SCRITTORI A ROMA di Marco Onofrio
ROMA: PREMONIZIONE E MORTE DI GIUSEPPE TOMASI Cominciamo questa storia dalla fine, dal meritato trionfo. Marzo 1958: Giorgio Bassani vuole pubblicare a tutti i costi Il Gattopardo nella collana dei “Contemporanei” di Feltrinelli. Fin dalla prima pagina ha capito di trovarsi dinanzi a un “vero scrittore”; poi, proseguendo nella lettura, dinanzi a un “vero poeta”. Riceve il manoscritto da Elena Croce, figlia del grande Benedetto, che lavora come agente letterario. Elena Croce lo ha ritrovato dopo mesi: pare fosse rimasto nella portineria della sede del Partito Repubblicano a Roma. Bassani le chiede chi è l‟autore; la Croce non lo sa, ma pensa trattarsi di una vecchia zitella siciliana (la copia era anonima). Novembre 1958: prima pubblicazione. Il libro esce postumo, perché Giuseppe Tomasi di Lampedusa è morto da più di un anno. Ma il successo è straordinario e fulminante: raggiunge in breve le 100.000 copie di vendita. Luglio 1959: Il Gattopardo vince il Premio Strega (135 voti su 335, superando Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini e La casa della vita di Mario Praz). Da allora, centinaia di edizioni: è il primo e più longevo best seller della narrativa italiana contemporanea. Poi, a suggello definitivo, il film di Luchino Visconti (1963), con Burt Lancaster (Don Fabrizio), Alain Delon (Tancredi) e Claudia Cardinale (Angelica). E ancora, quattro anni dopo, l‟opera musicale di Angelo Musco, con libretto di Luigi Squarzina. Il Gattopardo è un grande affresco di amore e morte, dove moduli ottocenteschi da romanzo storico convivono strettamente intrecciati con moduli novecenteschi da romanzo psicologico, attraverso lo sguardo e il tempo interiore del principe Don Fabrizio Salina. Eccolo, il protagonista assoluto del romanzo. Aristocratico, blasé, scettico, profondamente saggio: guarda le cose e l‟uomo “sub specie aeternitatis”. Per questo ha un sentimento dell‟esistenza che, scrive Montale, è “insieme stoico e profondamente caritativo”, denso cioè di humana pietas (come quella leopardiana della “Ginestra”). Gli uomini, in fondo, non si possono condannare: a volte si può averne disgusto ma subito dopo si è presi da compassione, perché sono visti alla luce dell‟“ultima coscienza” che non lascia nessuno di noi vincitore sull‟altro ma tutti egualmente schierati nell‟esercito degli sconfitti. Si deve soltanto accusare l‟eternità. Come altrimenti infierire “contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire?” Gli uomini, insomma, non sono altro che “effimeri esseri” che cercano di godere dell‟esiguo raggio di luce accordato loro fra due tenebre – prima della culla e dentro la tomba. Tancredi e Angelica, i due giovani protagonisti, inseguono fiduciosi il loro avvenire, formato – come quello degli altri, di tutti – “di fumo e vento soltanto”. La classe aristocratica ha le ore contate, è a un passo dall‟oblio. È la fine di un mondo e di una cultura: ma muore anche ciò che di meglio ha saputo produrre, nel corso dei secoli, in termini di civiltà. Questo rovinoso e struggente “crepuscolo degli dei” viene filtrato attraverso le meditazioni del Principe: romanzo come “malinconica elegia”, come ultimo scatto fotografico prima della fine, del buio, della polvere. Il Principe oppone disperata resistenza al corso della storia, aggrappandosi ai puntelli difensivi del suo mondo: le stelle che scruta come astronomo, i codici sociali e culturali, gli apparati del gusto, le buone maniere, le abitudini ferme… ma anche le quadrerie, gli arredi, i soffitti dipinti, e insomma: i miti e i riti di una classe che ha pensato e vissuto se stessa come incrollabile. E tuttavia asseconda il matrimonio del nipote Tancredi con Angelica Sedàra (bellissima: bocca di fragola, capelli color notte, occhi verdi), che è figlia di Don Calogero, un contadino arricchitosi con sistematiche spoliazioni dei suoi vicini, per il quale Don Fabrizio prova disprezzo nobiliare allo stato puro. Bellezza, eros, calcolo e ambizione conciliano due classi
inconciliabili, cementando l‟alleanza fra un‟aristocrazia ormai priva di mezzi economici e una borghesia rampante, attivissima, dotata di virtù pratiche. Tancredi offre il titolo che nobilita i soldi di Angelica; Angelica i soldi, che rendono efficace il titolo di Tancredi, consentendogli di velocizzare la scalata ai posti di comando della politica . Dai “gattopardi” si passa alle “iene”: la nobiltà di sangue (valore intrasmissibile) cede il passo all‟abilità affaristica dei nuovi arricchiti. Il Principe è non soltanto un libertino scettico, un tradizionalista con i semi dell‟illuminismo, un moralista sensuale, ma anche un esteta predannunziano che disprezza l‟incipiente società di massa e prova nausea per la volgarità borghese. È un “no global romantico e annoiato”, come lo ha recentemente definito Alfolso Berardinelli. Il tema della morte, così centrale in tutto il romanzo, è direttamente legato alla figura di Don Fabrizio, alla sua continua elucubrazione filosofica, al suo modo di guardare alle cose. Ha un occhio trapassante e spesso visionario. Sa infilzare l‟abbaglio del contingente, raccordando la parte al tutto. Sa raggiungere il cuore del tempo, squarciarne il velo per aprirsi all‟olimpica visione delle plaghe atemporali. È avvezzo a “scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interiori”. Sempre scisso, sempre distaccato: mai pienamente coinvolto o dominato dalla realtà. Interpreta la vita attraverso uno schermo ironico, che spesso lo diverte ma gli lascia un retrogusto amaro. “Corteggia la morte”, come dice Tancredi. Il senso di morte lo incupisce ma lo libera, anche, nel suo disperato bisogno di pace e di oblio, di annullamento. La morte è l‟estremo limite del nulla: “tutto si termina quaggiù”, confessò Giuseppe Tomasi a Francesco Orlando. E quando Don Fabrizio sente i rintocchi di un funerale, pensa − riferendosi al morto: “Beato lui, se ne strafotte adesso di figlie, doti e carriere politiche (…) Finché c‟è morte c‟è speranza”. Ecco allora il perché profondo dell‟astronomia, la sua “morfina”. È l‟unico cosmo che ancora resiste al caos, che ancora gli torna alla verifica, puntuale come un‟equazione. Don Fabrizio si illude che gli astri obbediscano ai suoi calcoli e che i due pianeti da lui scoperti (Salina e Svelto) diffondano la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove. Per questo gli piace “acchiappare le comete per la coda”, tuffarsi nelle nebulose alla ricerca di regni sereni e immemoriali, delle “atarassiche regioni” della perennità (sia pure apparente). Le stelle. Il loro silenzio. L‟anima di Don Fabrizio si slancia, quando e appena può, verso di loro, “le intangibili, le irraggiungibili, quelle che donano gioia senza poter nulla pretendere in cambio, quelle che non barattano”, e fantastica di “poter presto trovarsi in quelle gelide distese, puro intelletto”. Esse sono le “sole pure”: “proprio il contrario degli uomini, deboli eppur tanto riottosi”. Gli animali, piuttosto, assomigliano alle stelle: perciò Don Fabrizio li preferisce alla compagnia molesta delle persone. Come il cane Bendicò: silenzioso, “felicemente incomprensibile, incapace di produrre angoscia”. Scrive Bàrberi Squarotti: “Una grande poesia funebre circola in tutto il romanzo, investendone l‟intera simbologia figurativa”. Sensualità effimera di succhi, odori, sapori. Terra macinata dal sole. Stanze vuote piene di polvere, di fantasmi del passato, di reliquie. Ma soprattutto “quell‟ombra di morte che ogni personaggio si porta appresso, la bellissima Angelica come il formidabile principe Fabrizio, l‟ironico Tancredi come padre Pirrone: quasi una dimensione che tutti li raccoglie in un‟uguale appartenenza al destino comune”. Lo stesso romanzo è per molti versi il percorso che conduce dalla condizione titanica e statuaria di un Don Fabrizio “gigante immenso e fortissimo”, gattopardo sornione e consapevole del proprio potere – nelle prime pagine – al “gigante sparuto” che evapora e agonizza sul balcone di un albergo palermitano: “Era solo, un naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili”. È la progressiva rivelazione dell‟uomo al di sotto della crosta aristocratica: l‟uomo creaturale, effimero, nella sua abissale fragilità. L‟uomo nel suo “vivere per la morte”: la morte che infine lo va a prendere, giovane affascinante signora, “più bella di come mai l‟avesse intravista negli spazi stellari”. L‟uomo inghiottito dalle tenebre precipita insieme al proprio mondo, che va in frantumi, fino alla polvere, granello cosmico fondamentale: “Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida” sono le ultime parole del romanzo.
A leggerla col senno del poi, nella morte del Principe Salina l‟autore sembra cogliere un brivido di premonizione che, purtroppo, lo riguarda direttamente. Don Fabrizio muore, come poi Giuseppe, fuori casa; nel mese di luglio; dopo un viaggio dettato da problemi di salute (Don Fabrizio a Napoli, Giuseppe a Roma). A Roma Tomasi era stato parecchie volte, accompagnando spesso la moglie Alessandra Wolff – detta Licy – che ci andava per lavoro, in qualità di psicanalista freudiana. E “di solito era ospite dello zio Pietro in via Brenta, anche se in qualche occasione scese all‟Albergo Quirinale. Pranzavano spesso da Lolette, la sorella di Licy, in Piazza Indipendenza. I nipoti Biancheri ricordano Lampedusa come una persona affabile e ironica, più loquace che a Palermo”. La premonizione letteraria è addirittura annunciata da quella onirica, cinque anni prima della stesura reale del romanzo e ben otto prima della sua pubblicazione. È il novembre 1950 quando Tomasi scrive alla moglie, in quei giorni a Roma, per raccontarle un sogno fatto la notte precedente: pareva aver “ricevuto una cartolina in cui si annunciava l‟ora della sua esecuzione in una caserma di Roma. Aveva quindi detto addio ai genitori, si era presentato alla caserma, e ai militari aveva detto di essere il condannato a morte venuto per l‟esecuzione”. Inverno 1956: Giuseppe Tomasi è invecchiato e si sente vecchio. Dimostra molto più della sua età, anche se in fondo ha appena 60 anni. È malato, stanco, malinconico: enfisema polmonare, bronchite, dolori reumatici, depressioni. Si sente un vinto, desideroso di oblio. Emana senso di morte. La scrittura del Gattopardo lo prepara a una buona morte, dandogli uno scopo per ritardarla. La sua tragedia è di avere atteso tanto per scrivere e di avere fatto appena in tempo, riducendosi a far coincidere il breve periodo della creatività artistica con quello, altrettanto breve, della decadenza fisica. Fine aprile 1957: uno sbocco abbondante di sangue gli rivela scenari inquietanti, al di là della bronchite. Tubercolosi? No, peggio: tumore ai polmoni. Il morale di Giuseppe, già abbattuto, crolla completamente: quando sa che sta per morire perde la volontà di vivere. 29 maggio 1957: parte con la moglie alla volta di Roma. È il viaggio della speranza. Viene ricoverato in una clinica di via di Trasone. Si decide di non asportare il tumore, ma di procedere con bombe di cobalto presso un‟altra clinica, “Villa Angela”, sulle rive del Tevere. La terapia, che sembra inizialmente funzionare, innesca un cauto ottimismo di guarigione. Ai primi di luglio Tomasi accetta di trasferirsi a casa dei Biancheri, a Piazza Indipendenza. Poi peggiora improvvisamente, devastato dagli effetti collaterali della cobaltoterapia, che viene interrotta. Nel frattempo lo raggiunge, via Palermo, il secondo rifiuto di Vittorini, datato Milano 2 luglio: Egregio Tomasi, il suo Gattopardo l‟ho letto davvero con interesse e attenzione (…) Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti (…) il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d‟un‟epoca (…) Il manoscritto glielo faccio avere con plico a parte. Con i migliori saluti.
Giuseppe ci resta malissimo: è il classico “colpo di grazia”. Scrive a Gioacchino Lanza come ultima volontà: “Gradirei che il romanzo fosse pubblicato, ma non a mie spese”. Muore a Roma nelle prime ore del 23 luglio 1957, senza neppure sospettare la celebrità che il tempo di lì a poco gli riserva.
VASCO PRATOLINI A PONTE MILVIO Luglio 1943: tornato a Roma da Torino dove – successivamente al primo periodo “romano” (trascorso come impiegato presso la Direzione generale delle Belle Arti) – era stato nominato “per chiara fama” professore di Storia dell‟Arte presso il Regio Conservatorio di Musica, Pratolini contatta intellettuali e militanti comunisti per offrire il proprio contributo alla causa della
Resistenza. È una scelta di impegno etico: una vocazione civile affatto coerente con i recenti sviluppi della poetica pratoliniana, chiamata dalle particolari congiunture storiche a una più stringente rispondenza ai fatti, alle istanze della ragione, le verità del mondo e della vita. Aveva già scritto, nell‟ottobre 1941: «Nulla conterà di quello che noi oggi facciamo se non riusciremo a legittimarlo umanamente». Letteratura come vita, certo, ma anche come forza di autoconoscenza, come strumento di analisi del Tempo. Leggiamo a conferma (maggio 1943): «Io voglio essere uguale agli altri miei simili. Se un perché c‟è stato in questa distanza creatasi fra noi uomini, è da ricercare nell‟esserci rinchiusi ciascuno nella propria morale particolaristica (…). Io non voglio ridurre a una tecnica il mio cuore. Io credo di dovere, se voglio prestar fede al mio essere scrittore, parlare agli uomini ascoltandoli, ascoltarmi in essi». E ancora (dicembre 1943): «I fatti dovrebbero restituirci vivi, soprattutto nello spirito, permettendoci di fornire alla società il buono che è pure in noi (…) Penso che il momento è scoccato in cui negare una fiducia totale, un razionale dispendio di tutte le nostre forze alla società e per la società secondo un „bene‟ che non può non apparirci preciso e lampante, significherebbe destituire la nostra coscienza, la nostra intelligenza anche, di ogni valore (…) Questo è il momento, e chi adesso ne è fuori ne è fuori per sempre, dico come intelligenza, come morale». Laddove non arriva lo scrittore, poi, opererà integrandolo (a rischio della vita) l‟uomo civile in azione, il militante, il partigiano. È così che – dal settembre 1943 al giugno 1944 – Pratolini Vasco, nato a Firenze il 19 ottobre 1913 da Ugo e Nella Casati, scrittore stimato (ma non ancora celebre) e precario operatore della cultura italiana, assume il nome di battaglia Rodolfo, in aggiunta al cognome materno, e assolve il ruolo di responsabile politico del PCI per il settore Flaminio-Ponte Milvio. Ricorderà lui stesso, ormai autore affermato, a distanza di quindici anni: «Nel 1943 vivevo a Roma la vita del clandestino. Tempo per scrivere: zero. Ero con la gente di Ponte Milvio e di Tor di Quinto: partigiani impegnati in continue azioni di disturbo, a dirottare le colonne tedesche che risalivano verso il nord da Cassino, a spargere chiodi a tre punte lungo la Cassia e la Flaminia, a incendiare camion e camionette. Anche mia moglie, nonostante aspettasse una bambina – eravamo sicuri che sarebbe stata una bambina – lavorava con noi. Più i giorni passavano, più il problema della nascita si faceva urgente. Clandestini come eravamo, occorreva che anche la nostra bambina nascesse alla macchia. Tramite Carlo Bernari, ero allora in contatto con l‟editore Balistrieri, al quale avevo promesso Il Quartiere e, in più, una traduzione dei Veleni di Sainte-Beuve. Alla consegna del manoscritto, avrei ricevuto 5000 lire: lo stretto indispensabile per le spese di una clinica in cui mia moglie potesse essere ricoverata, senza che il suo vero nome venisse registrato. Non mi restava che scrivere durante le ore riservate al sonno». La bambina – era davvero una femmina – nascerà il 19 marzo 1944: i genitori, Vasco e la moglie Cecilia Punzo (attrice napoletana, conosciuta a Roma il Capodanno del 1940 e sposata il 12 aprile 1941), le impongono il nome Aurelia. Il trentunenne padre è, a quella data, ancora e soprattutto Rodolfo Casati, il militante rischiosamente impegnato nella costruzione – quotidiana e collettiva, lenta ma inesorabile – di una storia che il tempo, di lì a poco, avrebbe poi mostrato quanto grande. Ponte Milvio, dunque. Il ponte che «quasi a voler far riconoscere la propria maestà, non rinunciando alla sua prerogativa di essere il principale ingresso in Roma» è sempre e da sempre il «punto d‟incontro fra il popolo romano ed i visitatori». Tutti attraversandolo ci son passati: anche i grandi attori della Storia, secolo dopo secolo, vincitore dopo vincitore. Teatro e testimone di grandi eventi: a partire dalla mitica battaglia dell‟In hoc signo vinces, con cui Costantino sconfigge Massenzio (312 d.C.) ai “Saxa Rubra”, nei pressi del ponte, aprendo il varco al trionfo della nuova religione. Ed è lì che il “forestiero”, il fiorentino Pratolini conosce la magia di Roma: tanto più duratura quanto più indefinibile e non convenzionale. È il fascinum, è la malia sottile. Ponte Milvio è un luogo magico che – nell‟esperienza pratoliniana, sondato dal suo sguardo – finisce per assurgere a simbolo, a emblema di quei giorni convulsi e confusi, densi di vita, di palpitante e umana verità. Pratolini ci lascia il cuore. Non è a caso dunque che una sezione di “Diario sentimentale” (1956) reca il titolo Il mio cuore a Ponte Milvio. Si compone di tre “pezzi”:
Jacqueline, La Primula Rossa alla tomba di Nerone e (assemblaggio diaristico di frammenti) Paisà Paesano. Il primo segna la scoperta del ponte, e del fatto che i romani lo chiamano familiarmente “Mollo”. Una scoperta quasi iniziatica, agevolata dalla dolce compagnia della ragazza omonima, appunto Jacqueline. Scrive Pratolini: «Il Tevere che amavo era all‟isola Tiberina, risalirne il corso non mi tentava; così, la mia via Flaminia finiva all‟altezza dello Stadio, con il giallo-rosso di Masetti e l‟azzurro di Piola come orizzonte». E dunque Ponte Milvio? «Esisteva per ricordarmi Massenzio e Costantino, e più precisamente gli affreschi aretini di Piero della Francesca». Affreschi che Pratolini è indotto a ricordare dalla somiglianza di Jacqueline con una delle ancelle della Regina di Saba, «la figura che chiude il gruppo e che Piero ha vestito di rosa». Somiglianza che coglie proprio a Ponte Milvio (luogo magico di rivelazioni), il giorno che ci va insieme alla ragazza. Raggiungono i prati della Farnesina: «sostavamo su una radura, io supino ed ella seduta al mio fianco, il suo profilo inciso nella luce, coi capelli raccolti in un fazzoletto legato dietro la nuca». Ed è lì che Pratolini, il cuore acceso da fresche emozioni sentimentali, sembra aprirsi con meraviglia allo spettacolo, semplice e straordinario, della vita che scorre, di tutto che procede normalmente (la guerra è ancora di là da venire): Era il tramonto, quando lasciammo la pineta; in basso, sullo sterrato, trovammo dei giocatori di tamburello, operai e comparse che uscivano dai teatri di posa, i ragazzi giocavano a rincorrersi su e giù per i sentieri. Poi, un lungo viottolo incassato tra le siepi, tenendoci per mano, fino alle prime case. La gente di Ponte Milvio era fuori le soglie, sotto la pergola di un‟osteria, seduta sugli scalini della chiesa. Dal caffè accanto alla caserma, una radio riempiva il piazzale della sua voce; nei brevi istanti in cui taceva sembrava che la vita, fino allora sospesa, riprendesse il proprio corso, ed erano i colpi delle bocce al di là del pergolato, le auto che infilavano la Cassia, i ciclisti, gli uomini a gruppi, appoggiati agli alberi di spalle come contro un muro, il venditore col suo carretto carico di ciliegie. Una compagnia di ragazze attraversò il piazzale, tenendosi a braccetto; ancora bambini attorno la fontanella. Jacqueline ed io aspettavamo il tram alla fermata.
Questa è la scoperta di Ponte Milvio. La seconda volta è nell‟ottobre del ‟43, tutt‟altro lo scenario: «lo stesso tram», ma «adesso ero un soldato cui era stata affidata una missione, (…) un ufficiale che avrebbe dovuto prendere i primi contatti col suo plotone, schierato nell‟ombra, sulla pineta della Farnesina. Mi aspettavano degli uomini, i più audaci e i migliori della gente di Ponte Milvio». Rodolfo scende dal tram: «il piazzale era ancora quello, animato con la radio accesa nel caffè accanto la caserma, e qualcuno sedeva sui gradini della chiesa, popolata come allora l‟Osteria del Pallotta. Era un cammino ormai noto, il viottolo tra le siepi, dopo le ultime case, sotto la luna adesso, al fianco di un uomo che taceva», Righetto de Ponte Mollo, incontro ai compagni che aspettano, stesi a terra, in mezzo alla radura. In La Primula Rossa alla tomba di Nerone il Ponte è inquadrato come nodo cruciale della città aperta. Ricorda Pratolini: I tedeschi transitavano su Ponte Milvio notte e giorno: e giusto là dove Roma tornava terra italiana ch‟essi erano in diritto di calpestare, seduto sulla spalletta o sotto il fornice, qualcuno, immancabile, li salutava. Era una ragazza, le gambe accavallate e un libro sulle ginocchia; o un manovale che deposto un attimo il piccone si arrotolava la sigaretta; più spesso un Cecilio Giocondo dal ventre enorme e il viso arguto, tutti insospettabili, pronti a figgersi in mente ciò che gli passava dinanzi agli occhi. E, calato il sole, qualcosa di misterioso fermava i camion fuori l‟abitato, in un punto sempre diverso della Flaminia o della Cassia, o li dirottava prima che raggiungessero il ponte. (…) I tedeschi sparavano appena il camion si arrestava, senza ancora sapere perché una ruota aveva ceduto; continuavano a sparare saltando dal camion, girandogli attorno. Gridavano ordini, imprecazioni; accendevano lampade e fari. (…) Ja era l‟unica parola che gli uomini bocconi tra i campi, o in fuga lontano, riuscissero a capire. Essi tenevano in pugno le rivoltelle, le bombe a mano; e l‟eccitazione, l‟orgasmo, il desiderio erano in ciascuno diversi e tali che dovevano ripetersi mentalmente „Non sparare, non sparare‟ per riuscirci.
Guerra strana, mascherata di calma in superficie, di furtivi movimenti e celati appostamenti, di incursioni a macchia di leopardo, quasi incontrollabili. «Camminavano attraverso la campagna, quelle sere; il Tevere sfrusciava sotto i piloni di Ponte Mollo; abbaiavano i cani da Monte Mario alla Storta, nel giro delle colline; il silenzio e la luna
davano una prospettiva da Atlantide al paesaggio della Tomba di Nerone, e le cassette di munizioni sembrava recidessero il braccio all‟attaccatura». Magari erano in pochi, certamente meno di quanti occorreva, ma «avevano la gente di Ponte Milvio dietro di loro. Il suo cuore li proteggeva. E il suo palpito era negli sguardi delle fanciulle, nella inflessione di voce con cui uomini e donne rispondevano al loro saluto, nel gesto della venditrice di uova seduta sui gradini della chiesa» – dove si noti la polivalenza di quel “suo”, attribuibile sia a “gente” che a “Ponte Milvio”. Ma com‟erano, insomma, questi pontemollesi doc che Pratolini ha modo di conoscere sul vivo dell‟azione, corale e fraterna, laddove emerge la verità autentica dell‟uomo, chiusa e come soffocata nel privato del singolo individuo? Quelli che lo scrittore chiama “compagni”: «da ottobre a giugno – coi muratori, i camionisti, gli operai e gli studenti di ponte Milvio e Tor di Quinto». Personaggi realmente esistiti come il “barcarolo” Strappacore o Peppino, l‟ultimo custode della torretta Valadier, o come il Nino ricordato da Pratolini nel terzo “pezzo” (Paisà Paisano), che abita con moglie e figli dentro una catapecchia sul Tevere e, per rincuorare i compagni di lotta, non fa che ripetere „Ce la famo, ce la famo‟. Uomini veri, forse «un po‟ burberi, ma semplici e schietti e con un grande cuore». Le tappe cruciali della vicenda privata e civile di Vasco-Rodolfo vengono scandite e segnate dal 19 marzo, giorno natale della figlia Aurelia (che viene alla luce tra gli scoppi delle bombe: «immediatamente gli aerei alleati furono sulla città, sganciarono sulla stazione vicina. I vetri delle corsie tremarono, andarono in pezzi per lo spostamento d‟aria. E sul tremotìo e gli schianti, gli urli delle donne, gli strilli dei neonati!»), quasi concomitante con quello del massacro alle Fosse Ardeatine (di cui si registrano reazioni e riunioni conseguenti fra i gruppi di lotta), ma soprattutto dall‟atto conclusivo della Liberazione (4-5 giugno 1944), che finalmente scioglie i nodi del dramma, restituendo a tutti il sorriso e l‟ebrezza di una gioia che non è facile assaporare, a memoria d‟uomo, così viva e intensa (i tedeschi che battono in ritirata – un‟auto scoperta con a bordo un ufficiale sbanda in corsa e sbrecca il parapetto sinistro del ponte – mentre già gli americani sono entrati, stanchi e felici, a piazza del Popolo, e Roma tutta è in festa, liberata). Ecco come Pratolini coglie l‟ultimo sussulto di un momento storico, di quelli che appaiono tali già nel viverli, sopraffatti dal peso di un‟emozione grande da sostenere, che quasi ci annulla, e non ci lascia campo: Le prime avanguardie alleate arrivarono sul far dell‟alba, quasi dodici ore dopo che il Centro di Roma era stato liberato; trovarono Ponte Milvio e Tor di Quinto deserti, ma carichi di scritte e di trionfo; (…) la gente era per le strade, li applaudiva, gli dava da bere. I G.I. erano bravi, parlavano italiano, offrivano sigarette e cioccolata ai bambini; si sarebbe sempre stati amici; con uno del Missouri ci scambiammo le rivoltelle. „John.‟ „Rodolfo.‟ „Paisano.‟ „Paesano.‟.
Era questo l‟happy end di un‟epopea civile cui anche Pratolini aveva portato il suo umile ma significativo contributo di fede e di impegno, contribuendo alla storia non solo letteraria del nostro Paese.