-De providentia Seneca
dal mondo classico
ECHI
ECHI dal mondo classico
Seneca
La provvidenza
a cura di Ermanno Malaspina Testo italiano
ISBN 978-88-494-1697-8-C
Testo latino
a cura di Ermanno Malaspina
e dal mondo classico providentia
ECHI D
Seneca
ECHI dal mondo classico Volume 3 + De providentia (2 elementi indivisibili)
ECHI_volumetti_allegati_Provvidenza 30/11/11 14:51 Pagina 2
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29-12-2011
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Pagina II
Indice Introduzione all’opera - Il De providentia Seneca e il “dialogo”
5
Datazione e titolo
7
Il male e la provvidenza di dio secondo gli Stoici
9
La struttura del De providentia
13
Le fonti
14
PER APPROFONDIRE Providentia: il termine e il concetto
17
Lingua e stile
18
La storia del testo
19
Proemio (Prov. 1, 1-6)
21
Paragrafo 1, 1
Definizione del tema
Paragrafi 1, 2-4
L’ordine dell’Universo dimostra la provvidenzialità di Dio CONFRONTI La spiegazione “scientifica” dell’origine dei fulmini Stretta interconnessione tra il sapiente e Dio
Paragrafi 1, 5-6
Narrazione (Prov. 2, 1-12) Le avversità non sono mali, ma mettono alla prova la virtù CONFRONTI Ciò che è “esterno” e “interno” all’uomo (secondo Epitteto)
Paragrafi 2, 1-2
21 22 26 26 28 28 30
Paragrafi 2, 3-4
«La virtù senza avversario marcisce»
30
Paragrafi 2, 5-6
Diverso comportamento di padri e madri verso i figli
32
Paragrafi 2, 7-8
Il piacere di osservare chi è alle prese con le avversità
34
Paragrafi 2, 9-10
Prosopopea di Catone
35
Paragrafi 2, 11-12
Riflessioni sul suicidio di Catone
38
Le avversità sono a vantaggio di chi le subisce (Prov. 3, 1 - 4, 16)
40
Paragrafo 3, 1
Propositio e divisio
40
Paragrafi 3, 2-3
La prima confirmatio: un detto di Demetrio
41
Una carrellata di esempi
44
Paragrafi 3, 4-6
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3
Rutilio contro Silla CONFRONTI Un’altra descrizione delle efferatezze di Silla in Seneca
49
Paragrafi 3, 9-11
Atilio Regolo contro Mecenate
50
Paragrafi 3, 12-14
Socrate, Catone e lo sprezzo della morte PER APPROFONDIRE Marco Porcio Catone l’Uticense
52 55
Paragrafi 4, 1-3
Chi non ha mai subìto avversità non ha mai messo alla prova la sua virtù
56
Paragrafi 4, 4-6
Non si può giudicare la virtù di chi non è stato mai messo alla prova PER APPROFONDIRE Il “mirmillone”
58 60
Le avversità sono più difficili da sopportare per chi non è abituato
61
Paragrafi 4, 9-10
I rischi della vita comoda
62
Paragrafi 4, 11-13
Le avversità come un esercizio
64
L’esempio delle popolazioni barbariche
66
Paragrafi 3, 7-8
Paragrafi 4, 7-8
Paragrafi 4, 14-16
46
PER APPROFONDIRE La geografia deterministica
degli antichi
Le avversità, iscritte nei piani di dio, sono a beneficio di tutti (Prov. 5, 1-12) Paragrafi 5, 1-2 Paragrafi 5, 3-5
68
69
I beni di questa terra non sono veri beni per il sapiente
69
Demetrio è pronto a offrire se stesso e i figli al Fato
70
PER APPROFONDIRE Che valore hanno dolori e lutti
di chi non è bonus vir?
73
Paragrafi 5, 6-9
Il fato è immutabile
73
Paragrafi 5, 10-11
L’esempio di Fetonte
76
Chi possiede la virtù non è sventurato (Prov. 6, 1-9)
78
Paragrafi 6, 1-2
Le avversità non sono mali, ma prove per la virtù
78
Paragrafi 6, 3-5
La prosopopea di dio: i beni dati agli uomini
80
Il suicidio, ultima via di libertà
82
Paragrafi 6, 6-9
PER APPROFONDIRE Il bonus vir, così superiore a dio
(e alla donna) da essere indifferente alla sofferenza dei bambini 86
Strumenti 4
Indicazioni bibliografiche e sitografiche
87
Glossario dei termini tecnici
89
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Introduzione all’opera
Il De providentia Il De providentia1, dedicato a Gaio Lucilio Iuniore, è un breve trattato di argomento filosofico che ci è pervenuto come primo nella raccolta di nove opuscoli comunemente nota come Dialogi, opera di Lucio Anneo Seneca (?-65 d.C.). Fanno parte della raccolta De providentia, De constantia sapientis, De ira, Consolatio ad Marciam, De vita beata, De otio (mutilo), De tranquillitate animi, De brevitate vitae, Consolatio ad Polybium e Consolatio ad Helviam matrem. Questi testi, per un totale di dodici libri (il De ira, infatti, è diviso in tre libri), sono di vario argomento, di vario genere e di varia – e spesso molto dibattuta – cronologia2, il che rende legittimo considerare ciascuno di essi più come un’opera a sé stante che come parte organica del complesso dei Dialogi. Prima di esaminare il De providentia, tuttavia, è importante capire che cosa si intenda per dialogus in Seneca.
Seneca e il dialogo LA TRADIZIONE LETTERARIA DEL DIALOGO FILOSOFICO Rispetto ai modelli classici del dialogo filosofico, sui quali si è conformata la letteratura europea (basti pensare a Baldesar Castiglione o a Galileo Galilei), cioè Platone e – in misura minore – Cicerone, i Dialogi di Seneca e il De providentia in particolare sembrano privi dell’ingrediente principale, cioè la presenza di più voci parlanti, che si susseguono in un “botta e risposta”, ora con frasi brevi e concitate, ora con sezioni più distese e argomentative. Dei Dialogi, invece, il protagonista solitario è Seneca e vi manca in più la cosiddetta “cornice drammatica”, ovvero la presentazione introduttiva del luogo e del tempo in cui il dialogo si sarebbe svolto e anche dei personaggi che vi avrebbero preso parte, presentazione affidata di solito a uno di essi oppure a una voce “fuori campo”, un narratore esterno. Eppure, il titolo Dialogi ci è conservato non solo dal manoscritto di gran lunga più autorevole 1 Per la questione del titolo cfr. pag. 8. 2 La cronologia dei testi non corrisponde all’ordine con cui sono stati tramandati e che è quello con cui li abbiamo qui presentati: la Consolatio ad Marciam, ad esempio, essendo stata scritta sotto Caligola (37-41 d.C.), è sicuramente il testo più antico non solo dei Dialogi, ma di tutte le opere di Seneca giunte sino a noi. Eppure essa è conservata come quarta dei Dialogi (e sesta nella numerazione dei singoli libri). ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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che ce li abbia tramandati, dell’XI secolo3, ma anche dal retore Quintiliano, che, dedicando a Seneca un famoso capitolo della sua Institutio oratoria (X, 1, 128-129), dice di lui: tractavit etiam omnem fere studiorum materiam: nam et orationes eius et poëmata et epistulae et dialogi feruntur («sono tramandati, circolano sotto il suo nome»).
CARATTERI DEL DIALOGO SENECANO Si deve quindi concludere che, essendo autentico il titolo Dialogi, la natura del dialogo senecano deve essere cercata in qualcosa di diverso dalla concezione tradizionale del termine. In questo, il De providentia ci aiuta sin dalle prime battute, perché si apre alludendo a una domanda (quaesisti a me) che Lucilio, il dedicatario, avrebbe formulato e da cui sarebbe nata l’occasione stessa del trattato. Seneca, quindi, inserisce letterariamente l’argomento del De providentia come in un flusso di domande e risposte tra maestro (Seneca) e discepolo (Lucilio), che si deve immaginare vivace e continuo, prima e anche dopo la sezione immortalata nel trattato. In questo senso, nel “dialogo” filosofico che tra i due durò numerosi anni, il De providentia rappresenta una parte, cioè la lunga risposta di Seneca alla pressante domanda dell’amico.
LA DIÀTRIBA Inoltre, più in generale, tutti i Dialogi senecani sono strutturati al loro interno in modo tale da occultare la forma del monologo, ritenuta evidentemente più piatta e noiosa. In questo, Seneca si inserisce nella tradizione della cosiddetta “diàtriba stoico-cinica”4, un genere di divulgazione popolare della filosofia, che in greco aveva cercato di rendere accattivante l’esposizione di tematiche complesse (che implicano di solito uno stile argomentativo posato, sistematico e lineare) attraverso il ricorso retorico a numerose figure di pensiero che assicuravano varietà, vivacità e coinvolgimento del lettore sotto l’apparenza della comunicazione dialogica. Tra questi espedienti, ricordiamo come espressamente senecani la creazione di un interlocutore immaginario, che pone domande, spesso polemiche, e a cui Seneca si rivolge in seconda persona; il frequente ricorso a domande retoriche; l’inserzione di prosopopee*, in cui prendono la parola personaggi storici o immaginari5.
3 Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 90 inf. (* pag. 19). 4 Gli scritti in greco di due filosofi stoici posteriori di poco a Seneca, Epittèto, schiavo affrancato vissuto sino al regno di Domiziano, e Musonio Rufo, ci sono pervenuti proprio con il titolo di Diatriba¤ (Diatribái, «Conversazioni») ed è probabile che il senecano Dialogi vada inteso più come corrispettivo di questo termine che non del platonico diãlogo" (diálogos). 5 Il finale del De providentia è occupato da una lunga prosopopea di Dio stesso (6, 3-9). 6
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Datazione e titolo MANCANZA DI INDIZI CRONOLOGICI Sono numerose le opere di Seneca (e in particolare alcuni Dialogi) la cui datazione è assai discussa e spesso impossibile da determinare (è il caso delle Tragedie). Per il De providentia mancano elementi interni al testo (come allusioni, richiami storici ecc.), al di là del terminus post quem dato dalla morte di Tiberio (37 d.C.), citato al par. 4, 4, mentre il terminus ante quem è costituito dalla morte di Seneca stesso. D’altra parte, anche le informazioni che abbiamo sulla vita di Seneca e che provengono da altre fonti non citano il nostro trattato e non sono quindi d’aiuto, così che la datazione si può basare in ultima analisi solo su considerazioni di buon senso dedotte dal quadro generale della vita di Seneca e dalla sua produzione letteraria. DUE IPOTESI DI DATAZIONE L’argomento stesso del dialogo sembrerebbe riportare a un momento di crisi, personale e politica, dell’autore, quando cioè gli dovevano parere molto gravi da sopportare gli incommoda che capitano al bonus vir senza sue colpe6. Gli studiosi si sono così divisi un due gruppi: il primo, meno numeroso, suppone che il De providentia sia stato composto durante i lunghi anni dell’esilio in Corsica (41-48 d.C.), forse verso la fine; i più, invece, individuano il “periodo nero” della composizione negli ultimi anni di vita (62-65 d.C.), quando Seneca, ormai escluso dal potere e deluso dall’insuccesso di tutta la sua condotta politica, si dedicò a un’intensissima attività letteraria (i cui frutti più noti e voluminosi giunti sino a noi sono le Lettere a Lucilio e il De beneficiis), sempre con il timore latente di una vendetta da parte dell’imperatore, che infatti giunse nel 65, grazie al pretesto della cosiddetta “congiura dei Pisoni” (un complotto organizzato da Gaio Calpurnio Pisone per uccidere Nerone e soffocato nel sangue poco prima che si passasse all’azione). UN’OPERA DEGLI ULTIMI ANNI DI VITA? La datazione all’esilio in Corsica avrebbe dalla sua il fatto che una risposta così parziale e insoddisfacente al problema del Male nel mondo, quale è quella che leggiamo nel De providentia, non sembra poter essere stata formulata nello stesso arco di tempo in cui Seneca scriveva, con ben altra intensità e profondità, le Lettere a Lucilio. Ma questa considerazio6 È stato però fatto notare, giustamente, che il trattato non ha il tono di una consolazione, tanto meno rivolta a se stesso (la differenza con la Consolatio ad Helviam è in questo senso evidente), ma piuttosto quello di un protrettico, di un’esortazione coraggiosa e piena di fiducia nel ruolo della Provvidenza, scritta da chi proclama di voler addirittura causam deorum agere (1, 1). Ciò indebolisce l’argomentazione che vorrebbe collegare il De providentia a un momento di crisi. ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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ne di gusto s’infrange contro motivazioni di maggior peso, a favore della datazione al 62-65 d.C. L’allusione, infatti, alla presenza di Seneca a una lezione del cinico Demetrio, definita recens (par. 3, 3), rende improbabile la datazione durante l’esilio. Inoltre, la scelta di Lucilio come dedicatario è tipica delle opere tarde (al medesimo sono infatti dedicate anche le Naturales quaestiones e le Epistulae morales). Ancor di più, la menzione iniziale di un opus di dimensioni maggiori sulla giustizia divina, da cui l’argomento del dialogo è estratto come particula (1, 1), sembra rinviare a un’opera perduta, i Moralis philosophiae libri, composti anch’essi negli ultimi anni di vita.
IL DEDICATARIO, GAIO LUCILIO IUNIORE Seneca dedicò anche quest’opera maggiore a Gaio Lucilio Iuniore, la cui vita ci è nota solo dalle opere del filosofo: nato in Campania da famiglia modesta, seppe salire i gradini della scala sociale, sino a entrare nell’ordine degli equites, e governò la Sicilia nel 63-64 d.C. come procuratore imperiale (secondo Epist. 31, 9 ebbe anche altri incarichi di governo, ma non sappiamo quali). Di una decina di anni più giovane di Seneca, interessato alla letteratura, alla filosofia e anche alla scienza7, mostrò forse all’inizio simpatie per l’epicureismo, per poi convertirsi pienamente allo stoicismo: all’epoca del De providentia egli risulta appartenere saldamente alla scuola, pur non avendo ancora compreso il senso più recondito di alcuni dogmi (cfr. Prov. 1, 6: tu non dubitas de providentia, sed querĕris).
LA QUESTIONE DEL TITOLO Il titolo De providentia, con il quale il dialogo è comunemente nominato e che, per comodità e tradizione scolastica, viene utilizzato anche in questo testo, è solo una convenzione moderna: i manoscritti, infatti, al posto di questa breve sigla presentano una più complessa interrogativa indiretta, che nella versione del codice più autorevole suona Quare aliqua incommoda bonis viris accidant, cum providentia sit 8. Che il titolo non fosse De provi7 Tanto che in Epist. 79, 2 Seneca gli chiede persino di scalare l’Etna per compiere alcune osservazioni scientifiche in sua vece; poiché gli antichi non avevano ancora sviluppato alcuna passione per l’alpinismo e per il trekking, un’impresa di questo tipo doveva sembrare molto più sgradevole di quanto non sembri adesso. 8 «Perché agli uomini buoni accadano (lo stesso) delle sciagure, visto che la Provvidenza esiste». Manoscritti più tardi dimostrano che la formula De providentia si era intanto affermata, trasformando così la proposizione con quare in una sorta di sottotitolo: il codice Vaticano latino 2215, ad esempio, del XIV secolo, ha il complesso titolo Incipit liber primus Senecae de providentia ad Lucillum [sic!], cum mundus providentia regatur quare multa mala bonis viris accidant («Inizia il libro primo [sappiamo che in realtà il libro è uno solo!] di Seneca Sulla provvidenza a Lucilio: poiché il mondo è guidato dalla provvidenza, perché molti mali capitino agli uomini buoni»). 8
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dentia, ma una formula introdotta da quare, è confermato dallo scrittore cristiano Lattanzio, che nel IV secolo cita il nostro dialogo come Quare bonis viris multa mala accidant, cum sit providentia (Divinae Institutiones V, 22, 11), una variante di quanto tramandato dai manoscritti9. Il titolo De providentia è traduzione latina letterale del greco Per‹ prono¤a" (Perì pronóias), attestato per alcuni trattati stoici sull’argomento, e deve essersi affiancato e poi sostituito al titolo vero proprio per la sua maggiore semplicità, pur essendo in realtà meno preciso e accurato. De providentia si addice infatti a un resoconto generale sul tema, mentre il trattato senecano affronta solo la particula imposta dalla domanda di Lucilio a Seneca e introdotta da quare: perché ai buoni capitino delle sventure, se il mondo è governato dalla Provvidenza divina. È facile immaginare che la complessiva trattazione del tema, degna di ottenere il titolo De providentia, fosse contenuta in quei Moralis philosophiae libri di cui abbiamo appena parlato.
Il male e la provvidenza di dio secondo gli Stoici IL CONCETTO DI “TEODICEA” Il termine tecnico per indicare la «dimostrazione della giustizia divina» (N. Abbagnano), che è, in senso lato, l’argomento del nostro dialogo, è “teodicea”. La parola, a dispetto del suo etimo greco (theós, yeÒw, «dio» + díke, d¤kh, «giustizia», quindi lett. «giustificazione di Dio»), non è antica, ma fu inventata dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), come titolo dei suoi Essais de théodicée («Saggi di teodicea») pubblicati nel 1710 in francese e subito tradotti in tedesco (Theodizee). LA «DOMANDA PIÙ ANTICA DEL MONDO»10 Su qualsiasi forma di teodicea incombe l’obiezione preventiva del filosofo Epicuro (341-271 a.C.), materialista e convinto che nessuna Providenza benevola regga le sorti del mondo, obiezione che il cristiano Lattanzio ci ha tramandato in traduzione latina11: deus aut vult tollere mala et non potest, aut potest et non vult, aut neque vult neque potest, aut et vult et potest. Si vult et non potest, inbecillis est, quod in deum non cadit. Si potest et 9 «Perché agli uomini buoni accadano (lo stesso) molti mali, visto che c’è la Provvidenza». La versione del manoscritto ha più probabilità di essere quella vera per la presenza di incommoda anziché di mala (* pag. 11). Lattanzio, come tutti gli scrittori antichi, citava spesso a memoria e un titolo come questo sembra fatto apposta per generare errori mnemonici di sostituzione o di inversione nell’ordine delle parole. 10 Così Alfonso Traina intitola la sua Introduzione all’edizione del De providentia (Milano, 1997), che si raccomanda per profondità di pensiero, ampiezza di letture e sensibilità di stile. 11 De ira dei 13, 19 = Epicuro, frammento 374 Usener. ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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non vult, invidus, quod aeque alienum a deo. Si neque vult neque potest, et invidus et inbecillis est, ideo nec deus. Si et vult et potest, quod solum deo convĕnit, unde ergo sunt mala? aut cur illa non tollit? 12. La logica implacabile del ragionamento porta a concludere, di fronte all’evidenza del male, o che Dio non esiste o che, se pure esistesse, comunque non influirebbe sulla vita dell’uomo in modo benevolmente provvidenziale. Chi, invece, come Seneca, vuole “fare l’avvocato degli dèi” (causam deorum agam, Prov. 1, 1), ritenendo che la divinità esista e sia buona con noi, si assume il compito di trovare una risposta a Epicuro attraverso la teodicea: i tentativi in questo senso sono stati numerosi nella storia della nostra civiltà, nelle sue componenti classica, ebraica, cristiana e illuministica, sebbene tutti legati dalla ricorrenza di alcuni temi o soluzioni, tendenti non tanto a confutare la critica così ben formulata da Epicuro, quanto piuttosto a minarne le basi, eccependo sulla natura, sull’origine o sulla funzione del “male”. Altri, convinti che il mistero della sofferenza e di Dio non potrà mai essere pienamente spiegato, sono giunti a concludere che cercare una risposta razionale e definitiva alla “domanda più antica del mondo” è impossibile. Per una carrellata sui testi che riflettono sul giusto sofferente, consulta nel sito www.scuola.com l’Excursus “Le sofferenze dei giusti e la Provvidenza di Dio: due realtà incompatibili?”.
SENECA E LO STOICISMO Come filosofo stoico, Seneca era convinto che il mondo fosse retto dalla Ragione (lÒgow, lógos) e che essa coincidesse con la Natura (φ°siw, phýsis): Dio, pertanto, non è un ente personale e creatore dell’Universo, come si è abituati a intenderlo oggi per effetto della concezione cristiana, quanto piuttosto immanente ad esso, un fuoco che lo anima e lo pervade. Nella sua perfezione, il cosmo procede nel tempo attraverso una successione prefissata da sempre di avvenimenti che ubbidiscono a un Fato immutabile e conforme al lógos. In questo quadro, lo spazio di libertà dell’uomo è solo quello di comprendere il proprio Fato personale e di seguirlo, secondo il famoso verso che Seneca riprende da Cleante, Ducunt volentem fata, nolentem trahunt («il Fato guida chi vuol essere guidato, mentre trascina chi non lo vuole», Epist. 107, 11). Per lo Stoico il bene coincide solo con la virtù, cioè vivere secondo Ragione e 12 «O dio vuole togliere il male e non può o può e non vuole; oppure né lo vuole né lo può, oppure ancora lo vuole e lo può. Se lo vuole e non può, è impotente, cosa che non può essere in dio. Se può, ma non lo vuole, allora è maligno, cosa che è altrettanto estranea a dio. Se poi né lo vuole né lo può, è sia impotente sia maligno, e quindi non è neppure dio. Ma se, infine, sia lo vuole sia lo può, unica disposizione che si confà a dio, da dove arriva allora il male? O perché dio non lo elimina?». 10
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secondo Natura, mentre il male consiste nel suo contrario, il vizio o peccato. Ne consegue che nell’etica stoica la maggioranza di ciò che nel pensiero comune è considerato un bene (salute, ricchezza, potere, piacere ecc.) o un male (malattia, povertà, schiavitù, dolore ecc.) è confinato nella fascia mediana degli adiáphora (édiãφora, in latino indifferentia), ossia di ciò che non è né bene né male e che quindi non deve essere né desiderato né rifuggito dal saggio, ma solo gestito conformemente alla Ragione, a seconda di che cosa il Fato assegni di volta in volta a ciascuno. Una conseguenza importante delle dottrine stoiche è che l’umanità viene radicalmente suddivisa tra i più, che sono ignari della natura della virtù, bramano i beni apparenti e così facendo precipitano nel peccato, e il saggio, colui che, al contrario, coglie il senso dell’Universo, segue il suo Fato e ubbidisce alla ragione, ponendosi al di sopra degli adiáphora e di tutti gli impulsi non razionali dell’anima (sentimenti, passioni, desideri ecc.), considerati negativi: in questo modo egli raggiunge la felicità, che consiste nell’épãyeia (apátheia), l’assenza di passioni.
PRIME RISPOSTE DI SENECA Sulla base di questa brevissima esposizione di metafisica ed etica stoica possiamo farci un’idea migliore di quale potesse essere l’argomento dei Libri moralis philosophiae, per la parte relativa alla teodicea. La particula del De providentia, come abbiamo già detto, estrapolava da tutto ciò una sola tematica, quella dell’esistenza di condizioni che minacciano la stabilità e la serenità del saggio: essendo permesse dal Fato, queste condizioni devono essere anche conformi a Ragione, il che porterebbe alla conclusione, assurda per uno Stoico, che non esiste una Provvidenza e che il Fato-Ragione-Dio reca dei mali all’uomo e soprattutto al sapiente (che, infatti, al pari degli altri uomini, non è esente da lutti, malattie, esilio o prigionia). In un altro dialogo, il De constantia sapientis, Seneca risolve il problema richiamandosi all’apátheia: il saggio stoico non può essere influenzato dagli adiáphora né la sua virtù può essere messa in crisi da essi, quindi è del tutto indifferente se gli capitano delle sventure. Il De providentia va oltre questa prima risposta, che, se può essere soddisfacente dal punto di vista del sapiens, non scagiona ancora la Provvidenza dall’accusa di aver inflitto dei mali senza motivazioni apparenti. LA TEODICEA DI SENECA Quando s’interviene sulla definizione del “male” si opera in modo da svuotare di senso il dilemma di Epicuro che abbiamo letto all’inizio del capitolo (questa, almeno, pare essere l’intenzione di Seneca). Il filosofo latino risolve infatti il problema sostenendo in primo luogo che quelli che sembrano mali sono in realtà solo degli «inconvenienti», delle «avversità» (incommoda), visto che il vero male è il peccato; in secondo luogo, egli giustifica la ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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divinità che sottopone il saggio a tali incommoda, perché il loro scopo è quello di esercitarne e metterne alla prova la virtù, che altrimenti non avrebbe modo di brillare (marcet sine adversario virtus, 2, 4). Emerge quindi in Seneca una concezione agonistica della vita, che diventa una sorta di ring, in cui il saggio deve mostrare al mondo di essere tale, riuscendo vincitore su ogni disgrazia. Le avversità, infatti, piegano la resistenza dell’uomo comune, ma nulla possono contro il saggio, a cui la Provvidenza ha fornito tutti i mezzi per garantire il trionfo della virtus: quia non poteram vos istis subducere, animos vestros adversus omnia armavi fa dire Seneca a dio stesso nella chiusa del dialogo (6, 6).
IL BONUS VIR: LA VIRTÙ SOLO PER MASCHI ADULTI Letta con la sensibilità di oggi, la teodicea di Seneca lascia difficilmente appagati: lo Stoicismo, infatti, (e quello romano imperiale in particolare) oscillò sempre tra due estremi, l’afflato filantropico ed educativo del prodesse, del «giovare» a un mondo altrimenti votato al peccato e alla corruzione, da una parte, e, dall’altra, la chiusura egoistica e orgogliosa del sapiens in se stesso, al riparo da tutti i contatti con il mondo grazie all’apátheia. Il De providentia si colloca decisamente su quest’ultimo versante, forse perché, come si è detto, fu concepito da Seneca in una fase particolarmente buia della sua vita: suo protagonista è il bonus vir (meno spesso si trova il nesso invertito vir bonus), formula che sostituisce il tecnico sapiens (nel De providentia compare solo una volta13). Essa rende esplicita la completa interiorizzazione della virtù e l’abbandono delle velleità d’impegno pubblico e politico cui si assiste in epoca imperiale: mentre, infatti, in Catone il Censore e in Cicerone bonus vir indicava l’«uomo per bene», degno di dare il suo contributo al governo dello Stato, in Seneca il nesso è tutto finalizzato al cammino di perfezione interiore del singolo e recupera piuttosto la tradizione filosofica greca dell’aggettivo agathós (égayÒw, «buono»), che ritroviamo come termine tecnico da Platone agli Stoici. La scelta di bonus vir colpisce nella teodicea di Seneca perché enfatizza il lato maschile della virtus (termine che, ricorda, deriva proprio da vir): dio è un “buon padre” (1, 5-6), che educa l’uomo, assimilato a un gladiatore (2, 8; 3, 4) o a un soldato (4, 3; 4, 8; 5, 3), con una durezza che giustifica il ricorso al paragone tra allenatore e atleta (2, 3-4; 4, 2-4) o tra maestro di scuola e studenti – rigorosamente maschi (4, 11). Non vi è quindi spazio né per le qualità della donna né per le eventuali sofferenze degli innocenti, come i bambini, un problema di teodicea che assillerà invece molti pensatori nei secoli successivi (* Excursus on line). 13 Prov. 5, 1, cfr. il commento a pag. 69. 12
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La struttura del De providentia LA DISPOSITIO IN SENECA Lo stile senecano, centrato come è sulla singola sententia e quasi ritmato dalla ripresa di un concetto attraverso infinite sfaccettature, consente solo di rado al lettore di individuare con certezza la macrostruttura di un’opera; ciò avviene a maggior ragione in un “dialogo” come il De providentia, cioè in un trattatello filosofico che dovrebbe dipanarsi punto per punto con chiarezza e consequenzialità e in cui invece le transizioni da una sezione argomentativa all’altra appaiono vaghe e incerte. Ciò non vuol dire che la scrittura di Seneca sia confusa, improvvisata o avventata: essa non mira al rigore logico della prosa ciceroniana, ma subordina la consequenzialità dell’insieme alla forza persuasiva della ripetizione martellante dei concetti, attraverso variazioni, digressioni, ritorni e riprese, sempre retoricamente calibrate e di grande splendore stilistico. Per descrivere queste peculiarità gli studiosi sono ricorsi all’immagine del “mosaico” (E. Albertini), ovvero di un quadro d’insieme unitario, ottenuto però con la giustapposizione di un gran numero di “tessere” (le sententiae), ognuna indipendente dall’altra. Colpisce nel segno anche la suggestione di Pierre Grimal, che parla di un procedimento “a spirale”, con una metodica ripresa dei medesimi concetti, da prospettive ogni volta variate e arricchite. LA STRUTTURA DEL DE PROVIDENTIA SECONDO GRIMAL La dispositio che qui facciamo nostra è quella proposta da Pierre Grimal nel 1950 e di recente ripresa da R.S. Smith: • proemio (1): definizione dell’argomento (1, 1); provvidenzialità della struttura ben ordinata del cosmo (1, 2-4); interesse degli dèi per l’uomo (1, 5-6); • narratio (2): il bonus vir non soffre le avversità, considerandole un’esercitazione alla virtù (2, 1-3), secondo l’esempio dell’atleta che cerca di giungere al limite delle proprie prestazioni (2, 3-4) o del padre che mette alla prova le qualità del figlio (2, 5-6); segue l’esempio di Catone, del quale anche la divinità si compiace (2, 7-12); • propositio e divisio (3, 1): gli incommoda non sono mala, perché a) recano benefici a chi li subisce; b) recano benefici a tutti; c) chi possiede la virtus non può essere miser; • confirmationes (3, 2 - 6, 9): la tripartizione, che occupa gran parte del dialogo, segue la divisio del cap. 3: a) gli incommoda recano benefici a chi li subisce (3, 2 - 4, 16); b) gli incommoda recano benefici a tutti (5, 1-11); c) chi possiede la virtus non può essere miser (6, 1-9). ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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LA DISPOSITIO SECONDO TRAINA In parte diversa, soprattutto per i capitoli iniziali, è la proposta di Alfonso Traina, fatta propria anche da Nicola Lanzarone nella sua edizione commentata: • proemio (1-2): definizione dell’argomento (1, 1); risposta cosmologica (1, 2-4); risposta etica (1, 5 - 2, 12); • partitio (3, 1) in cinque punti; • argumentatio (3, 2 - 6, 9): a) gli incommoda recano benefici a chi li subisce (3, 2 4, 16); b) gli incommoda recano benefici a tutti (5, 1-2); c) gli incommoda sono voluti dal bonus vir (5, 3-6); d) gli incommoda sono predeterminati dal fato (5, 7-11); e) chi possiede la virtus non può essere miser (6, 1-9, sezione che comprende la peroratio o epilogo, bipartita: 6, 3-5 e 6, 6-9).
Le fonti FONTI ESPLICITE E IMPLICITE Nel suo famoso giudizio su Seneca, cui si è già accennato, Quintiliano inserisce, tra le molte punte polemiche, anche l’accusa di un controllo poco rigoroso delle fonti, la cui raccolta sarebbe stata demandata a collaboratori14. È difficile, oggi, dare corpo a queste illazioni, ma è certo che a Seneca la coerenza espositiva e l’impatto retorico e comunicativo interessavano molto di più che non il riscontro filologico delle affermazioni altrui o la corretta segnalazione e attribuzione di ogni citazione e di ogni ripresa. Tale prassi era d’altronde comune negli scrittori antichi e per questo non possiamo imputare a torto di Seneca il fatto di non aver esplicitato il titolo dei testi di cui si serviva. Nel De providentia egli cita espressamente solo due “autori”, il cinico Demetrio e il poeta Ovidio, delle cui Metamorfosi riporta lunghi brani nel cap. 5, mentre nulla dice di preciso su quelle che furono di sicuro le sue fonti più importanti e autorevoli, cioè i testi di scuola stoica. Si aggiunga che dei rappresentanti del primo stoicismo (Zenone, Cleante e Crisippo) e della seconda fase (II-I sec. a.C., con Panezio e Posidonio) non ci è pervenuta alcuna opera integra: le loro dottrine ci sono note solo da citazioni altrui (è quella che si definisce “tradizione indiretta”), peraltro numerosissime, formulate in greco, ma anche tradotte in latino (soprattutto da Seneca stesso, da Cicerone e dagli scrittori cristiani), talvolta di seconda mano e in modo impreciso. Tutto questo materiale, abbondante, caotico e con-
14 Multa rerum cognitio, in qua tamen aliquando ab iis quibus inquirenda quaedam mandabat deceptus est (X, 1, 128, «Degli argomenti che trattava ebbe conoscenza profonda; tuttavia sotto questo aspetto fu talvolta ingannato dai collaboratori a cui affidava l’incarico di fare ricerche»). 14
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traddittorio, è da più di un secolo a disposizione degli studiosi grazie all’enorme lavoro di un filologo tedesco, Hans von Arnim, che nel 1903 pubblicò gli Stoicorum veterum fragmenta (SVF), un’edizione ragionata di tutte le testimonianze antiche sulla prima fase di questa scuola, disposte sull’asse cronologico e rese facilmente consultabili da ricchissimi indici.
IL PRIMO STOICISMO Lo stoico Cornelio Balbo, che nel dialogo De natura deorum di Cicerone espone la teologia della sua scuola, così ne riassume i princìpi all’inizio del suo intervento (II, 3): Omnino divĭdunt nostri totam istam de dis inmortalibus quaestionem in partis quattuor: primum docent esse deos, deinde quales sint, tum mundum ab his administrari, postremo consulere eos rebus humanis15. La teodicea costituiva quindi la quarta e ultima parte della teologia stoica e ne completava la dimostrazione, con logica consequenzialità, in relazione alle vicende umane. Sappiamo che due stoici, Crisippo (281-208 circa a.C., terzo scolarca, cioè guida riconosciuta della scuola, dopo il fondatore Zenone e Cleante), e Panezio di Rodi (185-109 a.C.), scrissero un trattato intitolato De providentia (Per‹ prono¤aw, Perì pronóias), ma nulla dimostra nei frammenti del primo che Seneca lo avesse consultato direttamente, mentre del testo di Panezio, purtroppo, non conosciamo che il titolo.
IL DE PROVIDENTIA DI CRISIPPO A Crisippo si deve dunque la più antica formulazione della teodicea stoica giunta sino a noi. Dai frammenti conservati emerge il concetto della reciproca e necessaria presenza di bene e male: se c’è l’uno, ci deve essere anche l’altro, perché nulla può esistere senza il suo contrario; in particolare, i mali non sono stati creati appositamente dal dio, ma sono comparsi come inevitabile effetto collaterale dei beni16. Anche se non è centrale nel De providentia, questa concezione di fondo è condivisa anche da Seneca, che vi fa cenno ai capitoli 5, 9 e 6, 6, al cui commento rinviamo.
I DOSSOGRAFI L’individuazione precisa delle fonti implicite del De providentia resta un’impresa in gran parte congetturale, né è detto che Seneca avesse veramente a disposizione i testi dei suoi capiscuola, anziché, più semplicemente,
15 «Tutta quanta codesta tematica filosofica relativa agli dèi immortali gli appartenenti alla mia scuola la dividono esattamente in quattro parti: essi dimostrano, primo, l’esistenza degli dèi; secondo, le loro caratteristiche; terzo, che il governo dell’universo è nelle loro mani; quarto e ultimo, che essi sono interessati alle vicende degli uomini». 16 I frammenti più significativi (II, 1169-1170 von Arnim, da Aulo Gellio, Notti Attiche, VII, 1, 1-13) sono riportati nell’Excursus on line. ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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qualcuna di quelle “antologie filosofiche” che sappiamo diffuse tra gli studiosi dell’epoca e che non sono giunte sino a noi (se non in rielaborazioni e riassunti molto più tardi). Esse seguivano il cosiddetto metodo dossografico (dal greco dÒja, dóxa, «opinione»), cioè presentavano ordinatamente le opinioni dei singoli filosofi sui temi della fisica e soprattutto dell’etica.
FONTI TARDE DELLO STOICISMO Utilissime per ricostruire il pensiero della scuola stoica sulla provvidenza sono anche alcune opere contemporanee o successive a Seneca, che non appartengono al genere dossografico. Possiamo ricordare Filone di Alessandria, il principale rappresentante della cultura ebraico-ellenistica imperiale (20 a.C. - 50 d.C. circa), che scrisse in gioventù un dialogo in due libri Sulla provvidenza, giuntoci in traduzione armena. Sei discorsi Sul fato e sulla provvidenza aveva composto il retore Dione di Prusa (40-120 d.C., detto «Crisòstomo», “dalla bocca d’oro” per la sua eloquenza), molto vicino alle posizioni dello stoicismo e del cinismo, mentre la filosofia di Epittèto, esponente di spicco dell’ultima fase dello stoicismo insieme con l’imperatore Marco Aurelio, ci è nota dai libri di Diatribe e dall’Encheiridion ('Egxeir¤dion, «Manuale»), che furono pubblicati dal suo allievo Flavio Arriano di Nicomedia (95-175 d.C. circa), dopo la morte del maestro: alla provvidenza sono espressamente dedicati alcuni capitoli. Ricordiamo infine il vescovo Teodoreto di Ciro (393-457 d.C. circa), autore di dieci omelie De divina providentia, in cui la teodicea cristiana recupera numerose formule e riflessioni della Stoà. Spunti cruciali di teodicea si leggono anche negli scrittori cristiani latini, come Minucio Felice, Lattanzio e soprattutto Agostino (* Excursus on line).
FONTI NON FILOSOFICHE Peculiare dello stile retorico di Seneca da un lato e dell’approccio divulgativo della diàtriba dall’altro è che per aumentare la persuasività il discorso filosofico deve aprirsi a digressioni, esempi, citazioni tratti da altri ambiti culturali e soprattutto dalla letteratura e dalla storia: per la prima abbiamo già accennato alle citazioni di Ovidio, ma è dall’ambito della storia romana che Seneca ricava i numerosi exempla con cui corrobora le sue argomentazioni, specialmente nel capitolo 3 ( 4-14): Muzio Scevola, Fabrizio, Rutilio ed Atilio Regolo, oltre al greco Socrate, sono esempi topici, che tornano altre volte nelle sue opere con accenti molto simili17. Lo stesso si può dire per il personaggio che Seneca eleva ed esalta dappertutto come esemplificazione vivente del saggio stoico, celebrandone soprattutto il coraggio di fronte alle
17 Ad esempio Epist. 67, 7; 71, 17; 98, 12-13; Cons. ad Marciam 22, 3; De tranq. animi 16, 1. 16
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avversità e la scelta finale del suicidio: si tratta di Catone l’Uticense, cui è dedicato nel De providentia (2, 9-12) un vero e proprio elogio, che secondo alcuni studiosi potrebbe trovare riscontro nei manuali di retorica o nei testi coevi delle declamazioni scolastiche.
PER APPROFONDIRE
Providentia: il termine e il concetto DAL VERBO AL SOSTANTIVO ASTRATTO Il latino è una lingua che, a differenza, ad esempio, del greco antico o del tedesco moderno, aveva delle difficoltà a creare termini astratti, soprattutto se composti, e preferiva pertanto ricorrere ad altri tipi di costrutti1. Non stupisce quindi se il verbo providēre, che, indicando un’azione, è termine più concreto, sia attestato in latino ben prima dell’astratto providentia. Si trova infatti provideo già nelle commedie di Plauto (ad esempio Asinaria 450), nel senso di “vedere prima, vedere in anticipo”, significato che il verbo manterrà costantemente, a fianco di altri derivati, come “prevedere” e di conseguenza “provvedere” (si presuppone infatti che chi sa anticipare con l’intelligenza gli eventi futuri sia in grado anche di prendere le opportune contromisure).
LA PERSONIFICAZIONE Dell’astratto providentia il valore concreto di “vedere in anticipo” è attestato solo relativamente tardi, in storici come Livio e poi Tacito. Più comune è invece il senso, già traslato e più “filosofico”, di “capacità di anticipare il futuro”, “previdenza”, e da questo, finalmente, quello della nostra “provvidenza”, ovvero, con una personificazione resa talvolta evidente dagli editori moderni attraverso l’iniziale maiuscola, “un’entità divina previdente che guida e dirige le sorti del mondo”. In quest’ultima accezione è comune ad esempio la formula providentia deorum e il termine venne sentito come la traduzione più naturale e quasi obbligata del greco prÒnoia (prónoia), nonostante la non completa coincidenza della formazione etimologica: mentre il latino, infatti, utilizza la radice concreta del “vedere”, il greco si rifà invece al termine nÒow (nóos), che significa di per sé «mente».
LA DEFINIZIONE DI CICERONE La definizione più completa è quella che Cicerone propone nel libro II del trattato De inventione, nella sezione dedicata alla defini1 Si pensi, molto banalmente, alle formule Cicerone consule o ab Urbe condĭta. ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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zione delle quattro virtù fondamentali per lo stoicismo (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza): Prudentia est rerum bonarum et malarum neutrarumque scientia. Partes eius: memoria, intellegentia, providentia. Memoria est per quam animus repe˘tit illa quae fuerunt; intellegentia, per quam ea perspı˘cit quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid videtur ante quam factum est. La sapienza è la conoscenza del bene, del male e degli indifferenti (* pag. 11). Le sue parti sono le seguenti: memoria, intelligenza, previdenza. La memoria è la facoltà attraverso la quale l’animo recupera il passato; l’intelligenza, attraverso la quale comprende il presente; la previdenza, attraverso la quale appare qualcosa che deve accadere prima ancora che sia accaduto. (II, 160)
Lingua e stile UNO STILE NUOVO PER UN’EPOCA NUOVA Dal punto di vista linguistico e stilistico, l’evoluzione della lingua latina nella prima età imperiale seguì alcune linee già chiare in epoca augustea: il predominio del gusto asiano nella prosa, la commistione tra questa e la poesia (con sempre più verba poëtica assunti dai prosatori), la retoricizzazione dello stile, sull’onda dell’influenza esercitata dalla pratica delle declamazioni, l’abbandono della prosa distesa e ipotattica di Cicerone, il gusto manieristico e barocco per la sententia a effetto e la composizione “a mosaico”, di cui si è già parlato. Tutti questi elementi caratterizzarono un’epoca, trovando in Seneca l’espressione più matura, prima dell’aspra condanna decretata (con scarso successo) dal classicismo di età flavia rappresentato da Quintiliano. PECULIARITÀ DEL DE PROVIDENTIA Il De providentia è alquanto lontano dallo stile colloquiale dell’epistolario e trova una sua affinità piuttosto nel genere dell’oratoria: Seneca immagina infatti sin dall’inizio di essere “l’avvocato di Dio” (la formula molto felice è di Alfonso Traina) e imposta il trattato come un discorso difensivo, un’oratio (così Seneca stesso la definisce, 3, 1), formalizzata nel cap. 1 con il ricorso alla terminologia giuridica tecnica (si vedano particula, contradictio e lis, 1, 1) e conclusa nel finale (6, 3-9) con una prosopopea* di Dio 18
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stesso, un artificio a cui neppure Cicerone era arrivato18. Anche il tono si adatta all’istanza persuasiva e suona teso e aggressivo, grazie alle interrogative retoriche con sfumatura di incredulità19 e al frequente ricorso agli imperativi plurali, come in 4, 6 (nolīte, obsecro vos, expavescere) o 4, 9 (fugĭte delicias). Consueta e “senecana” è infine la presenza di figure retoriche come l’anafora*20, il poliptoto* e la figura etimologica* (adversus optimos optimis ... bona bonis, 1, 5).
La storia del testo I MANOSCRITTI Il De providentia fu conosciuto e letto dai Padri della Chiesa dal II al V secolo, al pari di molte altre opere di Seneca, che pure non apparteneva al ristretto novero degli autori presenti nei programmi scolastici, quali Terenzio, Virgilio, Cicerone e Sallustio. Nei secoli successivi al tramonto dell’Impero, del trattato e in generale dei Dialogi si perdono invece le tracce; quel che è certo è che un esemplare antico (IV sec.?) sopravviveva ancora nell’XI secolo, quando da esso fu tratta una copia nel monastero di Montecassino (fondato da San Benedetto da Norcia nel 529). Negli anni 1058-1087 vi fu abate Desiderio, un monaco noto per il suo impegno a favore del monastero e per la trascrizione dei classici all’interno dello scriptorium: il frutto di questo lavoro di copiatura è giunto sino a noi e si trova a Milano dall’inizio del Seicento, da quando venne acquistato per la Biblioteca Ambrosiana, fondata da Federico Borromeo, il cardinale noto per il vigoroso ritratto che ne fece Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Il manoscritto, siglato C 90 inf., contiene tutti i Dialogi senecani, è composto da 90 fogli ed è scritto da una sola mano con la grafia tipica dell’Italia del Sud. Su questo autentico cimelio hanno lasciato le loro correzioni numerose mani successive, dall’XI al XVI secolo, spesso, purtroppo, cancellando il testo originale. Solo nel XIII secolo, tuttavia, i Dialogi tornarono ad essere conosciuti dal pubblico dei dotti. Da allora, infatti, iniziò una grande 18 Nella I Catilinaria 27-29 Cicerone si era limitato a dare la parola a un’entità astratta, la patria. Similmente nel De providentia troviamo la personificazione della Fortuna, che prende la parola a difesa della provvidenza stoica (3, 3). Più comune, e caratteristico della diàtriba, è l’intervento in discorso diretto di personaggi storici, come Catone (2, 10) e Rutilio (3, 7). 19 Ad esempio quidni (2, 12), non vides (2, 5), quid miraris e quid mirum (2, 7; 3, 2; 4, 12; 4, 16; 6, 2), numquid credis (4, 11). 20 R.S. Smith cataloga quelle di numquam (2, 5), ecce … dignum (2, 9), dum (2, 11), documentum (3, 9), unde (4, 5), fugĭte (4, 9), vultis (5, 5), quidni (6, 2), contemnĭte (6, 6) e sive (6, 9). ECHI dal mondo classico - Petrini © 2012 De Agostini Scuola SpA - Novara
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opera di trascrizione, che portò alla produzione di decine e decine di copie manoscritte dei Dialogi in tutta Europa: Seneca era molto amato proprio per il suo stile sentenzioso, che consentiva di trarne massime moralistiche buone per diverse occasioni. Gli studiosi discutono se questi manoscritti siano a loro volta tutti discendenti dal codice ambrosiano o se, come pare più probabile, alcuni (in particolare due conservati nella Biblioteca Vaticana) derivino da una tradizione almeno in parte diversa21.
IL MISTERO DEL FINALE Il principale problema filologico del De providentia è relativo alla sua presunta incompletezza, a causa del finale, che a molti studiosi è parso troppo brusco. Il trattato, inoltre, è il più corto dei Dialogi né in esso tutte le tematiche annunciate nella divisio di 3, 1 appaiono svolte compiutamente. Infine, Lattanzio cita dal De providentia un passo che non coincide con nessuno dei capitoli giunti sino a noi e che potrebbe quindi derivare dal finale scomparso. Tuttavia, la maggioranza degli studiosi propende per ritenere originale il finale attuale del De providentia, senza lacune nella trasmissione manoscritta e, anzi, con paralleli compositivi nell’epistolario (7, 12; 89, 22). La brevità del trattato si giustifica ricordando che esso voleva essere solo una particula di un’opera maggiore e allo stesso modo le incongruenze con la divisio rientrano nei conclamati difetti della compositio senecana “a mosaico” e non possono valere come prova d’incompletezza. Quanto a Lattanzio, la sua “citazione” potrebbe essere invece una generica parafrasi e un sommario dei contenuti, non una ripresa ad verbum. Per tutte queste ragioni riteniamo che il De providentia che possiamo leggere oggi corrisponda a quello scritto da Seneca quasi 2000 anni fa. 21 Il fatto che in tutti i manoscritti conosciuti il dialogo De otio appaia privo del finale è la prova che tutta la tradizione è unitaria, cioè deriva da un unico capostipite, chiamato archetipo.
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