dubbio che questa è una delle fonti energetiche del futuro. E che sia già oggi una fonte accessibile alla singola famiglia o al condominio. Nel 2009 l’energia elettrica da fotovoltaico prodotta al mondo è stata pari a 25 GW: è una quantità pari ad appena lo 0,55% di tutta l’energia elettrica prodotta. Ma è pur sempre una produzione che equivale a quella di 25 grandi centrali nucleari. Il bello di questa fonte è che può entrare nella rete elettrica. Io posso produrre energia elettrica a casa e se ne ho in eccesso posso cederla alla rete nazionale, magari facendomi pagare.
micro eolico, micro idroelettrico calore dalle rocce Se ho un grosso giardino o un bel tetto, posso pensare di installare anche un micro-eolico, con una turbina eolica verticale alta non più di un metro. Il prototipo sta per entrare in commercio negli Stati Uniti al costo di 500 dollari e produce qualche kilowattora. Anche il micro-eolico ha il vantaggio di poter entrare in rete. Ma lo
la grande rete intelligente L’altra grande opzione nella quale potremmo essere coinvolti è quella di una «grande rete intelligente» che si estende a tutta l’Europa e non solo. L’idea è quella di integrare non solo tutte le reti elettriche nazionali, ma anche tutte le diverse fonti di
Pietro Greco
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svantaggio di occupare spazio (e paesaggio) e di produrre inquinamento acustico. Il micro idroelettrico non è proprio da famiglia – a meno che non si disponga di una fattoria vicino a una piccola cascata – ma è un modo alla portata di piccole comunità per produrre corrente elettrica utilizzando modeste cadute di acqua con piccole centrali da 100 kW. L’ideale, per un paesino di montagna. Tutte queste opzioni sono naturalmente integrabili. Ma, dicevamo, ce ne sono altre due di cui è bene prendere nota. La prima riguarda la possibilità di recuperare metano da scisti bituminosi, semplicemente mettendo nel terreno lunghi tubi. In America è un settore in crescita e piuttosto incontrollato. Potrebbe avere analoghi in Europa. Ma in Italia potremmo avere, facilmente, una versione geotermica: mettere un sistema di tubi non per ricavare metano ma calore, grazie alle rocce calde presenti nel sottosuolo di buona parte del paese.
energia. Alcune delle quali – come quelle alimentate da combustibili fossili o anche da pozzi geotermici – lavorano in continuo. Ma altre – come le eoliche o le solari – lavorano solo quando soffia il vento o c’è il sole. Nel «sistema intelligente» tutte le fonti, grandi e piccole, sono integrabili. E tutti noi potremmo diventare consumatori/produttori di energia elettrica. Ma creare una rete intelligente capace di integrare il sole della Sicilia con il vento della Norvegia, le maree della manica con il macro e micro idroelettrico della Alpi, non è affatto semplice. Neppure in linea di principio. Come sanno i matematici che cercano, non senza difficoltà, di risolvere il «problema di Monge», noto anche come problema «del trasporto ottimale»: ovvero trovare il sistema più economico per portare una risorsa dai vari punti in cui viene prodotta ai vari punti dove deve essere consumata. Ma il problema che si pone l’Europa è ancora più complicato. Perché tra le varie fonti da mettere in rete ci sarebbe anche l’energia che il Sole regala al Sahara, ai paesi del Nord Africa e ai paesi del Medio Oriente. E per questo hanno varato, in collaborazione con dieci grandi aziende, con un nugolo di università e in collaborazione con altri paesi, il Progetto Desertec. L’idea è abbastanza semplice. L’Europa tutta intera consuma, ogni anno, 4.000 terawattora di energia. Sul Sahara e sui paesi del Medio oriente il Sole invia ogni anno sottoforma di radiazione una quantità di energia pari a 630.000 terawattora. Basterebbe, dunque, catturare una piccola frazione di questa energia, lo 0,6%, per «risolvere» il problema energetico del Vecchio Continente. Tra il dire e il fare, è il caso di dirlo, non ci sono di mezzo solo il deserto e il mare (Mediterraneo). Che, allo stato delle tecnologie già disponibili, non sono più ostacoli insormontabili. Il problema è squisitamente matematico. Trovare in tempo reale la soluzione migliore per trasferire in continuo energia elettrica dagli innumerevoli siti di produzione – comprese le nostre case e i nostri tetti – lì dove c’è domanda di energia. Chi riuscirà a risolvere questo problema potrebbe far risparmiare all’Europa alcune centinaia di miliardi ogni anno.
PALLONE E DINTORNI
se il calciatore gioca a fare il metalmeccanico
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Claudio Cagnazzo
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calciodipendenza Quasi tutti gli italiani, me compreso, non 40
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o sciopero dei calciatori. Una sorta di ossimoro. Perché di solito lo sciopero è legato ad un lavoro dipendente e spesso mal retribuito, mentre giocare al calcio è invece qualcosa di non definibile: tra gioco, lavoro ed evasione. Il lavoratore, inoltre, di solito è sempre meno ricco del suo datore di lavoro, anche quello pubblico, per i calciatori talora invece non è così. Però, se non di sciopero comunque di interruzione di un servizio o di rinvio forzato si tratta, o magari di qualcosa non presente ancora sul vocabolario. Un’interruzione che però ha le sue ragioni. Emarginare chi non rientra nei piani delle società calcistiche non è giusto, e bene fanno i calciatori a tutelare i colleghi sottoposti all’umiliazione di doversi allenare ai margini del campo. Letteralmente talora. Come bambini non ancora maturi. Ma il problema è altro. È quello del significato più recondito di questo «sciopero». Del senso magari nascosto che porta con sé. Innanzi tutto, la totale dipendenza di milioni di persone dall’evento domenicale chiamato partita. Non c’è sciopero, minacciato o realizzato che sia, che abbia mai suscitato tanta attenzione, curiosità ed apprensione quanto quello ventilato dal Calcio.
potevano sopportare l’idea di restare altri giorni senza l’adrenalina talora artificiosamente causata del campionato. Una dipendenza straordinaria, non del tutto giustificata. Passi infatti l’amore per lo sport nazionale. Passi che dure settimane di sacrificio e di lavoro debbono almeno lasciare spazio alla sana o forse insana domenica degli italiani calciofili, ma lo sgomento per una inopinata domenica senza reti, pali e fuorigioco, assomiglia tanto alla deriva antropologica di un popolo smarrito e ormai in caduta libera. Poi, c’è il significato invece evidente del ruolo preponderante assunto dalla Tv nelle nostre vite, nonostante il dilagare di Internet. La Tv, soprattutto quella satellitare, ci ha informati, minuto per minuto delle trattative tra calciatori e Lega dei presidenti. La Tv ha continuamente battuto il ferro della sventatezza delle parti in lotta, colpevoli di non capire quanti soldi fossero in ballo nella diatriba. La Tv, infine, vera padrona del calcio, di là da ciò che si dice, ha imposto la pace che verrà. Del resto è lei ormai a finanziare il calcio, in altre parole, la quarta industria del paese. È lei a decidere i destini del nostro tifo. È lei a decretare in qualche modo persino fortune e sfortune delle squadre. Ancora, poi, il significato che assume lo stadio deserto per il nostro status di cittadini.
calcio e società Ma, non è tutto, perché, a pensarci bene, la sosta pallonata ha mostrato ancora più la totale inadeguatezza della classe dirigente calcistica, in questo esattamente simile alla classe dirigente del nostro paese in tutte le sue accezioni, su tutte quella politica. Difatti, con le debite eccezioni, la nostra classe politica si mostra culturalmente mediocre e costantemente concentrata sui propri interessi particolari, siano essi quelli del singolo che quelli del partito. Esattamente come presidenti di
calcio guardano agli interessi del proprio portafogli e cercano di scaricare sugli altri, in questo caso i calciatori, le loro eventuali mancanze. Del resto Adriano Galliani, direttore generale del Milan, sullo stile del proprio presidente, aveva già incolpato i giocatori stessi di fare ammoina per non pagare le tasse straordinarie volute dal governo. Poi, guarda tu, ritirate per ordine del medesimo presidente del Milan, nonché presidente del Consiglio, nonché capo di Galliani (quanto è piccolo il mondo!). Al dunque possiamo perciò dire che lo sciopero dei calciatori rivela un perfetto spaccato della società italiana, come in fondo è sempre avvenuto. Una società in crisi morale e materiale come il suo sport preferito. Una società dove imperano corruzione e pressappochismo allo stesso modo che nei palazzi del potere calcistico. Una società popolata per lo più da individui egoisti e venali come il sottobosco calcistico. Una società asfittica ed in crisi proprio come il suo calcio. Ed in questo senso, a voler essere ottimisti, allora lo sciopero potrebbe persino assumere una valenza positiva, visto che, almeno, seppure sgangheratamente, una presa di coscienza individuale e collettiva potrebbe favorirla. A voler essere, però, proprio degli inguaribili ottimisti.
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Di nuovo mortificato, come spesso accade. Cittadini che quando si ammalano nulla contano e possono essere inghiottiti dai problemi della nostra sanità, con rischi gravissimi. Cittadini che nulla contano quando studiano, se è vero che neppure hanno talora diritto a un posto dove studiare con regolarità e profitto. Cittadini che nulla contano spesso come lavoratori, tenuti sotto il ricatto del precariato, o con lavori sottopagati e poco dignitosi. Cittadini che dunque nulla contano, quando assumono la veste colorata di tifosi, che devono pagare biglietti salati, sedere su scomodi sedili, bagnarsi sotto le intemperie e, dulcis in fundo, assistere impotenti alla sottrazione coatta del loro giocattolo domenicale.
Claudio Cagnazzo 41
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Cristiana Pulcinelli
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erché il mondo ha fame? Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia, in un saggio del 1981 intitolato «Povertà e carestie» analizzava la carestia di una regione dell’India, il Bengala, avvenuta nel 1943, concludendo che la ragione principale per la quale scoppia una carestia non è la mancanza di cibo: altri fattori, come i salari, la distribuzione delle merci e persino la quantità di democrazia contano di più. Qualche anno dopo, nel 1996, la Fao stimava che il mondo stava producendo abbastanza cibo per sfamare tutti gli esseri umani sulla Terra con una quantità di calorie superiore a quella consigliata dai nutrizionisti. E nell’ultimo rapporto sulla sicurezza alimentare della Fao, datato 2010, si legge che il raccolto di cereali negli ultimi anni è aumentato proprio mentre aumentava il numero delle persone che soffrono la fame. La chiave della questione quindi non è tanto la mancanza di cibo, quanto la mancanza di accesso al cibo dovuto alle cattive condizioni economiche di larghe fasce della popolazione e al problema dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari.
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prezzi alle stelle I prezzi dei beni alimentari sono cresciuti molto lentamente dal 2000 fino al 2008 quando sono schizzati a valori altissimi a causa della crisi economica mondiale. Nel corso del 2009 e fino all’estate del 2010 si sono abbassati nuovamente. Poi qualcosa è cambiato. Tutto è cominciato con alcuni eventi climatici avversi: la siccità e gli incendi che hanno devastato la Russia, le alluvioni in Australia seguiti da una politica di divieto di esportazione dei paesi produttori. Tutto ciò ha portato all’incremento del costo del grano, dicono al Wfp. Il costo del mais giallo è aumentato invece a causa dei raccolti inferiori alle aspettative per le condizioni climatiche non favorevoli, ma anche per un maggiore utilizzo del mais per la produzione di biocarburanti. L’aumento del prezzo del petrolio ha fatto la sua parte: i fertilizzanti e il trasporto dipendono infatti dall’oro nero. Inoltre, gli eventi politici in Medio Oriente e in Nord Africa e le conseguenze dello tsunami in Giapone hanno contribuito all’incertezza e alla volatilità dei prezzi. Secondo la Banca Mondiale, l’aumento dei prezzi del cibo ha spinto altre 44 milioni di
DENUTRIZIONE
perché il mondo ha fame?
una persona su sette soffre di fame cronica La cosa potrebbe riguardare molti abitanti
del nostro pianeta. Oggi sulla Terra vivono poco meno di 7 miliardi di persone. Di queste, però, una su sette vive male. La sua esistenza è segnata dalla fame cronica, quella che si ha quando non si mangia a sufficienza per poter avere una vita attiva. Le donne e i bambini sono i più colpiti da questa condizione. Le prime perché portare a termine una gravidanza in uno stato di denutrizione comporta un rischio elevato per la propria vita e per il benessere del figlio, i secondi perché mangiare troppo poco quando si è piccoli vuol dire crescere meno, avere uno sviluppo mentale rallentato e un sistema immunitario più debole. L’Unicef calcola che nei paesi in via di sviluppo un terzo delle morti dei bambini al di sotto dei 5 anni sia legato alla denutrizione. Secondo le stime della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura, nel 2010 le persone denutrite nel mondo erano per la precisione 925 milioni. Meno del 2009, quando avevano raggiunto il picco di un miliardo e 23 mila milioni, ma più del 2008 quando ebbe inizio la crisi economica e alimentare che ha sconvolto il mondo. E molte di più del 1996,
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persone nel mondo alla fame nell’ultimo anno. E il trend non è finito: l’indice dell’aumento dei prezzi (aggiornato ogni mese dalla Fao) a giugno è salito a 234 punti, 1% in più rispetto al mese precedente e ben 34% in più rispetto a giugno del 2010. Al World Food Program (Wfp), l’agenzia delle Nazioni Unite che porta il cibo a chi non è in grado di procurarselo da solo, l’hanno battezzata «la tempesta perfetta del 2011». È causata, dicono, dall’intersecarsi di tre forze: l’aumento del prezzi dei beni alimentari, le emergenze climatiche e l’instabilità politica. E hanno previsto che ci costerà cara. Primo perché aumenteranno le persone che hanno bisogno di assistenza alimentare. Secondo perché questa assistenza costerà di più: un aumento del 10% del costo dei beni alimentari fa spendere al Wfp 200 milioni di dollari in più l’anno per acquistare la stessa quantità di cibo. Il rischio, dicono, è che le razioni vengano ridotte come è accaduto nel 2008.
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DENUTRIZIONE
quando i leader mondiali riuniti nel World Food Summit a Roma decisero di tagliare del 50% il numero di denutriti nel mondo entro il 2015, portando la cifra a circa 400 milioni di persone. Solo quattro anni dopo, i paesi presero un altro impegno. Al Millennium Summit di New York, era il 2000, i leader decisero di ridurre della metà la percentuale delle persone che soffrono la fame nei paesi in via di sviluppo: dal 20% del 1990 al 10% nel 2015. Per ora siamo lontani anche da questo secondo obiettivo: la percentuale di denutriti oggi nei paesi poveri del mondo raggiunge infatti il 16%. La buona notizia è che rispetto al 2008 i rifornimenti delle maggiori derrate alimentari sono più abbondanti. I raccolti dell’Africa meridionale e orientale sono stati buoni e le riserve di riso, grano e mais bianco (i prodotti di base più importanti in molti paesi in via di sviluppo) sono adeguate. La cattiva notizia è che, secondo il rapporto congiunto Ocse-Fao (Agricultural Outlook 2011-2020) appena pubblicato, nel prossimo decennio i prezzi reali dei cereali potrebbero stabilizzarsi in media a un 20% più alto e quelli della carne potrebbero aumentare anche del 30% rispetto al decennio precedente. Più bassi di quelli raggiunti nel 2008, ma sufficientemente alti per creare un problema ai paesi poveri che vivono di importazione di prodotti alimentari e, in particolare, a quelle famiglie che spendono la maggior parte delle proprie entrate per sfamarsi.
tutti carnivori
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Il prezzo della carne, dunque, aumenterà più di quello dei cereali. Il fatto è che sempre più persone nel mondo abitano nelle città e in città, a parità di condizioni economiche, si mangia di più che in campagna, come spiega un articolo uscito sull’Economist all’interno di uno speciale dedicato al cibo. Crescono i consumi, compreso il consumo di carne. Cresce la domanda e, con essa, i prezzi. Nel 2000 il 56% di tutte le calorie consumate nei paesi in via di sviluppo sono state fornite da cereali mentre solo il 20% da carne, latticini e oli vegetali. Nel 2050, la Fao ritiene che la quota di consumo di cereali scenderà al 46%, mentre quello derivante dalla carne, latticini e grassi salirà al 29%. Per corrispondere a quella crescente domanda, la produzione di carne dovrà aumentare di 470 milioni di tonnellate entro il 2050, quasi il doppio del suo livello attuale. La produzione di semi di soia (con cui vengono nutriti gli animali), dovrà raddoppiare. Per non parlare del consumo 44
di acqua e suolo. L’allevamento infatti richiede enormi quantità di terre agricole per la produzione dei mangimi e enormi quantità di acqua. Si calcola che già nel 2030 i contadini avranno bisogno del 45% di acqua in più rispetto ad oggi. A complicare la questione ci si mette il cambiamento del clima che in alcune zone del mondo porterà come conseguenza un’ulteriore diminuzione dell’acqua disponibile. Sempre il Wfp in un documento del 2009, stima che entro il 2050 le conseguenze del cambiamento climatico porteranno altri 24 milioni di bambini a soffrire la fame. Quasi la metà di questi bambini vivrà nell’Africa sub sahariana.
nove miliardi di persone Ma la questione cruciale rimane la crescita demografica. Come faremo nel 2050 quando la popolazione mondiale raggiungerà i 9,2 miliardi di persone? Ci ritroveremo con due Indie in più da sfamare. E saranno persone con consumi più elevati di quelli odierni. Qualcuno ha calcolato che la produzione mondiale di cibo dovrà aumentare del 70% entro quella data. È vero che nei 40 anni precedenti la fornitura alimentare è aumentata addirittura del 150%, ma, ricorda un articolo dell’Economist, il problema è quello delle rese per unità di superficie dei terreni coltivati: «La crescita dei rendimenti è in fase di continuo rallentamento, passando da circa il 3% all’anno per le colture di base nel 1960 a circa l’1% dell’attuale». La ricerca in questo campo dovrà faticare non poco per trovare una soluzione al problema. C’è qualcosa che però si potrebbe fare subito: ridurre la quantità di cibo sprecato. Si calcola che sia nei paesi ricchi che in quelli poveri il cibo «perso» sia tra il 30 e il 50% di quello prodotto. Nei paesi poveri è perso perché ratti, topi, locuste mangiano il raccolto quando ancora sta sulle piante, mentre il latte si deteriora lungo il tragitto verso casa. Nei paesi ricchi, le modalità sono diverse: un quarto del cibo acquistato negli Stati Uniti finisce nella spazzatura senza essere stato toccato, mentre la stessa percentuale di cibo viene buttata dai ristoranti perché inutilizzata. Se il cibo buttato dall’occidente potesse essere recuperato e distribuito a chi ne ha bisogno, non esisterebbe un problema fame. Ma come fare? Un’opera di informazione non sembra essere sufficiente, anche perché nei paesi ricchi il cibo costa ancora troppo poco perché il consumatore si preoccupi di non sprecarlo. Cristiana Pulcinelli
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Ian Hacking C l’ontologia storica
così puntuali, oltre a quelli sparsi nei suoi libri, per farsi conoscere e per chiarire il senso del suo lavoro. Hacking dice in sostanza di aver conciliato, per quanto possibile, la filosofia analitica e quella continentale, la logica e la storia, lo studio del linguaggio e quello della cultura. Dice cioè di aver continuato a studiare le parole, come vuole la tradizione dell’analisi, ma di averlo fatto, come ha insegnato Foucault, andando a cercare i siti dove quelle parole si trovano, e cioè il modo in cui le parole nascono, si sviluppano e ci influenzano.
saperi nel tempo Un’ottima sintesi della metodologia usata da Hacking e dei temi di cui si è occupato negli ultimi quarant’anni è il suo libro più recente pubblicato in Italia con il titolo di Ontologia storica. Sul modello della genealogia delle parole di Nietzsche e dell’archeologia delle idee di Foucault, il filosofo canadese fa interagire due campi tradizionalmente ritenuti inconciliabili come l’ontologia e la storia, l’ordine dell’essere e quello del divenire. Considerata come la scienza dei concetti eterni e immutabili, che sembrano vivere fuori dal tempo, nella versione storica di Hacking l’ontologia diventa la scienza dei concetti storici e situati. I concetti non riflettono l’essere, ma la storia, gli usi, i costumi degli uomini. La pretesa di assolutizzarli nasce da un atto autoritario (di potere, avrebbe detto Foucault) che ci costringe a vedere cose naturali e universali laddove ci sono cose costruite e artificiali. Anche molti concetti che sembrano riflettere i «nudi fatti» e i «fenomeni empirici» sono costruiti dall’uomo: c’è un momento in cui sono nati, un motivo per cui sono stati creati, delle esigenze sociali cui devono dare risposta. E quando non rispondono più a queste esigenze cessano la loro vita o restano sullo sfondo della vita, come affermava Kuhn a proposito dei paradigmi di pensiero. Insomma i saperi sono nel tempo e i 45
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Stefano Cazzato
osì uno dei maggiori filosofi contemporanei, il canadese Ian Hacking, professore di filosofia all’Università di Toronto e al Collège de France, presentava se stesso in una conferenza del 1988: «Il mio lavoro è stato influenzato in modo decisivo da Foucault. Molti libri che ho scritto, e anche quelli che sto scrivendo, lo sono. Eppure ho avuto una formazione di filosofo analitico puro, centrata sulla logica filosofica. Mi considero un filosofo analitico formato da Frege, Russell e Moore (...). In ogni caso non trovo alcuna incoerenza tra i miei istinti analitici e la mia propensione a usare alcuni aspetti del lavoro di Foucault (...). Il mio lavoro è una storia del presente in senso foucaultiano. Si fa l’analisi delle parole situate per comprendere in che modo pensiamo e perché sembriamo obbligati a pensare in un certo modo». Raramente un filosofo riesce a presentarsi in modo così obiettivo, fornendo riferimenti
concetti, di cui sono costituiti i saperi, non sono scolpiti nella pietra, impressi da Dio nella mente o nell’anima dell’uomo o presi direttamente dal cielo. Smascherare la pretesa ontologica tradizionale è il compito di un’ontologia storica che vuole farci capire da dove vengono i nostri concetti e qual è il loro gioco, cioè quali funzioni di carattere culturale e politico effettivamente svolgono. Hacking non è un nominalista ingenuo o un costruzionista radicale al punto da pensare che anche i concetti fisici siano creazioni culturali. Il concetto di cavallo coincide in qualche modo con la «cosa cavallo». La maggior parte dei concetti che utilizziamo nella vita reale non sono però di questo tipo, come ad esempio quelli di follia, di omosessualità, di sviluppo, di identità e molti altri concetti che noi erroneamente tendiamo a naturalizzare. Molte «cose» cominciamo a esistere sotto le nostre descrizioni. Parlando del concetto sviluppo, Hacking mostra che quella «cosa» che chiamiamo sviluppo esiste nel momento in cui nasce una certa teoria dello sviluppo. Da questo momento si è pensato che lo sviluppo potesse avvenire come la teoria prescrive e cioè allo stesso modo in tutti gli uomini, in tutte le società e in tutte le epoche. Questo modo è diventato la norma, una specie di condizione invariabile e inviolabile della natura, dell’essere. Se lo sviluppo avviene diversamente, lo si giudica anormale, deviante, preoccupante. Hacking ci suggerisce che non c’è nulla di preoccupante e di pericoloso nella diversità, visto il carattere relativo e convenzionale dei concetti-norma. In questo modo, rompendo con l’epistemologia positivistica, mostra che le teorie precedono gli esperimenti, anzi li dedello stesso Autore terminano. Più che di teorie sperimentali, dovremmo parlare di esperimenti teorici, Stefano Cazzato cioè effettuati in un modo tale da conferGiuseppe Moscati mare certe teorie, certi saperi e certi poteri.
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
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MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO pp. 240 - i 20,00
liberarsi dalle bottiglie
Il fatto è che queste teorie rappresentano per noi delle gabbie concettuali, all’interno (vedi Indice delle quali, come diceva Wittgenstein, sbatin RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) tiamo la testa come la mosca nella bottiglia. Ma proprio Foucault ci ha mostrato per i lettori di Rocca che da queste gabbie si può uscire quando i 15,00 anziché i 20,00 ha affermato che «le bottiglie che intrapspedizione compresa polano le nostre mosche sono state forgiate dalla preistoria». E che quindi, come sono richiedere a state forgiate, allo stesso modo possono esRocca - Cittadella sere rotte. Ecco perché è importante, non 06081 Assisi solo per i filosofi ma per tutti noi, un’indae-mail
[email protected] gine filosofica sull’origine dei concetti, cioè 46
un’ontologia storica: perché quello che l’uomo pensa, il modo in cui vive e agisce nel mondo, le sue idee morali, gli spazi della sua libertà, i suoi giudizi sugli altri e contro gli altri, le sue stesse possibilità esistenziali dipendono dai concetti. Egli è imprigionato nei concetti che plasmano la sua identità e orientano la sua condotta rendendo ammissibili certi comportamenti e vietati altri. Il compito della filosofia è quello di liberare l’uomo da queste gabbie concettuali mostrando che si tratta di convenzioni ideologiche e costruzioni storiche il cui legame con la realtà eterna dell’essere è molto più debole di quanto noi crediamo. Anche il metodo scientifico finisce per diventare una gabbia se viene ritenuto l’unico mezzo per arrivare alla verità. Siccome esistono tanti metodi storicamente determinati (che Hacking preferisce chiamare «stili di ragionamento»), ci sarà sempre una verità in relazione allo stile di ragionamento, di prova e di validazione adottato da una determinata comunità culturale. Il messaggio è chiaro, ed ha un contenuto etico e libertario: se non vogliamo, come la mosca di Wittgenstein, restare chiusi nella bottiglia sbattendo continuamente la testa contro le sue pareti, bisognerebbe cominciare a frantumare le gabbie concettuali che, come essere umani, ci siamo costruiti. Innanzitutto capire che di gabbie si tratta. E poi, una volta che lo abbiamo capito, incamminarci sul difficile e affascinante terreno di un’esistenza sciolta dal potere della verità. Stefano Cazzato
per leggere Hacking I. Hacking, L’emergenza della probabilità, Il Saggiatore, Milano 1987. Id., Conoscere e sperimentare, Laterza, Roma 1987. Id, Il caso domato, Il Saggiatore, Milano 1994. Id., Linguaggio e filosofia, Raffaello Cortina, Milano 1994. Id., La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria, Feltrinelli, Milano 1996. Id., La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, McGraw-Hill Companies, 2000. Id., I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, Carocci, Roma 2004. Id., Plasmare le persone. Corso al College de France, Quattroventi, Macerata 2008. Id., Ontologia storica, Ets, Pisa 2010.
su Hacking (a cura di C. Perissinotto), Linguaggio e interpretazione. Una disputa filosofica, Unicopli, Milano 1993. A. Pagnini, Stili di verità nella scienza, Il Sole 24ore, 20 febbraio 2011.
NUOVA
ANTOLOGIA
David Maria Turoldo un grande comunicatore in dialogo poetico con Dio
N
comunicare, comunicare, comunicare Un grande comunicatore. Specie con gli ultimi. Notevole la sua formazione filosofica e teologica. Immerso anima e corpo in questo progetto di vita – prima ancora che di pensiero – imperniato su una sorta di morale della comunicazione, egli si è distinto come cercatore «sui crinali, sovente scomodi, della storia» finendo con il diventare «egli stesso una tensione» (1). Turoldo è ben consapevole e dell’immenso potere della parola e del fatto che le parole non possono essere mai abbandonate. Ricorre al linguaggio poetico per modellare una forma comunicativa che accosti alle parole una tensione morale, una cura di ordine etico, se volete etico-religioso, ma di una reli-
gione inclusiva e che non conosce gerarchie, né separazioni tra fedi, né popoli eletti destinati alla salus eterna a discapito di altri. Del resto ditemi che religione sarebbe una religione che esclude, limita e ripropone steccati o censura libere modalità di relazionarsi con il trascendente? La religione è religione aperta (diciamo ancora con Capitini) o non è. Tutto questo in Turoldo appare chiaro là dove egli scandaglia la vicenda umana come condizione di un essere precario e vulnerabile, sì, ma anche capace di imprese in apparenza impossibili: se unita, impegnata concretamente a disarmare gli eserciti, pronta a marciare per la pace, i diritti umani e di tutti, contro i mille modi che ha di esprimersi la violenza, allora l’umanità può tutto. Scrivere poesie coincide qui con il pregare e con il «rifare il mondo». Turoldo bada alla sostanza più che alla forma e dà vita all’esperimento di una compenetrazione di esistenza e creazione poetica, ma è pronto a comunicare pure con il silenzio, che preferisce di gran lunga agli eccessi dell’esposizione mediatica dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa. Cui non rinuncia per arrivare dove intende far giungere denunce e messaggi di speranza, ma che condanna senza mezzi termini quando avverte scorie di retorica. Turoldo è in cerca di quelle parole che non lo costringano a rinunciare agli elementi mistici e intimi del suo colloquio con Dio e usa un linguaggio volutamente accessibile pur in un contesto di citazioni dei grandi classici della letteratura del sacro.
il silenzio, la morte, la speranza Dietro, a fianco e forse anche prima della parola, dunque il silenzio. Che è capace di fare e di dire molto di più, ora allusivo e ora perentorio, ora a sua volta evocativo e ora carico di rimandi all’alterità dell’altroda-me. Non mancano passaggi ermetici e afflato mistico, come detto, ma calati sempre all’interno di una riflessione ampia sul comunicare e sul condividere l’esperienza religiosa, umanissima. Anche per questo dobbiamo essere pronti a guardare in faccia la morte, perché non 47
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Giuseppe Moscati
on solo uomo di fede, ma anche vivace testimone di un’esperienza religiosa che si fa letteraria e letteraria che si nutre dell’esperienza religiosa, forte di una ricerca spirituale ed estetica insieme che ha in sé tratti di notevole originalità. Protagonista della stampa clandestina resistente, drammaturgo, poeta, scrittore e narratore, David Maria (alla nascita Giuseppe) Turoldo (Coderno, Udine 1916 – Milano 1992) è una voce poetica da riascoltare. Uno dei motivi principali lo ha individuato Renzo Salvi quando, mettendo a punto molto di più che una mera biografia, ha sottolineato i due elementi che meglio dicono della cifra essenziale dell’opera turoldiana. Uno è quello dell’attaccamento alla parola, anzi alla Parola che poi diventa – in mezzo agli uomini e alle donne – tante possibili parole tutte segni immanenti di un infinito dialogo con la trascendenza; l’altro è quello dell’urgenza del comunicare perché quelle parole possano essere vissute e scambiate e donate. Possano cioè avvicinare gli individui (non solo i prossimi) e generare sempre nuove relazioni (Aldo Capitini avrebbe detto «aperture») incentrate sulla speranza di pace e liberazione, atti concreti di quella ‘passione’ che, nel bene e nel male, lega indissolubilmente l’uno ai tutti.
NUOVA ANTOLOGIA
ci trovi senza parole per puntare il dito sulla barbarie nei casi in cui essa morte sia stata inferta (se c’è la guerra tutti siamo «sconfitti, ancor prima di uccidere / […]. E anche tu, Dio, sei / ancor più sconfitto di noi»), ma anche perché non ci appaia come estranea nei casi in cui essa giunga di per se stessa. La morte, in definitiva, può aiutarci a ridimensionare l’io. Esprime molto il verso di Turoldo, più di quello che indica e descrive, se non altro perché comunica per immagini forti. E l’immagine si mette «al servizio dell’Essere» (Luciano Erba), paradossalmente proprio dell’Essere che vorrebbe negare. Turoldo è persuaso che dalla parola poetica possa generarsi quella stella polare necessaria a incoraggiare amore, fratellanza e solidarietà e ad alimentare «la più difficile delle virtù», la speranza. Ma per credere davvero nella speranza Egli stesso deve farsi una grande forza, visto che nella Chiesa stessa scorge qualcosa che non gli piace e che non accetta. Il silenzio, la morte e la speranza: tre vie, tre aperture turoldiane alla trascendenza. Rileggendo senza sosta la pagina biblica, Turoldo predilige un dialogo intimo con Dio d’immediatezza espressiva e di certa potenza simbolista: dialogo volentieri ipertestuale, cercato anche a costo di dover alzare la voce per far sentire le proprie salmodie per i poveri, gli esclusi, i vessati.
pace è scandalo e liberazione
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Questo emerge con chiarezza, direi, soprattutto dalla testimonianza di Turoldo come cristiano inquieto proteso verso l’impegno concretissimo per una concretissima utopia: la solidarietà quotidiana. Mi piace allora ricordare quei versi di Salmodia per il Cile che rendono l’idea di come il suo atteggiamento pacifista, scrivendo da poeta e sentendo da uomo tra gli uomini, sia tutt’altro che ingenuo: «Sventolano bandiere che sembrano fuoco, / avete il cuore rosso di fuoco, / e invece è solo vostro sangue». Tutto sembra ruotare attorno all’idea di pace. Che è liberazione solo in quanto infaticabile impegno di resistenza d’ispirazione evangelica per contrastare le «forze del disumano». La vocazione poetica turoldiana, lungi dall’ammiccare a sofismi o estetismi o atteggiamenti di maniera, è fatta principalmente di trasgressione, coraggio, scandalo, rottura, esercizio dello spirito critico. Per questo ci troviamo in linea con Maria Rosaria Gavina che di recente – commentando proprio sulle pagine di Rocca (n. 12, p. 61) un testo di Nicola Martelli (guarda caso uno studioso capitiniano) dedicato all’idea di futuro in Turoldo (2) – ha parlato di una mirabile unità 48
di passione e intelligenza. Tra scandalo e liberazione, la pace arriva a costituire l’anelito della parola e la grammatica di una poetica religiosa, o meglio socioreligiosa, intessuta di note etiche e che muove da un cristianesimo come nucleo originario, attraversa il cristianesimo come insieme di piste di ricerca personali per poi approdare a un cristianesimo arricchito, pieno, sempre nuovo e aperto a differenti accentuazioni semantiche e interpretative. Giuseppe Moscati
Note (1) Cfr. R. Salvi, Davide. La Parola e la comunicazione, Cittadella Editrice, Assisi 2006, rispettivamente p. 73 e p. 40. (2) Turoldo mutua da Rudolf Bultmann la distinzione tra l’avvenire, destinato a giungere senza spazi per l’azione umana, e il futuro appunto, che si apre alla volontà di cambiamento della storia.
per leggere Turoldo D.M. Turoldo, Amare, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2011. Id., Come i primi trovadori. «In amore di nostra donna», Ed. Servitium, Gorle (Bg) 2005. Id., Dialogo tra cielo e terra, a cura di E. Gandolfi, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000. Id., Diario dell’anima, prefaz. di G. Ravasi, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003. Id., Gridi e preghiere, Marietti, Genova 2004. Id., La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Mondadori, Milano 2004 Id., La sfida della pace, a cura di E. Gandolfi, Bellavite Editore, Missaglia (Lc) 2003. Id., Ritorniamo ai giorni del rischio. Maledetto colui che non spera [raccolta curata dall’autore], Ed. Servitium, Gorle (Bg) 2001. Id., Sul monte di luce [esercizi spirituali], Ed. Messaggero, Padova 2006. Id., Ultime poesie. Canti ultimi - Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano 1999.
su Turoldo M. Cardinali, La poetica teologica in David Maria Turoldo, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2002. D. Faitini, David Maria Turoldo. Ogni parola mi traversa come una spada, Ed. Ancora, Milano 2002. P. Zovatto, Il fenomeno Turoldo, Ed. Parnaso, Trieste 2004. R. Salvi, Davide. La Parola e la comunicazione, Cittadella Editrice, Assisi 2006. D. Santoro, Dimensione mistica in David Maria Turoldo, Ed. Arabeschi, Salerno 2006. N. Martelli, David Maria Turoldo. Il futuro è Dio, Ed. SMDR, Calciano (Mt) 2009. R. Salvi (a cura di), Una vita con gli amici. Il mondo delle amicizie di Turoldo [DVD], documentario Rai-Educational, Roma 2009.
DISEGNO VATICANO
al molo della basilica palladiana il patriarca Angelo Scola sollevava l’ostensorio d’oro nel segno della croce la notte del Redentore sul canale della Giudecca dando il via alle cascate arabesche dei fuochi su battelli ebbri di nudi, alcol, rock duri e baccanali, come quello del ferry leghista con Umberto Bossi capociurma per celebrare con un’altra peste la scampata peste nera del 1575. Quarantotto ore dopo gli scoppi pirotecnici veneziani Mario Cal, ex vicepresidente dell’Istituto S. Raffaele, si spaccava la testa con un colpo della sua Smith&Wesson nella cupola del San Raffaele di Milano.
patologia profonda Quello sparo suicida, nel tempio elevato da Don Verzè al Dio che guarisce («RafEl» in ebraico), è echeggiato anche nella cupola vaticana, facendo saltare la compatibilità tra il capitalismo ospedaliero globale del prete-imprenditore e l’etica economica che ispira la strategia della trasparenza dell’Ior di Ettore Gotti Tedeschi. I doppifondi di casseforti e tabernacoli, le voragini dei bilanci, fino al miliardo di debiti del San Raffaele, scaricati sulla «Provvidenza», le ragioni evangeliche del sanare gli infermi usate come pia maschera per l’avventurismo contabile hanno messo a nudo una patologia profonda del cattolicesimo, analoga per gravità a quella della pedofilia del clero. Lo stesso Don Verzé ha dovuto battersi il petto: «per garantire in futuro la continuità dello spirito e della missione originaria del San Raffaele» ha comunicato «bisogna basarsi su regole nuove, su una gestione efficiente, assicurare la necessaria discontinuità dal passato e dagli errori commessi».
esigenza di riordinamento e controllo A condurre la battaglia ambrosiana per la moralizzazione il Vaticano manda Scola,
un antico seguace di Comunione e Liberazione, forse il più autorevole, nell’area strategica del rapporto tra Chiesa e la destra al comando, la Lombardia di Roberto Formigoni. Nell’analisi condotta dalla cupola vaticana è emersa infatti una priorità: l’esigenza di riordinamento e controllo a Milano delle figure di potere in cui si articola il mondo cattolico: «Scola è il solo che potrebbe disciplinare la forza di Cl» ha spiegato un prelato, svelando una delle ragioni di una scelta che ha suscitato perplessità in alcuni settori della Chiesa. «Né l’arcivescovo Bruno Forte, assai stimato dal papa, né altri candidati avrebbero potuto affrontare con pari autorevolezza e facendosi ascoltare dai riguardati il richiamo all’ordine spirituale di Movimenti che, malgrado i loro meriti, sono andati esaurendosi nel prassismo politico. Se Scola, che li conosce, agirà, come speriamo, con buona coscienza, potrà sviluppare il compito per il quale Benedetto XVI lo ha mandato».
un polo cattolico organico della sanità Il Vaticano ha un disegno per l’Italia postberlusconiana. Passa per una riaggregazione della cultura politica e sociale dei cattolici. Ma anche per una fase empirica, il cui obiettivo a breve è la costituzione di un polo cattolico organico della sanità in Italia: il Vaticano ha già il controllo diretto del Bambin Gesù a Roma ed ora mira a portare sotto ali biancogialle le altre due maggiori istituzioni ospedaliere e universitarie del mondo cattolico italiano, il Policlinico Gemelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il San Raffaele di Milano, La rapida discesa in campo dell’Ior per affrontare concretamente la crisi finanziaria del San Raffaele, sarebbe giustificata da un ritorno politico-culturale di massimo interesse: il piano della Santa Sede sarebbe orientato a formare in Italia una potenza scientifica e sanitaria dotata della capacità di competere con le culture e i poli 49
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Giancarlo Zizola
sanità cattolica D
di interesse laici e di revitalizzare il welfare come risposta cattolica alla congiuntura economica avversa. Tanto più in un’ora come questa altamente incerta in cui la Chiesa trepida per la fragilità degli interventi dei cattolici, subisce con ansietà la potenza delle forze secolari, una volta ammesso che non bastano le leggi né la sola cultura cattolica a innalzare delle difese e influenzare delle pratiche reali ispirate ai «valori non negoziabili», in particolare sulle frontiere delle opzioni bioetiche. Lo stesso Policlinico Gemelli (col potenziale medico e scientifico di primo ospedale del Lazio, con oltre 100 mila ricoveri annui) dovrebbe inquadrarsi in questo disegno, con l’ annessa Facoltà di Medicina e il polo bioetico. Tra le Università che fanno capo alla galassia cattolica, quella fondata da Padre Agostino Gemelli non si è ancora fregiata del titolo di Università Pontificia, che ne farebbe un’istituzione di diritto pontificio. Alcuni settori del laicato cattolico paventano che le relative clausole canoniche sarebbero indubbiamente vincolanti anche sulla ricerca scientifica, più di quanto lo siano le categorie vigenti in un’istituzione universitaria autonoma nei suoi regolamenti e nella sua struttura dirigente, che fa capo all’Istituto Toniolo. Con l’arrivo di Scola a Milano a fine settembre, gli tocca di diritto la guida dell’Istituto, che è cabina di regìa e cassaforte della Cattolica, dove la presenza di forti Movimenti, in particolare Opus Dei e Cl, è significativa. Una commissione di dieci «saggi» voluta dal cardinale Bertone ha ricevuto il mandato di rifare lo statuto del Toniolo. Si annunciano nuovi equilibri all’interno della storica istituzione formatidello stesso Autore va dei cattolici italiani, tanto più in un’ora in cui la Segreteria di Stato sollecita la produzione di un nuovo ceto dirigente di catFEDI tolici da destinare alla direzione politica E POTERI del Paese. nella società
DISEGNO VATICANO
globale pp. 224 - i 25,00
una nuova strategia
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(vedi Indice L’insieme di queste mosse sembra indicain RoccaLibri re che la Chiesa prende atto che la Comwww.rocca.cittadella.org)
pagnia delle Opere, tradizionale braccio secolare di Cl, su cui in epoca ruiniana la Chiesa sembrava puntare per selezionare una élite politica cattolica, non solo non si sarebbe dimostrata all’altezza dello scopo sperato ma anche non sembra conoscere i richiedere a successi economici e politici del passato. Rocca - Cittadella Nella Chiesa italiana si è arrivati anche se 06081 Assisi tardivamente a capire che il compromese-mail
[email protected] so col berlusconismo non si è rivelato, in per i lettori di Rocca i 18,00 anziché i 25,00 spedizione compresa
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realtà, un buon affare, nemmeno dal punto di vista dei vantaggi materiali, non si dice di quelli in etica politica. «Il nostro azionista è sopra di noi e ha fatto in modo che la Santa Sede lavorasse per la mia Opera» ha dichiarato Don Verzé aprendo il consiglio di amministrazione della Fondazione Monte Tabor, la holding ai vertici del sistema San Raffaele. Per chi conosce in modo non superficiale la biografia del fondatore, è difficile rifiutare il dubbio che egli abbia preferito rimuovere in quel momento la sua storia di conflitti aperti con la Chiesa per salvaguardare il principio dell’autonomia della scienza medica dalle invasioni clericali. «Feudalizzare una scienza cattolica equivale a non produrre scienza» aveva detto Verzé nel 1957 a Padre Gemelli, opponendosi al progetto di ostentare l’etichetta cattolica sul Policlinico in cantiere. «L’epoca dell’apologetica, della contrapposizione fra Chiesa e società moderna deve considerarsi esaurita». Per la stessa ragione, il progetto del San Raffaele, sorto su criteri di larga apertura, accogliendo scienziati di ogni orientamento, aveva incontrato dure opposizioni dell’establishment gerarchico «L’Opera Monte Tabor servirà la Chiesa se non soggiacerà alla Chiesa» aveva detto in un libro intervista nel 1994 («Un’ala per guarire», edizioni San Paolo). «Servirà le pubbliche istituzioni, Stato, Regioni, Università, se non si asservirà a loro».
in dubbio autonomia culturale e aconfessionalità La domanda è se il salvataggio finanziario vaticano richiederà come contropartita, con il controllo delle maggioranze azionarie, la messa in questione dell’autonomia culturale e dell’aconfessionalità fondativa delle istituzioni pilastro del sapere scientifico dei cattolici italiani, secondo i principi della libertà e laicità della ricerca approvati dal Concilio Vaticano II. Difficile immaginare se l’ostensorio del Redentore per Scola possa trasformarsi nelle mani del nuovo arcivescovo di Milano nel veemente bastone pastorale che il pittore Paolo Consorti, nella sua collezione sulla «Ribellione dei Patroni» alla Biennale di Venezia (padiglione Italia) ha messo in mano a un furente Sant’Ambrogio affiancato dalla patrona di Palermo Santa Rosalia per colpire un politico malavitoso in doppiopetto e con la testa di maiale atterrato sotto i suoi piedi. Giancarlo Zizola
FATTI E SEGNI
le mammelle degli uomini
D
Lavoro – Non è il successo che dà valore al lavoro. Conta la serietà, il correggersi, la passione, la discussione, la coscienza dei limiti, l’antiretorica, la convinzione, l’interrogarsi sulle convinzioni. C’è qualcosa di tutto questo, nel lavoro che appare e in quello che resta sotto terra, come le radici, e come le patate. Se il lettore volesse reagire di più, aiuterebbe chi scrive. A volte siamo stanchi, poi la stanchezza passa, o si caccia, perché la realtà urge. La prima qualità di un lavoro serio non è l’altezza o la profondità (ben vengano), non è l’eccellenza, ma la costanza, la tenacia, il ricominciare ogni giorno, come fa la terra attorno al sole. Si può essere stanchi di incontrare sempre le solite avversità: la superficialità, la voce roboante della forza, la falsità al servizio dell’utile, il conformismo passivo, la corruzione delle parole, capovolte di significato. Ma rassegnarsi non si può. Mistero – Le religioni oscillano tra l’autocelebrazione (vedi gli aspetti contraddittori di papa Wojtyla semplificati nel culto della personalità e dell’istituzione) e la consapevolezza di dover vivere per il mondo umano; tra l’assolutizzare se stesse, e lo stare in relazione con le altre, e anche con la ragione irreligiosa. Oscillano tra il rispondere umilmente, con rispetto, al perenne bisogno di trascendenza dell’umanità, e l’impossessarsi di questo bisogno per farsene sgabello di potere spirituale. Poiché molti religiosi sono ben consapevoli di queste ambivalenze, si può sperare che nelle religioni l’amore istituzionale di sé si converta in un maggiore amore per la sete di valore e di vero che costituisce tutti gli esseri, per il mistero che trascende le religioni che lo indicano. Per lo più, quando sono umili e discrete, le religioni aiutano a vivere. Nato – Da alleanza difensiva, la Nato si è
trasformata nel 1999 in coalizione di potere geopolitico, usurpando fino ad oggi in Libia funzioni di agenzia dell’Onu, per di più esercitate in forme illegali. Kant: «Il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione». «La guerra è un male perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo». Privatismo – La politica è arte della convivenza, lavoro per tutti e non per sé, mestiere di altruisti, ma è stravolta dal privatismo feroce (altro che comunismo!) che aggredisce e rapina il bene comune, che sottrae i potenti alla legge uguale per tutti. Però la nausea sale. Si può ingannare molti molte volte, non tutti sempre. Se la tragedia della guerra fu necessaria per svegliarsi dal fascismo di allora, si può sperare che non occorra la tragedia per svegliarsi dal fascismo di oggi, anche se la tragedia è sempre alle porte quando la politica è abolita dal dominio. Si può sperare, si deve. Non è speranza quella che non agisce. Scrivere – Ti trovi sotto un’antenna, che raccoglie idee, parole di passaggio, immagini, e devi fermarle sulla carta perché occhi altrui possano trovarle, come un debito da restituire, perché non sono tue, diventano tue, restando non tue. Ne sei responsabile, devi passarle a chi avrà una simile antenna. Carta e penna (oggi mouse e web) sono la via della restituzione. Si dice che un libro, un articolo «esce», come esce il seminatore della parabola, in tutti e tre i sinottici, e semina idee, parole, immagini, qua e là, sui terreni più vari, secondo il caso. Come hai ricevuto, restituisci. Se qualcosa è vivo, e se trova terreno vivo, produrrà qualcosa. Diceva Confucio: «io tramando, non fabbrico». Spirito – Il sacerdozio antico, con Gesù Cristo, è diventato un organo atrofizzato, come le mammelle degli uomini. Chiedete al neonato di cercarvi la vita: morirà di fame. Ma il cattolicesimo storico ha ri-sacerdotalizzato i servizi ecclesiali, contraddicendo il Nuovo Testamento e la chiesa delle origini. La mammella materna, latte di vita e miele di dolcezza, è ormai lo Spirito di Dio, effuso in ogni dove, per chi ne accoglie la luce interiore. Universo – È una delusione nell’universo, l’uomo forte senza gentilezza. Così la donna bella senza grazia. ❑ 51
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Enrico Peyretti
emocrazia – «Il tempo della democrazia non è quello di un clic di un investitore sul computer» (François Baroin, ministro delle finanze francese, Le Monde, 7-8 agosto 2011). Generi – Ci sono due generi di uomini e di donne: quelli delle cose istituite, solo da gestire, e quelli del meglio da istituire. Quelli del fatto, e quelli del vero. Quelli seduti, e quelli che camminano.
TEOLOGIA
l’etica nell’era della globalizzazione
ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
Carlo Molari
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I
l cammino ecumenico sta percorrendo molte strade. Una delle più rilevanti è la ricerca di un’etica armonizzata, dato che spesso le chiese cristiane si trovano profondamente divise sulle scelte morali. D’altra parte è consapevolezza diffusa che l’attuale condizione umana esiga una profonda trasformazione, una vera conversione. Lo sviluppo scientifico e tecnologico sembra aver seccate le fonti della vita spirituale e aver impoverita l’umanità di quelle ricchezze interiori che alimentano la sapienza del cuore. Le domande che le nuove condizioni mondiali suscitano sono radicali, riguardano, infatti le stesse possibilità di vita. La tradizione sapienziale biblica può offrire nuove indicazioni di cammino? La convergenza delle diverse spiritualità fiorite nel vasto ambito dell’esperienza cristiana è in grado oggi di formulare parole significative? Sapranno le chiese cristiane, ispirandosi al Vangelo, trovare un linguaggio comune, ma soprattutto vivere l’esperienza di fedeltà in modo da tracciare sentieri nuovi? O forse è venuto il tempo nel quale solo la confluenza delle varie spiritualità mondiali può consentire una risposta globale? Nel qual caso una risposta comune dei cristiani è più urgente. L’aspetto più problematico e anche più fecondo è quello relativo al futuro dell’umanità, alle scelte necessarie perché la nostra specie possa continuare il suo cammino sulla terra. Sono scelte molto concrete che riguardano l’ambiente, la giustizia tra i popoli, la condivisione dei beni a disposizione, il disarmo, il commercio delle armi, la bioetica. Per queste sfide il Segretariato attività ecumeniche (Sae) ha inteso offrire stimoli di riflessione. In un percorso di due anni ha programmato un confronto tra i cristiani
italiani sui problemi dell’etica. Quest’anno il tema del confronto ha riguardato i fondamenti e i principi generali. I temi specifici saranno affrontati l’anno prossimo, mentre quest’anno è stata impostata la ricerca comune dei criteri. La tradizionale settimana di formazione ecumenica si è svolta a Chianciano dal 24 al 30 luglio. Il tema della sessione è stato riassunto con le parole di S. Paolo: «camminare in novità di vita» (Rom. 6,4). L’urgenza primaria emersa dai diversi interventi, dalle meditazioni ed esperienze liturgiche è stata la convinzione che la novità di vita è realmente possibile perché il Bene che alimenta l’amore umano ha risorse non ancora utilizzate, la Verità che sollecita la ricerca umana ha dimensioni non ancora scoperte, la Giustizia che ispira progetti umani di fraternità e di condivisione riserva sorprese impensabili. La ricerca comune dei cristiani è fondata sulla stessa fede in Dio e sullo sguardo fisso su Gesù. Non si tratta perciò di riflettere semplicemente su principi per dedurne le linee operative, ma di creare ambiti di esperienza per cogliere quali «novità di vita» la Spirito possa suscitare. È stato però rilevato che spesso il riferimento a Dio resta una componente esteriore e formale, non costituisce cioè un’esperienza vitale e non suscita efficaci modelli operativi. In questa prospettiva è apparsa la carenza delle esperienze cristiane, la mancanza di creatività, la chiusura di fronte alle sfide della società in cammino. In molte chiese la compromissione con il potere delle struttura politiche ed economiche ha impedito l’esercizi di una profezia efficace. Per offrire l’impostazione generale di un confronto può essere utile seguire alcune riflessioni proposte dal teologo Antonio Autiero, docente a Münster. Il tema da lui svolto è stato: «Il ritorno dell’etica nell’età della globalizzazione». Non riassumo la ricca relazione, ma riporto solo alcune riflessioni. Ha ricordato in primo luogo che nella storia si sono verificati numerosi ritorni dell’etica, ritorni che hanno introdotto modelli nuovi in risposta a nuove esigenze. Per semplificare Autiero ha presentato tre distinti processi dell’etica nella storia, o meglio «tre sfere di riferimento», intese come ambiti nei quali «diversi orientamenti di colore, di movimento, di linee si incrociano e creano delle immagini che riflettono sfaccettature differenti della realtà». Le chiama: la sfera dell’essere, la sfera dell’agire e la sfera dello ‘stare con’, del dimorare.
La prima grande sfera dell’etica è stabilita dall’essere delle cose. L’antichità ha colto le esigenze della vita morale proprio partendo dalla riflessione sull’essere e quindi sulla natura delle cose. La realtà è in tensione per diventare quello che corrisponde alla sua struttura: «in questa sfera di riferimento l’etica è una sorta di obbedienza del soggetto umano alla sua natura data». È stata questa la modalità che ha guidato numerose generazioni a elevati traguardi di perfezione morale. La fedeltà alla natura veniva considerata obbedienza alla volontà divina che si esprime concretamente nella legge naturale inscritta nelle creature secondo le loro diverse strutture operative. La creatura umana vi è coinvolta nella libertà attraverso l’intelligenza delle cose e la ricerca. C’è un fondo di verità in questa impostazione che però viene isterilita quando «l’etica viene mutuata dall’esterno, dalle leggi» quando cioè, «il diritto ispira la morale e il serbatoio di concretizzazione della sfera etica dell’uomo viene fatto coincidere con il supporto di carattere giuridico» (positivismo giuridico). La seconda sfera dell’etica riguarda l’armonia dell’agire. In questo piano l’etica risponde alla domanda sul senso dell’azione e cerca di formularne le regole. Si può agire infatti in modi molto diversi, ma non tutte le modalità sviluppano vita e fanno crescere le persone. Occorre individuare quindi quali sono le vie attraverso le quali il flusso di vita ci perviene. In questa ricerca si delineano due atteggiamenti diversi. Il primo si preoccupa della «piattaforma virtuosa dell’esistenza» «dell’ethos del soggetto» «della sua capacità di costruirselo in sintonia con gli altri soggetti e con le sfide che la storia pone loro» e tende a far fiorire «un sapere-saggezza ispirativa del senso della vita». Solo dopo si preoccupa di formulare regole del buon agire, «compie lo sforzo euristico di fondarle e di vagliarle» e sviluppa «la saggezza pratica di verificarle e di adattarle». Per altri invece questo ultimo aspetto è prioritario e l’etica si considera la «scienza regolativa degli atti da compiere», con il rischio di offrire un elenco di buone regole in vista del massimo possibile dell’utile ma perdendo di vista il senso ultimo dell’agire. Insistendo in questa dinamica, a lungo andare ci si «applica in maniera preferenziale alla soluzione dei problemi etici, mediante il ricorso ad una composta geometria delle buone regole». Ma si ri-
schia sempre più di perdere di vista il divenire reale delle persone nelle concrete situazioni della storia che esigono revisioni e adattamenti. Facile è la caduta nell’utilitarismo perché opera secondo l’utilità o l’interesse. La terza sfera dell’esercizio dell’etica riguarda lo «stare con», il dimorare. Il riferimento non è più solo la natura umana e i suoi processi, né solo le regole dell’agire, ma la sensibilità per il tutto, per la presenza delle altre creature insieme alle quali l’umanità è in cammino verso il proprio compimento. In questa prospettiva «la grandezza del soggetto morale non è quella di obbedire alle proceduralità a lui poste o imposte dalle leggi della natura e neppure più solo quella che lo rende interessato alla produzione possibile dell’utile per tutti. La grandezza del soggetto morale è data e segnata dalla sua capacità di individuare nelle modalità drammatiche in cui così spesso l’esistenza si pone, quelle possibilità di prendersi cura di sé e degli altri, di rendersi attenti e sensibili al bene comune». In questo orizzonte si sviluppa l’etica della responsabilità e della cura. I suoi frutti maturi possono essere indicati nel superamento dell’individualismo e nella capacità di comunicare senza pregiudizi in modo da far fiorire il consenso morale. «Esso non è il punto di partenza derivante da convinzioni indiscusse, perciò condivise», «non è dato a partire da principi fissati e norme imposte». «Il consenso non sta alle spalle, ma di fronte; non indietro ma davanti, non è la base, ma il vertice del discorso morale: è il risultato di un cammino da fare». Il prof. Autiero ha concluso osservando che «sulla via verso il consenso possibile, trova cittadinanza la diversità di vedute, l’espressione del dissenso, la stima per lo sguardo altrui sulle cose, sulla vita, sulle mete e sulle maniere di poterle perseguire». A tale scopo le chiese debbono essere consapevoli di aver «bisogno di un linguaggio e di una grammatica del pensare corale, del parlare ordinato, del discorrere sapiente». Queste acquisizioni sono assolutamente necessarie nell’attuale orizzonte planetario. Il futuro del cammino etico dell’umanità passa quindi attraverso l’interculturalità che implica un dialogo continuo, un’armonia di ideali, una fecondazione reciproca fra religioni e culture. Ad essa i cristiani dovrebbero contribuire con testimonianze armonizzate. È questo l’impegno che il Sae ha rinnovato quest’anno a Chianciano.
dello stesso Autore CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pp. 168 - i 20,00 (vedi Indice in RoccaLibri www.rocca.cittadella.org) per i lettori di Rocca i 15,00 anziché i 20,00 spedizione compresa
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ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
abitare insieme la terra
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
Lilia Sebastiani
discernere D iscrezione, discernimento, discreto... Strana famiglia di parole e di idee, famiglia di antica e illustre origine, ma un po’ imborghesita e svalutata. Almeno quanto a discrezione e discreto: discernimento, parola più specifica e quasi tecnica oggi tornata molto in uso, è stata finora più protetta proprio dal suo essere difficile. Dis-cernere significa vedere qualcosa con chiarezza attraverso un processo di separazione. Un po’ come distinguere; ma discernere accentua il carattere di processo, di lavoro che è proprio di questa operazione, in cui risplende tutta la nobiltà dell’intelligenza, della coscienza, illuminando proprio per questo anche il suo implicito tendere oltre.
lo Spirito, l’intelligenza, i segni
ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
L’oggetto del discernimento, ma anche la sua interiore ispirazione, il suo motore, è in sostanza la volontà di Dio: il suo disegno di salvezza che riguarda l’umanità e la singola persona. Ma spesso a un’idea e a un termine quale volontà di Dio si danno connotazioni devianti e involontariamente pagane, così come la Provvidenza diventa quasi il nome cristiano del Fato degli antichi: è un grave errore, è fuorviante e talvolta inconsapevolmente blasfemo chiamare senz’altro «volontà di Dio» le cose che ci capitano, e che possono essere del tutto casuali o frutto di ingiustizia. Questa idea sbagliata è in rapporto con un’immagine di Dio abbastanza perversa e pochissimo cristiana: il Dio che sa tutto e può tutto, che possiede tutti i dati relativi a tutte le persone del passato, del presente e del futuro (come un immenso computer in cui siano immagazzinati tutti i destini individuali e tutte le opzioni possibili) e che ha ‘previsto’ quanto dobbiamo fare e attende impassibile che lo facciamo o che non lo facciamo, riservandosi premi e punizioni. Il Dio dalla cui volontà deriverebbe tutto quanto ci capita... No, il male non è mai volontà di Dio. Quello che ci fa soffrire non è volontà di Dio; anche se è vero che, in costante dialogo con lo Spirito e l’intelligenza, quello che ci fa soffrire, pur non diventando mai buono in sé, può 54
essere trasformato nello strumento per un bene più grande. La volontà di Dio non è mai il male, ma è che possiamo vivere bene il male che ci capita. Non esiste un destino già scritto, così come non esiste una scelta ‘giusta’ nel senso di perfetta, determinata ab aeterno. Anche una soluzione imperfettissima può aiutarci a camminare verso Dio, anche i nostri errori possono concorrere a precisare la percezione della nostra chiamata. Il Dio in cui crediamo, il Dio di Gesù Cristo, è il Dio della vita, dell’Alleanza e della comunione – l’Alleanza è chiamata progressiva a vivere sempre più la comunione con Dio – è l’Amore che ci ha chiamato all’esistenza e che continua a chiamarci attraverso gli eventi e i segni che costellano la nostra vita, e ad assisterci e fortificarci per mezzo dello Spirito. Dai due Testamenti emerge una volontà particolare di Dio su ciascuno di noi, una ‘vocazione’ se preferiamo chiamarla così; ma per troppo tempo questa idea è stata recepita in modo individualistico. Nella Scrittura ogni vocazione individuale (di Abramo, di Mosè, dei profeti, dei discepoli-apostoli di Gesù…) è in vista del bene comune. La tradizione cristiana conosce quasi solo il discernimento personale, individuale: il tempo che viviamo richiede in modo sempre più urgente di esercitare e potenziare la dimensione comunitaria del discernimento, sia nel piccolo gruppo ben coeso sia in cerchie sempre più allargate. Del resto anche nel discernimento individuale (nel senso che si fa da soli) la persona è relazionata; anche nel discernimento realizzato con altri, il gruppo è formato da persone integre e differenziate. Discernimento significa mettersi in azione dello Spirito la cui voce risuona nel nostro interno; e non significa tanto l’atto di un momento e nemmeno di parecchi momenti , ma piuttosto un’opzione di fondo, uno stile di vita. Non sempre, anzi quasi mai, dinanzi a una scelta da compiere è possibile scorgere con geometrica chiarezza il bene di qua e il male di là. Se così fosse, il discernimento sarebbe facilissimo e spontaneo, anzi non sarebbe neppure discernimento, e la scelta da compiere potrebbe essere magari gravosa quanto all’esecuzione, ma non certo lacerante per
discrezione e Incarnazione Il significato classico della discrezione è sulla linea della giusta misura, del criterio, dell’agire che scaturisce da giusta riflessione, insomma il prodotto del discernimento. Il criterio classico della giusta misura (metriótes), e quello affine dell’aurea via di mezzo (mesótes) tanto amata da Orazio, si incontrano qui con l’ideale del discernimento: che è cristiano e sottintende il riferimento alla coscienza e allo Spirito. Amiamo in modo particolare gli accenni alla discrezione che si trovano nella Regola di san Benedetto, come quello sul lavoro quotidiano («... Se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino... Tutto però si svolga
con discrezione, in considerazione dei più deboli», cap. 48) o quello sulla scelta dell’abate («Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace; negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: ‘Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno’. Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli», cap.64). Qui senza dubbio è ormai abbastanza distante l’ideale classico del giusto mezzo, mentre è vicinissimo quello assai più autenticamente cristiano dell’attenzione alle persone singole, nelle loro diversità da cui scaturiscono diverse esigenze, della preoccupazione costante per i più deboli. È del resto un’idea ben familiare ai monaci più antichi, ai Padri del deserto che di ascesi se ne intendevano e ben conoscevano anche i rischi legati all’eccesso (non ultimo né irreale quello di morire di stenti; ma ancor più gravi e sempre in agguato quelli psicologici, come la tristezza spirituale che noi chiameremmo forse depressione, oppure l’esaltazione, la trionfalistica autosufficienza che può travestire da ‘amore di Dio’ il più complicato e perverso amore di sé). Come ci ricorda un detto semplice e inoppugnabile di abba Antonio: «Vi sono alcuni che logorano i propri corpi nell’ascesi ma, poiché mancano di discernimento, sono lontani da Dio». Sulla necessità della discrezione, frutto del discernimento illuminato dallo Spirito e anche dell’umana capacità di giudicare e distinguere, si soffermava anche Paolo, asceta e carismatico senza dubbio, ma altrettanto indubbiamente fornito di equilibrio pastorale, nella Lettera ai Romani: «Non sopravvalutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato» (Rm 12,3). Si può dunque considerare la discrezione come una particolare forma assunta dal discernimento. La discrezione è ancora, come nell’antichità classica, l’illuminata capacità di tenersi lontani dagli squilibri, dagli estremi, conquistando una propria misura che consenta di raggiungere l’equilibrio umano e spirituale. O, se vogliamo, l’armonia. Ecco, ci diventa indispensabile precisare il concetto di misura con quello di illuminazione, tra-
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la coscienza. Si possono ancora ritenere come principali indici di una scelta ben fatta e conforme alla volontà di Dio quelli che nel linguaggio tradizionale si chiamavano la consolazione e la desolazione. In termini più semplici: la scelta che ho in mente mi dà gioia e pace, speranza, desiderio di vivere e di fare? Oppure tristezza e senso di oppressione? Per diventare capaci di discernimento, nel senso forte cristiano che non è poi troppo diverso dal senso ‘integralmente umano’, occorre imparare progressivamente a discernere, senza manicheismi e senza colpevolizzazioni, nel mare magnum dei nostri sentimenti, pensieri, pulsioni, bisogni e suggestioni. Discernere, non condannare per principio, non reprimere (la repressione non libera e non risana: per lavorare sui nostri aspetti più opachi occorre in primo luogo il coraggio di guardarli, di accettarne l’esistenza). Non per sospetto previo nei confronti di quanto affiora spontaneamente in noi – anche se nella tradizione cristiana questa tendenza è molto presente – ma per un elementare bisogno di pulizia, di chiarezza; per non attribuire senz’altro a Dio ciò che è un prodotto della nostra psiche. E tuttavia anche questo non può venire assolutizzato. Dio infatti non ha altro modo di comunicare con noi se non attraverso il nostro vissuto; attraverso quanto affiora in noi quindi anche e primariamente attraverso emozioni e stati d’animo, desideri, insoddisfazioni e rimpianti (la stessa Parola di Dio a noi trasmessa nelle Scritture, se non entra nel nostro cuore, cioè nella nostra interiorità tutta intera, e non scuote il nostro cuore, è in effetti Parola che, pur rispettatissima a parole, non ci raggiunge). Vivere nello Spirito significa attenzione, discernimento, coraggio e fantasia.
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IL CONCRETO DELLO SPIRITO
sparente rimando all’opera dello Spirito, e correggere l’idea di equilibrio, positiva ma statica, in ‘armonia’, evocatrice di un infinito, di una bellezza in divenire, e anche – attraverso il collegamento sottinteso con il kòsmos, che è ordine e bellezza e si oppone al caos – con la logica di creazione. La discrezione è via indispensabile per acquisire la sapienza spirituale indispensabile appunto a chi vuol fare vita spirituale e aiutare altri in questo cammino. La sapienza spirituale sa proporzionare lo sforzo alle reali forze disponibili (del resto una santità raggiungibile solo a prezzo di sforzi titanici e rinnegamento delle proprie pulsioni, ben raramente scaturisce dall’ascolto autentico della voce dello Spirito) e non concepisce la vita spirituale in modo disincarnato ma, così come percepisce la vocazione spirituale della nostra creaturalità, della ‘carne’, così sa dare concretezza allo spirito, che non è un quid evanescente e inconsistente, anche se è inafferrabile.
strana sorte delle parole
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Anzi, la discrezione sa mantenere e avvalorare un collegamento costante fra la dimensione corporea e la dimensione spirituale (solo per ragioni di chiarezza si deve continuare a distinguere tra questi due aspetti dell’essere umano, ma guai a considerarli come ‘due cose’!), tanto che manifesta e riflette la logica dell’Incarnazione. In un senso diverso e assai più laico-politico, come sappiamo, la discrezione è esaltata nel pensiero di Francesco Guicciardini, che l’intende come capacità di discernere, caso per caso, quale sia l’agire più giusto (nel senso di più conveniente). Comunque la discrezione è inseparabile dal ragionamento, anche se la sua anima e la sua vitalità sono legate al discernimento spirituale. Le sue radici spirituali sono diventate sempre più evanescenti e un po’ alla volta il suo significato si è inclinato sempre più verso la riservatezza – prudente, talvolta anche diplomatica –, per cui oggi una persona ‘discreta’ è in primo luogo intesa come quella che parla poco. E questo, lo sappiamo, non è automaticamente un bene; anche se chi parla poco incorrerà probabilmente in minori guai e rischi di chi parla molto. Talvolta da un discernimento attento scaturisce non solo l’opportunità, ma l’obbligo di parlare. Obbligo morale ma anche – vorremmo dire, parlando tra cristiani che non ignorano la Scrittura – obbligo salvifico. Così pure l’ideale classico della ‘misura’, non disprezzabile e anzi sempre valido, quasi in modo sotterraneo è scaduto nella 56
nostra considerazione, e questo scadimento del significato, di solito non presente alla coscienza diffusa – tanto più in epoca di secolarizzazione –, viene testimoniata dall’uso linguistico. Perché infatti il latino mediocritas (che, riflettendo il greco mesótes, ha il significato buono di «giusta via di mezzo, distante da due estremi che non sono giusti») è all’origine dell’italiano ‘mediocrità’ che, nell’uso moderno, non esprime certo qualcosa di positivo? Perché il greco apàtheia, riferito all’ideale di comportamento del saggio stoico che non lascia offuscare dalle passioni la limpidità del pensiero e del comportamento, ha dato luogo alla parola italiana moderna ‘apatia’ che è assenza di reazione, di coinvolgimento, di sentimento, e fa pensare a una malattia grave e non certo alla libertà dello spirito? Non migliore la sorte di un aggettivo quale ‘discreto’, che sarebbe il participio passato di discernere e dovrebbe quindi indicare la migliore possibilità che si intravede in un certo contesto: non solo una cosa positiva, dunque, ma una possibilità cercata, conquistata, prescelta fra le opzioni aperte. Nel linguaggio corrente oggi indica una positività innegabile ma dichiaratamente limitata. Non privo di responsabilità il gergo scolastico, in cui il livello del discreto – corrispondente pressappoco alla valutazione di 7 decimi – si colloca tra il livello sufficiente e il livello buono Le ragioni da esplorare sarebbero molte, ma qui ne ricordiamo una sola: la novità cristiana, del resto in continuità con le varie tappe della rivelazione biblica tutta intera, non ignora affatto l’ideale della misura (pensiamo alla letteratura sapienziale); ma va anche oltre, molto oltre. Fino al punto che si potrebbe riconoscere nella storia della salvezza un grande sbilanciamento di Dio a favore dell’umanità, da cui scaturisce, per gli esseri umani che vogliono vivere alla presenza di Dio e compiere la sua volontà, l’appello ad assumere la stessa logica, la stessa ottica di Dio, quindi anche la dismisura nell’amore e nel perdono. Tutti abbiamo in mente le pagine dei vangeli da cui la dismisura emerge come l’unica ‘misura giusta’. Anche se la maggior parte delle persone, comprese quelle che si dichiarano cristiane, è lontanissima dal comprendere questo, e anche chi riesce ad averne un’intuizione a sprazzi riesce difficilmente a viverlo, questa logica avvivata dallo Spirito lavora forse nelle nostre profondità, malgrado tutti i nostri limiti. Lilia Sebastiani
CINEMA
R
obert H. Van Gulik (1910-1967), olandese, diplomatico di carriera, sinologo e orientalista per passione, come viene definito in quarta di copertina dei suoi innumerevoli, fortunati romanzi pubblicati in Italia da Garzanti, è il creatore dell’onorevole Dee, magistrato e detective. Per il suo personaggio, diventato popolare in tutto il mondo, si è ispirato a una figura realmente esistita, quella del giudice Ti, vissuto in epoca Tang, nel settimo secolo dopo Cristo. Oltre al nitore delle trame investigative, i fan apprezzano la lucidità e la pacatezza del protagonista, dotato di acutissime capacità deduttive non meno dei vari Dupin e Holmes, la precisione con cui vengono ricostruiti periodo storico e ambiente esotico, l’intrusione nella fabula di elementi fantastici e magari anche di qualche nota di sensualità (per inciso, van Gulik è autore di due trattati dai titoli molto espliciti, «Erotic Colour Prints of the Ming Period» e «Sexual Life in Ancient China», definiti dei classici dagli esegeti). Il nome dello scrittore non compare nei credits di Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma, ma è indubbio che il regista di Hong-Kong Tsui Hark e i suoi collaboratori, pur in presenza di notevoli varianti, abbiano avuto la stessa fonte di ispirazione. L’epoca è infatti la medesima, anzi, nell’incipit viene specificato l’anno, il 689 dopo Cristo, quando la dinastia Tang è al culmine della propria potenza. Dopo la morte dell’imperatore sta per salire al trono la vedova, Wu, prima donna nella storia del Paese ad accedere a tale carica (chi vuole approfondire può leggere la sua biografia scritta da Lin Yutang, che ne parla come della più gran-
Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma
de criminale della storia cinese dopo Mao). Per solennizzare l’evento dell’incoronazione Wu sta facendo costruire davanti al palazzo imperiale l’enorme statua di un Budda con le sue fattezze. Ma molti dignitari non vedono di buon occhio una donna sul trono. Oltretutto, qualcuno sospetta che Wu abbia fatto avvelenare il marito. C’è dunque chi trama nell’ombra, tutti diffidano di tutti. A complicare le cose, alcuni alti funzionari addetti alla costruzione del gigantesco idolo trovano una morte atroce, arsi da una fiamma che sembra svilupparsi all’interno del loro corpo. A questo punto, sfidando il parere contrario di Jing’er, la sua bellissima favorita, Wu fa liberare l’investigatore Dee, che in passato le aveva fatto la fronda e per questo da otto anni è ai lavori forzati, costretto a bruciare le pratiche e i memoriali prodotti dalla sterminata ed efficientissima macchina burocratica cinese. Dee si mette subito all’opera in compagnia di Jing’er, del suscettibile giovane ufficiale Pei e del Medico degli Spettri, specialista in magia nera. E immediatamente, insieme al suo gruppo, diventa bersaglio di una
nutrita serie di attentati… Dunque, Detective Dee… è almeno formalmente un giallo, con il suo corollario obbligato di misteriosi omicidi in serie e di un investigatore, sia pure con caratteristiche del tutto particolari, incaricato di risolvere il caso. Per qualche tempo lo spettatore è portato a pensare che all’origine dell’enigma ci sia una forza diabolicamente sovrumana, ma alla fine tutto viene riportato sul piano della razionalità, compresi quei cervi parlanti la cui voce si scopre in effetti provenire da un ventriloquo. Questo, beninteso, se si accetta la logica della contaminazione con un altro genere, il cosiddetto vuxiapian, al quale la cinematografia di Hong-Kong ci ha abituato da sempre. E che finisce per sovrapporsi alla vicenda di detection fino a soffocarla. Assistiamo infatti alla consueta serie di duelli in cui i protagonisti si librano roteando nell’aria, colpiscono con spade e lance e sono a loro volta colpiti come fossero indistruttibili, usano la frusta come un lazo, schivano miriadi di frecce e affrontano transformer pronti a moltiplicarsi come nei videogame evocati da Tre-
monti per spiegare la crisi finanziaria. Tsui Hark è un regista dotato di indubbio talento, muove la macchina con sapienza consumata, si compiace di angolazioni abbastanza inusuali e gioca su un montaggio veloce fino alla frenesia. Troppo poco, a nostro modesto ma fermo parere, per nascondere la sciatteria della sceneggiatura, troppo per non ingenerare noia dopo la terza o quarta reiterazione delle acrobazie gladiatorie (figurarsi all’ennesima: il film dura 123 minuti!). Uscendo dalla factory Huay Brothers, potentissimi tycoon hongkonghesi, Detective Dee… è una superproduzione, e come tale si fa apprezzare per lo sfarzo delle scenografie, in parte digitali, e le esplosioni di colore dei costumi; più in generale, per l’accurata anche se non sappiamo quanto filologica ricostruzione della Cina dell’epoca Tang, nella quale fa una curiosa intrusione, nella sequenza d’apertura, un generale romano che parla il latino della decadenza. Verso la fine degli anni ottanta avevamo pensato che Tsui Hark fosse uno dei registi più interessanti della sua generazione. Vedendolo ormai votato a un virtuosismo senz’anima, non fatichiamo a riconoscere di esserci sbagliati. Suscita infine qualche perplessità il fatto che Detective Dee... sia passato in concorso a Venezia 2010. Va bene che il festival sia ormai «aperto a tutti quanti», come cantava Don Giovanni, ma qualche volta si esagera. ❑ Errata corrige Nel numero 16/17 2011 nel sommario è comparsa la firma Giacomo Gambetti invece di Paolo Vecchi. Ci scusiamo con gli autori e i lettori. 57
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ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
Paolo Vecchi
RF&TV
TEATRO Roberto Carusi
Renzo Salvi
Un raffinato apologo
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rande scrittore del nostro Rinascimento, Niccolò Machiavelli fu da un lato lucido analizzatore teorico del potere politico e delle spregiudicate modalità che ogni principe attua per ottenerlo e conservarlo, dall’altro acuto osservatore del quotidiano costume. Perciò si può affermare che il suo capolavoro teatrale La mandragola (che trae il titolo dalla credenza che quell’erba avesse taumaturgiche capacità afrodisiache) è un apologo che ben sintetizza le machiavelliche osservazioni sui suoi contemporanei. La commedia – esemplare nella sua classicità (siamo in pieno Umanesimo) – è nondimeno divertente e coinvolgente nel dipingere quel mondo che due secoli prima aveva preso corpo nelle pagine amene del Boccaccio con il suo celeberrimo Decàmeron. Peraltro il fatto che – senza ipocrisie – Machiavelli denunci lo sfrenato individualismo e la disonesta fragilità delle istituzioni rende questa commedia di grande attualità anche per noi. Tale Ligurio (noi oggi lo diremmo un faccendiere) è il deus ex machina di tutto l’intrallazzo. Venuto a conoscenza del desiderio di Nicia – stolido leguleio – di avere un erede dalla sua florida e giovane sposa (ciò che pare impossibile per impotenza non meglio accertata), Ligurio offre a Callimaco, giovane che aspira a giacere con la signora, la possibilità di attuare il suo piano. Lascia credere infatti a quel gran dabbenuomo del marito che l’unico rimedio alla sterilità della sua sposa sia il somministrarle una pozione d’infuso della magi58
ca erba, con il rischio – avverte Ligurio – che chi per primo giacerà con lei vada incontro a morte sicura. Di qui l’esigenza – che l’astuto trafficone propone – di trovare un poveraccio che, a sua insaputa del possibile danno, accetti di giacere con madonna Lucrezia al posto del marito, la prima notte dopo il trattamento. Ovviamente nel piano escogitato il «poveraccio» – previo camuffamento – sarà Callimaco. Resta il problema di come si possa persuadere la renitente Lucrezia. A questo punto Ligurio porta avanti il suo piano sia privato sia pubblico, come si direbbe oggi. Sostrata (la compiacente madre della donna) e Fra Timoteo, suo confessore, la convinceranno. Soddisfatto Nicia nel suo ruolo di «cornuto e contento», appagato Callimaco dalla conquista che senza l’astuzia di Ligurio gli sarebbe stata impossibile, anche Lucrezia scopre la bellezza di ciò che fino ad ora le era stato ignoto. La nitida regìa di Claudio Beccari dà luogo ad uno spettacolo filologicamente corretto che attori e attrici conducono con convincenti interpretazioni. Tra le quali particolarmente riusciti risultano i duetti (che paiono anticipare la Commedia dell’Arte) tra Marco Balbi, nei panni di Nicia, e Claudio Moneta, in quelli di Ligurio. Godibile anche il tono ipocritamente ieratico che Gianni Quillico dà al suo Fra Timoteo. Rigorosi i costumi di Mariella Visalli, un poco cerebrale la scenografia di Guido Buganza: inutile orpello ad un testo che dimostra ancora la sua grande vitalità letteraria. ❑
Miracolo-spot
C
’è chi ripete Mosè che chiude le acque (di una piscina) e, innovando, ci si tuffa, chi delle parabole conosce le traiettorie di piede, chi opera il miracolo «ch’io veda!» sollevando il malcapitato sopra le teste d’una folla... Poi una pesca miracolosa (di palloni), uno stare in levitazione come si dice accadesse a San Gaspare del bufalo, un sorta di San Pupone (Totti) che – da statua – trasuda più che lacrimare e infine una sorta di comunione dal calice che sviluppa potenzialità ginnico-calcistiche in una vecchietta che nemmeno mia zia... Un caleidoscopio, insomma, e quasi un tritacarne di icone miracolistiche mutuate tra Testamento Antico e Vangelo, sino alla devozione popolare che nell’oggi affianca il post-moderno. Esplicita, nell’intenzione della campagna pubblicitaria di un’impresa tv che si trova «lì lì» per dirompere nel digitale terrestre, è la sovrapposizione del miracolo per convenzione religiosa col miracolo tecnologico – ora Hd, per alta definizione, e 3D, per tridimensionalità, tra poco – e col miracolo dell’offerta economica: lo sport in abbonamento su quegli schermi a «poco» prezzo. In realtà il livello tecnologico è ancora di incerta qualità reale, soprattutto il 3D, e sarebbe un evento davvero straordinario se in quest’annata sportiva, coincidente con un tempo economico di crisi vera, avvenisse lo sfondamento di ascolti da parte dell’offerta/sport – diciamolo – della Tv di Murdoch. Quei miracoli, insomma, si possono ragionevolmente revocare in dubbio. Ma in quei dintorni qualcosa di abbastanza particolare si sta verificando. In primo luogo è inatteso per
equilibrio e nervi saldi il commento che specchia (o dovrebbe) il parere della gerarchia ecclesiale italiana: in un testo del direttore di Avvenire, si è scelto di sottolineare «l’esercizio spericolato» sotteso tematicamente alla campagna «che finisce per ferire tanti e disturbare tantissimi». Annotazione quest’ultima decisamente vera in particolare per lo spot dove il gesto mimato è quello eucaristico. Proprio in nome di questa reazione moderata però ci si potrebbe spingere oltre: sino alla richiesta, rivolta ai «christian bar» d’un tempo (in oratori, centri parrocchiali...) di un gesto simbolico quale la rinuncia a quell’abbonamento di consumo sportivo. Senza alzare grida: con un atto testimoniale opportunamente comunicato. E imitabile per eventuale scelta. Su fronti prettamente televisivi, invece, non si può non rilevare il completarsi di un percorso che dal tempo della Tv d’origine pensata come orientamento ed educazione, e transitando per il tempo della pubblicità che mirava a vendere oggetti (e a indurre consumi) grazie ai programmi e per il tempo in cui la Tv ha prodotto programmi come «margine» di una pubblicità da acquisire, si è approdati ad una Tv prodotto essa stessa che si vende in abbonamento per generi o per eventi. È la Tv-come-merce: una svolta nella storia della televisione, maturata nell’alone quasi mistico in cui le merci sono l’equivalente universale dell’esistere; anche se, paradossalmente, al mito del mercatismo assoluto il mondo tv pare giungere in ritardo: nel tempo in cui il mercato crolla nelle sue certezze di Gran Regolatore dell’universo. ❑
SPETTACOLI
ARTE Mariano Apa
Alberto Pellegrino
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’equivalenza propone la persistenza della Testimonianza e informa la peculiarità del proprio stile. Paolo VI il 7 maggio 1964 incontra gli artisti per la proposta di mons. Ennio Francia con la associazione della «Messa dell’artista» e Benedetto XVI il 21 novembre del 2009 nella medesima Cappella Sistina ha rincontrato gli artisti, presentati ora da mons. Gianfranco Ravasi. Così Paolo VI nel suo nome, propiziò la mostra dedicata a «La vita di S. Paolo» – 8 ottobre 1977, la mostra era dedicata anche al tema: «Cristo morto e risorto» –, quale omaggio degli artisti al suo ottantesimo compleanno. Il 4 luglio, nell’Aula Paolo VI sessanta artisti introdotti da S. em. Ravasi, hanno reso omaggio al Santo Padre per i suoi sessanta anni di sacerdozio: «Lo splendore della Verità, la bellezza della Carità». Il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, S. Em. Ravasi, e mons. Pasquale Jacobone, hanno dato seguito all’«arrivederci» del 21 novembre nella Cappella Sistina, con cui Benedetto XVI ripeteva il saluto montiniano ai più dei trecento artisti giunti da tutto il mondo. Un insieme di lingue e di culture presenti anche in questa occasione in cui la valenza delle encicliche del magistero del Papa hanno informato la stragrande delle opere presenti nella felice intuizione che non ci si doveva fermare alla sintassi della pittura e scultura, ma coinvolgere le varie realtà espressive nel loro specifico e nella concentrazione della loro qualificazione che è personificata del volto dell’artista che lavora ed esprime. Aver coinvolto pittori e scultori con architetti e cineasti e poeti e musicisti ed altro, è stato dimostra-
re la accoglienza della nostra contemporaneità, che dalla cultura delle Avanguardie storiche e soprattutto dalla cultura delle Neoavanguardie, ha imposto la manipolazione linguistica del dato narrativo o astratto, di là dalla specificazione dell’amministrazione burocratica. Così lo spartito sublime di Arvo Part è apparso come un foglio grande vergato da Emilio Villa che esponeva con Burri e Capogrossi nei primi del decennio Cinquanta, e Portoghesi che dimostrava la catechesi di Benedetto XVI nella spiritualità della teologia liturgica di cui informa il magistero, attraverso il modello di una chiesa S. Benedetto da Norcia per un quartiere agreste dell’Agro Pontino a sud di Roma, e l’affascinante «Sorgente» di Mimmo Paladino è riuscito a reinventare nella freschezza della nostra contemporaneità, l’energia grunewaldiana – il pensiero corre a Vedova giovane e a Rainer anziano – e l’armonia giottesca dell’icona della liberazione del Cristo crocifisso, così come Giuseppe Ducrot ha presentato un volto di «San Gerolamo» che dimostra lo spartito patrologico ben vivo in ciascun inconscio d’artista. A conclusione del suo saluto Ravasi ha declamato una citazione che spiega la pluralità dei linguaggi e la ricchezza delle personalità invitate, di una efficacia davvero pertinente – da ricordare la «Sacrosanctum Concilium» –, una forma di «opera esposta» da ripetersi ad ogni visita di ciascun di noi – artista o non artista in mostra –: «(Sapienza, 19, 18) sono «note diverse suonate dalla stessa cetra: variano la specie del ritmo ma fluiscono sempre secondo la stessa tonalità e armonia». ❑
Sferisterio Opera Festival
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a 47a Stagione dello Sferisterio Opera Festival di Macerata, dedicata al tema «Libertà e destino», si è aperta con un Ballo in maschera, che Pier Luigi Pizzi ha collocato in un’America postkennedyana con interessanti soluzione tecnologiche come la proiezione su tre schermi televisivi di quanto accade sul palcoscenico, con suggestive citazioni stilistiche del cinema statunitense anni Cinquanta, realizzando due colpi di teatro, quando trasforma l’antro della negromante Ulrica in un talk show televisivo e quando tramuta l’ «orrido campo» dei supplizi in uno spazio urbano degradato e velato da miasmi notturni dove, tra una colonnina di benzina e cumuli di vecchi copertoni, si muovono prostitute, cupi figuri e tossicodipendenti. Quello che viene in parte sacrificato è il clima romantico di passione, tragedia e ironia di questo capolavoro verdiano. La seconda opera in cartellone è stato un bel Rigoletto interpretato da un cast di ottimo livello, con la regìa, scene e costumi firmati da Massimo Gasparon, che ha fatto ricorso a quattro ambienti ruotanti (un interno del Palazzo Ducale di Mantova; un esterno e un interno della casa di Rigoletto; la casa di Sparafucile). I personaggi sono stati visivamente divisi in due gruppi: da un lato la massa dei cortigiani con costumi rinascimentali, a sottolineare la loro condizione di annoiati servitori del potere; dall’altra i protagonisti con abiti ottocenteschi
e in mezzo Rigoletto che, sopra una impiegatizia redingote blu, ha indossato un costume di Pulcinella senza però condividere l’ironia del collega napoletano, perché egli è una tragica maschera di odio, vendetta e dolore. La terza opera è stata Così fan tutte di Mozart con la messa in scena di Pier Luigi che, per prendersi gioco dei giudizi moralistici del passato, ha evidenziato i legami erotici dei quattro amanti, la sensualità repressa delle due giovani, l’ambiguità e la fragilità dei loro sentimenti, il cinismo razionalista di Don Alfonso. Del resto Pizzi ha tenuto presente il titolo completo Così fan tutte o sia La scuola degli amanti che ricorda il Molière della Scuola delle mogli, sottolineando però che Da Ponte fa di quest’opera un originale e «antiborghese» gioco di società con citazioni massoniche e simbologie di riti iniziatici; un esempio di «pedagogia erotica» di tipo illuminista per educare gli uomini (meno le donne) a capire le virtù e le debolezze umane, a provare indulgenza per esse, a fare affidamento sulla Ragione per non diventare dei semplici giocattoli nelle mani di Eros. Pizzi, che ha costruito un perfetto «meccanismo a orologeria», ha collocato l’opera in una spiaggia su cui s’affaccia una bianchissima villa, dove si svolge un serrato gioco di apparizioni, fughe e convegni d’amore, sotto un’accecante luce mediterranea alternata ai toni azzurropastello della sera. ❑ 59
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Verità e carità
MUSICA
SITI INTERNET
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
La morte di Amy Winehouse
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a più bella voce femminile degli ultimi anni non ce l’ha fatta a tenere a bada i suoi fantasmi e si è spenta a Londra per il solito cocktail micidiale di alcol, droghe e farmaci, come prima di lei era accaduto a tantissimi artisti, ultimo Michael Jackson in ordine di tempo. La maledizione del numero ventisette, gli anni che la Winehouse aveva compiuto, ha dunque colpito ancora; ventisette anni avevano Jimi Hendrix e Janis Joplin, e prima di loro l’allora leader dei Rolling Stones Brian Jones, e il cantante- poeta-attore dei Doors, Jim Morrison, e ancora negli anno novanta Kurt Cobain, cantante e chitarrista dei Nirvana. Chissà se ventisette anni è il drastico limite di sopportazione di un fisico portato, come quello dei predecessori di questa lista assai triste, a sopportare quantità industriali di sostanze non propriamente benefiche. Solo i medici possono pronunciarsi in proposito, anche se noi supponiamo che un motivo, oltre i mostri della mente e dell’anima, debba esserci per queste morti così drammaticamente simili. Non ce l’aveva mai fatta Amy a convincersi a disintossicarsi veramente, nonostante i continui ricoveri in clinica (anche recentemente, dopo il flop del concerto nella capitale serba Belgrado, era uscita da un centro medico specifico), tanto da dichiararlo apertamente nella canzone di apertura del suo secondo e ultimo disco Back To Black, dell’ormai lontano ottobre 2006, intitolata per l’appunto Rehab. Tutti sapevano che era una cantante a rischio, dopo il rapido dimagrimento e decadimento fisico succeduto alla pubblicazione del disco d’esordio Frank, lei che era una ragazza dalla taglia forte e dall’apparente salute immarcescibile. In tanti si erano spesi per la sua tutela, perché Amy, anche se non era un monumento o un quadro, era lo stesso un grande bene culturale, in virtù di quella voce che rimandava in molti passaggi (e anche qui 60
c’è una sorta di maledizione annunciata), alla divina voce di Billie Holiday. Persino Mick Jagger, uno che con le droghe non si può dire che non abbia dimestichezza, aveva speso parole di entusiasmo per la cantante londinese, ma nel contempo estrema apprensione per le sue terribili abitudini autolesioniste. Al pari di Billie Holiday, Amy Winehouse non aveva una voce stentorea o altissima nelle ottave che prendeva, ma era bellissimo il timbro, il calore che metteva nelle sue interpretazioni, quel punto di autocompiacimento e di assoluta convinzione nelle proprie capacità interpretative e nelle proprie composizioni. Già, perché Amy cantava quello che scriveva, e quello che scriveva, soprattutto per quel che riguarda il primo disco, non era propriamente facile, non era pop di ascolto disinvolto, né musica usa e getta. La Winehouse scriveva pezzi sul versante del jazz e del rhythm’n’blues, che rendeva più appetibili con sapienti coloriture pop-rock. Probabilmente il suo disco migliore è proprio il primo, il già citato Frank, nonostante la Winehouse si sia sempre lamentata di una eccessiva intromissione della sua casa discografica nello svolgimento delle incisioni. In Frank si può apprezzare anche l’ottimo lavoro che Amy Winehouse ha svolto in studio con la chitarra in più di una canzone, pochi accordi sincopati e per niente semplici da suonare, presi con una disinvoltura degna di una strumentista di razza. Ma erano talune melodie irresistibili il cavallo di battaglia della Winehouse, anche se va detto che tutte le canzoni da lei scritte hanno un alto concentrato di armonia e di grazia, incredibilmente il contrario di quello che l’artista incarnava nella vita reale. Presentandola anni orsono ai lettori (v. Rocca n. 4/2008), avevamo speso parole di preoccupazione su questo gioiello della musica contemporanea: Amy se n’è andata, ma il pugno di canzoni che ha lasciato appartiene alle più esaltanti pagine rock. ❑
Grazie, Jobs
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’uscita di scena (per ora solo operativa), alla fine di agosto, di Steve Jobs, fondatore della Apple, è uno di quegli eventi che non possono passare sotto silenzio. Non tanto per i numeri – peraltro giganteschi: recentemente la Apple è diventata la prima azienda della Borsa di New York, superando colossi della tecnologia come Microsoft e Google e perfino il gigante del petrolio Exxon – e meno ancora per il culto di qualsivoglia personalità (e Jobs lo è). Il fatto, piuttosto, è che nell’azione e figura del carismatico leader di Apple si ravvisano i tratti salienti delle più interessanti storie (anche individuali) del mondo delle nuove tecnologie. È il 1976 quando due ragazzi, Steve Jobs e Steve Wozniak, fondano la Apple: supporto finanziario, la vendita del pulmino Volkswagen di Jobs; sede operativa e sociale, il garage dei genitori di Jobs. Partita praticamente dal nulla, la grande impresa del creatore di Apple (che tra l’altro, dopo alcuni anni, si vede costretto a lasciare l’azienda fondata, per rientrarvi più tardi) è fatta di due cose: la formidabile intuizione e la ferrea tenacia con cui questo maniaco del dettaglio ha saputo credere e scommettere nelle sue idee. Il primo merito oggettivo che Steve Jobs ha avuto e per il quale non possiamo non essergli tutti grati risale al 24 gennaio 1984 e si chiama Macintosh: è il primo personal computer compatto e con un sistema operativo a interfaccia grafica, con icone, finestre e menu a tendina, mouse... Tutto quello che è successo dopo e che ognuno di noi utilizza ogni giorno – visto che in gran parte siamo utenti Windows, dunque
Microsoft – sarebbe semplicemente impensabile senza la rivoluzione attuata da Steve Jobs con il suo computer dall’uso intuitivo, a tutti accessibile, senza l’impiego di quei complicati comandi a codice che i più anziani ancora ricordano (...quando si lavorava a suon di Dos e di «controlqualcosa»). Vengono poi il lettore portatile di file musicali (iPod, 2001), il telefonino multimediale con pulsanti a tocco sullo schermo (iPhone, 2007), e la creatura più recente, il cosiddetto «tablet», un computer leggero e lettore multimediale dalle molte funzioni, con tutti i comandi a tocco sullo schermo (iPad, 2010). Tre oggetti creati da Steve Jobs e oggi diffusi a ogni latitudine: mezzo miliardo di pezzi venduti in tutto il mondo. Il principale merito del fondatore della Apple è aver reso accessibile a tutti la più sofisticata tecnologia, alleggerendone al massimo i meccanismi d’uso. Il metodo? Puntare sempre dritto alla maggior funzionalità e alla più larga utilizzabilità, fidandosi della personale intuizione. Jobs, ad esempio, non credeva nei prodotti partoriti dai cosiddetti «focus group» e, quando credeva alla bontà di una sua intuizione, procedeva inflessibile alla sua realizzazione. Come accadde, ad esempio, quando presentò ai collaboratori il progetto del nuovo Macintosh e i suoi ingegneri gli replicarono con ben 38 motivi di irrealizzabilità. Jobs non sentì ragioni, volle andare avanti, e quando gli chiesero: «Ma perché?», la risposta fu: «Perché il capo sono io e sono convinto che si può fare». Secco ma efficace. Un vero leader dalle intuizioni azzeccate. Grazie, Jobs. ❑
Roberta Carlini L’economia del noi. L’Italia che non condivide Editori Laterza, Bari 2011, pp. 134 € 12,00. Chi avverte, nella dimensione economica, essere esigenza prioritaria un cambiamento radicale e strutturale del modo di produrre e di convivere, tale da ridimensionare la prevalenza del profitto individuale a vantaggio del bene e del benessere collettivo, trova in questo volume preziosi spunti per passare da una spesso inconcludente velleità ad azioni concrete. Queste possono prefigurarsi come piccoli passi, propiziatori di un’economia che, pur restando entro il mercato, cerca soluzioni ai problemi economici, soluzioni ispirate ai principi di reciprocità, solidarietà, socialità, valori ideali etici o religiosi. Nel volume le esperienze concrete sul campo prevalgono decisamente sulla teoria. Più che un saggio, dice l’Autrice, giornalista economica collaboratrice di varie testate nazionali, è un viaggio attraverso alcune delle realtà che tentano di tradurre questa esigenza nella realtà. Tali esperienze hanno alcuni tratti comuni: l’importanza delle relazioni tra le persone, le quali agiscono paritariamente, superando un’impostazione puramente «caritatevole» e di beneficenza; la ricorrenza della logica del dono su quella dello scambio; la tensione verso il bene comune. Entro questa cornice, le esperienze sono diversissime e numerose. Ci sono i Gruppi di acquisto solidale (Gas) che pongono i consumatori direttamente a contatto con i produttori, saltando gli intermediari, e che propugnano un modello di consumo come occasio-
ne di partecipazione. C’è Addio Pizzo, il primo caso in Italia di shopping antimafia. Nel settore del credito sono dettagliatamente presentate le attività della Banca Etica, nonché le iniziative ruotanti attorno al microcredito, ispirate al premio Nobel Yunus, in particolare quelle della comunità di base delle Piagge di Firenze. Interessante è anche il progetto «Prestiamoci», ossia prestiti tra persone che si incontrano nella rete. Numerose sono poi le iniziative nell’ambito della casa. Nell’Aquila del dopo terremoto sorge Eva, l’ecovillaggio autocostruito con tecniche di costruzione d’avanguardia. Ci sono poi le varie esperienze di cohousing (la messa in comune di alcuni spazi e servizi), a Milano (Bovisa), a Torino (Porta Palazzo) e in altre città italiane, nonché il movimento «Dar Casa» (utilizzo del patrimonio immobiliare inutilizzato) di Piero Basso, a Milano. Nel campo imprenditoriale sono presentate le comunità degli Hubber (Roma e Milano) «spazi di lavoro per chi vuole cambiare il mondo», che facendo leva sulla creatività tendono all’innovazione sociale entro uno spazio di lavoro collettivo. Notevole interesse l’Autrice dedica alla comunità dei Focolarini, che perseguono l’obiettivo di portare «la comunione dentro l’impresa», senza però cancellare il profitto, che per un terzo resta in azienda, un terzo va ai poveri e un terzo a progetti di cultura e formazione. Questa regola è accettata da 797 imprese nel mondo, 200 delle quali in Italia. Non mancano poi le cooperative sociali, molte delle quali nate nell’ambito del cattolicesimo montiniano. Il consorzio Gino Mattarelli comprende 800 delle 1200 cooperative italiane, che operano nel campo del welfare sussidiario (tra le inizia-
tive, laboratori odontoiatrici per curare i denti a basso prezzo). Originale e di drammatica attualità è la rete degli Unbrakfast, che ha il suo perno in un bar del centro di Milano. In essa i manager disoccupati mettono in comune le proprie conoscenze, sia per ricominciare con una nuova occasione di lavoro in un’azienda, o avviando un progetto indipendente. Infine merita ricordare anche l’esperienza di «Binario etico» (niente a che fare con le ferrovie) che si batte per un software libero e contro i copyright, onde mettere la conoscenza a disposizione di tutti. Il volume si rende ancor più utile e prezioso grazie alla ricca sitografia, contenente gli indirizzi elettronici e i siti web delle varie realtà citate nel volume.
Romolo Menighetti Danilo Dolci Dal trasmettere al comunicare Edizioni Sonda, Casale Monferrato (Al) 2011, pp. 296, € 18,00 Il sottotitolo di questo prezioso e intenso saggio di Danilo Dolci, pubblicato originariamente nel 1988, non lascia spazio a dubbio alcuno: non esiste comunicazione senza reciproco adattamento creativo. E di fatto il filo rosso che lega insieme le quattro parti che costituiscono il volume – dedicate rispettivamente alla struttura creativa, al virus del dominio, all’inesistenza della comunicazione di massa e ai nessi tra comunicare, creatività e conoscere – ha a che fare proprio con quell’energia coevolutiva che sola permette la comunicazione aperta tra un io che non vuole chiudersi nel proprio angusto involucro di certezze e autoconfer-
me e un tu aperto e autonomo nella sua capacità conoscitiva, decisionale, creativa ed emotiva. Andatevi a leggere quanto scrive nella sua Presentazione Daniele Novara in merito all’opposizione di Dolci alla vecchia pedagogia della cosiddetta risposta confermativa, sulla funzione generativa dell’apprendimento, sul potere liberante di una prospettiva pedagogica che accosta al coraggio della decostruzione degli stereotipi di una certa tradizione un altro fondamentale coraggio, quello della creazione di un’alternativa: alternativa di elaborazione teorica, ma anche alternativa di prassi educativa. Dietro Dolci mi pare di risentire i luoghi fondamentali della ricerca di Socrate, ed è forse inevitabile con quell’attenzione estrema al metodo maieutico, come pure alcuni passaggi del pensiero di Aldo Capitini, soprattutto quando leggo di un «mettere qualcosa in comune» (cfr. pp. 114-126) che di fatto è un valorizzare le aggiunte di ciascuno, nessuno escluso, gli ultimi degli ultimi compresi. O quando si fa sentire il grido di resistenza al sistema che schiaccia ed esclude, che non solo tende a omologare tutti e tutto e pretende di annullare ogni differenza, ogni dissidenza di pensiero e di azione, ma lo fa procedendo allo stesso tempo a una autogiustificazione perenne. Tutti siamo invece chiamati a far sentire il nostro no alla legge del pesce più grande, alla guerra e alle multiformi espressioni della violenza. Anche in virtù e anzi a partire dalla scelta di una pedagogia attiva e creativa che denuncia il virus del dominio e dello sfruttamento dell’altro per approdare a quella logica altra della coevoluzione creativa di cui anticipavamo.
Giuseppe Moscati 61
ROCCA 15 SETTEMBRE 2011
LIBRI
paesi in primo piano
Carlo Timio
Francia
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S
tato dell’Europa occidentale, la Francia è delimitata a sud-ovest dalla Spagna, a sud è bagnata dal Mar Mediterraneo, a est confina con l’Italia, la Svizzera, la Germania e il Lussemburgo, a nord-est con il Belgio e a nord e a ovest si affaccia sull’Oceano Atlantico. Fanno parte della Francia anche i territori d’oltremare, tra cui la Nuova Caledonia, Guadalupa, Riunione, la Guyana francese e la Polinesia francese, i quali, appartenendo al territorio francese, fanno parte dell’Unione europea e adottano l’euro come moneta. Dopo l’arrivo dei Galli celtici e successivamente dei romani, il territorio francese fu occupato dai Franchi e da altri gruppi germanici, finché Carlo Magno assunse il controllo del Sacro Romano Impero. Durante la guerra dei cent’anni (13371453) combattuta contro l’Inghilterra, emerse la figura di una giovane donna, Giovanna d’Arco, che all’età di diciassette anni guidò le truppe francesi contro l’esercito inglese, sconfiggendolo a Orléans nel 1429. Il primo re a creare lo Stato centralizzato fu Luigi XIV che salì al trono a cinque anni. Coinvolto nella guerra dei Sette anni e nella guerra d’indipendenza americana, nel Paese cominciarono a circolare idee democratiche radicali. Alla fine del 1780, contadini, borghesi, aristocratici, riformatori e reazionari cominciarono a manifestare contro il re Luigi XVI e contro l’altezzosa moglie Maria Antonietta. Nel 1789 fu invasa la prigione della Bastiglia, emblema del bieco dispotismo dell’ancien régime. Con la radicalizzazione degli scontri con-
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dotti dai giacobini guidati da Robespierre, Danton e Marat, venne istituita nel 1792 la Prima Repubblica, cui seguì un periodo di terrore. In questo marasma generale il «piccolo caporale» Napoleone Bonaparte nel 1799 assunse il potere. Dopo aver conquistato gran parte dell’Europa, nel 1812 la Francia subì una tale sconfitta da parte delle truppe russe che Napoleone fu costretto ad andare in esilio all’Isola d’Elba. Il suo ritorno al ruolo di imperatore durò solo cento giorni, prima che l’esercito francese venisse travolto a Waterloo nel 1815 dagli inglesi. La sconfitta subita da Napoleone non bastò a non riconoscergli il merito di aver apportato al suo Paese considerevoli cambiamenti, primo fra tutti l’introduzione del Codice civile, che tuttora costituisce il fulcro del sistema legale francese. Nel 1870 nacque la Terza Repubblica. La partecipazione alla prima guerra mondiale provocò perdite esorbitanti per il popolo francese. Ma anche la seconda guerra mondiale non fu da meno. La Francia capitolò nel 1940, poco dopo l’inizio del conflitto, e venne divisa in due parti; una parte fu occupata dai nazisti e l’altra passò sotto il controllo del governo collaborazionista di Vichy. Nel frattempo stava assumendo una posizione sempre più rilevante il generale Charles de Gaulle, il quale, costituito un governo in esilio a Londra, organizzò la resistenza contro le forze naziste, grazie all’aiuto del movimento «France libre». Il territorio francese fu liberato nel 1944. Formato un governo provvisorio, de Gaulle si dimise nel 1946,
prima che nascesse la Quarta Repubblica. Nel 1950 la Francia aderì alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio e nel 1957 divenne membro fondatore della Comunità economica europea. Nel frattempo il Paese dovette fare i conti con l’intensificazione di conflitti nelle terre d’oltremare. Da un lato la sconfitta da parte dell’esercito vietnamita portò alla dichiarazione di indipendenza di Ho Chi Minh nel 1954, e dall’altro il tentativo di repressione delle insurrezioni algerine, terminò con la concessione dell’indipendenza nel 1962. Quattro anni prima, de Gaulle tornò al potere, dando inizio alla Quinta Repubblica. Nel 1969 il generale dette le dimissioni. L’elezione del socialista François Mitterrand a capo dello Stato nel 1981 dette inizio a una fase politica contraddistinta da una coabitazione con i partiti di destra. Nel 1995 fu invece Jacques Chirac, leader del partito «Unione per la Repubblica» ad essere eletto presidente. Due anni dopo, nelle elezioni parlamentari anticipate, una coalizione di sinistra ottenne la maggioranza. Lionel Jospin divenne primo ministro e la Francia tornò alla coabitazione. Nelle presidenziali del 2007 ha ottenuto la vittoria il conservatore Nicolas Sarkozy. Popolazione: gli abitanti della Francia continentale sono quasi 63 milioni a cui si devono aggiungere altri due milioni e mezzo di abitanti che si trovano nelle terre d’oltremare. Il tasso demografico è uno dei più elevati d’Europa. La presenza di immigrati è massiccia (circa 7 milioni), rappresentando l’11 per cento della
rocca schede popolazione. La maggior parte degli stranieri proviene dall’Europa, dal Maghreb, dall’Africa subsahariana, dalla Cina, dalla Turchia e dall’ex Indocina. La religione predominante è quella cristiana cattolica, seguita da quella islamica, protestante e ebraica. Economia: stimata la quinta potenza economica mondiale, la Francia si è potuta sviluppare grazie alla creazione di grandi gruppi industriali nel settore produttivo e distributivo e all’ammodernamento degli apparati produttivi. Vanta una posizione leader sul fronte industriale, specificatamente nel comparto meccanico, elettronico, automobilistico, aeronautico, farmaceutico, enogastronomico e della moda. Di notevole spessore l’industria nucleare che occupa il secondo posto al mondo, fornendo l’80 per cento del fabbisogno nazionale. Le energie rinnovabili (solare, eolico e geotermico) occupano più dell’11 per cento del totale. Nel settore agricolo la Francia detiene svariati record: primo produttore agricolo in Europa, secondo produttore europeo per il latte e secondo a livello mondiale per il vino. Il terzo settore è quello che produce i due terzi del Pil e si sviluppa nel comparto dei trasporti, delle telecomunicazioni, del commercio, ma soprattutto del turismo, di cui la Francia occupa il quarto posto per attratività di visitatori. Situazione politica e relazioni internazionali: in conseguenza delle rivolte scoppiate nel mondo arabo, la Francia, alle prese con l’intervento militare in Libia, lancia una nuova politica, aprendo ai paesi che intraprendono le riforme e cercando un dialogo con le correnti islamiche moderate. Si ripropone anche come apripista europeo per il rilancio dell’Unione per il Mediterraneo. ❑
Fraternità
raccontare proporre chiedere
Haiti: qualche spiraglio...
riorganizzazione di un’agricoltura che è stata florida e in attivo nell’esportazione, ma che oggi non riesce nemmeno a soddisfare le necessità alimentari interne» riconosce il nuovo presidente, che, sempre sul fronte interno, sollecita il ritiro dall’isola – a partire dal 2012 – dei dodici mila Caschi Blu Onu. E per la gente comune, nella sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sono sempre prioritarie le precarietà relative a casa/lavoro/salute perché si parla (dati di fine agosto 2011) di ancora 600 mila persone attendate, di una ricostruzione – che sarebbe occasione di occupazione per molti – che non c’è ancora o va a rilento, di ripresa del contagio colerico in conseguenza delle pessime condizioni igieniche di base, delle intense piogge estive e della mancata rimozione dei rifiuti... Ce ne hanno riferito ampiamente
alcune persone, che da molti anni seguono l’attività missionaria ad Haiti delle suore Salesiane ed in particolare di suor Anna, e che nello scorso mese di agosto sono tornate a Portau-Prince, nel quartiere Cité Militaire. Hanno incontrato una suor Anna molto stanca e provata dall’ulteriore ed incessante impegno di forze con cui ha dovuto far fronte alle tante e complesse emergenze nate dal disastro del terremoto e del colera, ma sempre attenta alle necessità delle «sue» allieve, delle loro famiglie e della gente del quartiere. Fraternità ha avuto conferma degli avanzamenti dei lavori in quel grande cantiere che è la Scuola Salesiana nella Cité Militaire: sono attivi i servizi igienici, nuovi e funzionali; il pozzo artesiano realizzato per dare acqua a questi servizi ha una portata tale da rifornire anche la cucina; si progetta di potabilizzarne l’ac-
Luigina Morsolin Per sostenere il presente Progetto Haiti e/o il Progetto Burundi tutt’ora aperto, si possono inviare contributi con assegni bancari, vaglia postali o tramite il ccp10635068 – Coordinate:Codice IBAN: IT76J 0103 0000 0001 0635068 intestato a «Pro Civitate Christiana – Fraternità – Assisi». Per comunicazioni, indirizzo email:
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ROCCA 1 OTTOBRE 2011
A
fine maggio, in una breve lettera Suor Anna D’Angela scriveva a Fraternità «Qui stiamo vivendo un momentino di maggior speranza per il miglioramento del Paese, con il nuovo presidente [Michel Martelly, ufficialmente incaricato il 14 maggio 2011, dopo la convalida del ballottaggio tenutosi a marzo] che sembra animato da buoni sentimenti e determinato a diminuire la grande povertà di questo popolo». Martelly, cantante di professione, notissimo tra gli haitiani come «Sweet Mickey», benché privo di esperienze di governo si è presentato con una campagna elettorale improntata alla lotta alla povertà ed alla ricostruzione del Paese ed ha convinto l’elettorato. «Haiti è da costruire ex novo: dalle infrastrutture distrutte dal terremoto (strade, scuole, ospedali, acquedotti) alla
qua e di portarla con una condotta anche all’esterno del complesso scolastico per gli usi domestici del quartiere; è pronta la ricostruita aula di informatica (cfr foto) pavimentata e tinteggiata e sta per essere ultimato l’impianto a pannelli solari che alimenterà i computer, mentre a tutt’oggi bisogna provvedere al restante arredo scolastico di banchi, sedie, armadi. A Fraternità, dopo che aveva provveduto ad inviare i 10.500 dollari raccolti per contribuire alla costruzione dei servizi igienici, sono continuate a pervenire diverse offerte in favore del Progetto Haiti post/terremoto, per un ammontare complessivo di euro 3.050. Raggiungendo la somma di euro 4.000, amici di Fraternità, si potrebbe sostenere l’acquisto di alcuni arredi dell’aula di informatica, che già abbiamo concorso a dotare dei pannelli solari. Che ne dite?
indice delle sezioni L’amore, attimi e storie Conflitti, distanze e anche pace Autonomia e formule del legame Tradimenti, gelosi, perdono Accogliere e nutrire il piacere I figli, gli amici, il tempo Idee e strumenti per durare pagg. 264
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è in corso di stampa il volume che raccoglie gli articoli pubblicati su Rocca