Osservatorio
Outsider Art
AUTUNNO 2015
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© Osservatorio Outsider Art - via Emilia 47, 90144 Palermo www.outsiderartsicilia.com Pubblicazione Semestrale Autorizzazione del Tribunale di Palermo n. 25 del 6/10/2010 ISSN 2038 - 5501
Osservatorio
Outsider Art AUTUNNO 2015 10
Direttore scientifico Eva di Stefano Direttore responsabile Valentina di Miceli Comitato scientifico Domenico Amoroso, Musei Civici di Caltagirone Francesca Corrao, Fondazione Orestiadi Stefano Ferrari, Università di Bologna Enzo Fiammetta, Museo delle Trame Mediterranee Marina Giordano, comitato direttivo di EOA Vincenzo Guarrasi, Università di Palermo Teresa Maranzano, Progetto mir’art, Ginevra Lucienne Peiry, Università di Losanna Collaborazione scientifica Roberta Trapani, Università di Parigi X- Nanterre Traduzioni Eva di Stefano, Denis Gailor, Marina Giordano, Marco Mezzatesta Progetto grafico e impaginazione Michele Giuliano Editore Associazione Culturale Osservatorio Outsider Art, Palermo
Indice Editoriale
di Eva di Stefano
Agenda
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Esplorazioni
Germana Dragna e le virtù dell’inchiostro di Eva di Stefano
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Art Brut ante litteram: l’eremita di Rothéneuf di Joëlle Jouneau
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Dossier Heterotopias
In viaggio attraverso la Sicilia Outsider di Paola Capone
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Cittadelle di isolamento: rispetto per gli Outsider Environments di Roger Cardinal
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Environments storici di Outsider Art. La situazione in Francia di Marc Botlan
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Patrimoni irregolari: definizioni e strategie di salvaguardia di Roberta Trapani
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Verso una rete internazionale di salvaguardia? Una testimonianza di Laurent Danchin
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Indice Approfondimenti
Andrè Robillard e la Collection de l’Art Brut: una storia che dura di Sarah Lombardi
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Henri Darger nel paese delle crudeltà e delle meraviglie di Alba Romano Pace
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Scrittori di corpi: Anne-Marie Gbindoun e Mehrdad Rashidi di Marta Spagnolello
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Il volto nell’Art Brut: autoritratti, identità ritrovate, identità rimosse di Lucienne Peiry
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Storie di confine
Dal punto di vista degli artisti: intervista a François Burland di Teresa Maranzano
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Norman Mommens: la ‘decrescita felice’ di Lorenzo Madaro
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Libri
La pulsione creativa allo scoperto di Giada Carraro
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L’Art Brut per l’infanzia di Eva di Stefano
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Indice Report
La casa dei simboli di Bonaria Manca e il dibattito sulla sua tutela di Rossella Faraglia
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La tutela possibile. L’esempio del ‘castello incantato’ di Filippo Bentivegna di Lorenzo Madaro
Note informative Gli autori dei testi Crediti fotografici
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editoriale di Eva di Stefano
Con questo numero, speciale per ricchezza di temi e contributi, la nostra rivista si presenta con una nuova e più sobria veste grafica e con il suo nome per esteso, e torna all’originario formato elettronico con in più, per gli irriducibili amanti della carta stampata, l’opzione print on demand, che troverete sul nostro sito. L’avventura editoriale che ha coinvolto per due anni, dal n. 6 al n. 9, le Edizioni Glifo di Palermo si è rivelata, infatti, poco sostenibile nelle circostanze attuali di sofferenza di tutto il mondo della carta stampata e così, non senza ringraziare Glifo per il generoso impegno profuso e per la grafica fantasiosa che Luca Lo Coco ci ha donato negli anni, noi proseguiamo editando la rivista in proprio e con le nostre sole forze, ma con grande fiducia in uno strumento come internet che consente la più ampia diffusione con il minimo dell’investimento. Né fondi né mecenati finora ci sostengono nonostante l’indubbio successo e i risultati concreti del lavoro sul territorio svolto dall’associazione, l’attivazione di una rete e il consenso internazionale confermato dal recente convegno Heterotopias, che abbiamo organizzato in Sicilia, al quale hanno partecipato molti insigni studiosi, membri dell’European Outsider Art Association e rappresentanti di istituzioni dedicate all’Outsider Art provenienti da tutti i paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera, Austria, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Svezia, Norvegia, Finlandia) oltre che dagli Stati Uniti e dall’Italia: «a major event in our intellettual lives» lo ha generosamente definito il decano della materia Roger Cardinal. Nel Dossier che in questo numero dedichiamo al convegno, dopo un breve resoconto generale di Paola Capone, abbiamo dovuto selezionare, tra i tanti interessanti e innovativi contributi, solo tre interventi, in cui le problematiche in gioco ci sembrano dispiegate a pieno campo: Roger Cardinal delinea la figura del creatore outsider di opere ambientali
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per il quale invoca il dovuto rispetto, Roberta Trapani pone il tema critico delle definizioni di questa tipologia artistica e la necessità di un’etica metodologica, Marc Botlan analizza le opere e i problemi della loro tutela istituzionale così come sono stati affrontati storicamente in Francia, il paese europeo che ha dedicato più attenzione al fenomeno dei “costruttori dell’immaginario”. Non è un caso che in tutti questi contributi si renda omaggio al Palais Idéal del postino Cheval, luogo emblematico, come afferma anche Laurent Danchin, importante studioso che ci ha sempre sostenuto, di cui abbiamo inserito la testimonianza che ci ha inviato pur non avendo potuto partecipare fisicamente al convegno, e che apre a quel progetto di rete globale che sarà il nostro comune impegno futuro. Il dibattito sugli environments, il fenomeno forse più rappresentativo dell’Outsider Art oggi, continua anche sulle altre pagine della rivista: il degrado in cui versano oggi le celebri rocce scolpite dall’Abate Fouré sulla costa bretone; il progetto di valorizzazione delle pietre del “castello incantato” di Filippo Bentivegna a Sciacca, a cui è stato apposto recentemente il vincolo monumentale grazie allo straordinario impegno della Soprintendenza di Agrigento; le riflessioni di metodo attorno alla “casa dei simboli” di Bonaria Manca a Tuscania. Se nei contributi di Lucienne Peiry e di Marta Spagnolello si analizzano temi ricorrenti come il ritratto e la scrittura plastica, Teresa Maranzano continua la sua indagine sulla definizione di Art Brut così come viene vissuta da artisti autodidatti che si collocano in una zona di confine tra inside e outside: in questo numero François Burland racconta la sua esperienza contraddittoria. Nella zona di confine si incontrano talora anche artisti professionali che si sottraggono volontariamente al sistema scegliendo l’isolamento e la marginalità geografica, come il belga Normann Mommens, la cui avventura esistenziale e artistica in Puglia ci viene qui narrata da Lorenzo Madaro.
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A rendere ‘specialmente’ ricco questo numero sono anche grandi protagonisti dello star system dell’Art Brut (e del suo mercato sempre meno di nicchia) come Henri Darger nel racconto di Alba Romano Pace, e il versatile André Robillard, ultimo tra gli artisti collezionati da Dubuffet ad essere tuttora attivo, del quale ci regala una documentata presentazione Sarah Lombardi, direttrice della Collection de l’Art Brut, il museo di Losanna che ringraziamo per averci sempre sostenuto e continuare a sostenerci. Non mancano neanche le nuove scoperte locali, come l’appassionata pittrice siciliana Germana Dragna, a conferma della continuità delle nostre ricerche. Perciò, come sempre, apriamo e chiudiamo le nostre pagine con la Sicilia. In coda all’editoriale, una selezione di notizie brevi dal mondo dell’Outsider Art e affini, che da ora in poi costituirà una rubrica fissa.
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AGENDA
Outsider Art in Italia 1 Dalla fine di novembre 2015 a fine marzo 2016 a Casale Monferrato, nelle sale del Castello, è aperta la mostra Outsider Art, il contemporaneo presente. La collezione Cei, a cura di Giorgio Bedoni, che propone le opere di una importante collezione privata, unica in Italia, dedicata a questa fenomenologia espressiva rappresentata soprattutto dagli artisti di Gugging, il noto centro creativo vicino Vienna, e dell’est europeo, ma non soltanto. Ad avvalorare la qualità della raccolta, il volume-catalogo edito da Jaca Book è ricco di contributi anche internazionali: tra gli altri, Francesco Barale, John Maizels, Johann Feilacher, Roger Cardinal, Fausto Petrella, Nina Krstic, Francesco Porzio. Qualcosa di nuovo si muove infine nel nostro paese, almeno sul piano privato, e lascia ben sperare. Outsider Art in Italia 2 Inquietudine delle intelligenze. Contributi e riflessioni sull’arte irregolare, a cura di Bianca Tosatti e Stefano Ferrari, pubblicato nell’anno in corso, arricchisce la scarna bibliografia italiana sull’argomento. Fa parte della collana on line “I quaderni di Psico Art” edita dalla rivista on line “PsicoArt” dell’Università di Bologna. Contiene saggi di diversi studiosi ed operatori del settore su alcune raccolte paradigmatiche come la collezione Marro di Torino, la Fabuloserie in Francia, il Museo Zander in Germania, e su interessanti esperienze di valorizzazione realizzate negli ultimi anni in Italia, per mettere a fuoco le attuali problematiche critiche e approfondire il dialogo tra arte e psicologia. Sul sito www.psicoart.unibo.it/ dove si può richiedere anche una copia a stampa.
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La versione cinese Da qualche anno anche la Cina mostra interesse verso l’Art Brut. E adesso ne approfondisce anche la storia attraverso la traduzione del famoso volume di Lucienne Peiry L’ Art Brut, uscito nelle edizioni Flammarion nel 1997 e rieditato in Francia già quattro volte, oltre ad essere tradotto in inglese e tedesco. In quest’ambito un vero best-seller che racconta in modo rigoroso l’avventura di Dubuffet e le peripezie della sua collezione prima dell’approdo a Losanna nel 1976, e allo stesso tempo illumina l’estetica brut attraverso l’analisi di numerosi creatori marginali e ‘sovversivi’ e le 200 illustrazioni. Il libro pubblicato da Shangai University Press è stato recentemente presentato a Shangai in occasione del 65. anniversario dell’inizio delle relazioni diplomatiche tra Svizzera e Cina. Una ricamatrice visionaria Rosa Zharkikh è morta quest’estate a Mosca all’età di 85 anni. Dal 1976, dopo una grave operazione, affermava di avere delle visioni di ‘un mondo parallelo’ che trasferiva nel ricamo intrecciando reti di fili variopinti creando piccoli arazzi astratti o con figure alate. Spiegava la sua tecnica assolutamente personale e inconsueta sostenendo che le sue mani erano guidate da una forza invisibile. Scoperta da Vladimir Abakumov (Outsider Art Centre a Bar, Montenegro, ex-Moscow Museum of Outsider Art), i suoi lavori sono stati presentati nel 2007-2008 presso la Collection de l’Art Brut di Losanna nella grande esposizione collettiva L’envers et l’endroit sulle creazioni tessili nel mondo. Oggi le sue opere sono conservate in gran parte nel già citato museo di Losanna e nell’attuale museo di Outsider Art a Bar, Montenegro. In ricordo di Rosellina Anche tra le fila dell’Outsider Art siciliana, dove era stata appena arruolata, si registra una dolorosa scomparsa: Rosellina Cirafici, poetessa e disegnatrice, se ne è andata improvvisamente quest’estate a soli 48 anni. La ricordiamo partecipare agli spettacoli della comunità terapeutica Lares presso l’ex-ospedale psichiatrico di Palermo, e recitare i suoi versi, commossa e sorridente, il 24
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maggio scorso durante la presentazione del n. 9 della nostra rivista, in cui abbiamo pubblicato i suoi disegni con un articolo di Luciana La Stella, che ha anche raccolto le sue poesie e i suoi disegni trasparenti in un volumetto: Rosellina Cirafici, Frammenti da legare, Inconscio e Società - Aracne, Roma 2014. La follia di Artaud A chi ama Artaud e vuole conoscere meglio la sua vicenda psichiatrica segnaliamo un volume documentatissimo pubblicato in Francia, che mette fine alle interpretazioni fantasiose attraverso i dossier medicali e un’attenta indagine storica, che ne fa anche un importante contributo alla storia della psichiatria. Il volume contiene diversi testi di Artaud e la corrispondenza dei suoi medici. Gli autori sono il saggista Laurent Danchin, specialista internazionale di art brut, outsider art e creazione autodidatta e Andrè Roumieux, infermiere psichiatrico, autore già di alcuni volumi sulle istituzioni psichiatriche, che definisce il poeta «uomo di sofferenza e verità»: L.Danchin, A. Roumieaux, Artaud et l’asile, Séguier, Parigi 2015. Omaggio a Caroline Bourbonnais La Fabuloserie, museo dell’arte fuori norma a Dicy (Francia), è un luogo magico: una casa di campagna al bordo di un piccolo lago le cui rive, come l’intero parco, sono una galleria a cielo aperto abitata da creature fantastiche e macchine bizzarre, così come le stanze della dimora. Qui è protagonista lo spirito giocoso dei creatori outsider; la sorpresa e il riso sono dominanti. Così era stato concepito nel 1982 dall’architetto Alain Bourbonnais, così è stato portato avanti dopo la sua morte dalla moglie Caroline, donna famosa per la sua ospitalità calorosa e la cura amorevole per questo luogo. Scomparsa nel 2014, le è stato reso omaggio quest’estate con una mostra e la pubblicazione Des jardins imaginaires au jardin habité, edita dal museo, con contributi di tutti i maggiori attori, studiosi, curatori, artisti e fotografi, del mondo brut e outsider di Francia, e non solo. La vita del museo prosegue con la gestione familiare delle figlie Agnès e Sophie. Vale la visita.
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GERMANA DRAGNA E LE VIRTù DELL’INCHIOSTRO di Eva di Stefano
ESPLORAZIONI Un colpo di dadi non abolirà mai il caso Stéphane Mallarmé
Nuova e interessante scoperta da arruolare nell’Outsider Art: la pittrice autodidatta che crea interi mondi a partire da macchie accidentali di inchiostro
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L’incontro con Germana Dragna è di quelli che danno senso al mio lavoro di talent-scout del margine, lasciando coincidere scoperta artistica e avventura esistenziale1. Germana è una donna “con il sole in fronte”, bella, esuberante, estroversa, e con una vocazione all’arte che si porta dentro fin dall’infanzia, ma nei suoi occhi ridenti c’è anche, come scrive lei stessa, «un fazzolettino bagnato che si asciuga nel nulla». Oggi felicemente nonna, ama il suo lavoro di collaboratrice scolastica (bidella) presso un liceo artistico cittadino, scelto proprio per respirare quel clima in cui avrebbe voluto lasciar scorrere la sua vita. Si definisce un’attenta osservatrice della natura, un’amica delle nuvole che ama guardare il cielo. Disegna e dipinge solo d’estate quando, libera da impegni,
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può concentrarsi compiutamente. Non sono mancati nella sua esistenza i momenti di disagio e spaesamento. Nata nel 1954 a Palermo in una famiglia numerosa (erano in otto tra fratelli e sorelle), fu affidata già a poco più di due anni a una coppia di zii senza figli, trascorse perciò la prima infanzia a Roma e, nonostante la precoce separazione dalla madre, si trattò di un’infanzia felice e più benestante, a contatto continuo con la natura, coccolata come se fosse figlia unica. Lo spaesamento ci fu invece al ritorno nella sua città, a sette anni, in una situazione affollata tra fratelli sconosciuti e le regole a quel tempo ancora opprimenti delle famiglie siciliane. Dopo il diploma di scuola media avrebbe infatti voluto continuare gli studi, ma riuscì a frequentare per soli tre mesi un istituto d’arte, ostacolata da quelle consuetudini che
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volevano “le femmine a casa”, imposte soprattutto dal fratello maggiore. Lei, cresciuta come uno spirito libero, dovette adeguarsi e finì, come si usava, per sposarsi a soli 17 anni, ma fu come cadere dalla padella nella brace, sotto il totale controllo, sia economico che psicologico, della famiglia del marito. Non servì due anni dopo, nel 1974, l’emigrazione in Canada, dove Germana ventenne affrontò un nuovo spaesamento dovuto alla lingua e al freddo clima di Ottawa, perchè i suoceri presto li seguirono con altri parenti. Aveva sempre disegnato, ma fu a quel punto, in quella solitudine troppo affollata, che prese a dipingere con concentrazione, così il foglio diventò per lei come quella “stanza tutta per sé” agognata da Virginia Woolf, un luogo cioè dove poter essere ed esprimere se stessa. Dopo quattro anni la giovane
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coppia, adesso con due bambine, torna a Palermo; Germana inizia a lavorare come bidella, da principio in una scuola materna, e la vita va avanti con i suoi alti e bassi fino a quando il marito perde il lavoro e decide di tornare in Canada presso i parenti. La separazione, a cui farà seguito il divorzio, è per Germana un terremoto emotivo, un catastrofe improvvisa e un dolore inaspettato a cui far fronte. A salvarla sarà la sua vitalità insieme alla pittura, dove trova una compensazione alla solitudine e uno spazio di libertà. Sul tavolo un foglio, in genere 33x24 (ma ultimamente lavora su un formato un po’ più grande 33x48), una boccetta di inchiostro di china, pastelli e acquarelli. Germana inizia intingendo nell’inchiostro nero una piuma, una foglia, o un qualsiasi altro oggetto leggero, e con un gesto rapido delle due mani (è ambidestra) schizza più volte o lascia colare alcune macchie sulla carta. Sono il punto di partenza della composizione: nelle macchie casuali lei scorge animali e creature, i personaggi e gli elementi di un paesaggio da evidenziare con il contorno a penna, attorno a cui intessere con i colori una trama movimentata, un vortice, un maremoto che occuperà tutto lo spazio del foglio. Le macchie, inquiete e selvagge, guidano la mano e attivano l’immaginazione: un procedimento semiautomatico, affine ai metodi surrealisti, che dà vita a un mondo formicolante, traboccante e vorticoso che regala sorprese anche all’autrice. Gonfie di inchiostro, le macchie impongono un’acutezza dei sensi, obligano ad intervenire e costringono a vederci chiaro, a decidere al momento, non è possibile correggere o ripassare. È la spontaneità pura: Germana non cerca di fare questo o quello, accoglie invece il discorso imprevedibile delle macchie, lo segue e non sa cosa accadrà. Così dall’informe nascono le forme, il caos si articola in paesaggio, la luce sconfigge le tenebre e, riproponendo il processo originario della creazione, nasce un mondo nuovo: è possibile riconoscere volti, paesaggi esotici e remoti,
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animati villaggi indigeni, figure umane intente alla pesca, e bisonti, zebre, tigri, pantere, lucertole o altri animali fantastici. Le macchie sono diventate scure silhouette, dove la fantasia vira verso l’Altrove, un mondo più antico e primitivo con la natura al primo posto, senza gabbie o punti fermi: manca un centro e tutto invece si muove come in un terremoto di libertà o un viaggio per mare. Non a caso, il mare ricco di pesci, solcato da barche, è spesso presente e si insinua tra le macchie come elemento generatore di vita che unisce la composizione frammentata in multiple direzioni. Il potere ipnotico delle macchie è noto ai creatori non solo surrealisti. Ad esempio, il grande scrittore romantico Victor Hugo nei suoi disegni enigmatici partiva da macchie sfumate di grafite, d’inchiostro, di vino, di sangue per creare figure astratte, effetti di chiaroscuro, paesaggi imprecisi, profili di città lontane, cupi
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scorci di Parigi, castelli in rovina, ritratti di mostri ghignanti. In tempi più vicini, Henri Michaux, artista tra automatismo surrealista e pittura informale, scrive: «In che momento ho smesso di disegnare col pennello? Prima di usare l’inchiostro senza problemi, passa del tempo. Finalmente un giorno vado giù deciso. Lo faccio sgocciolare, a scatti, dalla bottiglia aperta. E che si sparga pure adesso […] Con il pennello ho finito. Il flutto che cola, sovrano, sembra sfrontato. Nero di scontentezza. Nero disinibito, senza compromessi […] Mi riprendo, lo riprendo, lo divido, lo lacero […] mi batto con la macchia»2. Citare questi precedenti colti e illustri nulla toglie all’originalità del procedimento di Germana Dragna, che - come tutti i veri creatori di Outsider Art - ha trovato da sola il proprio linguaggio espressivo, lavorando per se stessa senza modelli, spinta esclusivamente dalla necessità interiore. Semmai condivide con questi personaggi una qualche capacità sensitiva e visionaria, che in lei alterna sogni premonitori a lucide esperienze extracorporee, diventate più rare con il passare del tempo. Agli individui sensitivi le macchie parlano con un linguaggio altro che attiva l’energia creativa dell’inconscio: già alla fine del XIX secolo, lo psicologo Alfred Binet aveva messo a punto un test della creatività a base di macchie d’inchiostro, mentre il famoso test di Rohrschach, tuttora in uso per l’indagine della personalità, non è che un atlante di macchie. Queste osservazioni servono forse a spiegare la mia fascinazione per le macchie di Germana, ma non il suo mondo che è più semplice e perciò tanto più autentico. Per lei, che in una prima fase disegnava a mano libera, senza ripensamenti, intrecciando ingenuamente curvilinei motivi naturali o decorativi, macchiare il foglio rappresenta principalmente l’avvio consapevole di un processo creativo, liberatorio perchè accidentale. Il lavoro vero e proprio viene dopo: sei, sette ore per
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completare un disegno modulando colori accesi o delicati che ristabiliscono l’armonia e tengono assieme la narrazione dei segni, sottraendo alla casualità le selvatiche sagome nere. Un lavoro «rilassante e solo mio» dice l’artista, che in questa ultima estate ha preso a sperimentare anche con inchiostri colorati, espungendo il nero, così adesso le macchie sfrangiate diventate rosse, verdi, azzurre, guidano la sua mano verso composizioni quasi monocromatiche, fatte di sottili variazioni e vibrazioni di tinte simili, e anche il vortice dei segni sembra meno contratto, come se adesso tendesse invece alla distensione e all’espansione. Come se l’inquietudine stesse trovando pace.
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L’A. ringrazia la prof. Maria Muratore per aver fatto da tramite di quest’incontro.
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H. Michaux, Emergences-Resurgences (1972), in Sulla via dei segni, a cura di L. Frisa, Graphos, Genova 1998, pp. 18-19.
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Art brut ante litteram: l’eremita di Rothéneuf di Joëlle Jouneau
• La storia avvincente di un outsider di fine Ottocento • Le rocce leggendarie scolpite da un prete in pensione sulla costa bretone • La situazione attuale
Il 4 settembre 1839 Adofe Foueré nasce a Saint-Thual, piccolo comune del dipartimento francese di Ille e Vilaine in Bretagna. «Boschi, valli, fertili pianure, bel paese dei miei antenati, amo le tue montagne, sotto il tuo cielo siamo felici»1. In questo ambiente Adofe cresce a fianco di un padre carpentiere, in seguito locandiere e agricoltore. La madre, a casa, alleva i due figli, François (nato nel 1833) e il nostro protagonista Adofe. Al tempo della sua giovinezza, come molti altri ragazzi dell’epoca, va ad occupare i banchi del Piccolo Seminario e nel 1858 entra al Grande Seminario di Rennes. L’insegnamento ricco e rigoroso plasma le conoscenze del futuro prete che si distingue in storia e geografia. Il 19 dicembre 1863 Adolphe Fouré viene ordinato prete (con questo nome). Il sacerdozio lo porta in differenti paesi della zona di Ille e Vilaine, tra cui Paimpont dove resta 14 anni. Questo passaggio in una terra di leggende come Brocéliande e nel villaggio di Forges, sito industriale del ferro presso Paimpont, gli lascia una grande stima per gli operai. Il suo sacerdozio terminerà nell’amarezza nel 1894 a Langouët. Dopo anni di servizio buono e leale, i suoi superiori impongono all’Abate di lasciare la sede adducendo il motivo pretestuoso della sua sordità... L’Abate Fouré a Rothéneuf A cinquantacinque anni, il 13 ottobre 1894, Adolphe Fouré approda a Rothéneuf2, paesino sulla costa bretone, animato dai suoi pescatori e ortolani. Senza un incarico amministrativo, e come dirà lui stesso «per occupare il mio ozio» rimugina idee nel corso delle sue passeggiate lungo le scogliere. Dal villaggio il tragitto è breve per accedere alle sporgenze dove lo attende il suo nuovo amico: il mare. Sarà là, in questo nuovo paesaggio roccioso accompagnato dal rumore delle onde, che presto si opererà la magia. In seguito confesserà più volte come proprio durante queste evasioni a tu per tu
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con il mare scorgeva disegnarsi sugli scogli , a seconda della luce, forme e profili incerti.... Se oggi, il nome dell’Abate Fouré è associato unicamente al sito delle rocce scolpite, non era così all’inizio del 1900. All’arrivo, i numerosi visitatori scendendo dal tramway si recavano sistematicamente all’Eremo3 per scoprire i compagni dell’Abate che popolavano la sua galleria e i viali del suo giardino. Un caotico cafarnao attendeva il visitatore. Legni recuperati, ceppi, legna da ardere, e legni nobili alimentavano la creatività debordante del nostro Abate. In mezzo ad arbusti e fioriture, più di 200 sculture, dipinte per lo più a colori vivaci provocavano stupore e ammirazione negli adulti e incutevano paura ai piccini.
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Ma torniamo all’opera scolpita.... È alla Punta del Cristo, situata tra la spiaggia del Val e il luogo oggi chiamato Rochers sculptés (rocce scolpite), che l’Abate Fouré dà inizio alle sue prime creazioni. La scultura principale: il Duca di Bretagna, Giovanni IV, simboleggia il suo ‘filo rosso’: immortalare la storia della Bretagna nel granito. Poi decide di proseguire sulle rocce della punta seguente, chiamata la Haie, dove una decina d’anni più tardi, il poema di granito attirerà folle innumerevoli. È nato l’Eremita di Rothéneuf ... L’ Abate sa accogliere i suoi visitatori; un’installazione sorprendente dà loro il benvenuto sul primo spazio piano. Ceppi di legno scolpito disposti sul bordo della scogliera e un portico d’ingresso costituito da ramaglie salutano i numerosi turisti. Alcuni pannelli informano che state penetrando nel recinto dell’Eremita: «Siete ospiti dell’eremita, degnatevi di ricordarlo... Avete un cuore, degnatevi di servirvene...». Poi, scendendo nel secondo terrazzamento, lo sguardo dei curiosi si smarrisce: immagini di violenta dolcezza e di sconvolgente tenerezza vi invadono; infine state davvero penetrando nell’universo dell’Eremita.... Senza alcun dubbio la prima sorgente d’ispirazione dell’Abate per la nascita dei suoi personaggi sta nelle forme delle rocce o dei legni. In secondo luogo l’Abate, che si era distinto in storia e geografia durante i suoi studi, sosteneva di seguire due linee-guida: la storia patriottica e la storia religiosa. La prima specialmente con Jacques Cartier, nato in zona e scopritore del Canada, e la seconda con i santi della sua Bretagna natale. A fianco di personaggi celebri come Napoleone, Cleopatra o
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la Regina di Saba, l’Abate dichiara il suo attaccamento «per l’epoca cristiana della storia di Bretagna». Un’altra fonte alimenta regolarmente il suo spirito creativo: i giornali grazie ai quali riceve informazioni dal mondo intero. Così raffigura una scena della guerra dei Boeri: si tratta della seconda guerra contro gli inglesi che ebbe luogo nell’Africa del Sud nel 1899. L’Abate rappresenta uno degli eroi francesi di questa guerra: il colonnello di VilleboisMareuil ucciso in combattimento nel 1900. La nuova celebrità del nostro Eremita gli riserva molte sorprese Non era raro che, quando arrivava la mattina sulla scogliera, trovasse vandalizzato il naso o il braccio di qulche scultura. Ma, la sua perseveranza e la folla sempre più numerosa stopparono questi atti i cui autori vennnero qualificati dall’Abate come «razza di pirati». Alla fine di ogni inverno, egli dispensava le sue cure a ciascuna delle sue realizzazioni: un ritocco alle sculture, una riparazione alle parti in cemento, uno strato di pittura per decorare e proteggere il tutto. Ci si chiede se lo faceva per un effetto decorativo o per contrastare la proliferazione dei muschi e licheni, dovuta alla vicinanza del mare. La notorietà dell’ Eremita di Rothéneuf sia in vita che dopo la morte è incontestabile. Come per il postino Cheval e il suo Palazzo Ideale, la stampa nazionale e internazionale gli fa visita. Le cartoline postali circolano a milioni nel mondo e accentuano la sua popolarità. 500 dediche in un pomeriggio: un record! L’ Abate approfitta di questa popolarità per dedicare le sue opere ai poveri! «Alcuni tronchi» sono destinati a raccogliere
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gli oboli dei suoi ammiratori per essere in seguito redistribuiti dall’Abate ai bisognosi. Durante l’inverno del 1907, colpito da malattia, l’Abate smette di scolpire la scogliera, ma continua la propria attività artistica su legno all’interno del suo Eremo, dove muore il 10 febbraio 1910. L’Abate Fouré, precursore dell’Art Brut «L’ Art Brut è una forma di espressione praticata da autodidatti, ‘ignoranti’ nel senso buono del termine di tutti i codici dell’arte, senza modelli ereditati né sapere trasmesso, senza un mercato definito; essi inventano il proprio linguaggio espressivo in modo innato e spontaneo, senza cercare alcun
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riconoscimento»4. «L’ Abate Fourè può essere considerato come un precursore della nozione di Art Brut, che è stata sviluppata a partire dal 1945 da Jean Dubuffet […]. Alla stessa maniera del Postino Cheval, l’Abate considerava la propria opera già presente nella natura, non bisognava che comple-
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tare l’opera che questa aveva intrapreso, rivelando i contorni delle forme viste nella roccia. Inoltre, l’autore ha rifiutato a più riprese il denaro offerto per le sue creazioni, rassegnandosi a vivere in povertà secondo i precetti della Chiesa, e redistribuendo ai più svantaggiati i modesti incassi della vendita delle sue cartoline che riproducevano questo sito unico»5. Dopo la morte dell’Abate I suoi beni vengono venduti. Dal 1911 il sito delle rocce scolpite è a pagamento e in mano a privati. La stessa famiglia gestice ancora oggi il luogo. Il proprietario dell’Eremo (luogo d’abitazione dell’Abate) acquistò la maggior parte delle sculture in legno al fine di lasciare il posto aperto al pubblico. Nel 1922 i gestori del sito delle roccie scolpite acquistarono anche il ‘museo dei legni’ dell’Eremita. Dopo la Liberazione nel 1944
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viene segnalato senza altre precisazioni che il contenuto del ‘museo’ è sparito. È la fine dell’Eremo e di una parte notevole dell’opera dell’Abate Fouré Lo stato attuale dei luoghi Cento anni dopo l’opera in granito si è degradata. Una relazione redatta nel 2009 dalla DRAC ( Direzione Regionale Affari Culturali) di Bretagna evidenzia tre punti importanti concernenti il sito delle rocce scolpite di Rothéneuf, considerata una delle più grandi opere d’Art Brut in Francia: • lo stato allarmante delle sculture • l’inadeguatezza dei discorsi dei gestori del sito sull’iconografia delle sculture • l’inesistenza di uno spazio d’informazione serio dedicato ai visitatori in cambio dell’ingresso a pagamento
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Nell’estate del 2010, con la spinta di questa stessa amministrazione, è stata creata un’associazione culturale allo scopo di valorizzare e fare conoscera l’opera dell’Abate. Ricerche sono state condotte presso numerosi archivi municipali, dipartimentali, nazionali e la Biblioteca Nazionale di Francia per reperire notizie sulla sua vita. Scopo dell’Associazione è semplicemente correggere gli errori e apportare informazioni nuove, e attraverso questa via, avvicinarsi di più alla verità storica degli avvenimenti, dell’uomo, del prete e dell’artista; e infine di salvaguardare un elemento del Patrimonio culturale della Bretagna. L’Associazione “Amici dell’opera dell’Abate Fouré”* Per realizzare la sua missione l’associazione ha attivato più assi di intervento: mostre sull’artista e le sue opere, sensibilizzazione sull’opera dell’Abate in relazione all’Art Brut, ricerche e valorizzazione, messa in rete e comunicazione nazionale e internazionale. Dal 2014, l’associazione lavora sulla valorizzazione della Punta del Cristo, con un approccio alla memoria che si traduce nell’attuazione del monitoraggio e manutenzione delle sculture in granito; inoltre in un lavoro di scansione in 3 D. Attualmente l’associazione e i suoi partner riflettono sulla realizzazione di una replica della scultura del Duca di Bretagna. Così l’opera dell’Abate Fouré beneficerà delle nuove tecnologie per la sua salvaguardia.
* http://rochersrotheneuf.wordpress.com
[email protected] Traduzione dal francese di Eva di Stefano
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Estratto del libro d’oro dell’Abate Fouré,1906.
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NdR. Rothéneuf è una frazione di Saint- Malo.
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NdR. Viene così designata la piccola casa di pietra circondata da un giardino dove l’Abate abitava e che aveva trasformato in atelier e museo personale.
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Intervista a Lucienne Peiry, in «Le Pays Malouin», 3 luglio 2014.
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S. Lombardi, L’homme et la mer, prefazione in J. Jouneau, L’Ermite de Rothéneuf L’esprit du lieu, Nouvelles Éditions Scala, Parigi 2013.
Le immagini che illustrano l’articolo sono cartoline d’epoca.
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In viaggio nella Sicilia degli Outsider di Paola Capone
DOSSIER HETEROTOPIAS “Ecumenico” per gli studi sull’Outsider Art & C. è stato Heterotopias, Outsider Environnements in Europe, il Convegno internazionale in Sicilia, dal 28 maggio al 1 giugno 2015, promosso da EOA (European Outsider Art Association) e organizzato dall’Osservatorio Outsider Art, che ha visto molti studiosi che si interessano di manifestazioni “irregolari” ragionare e intrecciare le loro idee per trovare il bandolo di una matassa multicolore dalla quale estrarre i caleidoscopici aspetti di questa forma di arte complessa, intrigante, geniale, ignota al “grande pubblico” e ai governanti, innovativa, trasgressiva, ricca per le suggestioni interdisciplinari e povera per l’uso dei materiali e per la scelta di collocazione dei siti. Coordinate da Eva di Stefano, mentore dell’evento e presiUn breve resoconto delle problematiche aperte dal convegno siciliano Heterotopias nel racconto di una partecipante
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Roger Cardinal durante il suo intervento
dente dell’Osservatorio Outsider Art, con la collaborazione di numerosi ricercatori che hanno portato avanti questa mission impossible, una cinquantina di persone tra studiosi e operatori del settore provenienti da tutta Europa, e non soltanto, hanno potuto visitare in pellegrinaggio alcuni siti siciliani: a Palermo il Santuario di Isravele, a Sciacca il Castello incantato di Filippo Bentivegna, a Messina la Casa di Giuseppe Cammarata e a Castellammare del Golfo i murales di Giovanni Bosco. Ai luoghi reali si sono aggiunti i racconti come quelli di Lorenzo Madaro sull’artista pugliese Ezechiele Leandro, e di Domenico Amoroso sul giardino di Giuseppe Zafarana nel catanese. Le intense giornate di convegno hanno avuto inizio a Palermo nella Chiesa dei Santi Elena e Costantino, messa a disposizione dalla Fondazione Federico II, per aprire successivamente al reale viaggio tra gli “irregolari” siciliani e proseguire con un’altra sessione a Messina. Dopo i saluti istituzionali, Eva di Stefano ha introdotto le conferenze che per 5 giorni hanno fornito ai convenuti ogni
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I convegnisti in visita dialogano con Isravele, presso Palermo
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tipo di conoscenza degli outsider europei: in Francia con Marc Botlan, in Scandinavia con Raija Kallioinen e Minna Haveri, con una puntata americana nella quale Leslie Umberger ha posto l’accento su questo Contested Terrain: The Challenges, Paradoxes and Importance of Preserving Art Environments. Alla sua voce si sono unite quelle di Rita Ferlisi e della Soprintendenza di Agrigento e di Pier Paolo Zampieri che ha coinvolto il Comune di Messina per tutelare ciò che resta della casa di Giovanni Cammarata. Un breve accenno a tre conferenze che aprono ai tre principali punti di vista che si “agitano” nei confronti delle opere ambientali dell’Outsider Art: Roger Cardinal che anni fa battezzò questi autori ‘irregolari’ con il nome di “Outsider art”, nella sua conferenza plenaria Citadels of seclusion: respecting the Outsider environment ha
insistito sulla singolarità e la tenacia degli artisti presentando l’esempio del Facteur Cheval con le sue 93 000 ore di lavoro per una casa che nemmeno aveva deciso di abitare e che aveva già vocazione di futuro museo. Ha sottolineato la collocazione degli environments sempre in posti remoti, come ad esempio nelle foreste della Finlandia o, nel caso di insediamenti urbani, negli angoli più nascosti. Ha ricordato l’attitudine a trasformare l’uso iniziale di un oggetto: una macchina pesante diventa leggera, come un capolavoro d’ingegneria, oppure l’istallazione artistica complessiva dell’abitazione nella quale gli autori vanno a vivere seduti su un trono fatto a mano. Risistemano il caos. Alcuni sono dei veri performers, spesso condannati dalle collettività locali come il catalano Josep Pujiula che aveva suscitato una tale animosità
Catena umana dei convegnisti attorno alla casa di Cammarata a Messina
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nel suo vicinato da vedersi demolire la sua costruzione. La sua reazione, però, fu una costruzione sempre più alta, fino a farla diventare una vera torre. Vincenzo Guarrasi, in Other places and other spaces. Is it possible to make a hole in the landscape? ha sottolineato come, nell’epoca di una eterotopia globalizzata, è necessario ridare spazio alla contingenza, all’evento, a quello cha accade, al rapporto con l’altro, alla follia. Per Derrida “ogni gesto di pensiero ha a che fare con la follia” (De l’hospitalité, 1997). A tal punto che addomesticare l’Outsider Art sarebbe un’appropriazione abusiva, un modo per farla zittire, di reprimere quest’energia senza limiti, questo caos, presente in molti. È necessario, invece, dare spazio a quello che Michel Foucault, nelle sue ultime lezioni al Collège de France chiamava “paresia”, un modo di parlar franco (Il coraggio della verità, 2011). Il corpo stesso puo diventare gesto di denuncia: il viso di Pedro Lemebel con una falce ed un martello tatuati: “Hablo por mi diferencia”; o l’artista guatemalteca Regina José Galindo, nuda e immobile per delle ore. Gabriele Mina, in Creative Conservations: Italian Cases, ha parlato del gruppo “Costruttori di Babele”, Associazione Culturale e di Promozione Sociale che indaga su architettura fantastica e universi irregolari realizzati in Italia (ma anche in Francia e negli Stati Uniti). Lo scopo dell’Associazione è di riconoscere, curare e valorizzare espressioni culturali, artistiche e antropologiche sul territorio, che non siano di artisti ufficiali, né lavori su commissione e di “sottrarli a pulsioni ed emanazioni, archetipi collettivi e automatismi psichici, spontaneità, allargando il territorio e riallacciando ponti. Ad esempio con le culture popolari, considerate erroneamente statiche, non inventive, e dunque non imparentate con l’art brut. In una parola da outsider a insider, da sintomi psichici a sintomi culturali”1. A queste voci si sono aggiunte quella mia e di Nathalie Roelens che in Lassus “inhabitant landscaper”: its legacy and its convergence with recent concerns in places-studies
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hanno presentato il concetto di “abitante paesaggista”, così come lo ha proposto Bernard Lassus, cioè del lavoratore che come artista spontaneo modella il suo spazio limitato, il suo ‘giardino immaginario’, all’interno di una episteme più ampia di pratiche artistiche non legittimate e di domande sul valore estetico e sociale di queste produzioni. Questo concetto si intreccia con i vari campi di ricerca esistenti relativi a creazioni spontanee, anche se con differenze valutative sostanziali che solo manifestazioni come questa siciliana potranno sviluppare e sciogliere: problematiche poste anche da Roberta Trapani nella sua relazione su Irregular heritage: definition and safeguarding strategies for an atypical legacy che ha concluso il suo intervento con un suggerimento essenziale: “Educare i cittadini a pensare questi siti come un patrimonio da proteggere, dando loro gli strumenti culturali, giuridici ed economici per prendersi cura di essi, ciò permetterebbe di tutelare non solo la materialità di questi siti, ma anche la loro immaterialità, fatta di ricordi, storie, rituali personali e know-how”.
G. Mina, Costruttori di Babele. Sulle tracce di architetture fantastiche e universi irregolari in Italia, Elèuthera, Milano 2011, p. 13.
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Cittadelle di isolamento: rispetto per l’outsider environment di Roger Cardinal
Una sequenza di creatori noti e meno noti per provare a definire la multiforme figura del costruttore outsider e rintracciare gli elementi comuni di un patrimonio prezioso da tutelare in nome della sua libertà
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È mia opinione che il miglior genere di artmaking, ossia di creazione artistica, nasce in circostanze libere da costrizione. L’arte diventa più interessante quando riflette le inclinazioni segrete dell’artmaker, ossia del creatore artistico. Con il termine artmaking, intendo qualsiasi impresa che consenta l’espressione degli impulsi e dei desideri, delle idee e delle fantasie della persona interessata. Il termine Making special (Rendere speciale) viene adoperato dalla scienziata sociale Ellen Dissanayake per includere i vari modi nei quali le persone potrebbero articolare il loro orgoglio nei confronti di quanto le circonda. La decorazione e l’ornamento elevano l’oggetto funzionale ad uno scopo estetico. Ad esempio, la creatrice finlandese Enni Id amava il proprio cottage ed arrivò all’artmaking coltivando uno stile privato di vita nel mondo di ogni giorno. Gli oggetti che stanno su un tavola hanno bisogno di essere spolverati, i ritratti devono essere appesi ai muri, mentre qualsiasi spazio che funge da abitazione (una stanza per cucinare, mangiare, dormire, leggere e via dicendo) può essere ugualmente un’officina o un palcoscenico per collaudare segni e gesti espressivi. Anche Fred Burns, costruttore fai-da-te, è un esempio di arte che nasce da un contesto di dolce ritiro dai vincoli sociali ed emotivi del nostro mondo convenzionale. Diventato precocemente orfano, Burns affrontò la vita come meglio poteva, e finì col vivere da solo vicino alla costa del Maine, insieme a dieci cani in una capanna da lui costruita con legname trasportato dalla corrente e latte di vernice vuote. È mia intenzione disegnare un ritratto astratto del personaggio quasi mitico, il cui artmaking ci affascina tanto: il creatore autonomo che progredisce dalla sperimentazione ludica ad un qualche genere di progetto coerente e definito. Voglio evocare i risultati raggiunti da un certo numero di creatori notevoli di ambienti artistici – creatori Outsider – allo scopo di valutare i criteri per definire il tipo dell’artista-costruttore
Il Palais Idéal di Ferdinand Cheval, Hauterives (Francia)
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Il Palais Idéal in costruzione, in alto l’autore. Foto d’epoca
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individualistico che ci interessa qui. Corro il rischio di citare una schiera di professionisti per mettere a fuoco un tipo generale – potrei denominare questo disegnatore e costruttore ideale: l’Architetto Outsider (consapevole che ciò scandalizzerà gli ‘architetti giusti’, quelli che hanno uffici ben messi e fanno affidamento su cianografie, misure e calcoli precisi). E voglio cominciare enfatizzando la differenza importante tra creatori Outsider e la successione generale di artisti ed architetti di successo attraverso la storia europea. Il fattore importante è quello di essere autodidatti e di rimanere quasi completamente indipendenti o autosufficienti. Questi costruttori e disegnatori dilettanti tendono ad evitare di chiedere aiuto, e contano unicamente sulle proprie forze. Faccio riferimento anzitutto al postino francese, Ferdinand Cheval, creatore del Palais idéal ad Hauterives in Francia orientale. È una figura esemplare che compare automaticamente nell’elenco dei maestri costruttori di quasi tutti coloro che si occupano di questo argomento. Pur essendo incoraggiato da vicini di casa ed amici, Cheval insisté nel mantenere la propria indipendenza e si vantò dei risultati raggiunti con testi che cesellava nei muri del suo Palazzo Ideale. Diversamente da alcuni dei creatori che ci interessano, non visse effettivamente nella propria creazione, ed invece permise che si evolvesse per diventare un museo degli stili architettonici, animato da un bestiario eccentrico. Diversamente dalla maggior parte degli autori di Outsider Environments, Cheval gradiva decisamente i visi-
tatori. Costruì un belvedere speciale o torre d’avvistamento in un angolo del proprio giardino, supponendo che gli spettatori avrebbero voluto sedersi là ed ammirare i suoi risultati. Mai una volta dubitò della validità della propria opera e le sue iscrizioni nei muri sono piene di millanteria autocongratulatoria (perché no, in fondo? Chi meglio di lui può cantare le sue lodi?): • Da un sogno ho estratto la regina del mondo intero • L’opera di un solo uomo diecimila giorni 93.000 ore 23 anni di lotta se c’è qualcuno più ostinato di me che si metta al lavoro Credo che ci si aspetti che il creatore indipendente di un’opera estremamente personale debba realizzare qualcosa che sia superiore al mero vernacolo o all’architettura fai-date. Lavorando in un cimitero nella città di Chartres, sede di una famosa cattedrale, Raymond Isidore aveva accesso a frammenti di vasi rotti di ceramica e li usò per trasformare la sua casa ed il suo giardino in un ambiente musivo globale, completo pure di trono nel quale poteva rilassarsi per contemplare la propria opera. Dopo il duro lavoro arrivano realizzazione, piacere, orgoglio. Continuiamo questa disamina delle caratteristiche dell’autentico costruttore indipendente o architetto visionario. Mi rendo conto che ci sono molti modi alternativi per etichettare quest’eroe
Roger Cardinal visita Casa Cammarata a Messina, 2015
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astratto. La biografia tipica del costruttore impegnato spesso comprende qualche evento sociale decisivo o un cambiamento di orientamento psicologico. Il ribelle che odia la convenzione e contesta gli standard della maggioranza ad un certo punto può arrivare all’artmaking concepito come
Vestibolo della Junkerhaus a Lemgo (Germania)
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mezzo più alto per l’espressione schietta e, in alcuni casi, per una protesta stravagante. Dovrei aggiungere che esistono artmaker piuttosto accessibili e che non tutti gli architetti visionari sono eccessivi come Joe Minter di Birmingham, Alabama, le cui installazioni rappresentano una storia del Movimento dei Diritti Civili in America. Un recente articolo di Laura Bickford parla di questo genere di esposizione in giardino (molto diffusa negli stati americani del Sud) come «attrezzo comunicativo guidato da istanze estetiche» e
dubita che simili assemblaggi di scarti rappresentino un resoconto codificato dell’esperienza Nera. Potrei aggiungere però che il disordine estremo può equivalere ad una maniera molto robusta per ‘Making special’. All’interno del contesto dell’arte, l’impulso di rendere speciale (o almeno di produrre
un rumore forte!) può confermare che lo status indipendente dell’individuo è quello di un disadattato che sfida l’eredità collettiva ed adotta una prospettiva autoconsapevole, una visione unica. In certi casi, comunque, la posizione di dissenso può dare luogo ad un certo grado di alienazione, depressione e ritiro. Esistono gli estremi tragici. Ecco il tipo dell’eremita autoassorbito, dell’ostinato separatista la cui carriera finisce male. James Harold Jennings ha vissuto all’interno del proprio
Veduta dell’interno del labirinto (part.) di Josef Pujiula, Argelaguer (Spagna)
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regno creativo, e prosperò in quella che ho chiamato la sua cittadella di isolamento. Per decenni visse da solo. Lavorò sodo per trasformare il proprio appezzamento di terra in un luogo bene ordinato, qualcosa di simile ad un luna park o ad un museo popolare. Tre autobus antichi erano parcheggiati nel suo appezzamento, uno dei quali rappresentava una camera da letto, gli altri i laboratori. Jennings era misantropo, eppure conversava con gli sconosciuti che compravano le sue sculture di legno dipinto. A volte chiudeva a chiave l’ingresso, ed inoltre brandiva una pistola quando gli sconosciuti diventavano troppo intrusivi. Un giorno, la pazzia se ne impossessò ed il recluso che viveva nell’isolamento autoimposto alla fine si sparò una pallottola in testa. Questa storia rimane incompleta, eppure fornisce una lezione a coloro che desiderano localizzare creatori esotici ed eccentrici. Se ci sono lezioni da imparare, forse gli studenti, i collezionisti ed i conoscitori dovrebbero ponderare sulla dottrina tacita dell’Outsider e dovrebbero tentare di avere empatia con la concentrazione suprema e la tenacia dell’individuo. Queste non sono precisamente “persone medie”. Possiamo chiederci, perché investono così tanto tempo e così tanta energia nella produzione di installazioni complesse in luoghi remoti? Perché questi individui producono siti complessi che sfidano le aspettative della gente normale e diventano castelli di incanto, domini di meraviglia, percorsi utopistici verso qualche luogo che è provocatoriamente diverso? Io ipotizzo che ogni costruzione realizzata in modo autonomo è unica per quella persona e, come un alter ego, catalizza enfaticamente le necessità ed i desideri del proprio creatore. Può fungere da angolo appartato in cui rendersi conto delle cose. Può essere un giardino di delizie, uno spazio per la contemplazione e l’illuminazione, un habitat sacro ed unico. Si può immaginare, ad esempio, che Boyce Gulley godette la pace assoluta e chiarezza di pensiero nel proprio castello
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privato in una zona remota dell’Arizona. Si sostiene talora che i migliori ambienti artistici si trovino in luoghi remoti, dove le regole urbane non vigono. Anzi, potremmo aspettarci che l’artmaking outsider fiorisca in luoghi non toccati da grandi popolazioni, in regioni relativamente vuote come i terreni boscosi dell’America del Nord o della Finlandia. Tuttavia, esistono moltissimi siti all’interno di aree urbane, in angoli non appariscenti di grandi città, e ci sono molti casi dove la biografia di un individuo sembra indispensabile per comprendere la sua creazione. Il nostro desiderio di capire ci porta ad afferrare qualsiasi indizio della storia delle esperienze dell’artista e del suo background culturale. Talvolta una piccola informazione può gettare luce su un enigma. Quando l’operaio Vollis Simpson giunse all’età del pensionamento, si mise a costruire una ricca serie di trottole, non usando materiali leggeri bensì pesanti: pali metallici, cuscinetti a sfera e altri pesanti parti di macchinari che altre persone avrebbero difficoltà semplicemente a sollevare da terra. Cosa mai lo portò a scegliere materiali così ingombranti? La risposta è che li aveva maneggiati per tutta la vita, giacché si era occupato di apparati pesanti da soldato e più tardi da coltivatore e sapeva tutto quello che c’era da sapere sul taglio e sulla saldatura e sulla riparazione dei trattori pesanti. Vedere le sue trottole mostruose, in esposizione accanto ad una tranquilla strada di campagna, significa incontrare un allegro capolavoro di ingegneria. In un certo senso, è una soddisfazione gratuita, ma la semplice grandezza garantisce che nessuno passerà senza piantare i freni per fissare incredulo questi oggetti.
Josef Pujiula al lavoro sulle sue torri, 2001
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Si ha una variante molto diffusa del mio tema quando un ambiente artistico è allo stesso tempo una dimora permanente. L’architetto e teorico Bernardo Lassus introdusse la locuzione habitant-paysagiste (abitante-paesaggista) per fare riferimento al creatore solitario di un’installazione artistica che funge anche da casa. È come se l’eremita indaffarato assomigliasse ad una lumaca che occupa il guscio che ha costruito. L’eremita e sognatore finlandese Ilmari Salminen viveva in un cottage in una piccola città della Finlandia centrale. La sua casa è allo stesso tempo un’installazione artistica, un archivio, perfino una specie di museo. È un esempio potente di accumulazione accurata che provoca la conversione di componenti disparati in un’armonia allettante. Le centinaia di articoli di carta - articoli su eventi politici che fanno notizia ed immagini di belle donne - formano insieme un disegno complessivo.Tale coesione è favorita dal fatto che i documenti di carta di Salminen sono frutto di una scelta privata. Chiaramente, è un grande conforto per l’artista solitario poter dormire e mangiare all’interno dello stesso habitat privilegiato, usandone quotidianamente le stanze e spazi esterni. In Germania nel tardo ottocento, lo studente di architettura Karl Junker1 commissionò ad un costruttore locale la costruzione di una casa vuota a forma di cubo ai margini della città di Lemgo. Junker si mise poi a lavorare da solo per riempire il guscio coi propri supplementi. Un elemento significativo è che abbandonò la propria formazione come architetto, usò pochi disegni e lavorò a mani nude e legno a basso costo, usando un martello e chiodi economici per decorare l’interno con mobili improvvisati e scale matte. Visse segregato per scelta propria (una stanza conteneva una piccola culla di legno che non fu mai usata). È tipico degli habitants-paysagistes non smettere mai del tutto di lavorare. L’impulso della creazione coscienziosa li spinge
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a fare continue aggiunte alla casa originale, producendo qualche cosa che è più simile ad un villaggio o forse ad un grande albergo - come nel caso della Casa di Specchi di Clarence Schmidt fra le montagne Catskill a nord della Città di New York, dove una capanna diventò una magione di sette piani con dozzine di stanze e finestre. Schmidt è davvero un esempio meraviglioso del maniaco del lavoro irrefrenabile, uno che si appropriò dei residui abbandonati di una società consumistica moderna e trasformò questi scarti in sacrari magici. Presidiò un giardino come habitat appropriato sia per animali e piante selvatiche sia per creature umane. Ardente riciclatore, incoraggiò gli hippies locali a passare a fare una chiacchierata nei fine settimana, e a regalargli scarti che poteva incorporare nel proprio dominio. La spazzatura ha molte tipologie e dimensioni. Il costruttore outsider può raccogliere legno vecchio che ha già svolto una funzione e adattarlo a funzioni nuove. Il costruttore rurale Richard Greaves usa rovine esistenti come granai fatiscenti che trascina a casa per inframmezzarle con rami appena tagliati dagli alberi nella sua proprietà di Québec. Il suo approccio ironico è divertente, poiché va in cerca del disastro costruendo con poca attenzione, usando solamente lo spago agricolo per tenere insieme le cose. Questo costruzione simile ad un sacrario è commovente proprio per la sua fragilità, il suo equilibrismo al limite. Richard de Lullington del Kent orientale, Inghilterra, abbraccia in modo simile il processo naturale e i macchinari abbandonati, creando alberi dipinti che tenta di rifoggiare e trottole che roteano selvaggiamente nel vento. André Pailloux, della regione Vandea della Francia Occidentale, è autore di un altro sito esilarante, che questa volta ubbidisce alla non-legge anarchica della proliferazione. L’arte del potare della giardiniera americana Pearl Fryar esemplifica il fenomeno dell’inventore solitario le cui bizzarre fantasie si materializzano in collaborazione con la natura. È un
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esempio del “rendere speciale” e “prendersi la briga”. Questa sperimentazione è possibile solo quando non ci sono costrizioni sull’ambizione del creatore. Ci può essere anche l’ispirazione a convertire il giardino o il dominio in un’area di spettacolo, come fa Sinistö nelle sue performances solitarie di danza. Un certo numero di creatori opta per le semplice grandezza come mezzo per realizzare effetti di sublimità ed una bellezza caratterizzata da eccesso scandaloso. Così Eddie Owens Martin che si battezzò Santo di “Eom” creò un parco sacro chiamato La Terra di Pasaquan. Il muro di cinta fungeva al tempo stesso da frontiera protettiva e da congegno per mettere a fuoco le verità spirituali del credo mistico concepito da Saint Eom. Per l’abitante-paesaggista, l’attività non deve mai essere semplice costruzione. C’è la vita quotidiana, c’è l’aggiornamento dei miglioramenti (ad es. incorporare uno scarto nuovo portato da un ammiratore). C’è pure, purtroppo, il problema di occuparsi di un vicino intrusivo, o anche delle autorità locali che frequentemente condannano il capolavoro outsider come brutto e pericoloso. Gli Outsider sono molto difficili da tenere a bada. Lo spagnolo Josep Pujiula era davvero un costruttore ossessivo i cui labirinti a livello di terra e le cui scale verso il cielo furono percepiti come pugni nell’occhio dai vicini di casa e dal municipio locale. Durante vari decenni, le torri di Pujiola furono demolite parecchie volte, ma ogni demolizione lo spronava semplicemente a ritornare al compito di costruire sempre più in alto. Non era nella sua natura rinunciare alla lotta. Per la ricercatrice Jo Farb Hernández (il cui volume definitivo sugli ambienti artistici spagnoli è uscito recentemente2), quest’uomo era «un’icona dell’artista irrefrenabile». Ho sottolineato l’impegno ardente e la perseveranza dei più grandi costruttori-artisti ambientali. Indubbiamente non ho preso in considerazione gli esempi preferiti da ciascuno di
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noi. Spero di avere messo in evidenza gli elementi comuni nella pratica del dissenso, il modo in cui enfatizzare la propria differenza può condurre ad uno stile riconoscibile condiviso da creatori che non s’incontrano mai. Tocca a noi, come ammiratori ed appassionati di questo scomodo settore della storia architettonica, aiutare a sostenere e proteggere le strutture materiali che ereditiamo. Il fatto è che questi palazzi, cittadelle e scale verso i cieli sono preziosi ed irripetibili. Dobbiamo preservarli come monumenti ispiratori ai valori duraturi di divertimento, appagamento e libertà. Concludo con l’immagine di un Outsider modesto, Fred Burns, mentre riposa tranquillo al crepuscolo davanti alla propria capanna. Burns una volta formulò il proprio credo di vita con le seguenti parole:« Io vivo da solo e amo tutti/ questo è l’unico modo di essere».
Sul sito www.spacesarchives.org è possibile reperire immagini di gran parte degli autori menzionati nel testo. NdR. Segnaliamo ai lettori l’articolo di J. Scheffler, Casa d’artista: lo Junkerhaus di Lemgo, sul n. 6 della nostra rivista, Glifo edizioni, Palermo ottobre 2013, pp. 100109. www.glifo.com
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NdR. J. Farb Hernandez, Singular Spaces. From the Eccentric to the Extraordinary in Spanish Art Environments, Raw Vision, Spaces, San José University 2013.
Traduzione dall’inglese di Denis Gailor
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Environments storici di Outsider Art La situazione francese di Marc Botlan
• Cheval e Malraux: una vicenda esemplare • La Francia è stato il primo paese a riconoscere il valore artistico delle follie architettoniche irregolari • Problemi e contraddizioni della tutela • Un itinerario attraverso siti insoliti tra passato e presente
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Ho avuto diverse responsabilità all’interno del Ministero Francese della Cultura, in qualità di curatore di “Monumenti Storici”, in seguito come consulente scientifico generale, per trentatré anni fino al 2014. Ho dunque avuto il privilegio di sovrintendere, tra gli altri, al restauro del Palais Idéal del postino Cheval, nel sudest della Francia, tra il 1983 e il 1992, e ai successivi lavori presso la Maison Picassiette a Chartres, tra il 1992 e il 2005. Il mio interesse personale per gli artisti irregolari, per l’Art brut e per gli Outsider Environments risale a quegli anni. Oggi esprimerò semplicemente la mia opinione personale e non un punto di vista ufficiale, dal momento che sono andato in pensione un anno fa. Il mio scopo è proprio quello di vedere insieme quali connessioni è possibile stabilire (e quali no!) tra tutte queste categorie artistiche e tentare di comprendere se gli Outsider Environments possano o meno diventare parte del nostro patrimonio comune. Quando parlo di patrimonio comune, utilizzo la traduzione ufficiale del concetto che nella forma e nel linguaggio amministrativo francese viene riassunto con il termine Monument Historique (MH). In francese questa espressione si riferisce sia a un concetto che a uno status, stabilito per legge, nonché a una pratica comune che è propria di curatori specializzati, architetti, restauratori, etc. Permettetemi di ricordarvi la definizione di MH così come è presente nelle leggi sul patrimonio francese, riassumendo brevemente: «Qualsiasi manufatto, mobile o immobile, che merita di essere tenuto in buone condizioni per via del suo valore storico, artistico o tecnico, può essere legalmente protetto come monumento storico, al fine di preservarne l’interesse pubblico». Nella maggior parte dei casi si tratta di opere d’arte custodite in situ, pertanto le collezioni museali non rientrano in questa definizione. Se gli Outsider Environments possiedono un valore, allora la loro conservazione ha senz’altro qualcosa a che fare con l’interesse pubblico. Oppure, al contrario, sarebbe più opportuno e appropriato considerare che ciò che conta sono gli artisti stessi
ed è pertanto naturale per queste creazioni scomparire con la morte dei loro autori, come spesso si sente dire? Considerando la attuale situazione istituzionale francese, la risposta immediata è che non esiste alcuna connessione tra questi elementi. Di fatto la lista ufficiale dei MH protetti presenta per il 2015 circa 45.000 beni inamovibili e circa 300.000 beni mobili. Allo stesso tempo il numero di costruzioni outsider e opere di Art Brut che rientrano in questa lista è esattamente otto! Che è meno dello 0,02% dei beni inamovibili tutelati oggi in Francia. Da un punto di vista strettamente quantitativo la situazione
Il postino Cheval (al centro) e la sua opera in una foto d’epoca
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francese potrebbe essere definita un vero e proprio paradosso. Perché? Perché, nonostante la quasi totale assenza di Outsider Environments e opere di Art Brut nella lista del patrimonio ufficiale, la riscoperta di questo tipo di opere d’arte è stata una tendenza piuttosto diffusa in Francia negli ultimi vent’anni. Esattamente due anni fa, il serissimo quotidiano parigino “Le Monde” (14 maggio 2013) uscì con un titolo ironico: La follia dell’Art Brut. L’articolo sosteneva che gli artisti brut «erano stati trascurati per molto tempo», ma che «questa tendenza stava iniziando a cambiare» e persino «la Biennale di Venezia avrebbe dedicato una mostra a loro nel prossimo mese di Giugno»1. Consentitemi di mostrare altre prove di questa vera e propria moda. Il film Seraphine di Martin Provost, uscito nel 2009, racconta la storia di Seraphine Louis, o Seraphine de Senlis2. Ha ottenuto un enorme successo popolare e ha vinto ben sette premi César, tra i quali “miglior film francese dell’anno”. Il Palais Idéal è regolarmente tra le hit dei MH nella Francia sud-orientale (circa 100.000 visitatori l’anno negli anni ‘80, circa 130.000 ai giorni nostri). Le ricerche e le pubblicazioni sono sempre più numerose e le università hanno portato il tema ad un elevato livello scientifico. L’evento principale legato a tale riscoperta è stato l’apertura del LAM a Villeneuve d’Ascq3, nel 2010, con l’esposizione di 3.500 pezzi della Collezione L’ Aracine. La rivista interna del Ministero Francese della Cultura, nel suo numero datato aprile 2012, contiene un’intervista a Jean de Loisy, che è il curatore del Palais de Tokyo di Parigi, un’istituzione dedicata ad artisti contemporanei. Cito: «Suggerisco un nuovo modo di mostrare le opere d’arte, facendo ciò che non dovrebbe essere fatto. Come, ad esempio, mettere insieme art brut e arte contemporanea. Perché no? Penso che l’arte, qualunque sia la sua natura, ha sempre una genuinità indiscutibile. Senza se e senza ma. Visualizzare insieme due opere molto diverse tra loro è il modo migliore per mostrarne
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l’assoluta genuinità». Allo stesso modo Savine Faupin, curatrice della collezione di Art Brut al LAM, ha espresso una posizione, molto vicina alla precedente, nel suo intervento apparso nella rivista “303”, pubblicata a Nantes e gestita da un gruppo di storici dell’arte, intitolata Brut, Outsider e arti modeste. Così scriveva: «In un contesto più ampio l’art brut consente di mettere in discussione molte questioni, come la classificazione delle opere d’arte, le gerarchie artistiche e il concetto di capolavoro in primo piano, in maniera dinamica e prospettica». Questo pensiero è divenuto realtà presso il Museo LAM, proprio quest’anno, in occasione della mostra Aloïse Corbaz en costellation, ponendo insieme le opere di Aloïse e i dipinti di Chagall, Matisse e Picasso. Quando si impegnò in prima persona nel biennio ‘68 - ’69, finché ottenne il riconoscimento come MH per il Palais Idéal del postino Cheval, André Malraux si trovava probabilmente nel medesimo stato d’animo; mettere insieme opere d’arte così diverse sulla lista dei MH significava inserire Cheval tra Versailles e Le MontSaint-Michel, tutte e tre opere considerate dei capolavori. Così differenti e belle quasi come «l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione tra una macchina da cucire e un ombrello»4. Mi è sempre piaciuta molto questa immagine e credo renda Malraux un pensatore davvero contemporaneo, una sorta di visionario e maestro indiscusso del crossover. Fu il primo Segretario di Stato per la Cultura del generale De Gaulle (1959-1969), nonché uno degli intellettuali più influenti del suo tempo. In Francia (e forse anche all’estero, bisognerebbe controllare!) è dovuto a lui il primo legame tra art brut e il concetto di patrimonio nella sua forma più ufficiale. Oggi, mezzo secolo dopo, consideriamo il Palais Idéal un vero capolavoro di “art brut”, anche se questo termine non è mai apparso nelle parole di Malraux. «Nessuno mi ha chiesto di proteggere il castello (sic) del postino Cheval [...] Ho preso la mia decisione - piuttosto ordinaria -
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in considerazione del fatto che l’architettura folk (popolare?) è estremamente rara, e che dovevamo necessariamente proteggere un’opera d’arte straordinaria». E ancora: «Che cosa è esattamente il Palais Idéal? È l’unico esempio di architettura appartenente alla categoria dell’arte naïve […] L’arte naïve è un fenomeno comune, conosciuto da tutti, ma privo di riferimenti architettonici [...] E di fatto le opere appartenenti all’arte naïve toccano la sensibilità della gente comune in maniera piuttosto profonda […] L’arte naïve è diventata una realtà estremamente importante e, allo stesso tempo, sarebbe puerile non proteggere il Palais Idéal del postino Cheval e aspettare che cada in rovina». Quattro volte Malraux usa il termine “art naïve” e non dice mai “art brut”. Nel suo libro Art brut, l’istinto creativo, Laurent Danchin ci ricorda che «Art Brut» era una sorta di marchio di fabbrica a quel tempo, e il suo unico proprietario era naturalmente Dubuffet5. Questa è la prima spiegazione, la più convincente. Ma penso che ci sia anche una motivazione ideologica. Due anni prima del discorso di Malraux di fronte ai deputati francesi in difesa del Palais Idéal, Dubuffet aveva organizzato una mostra di 700 pezzi della sua collezione al Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Siamo nel 1967. La prefazione del catalogo, scritta dallo stesso Dubuffet, aveva un titolo molto suggestivo: Diamo strada alla ribellione (o all’inciviltà). Mi pare evidente che Malraux, in quanto segretario di Stato del generale De Gaulle, non poteva permettersi di apparire vicino alle posizioni di un personaggio così anarchico. Un’ultima riflessione sul Palais Idéal. Il sito fu tutelato nel 1969 da Malraux contro la volontà della sua stessa amministrazione. La tomba di Cheval, costruita tra il 1914 e il 1922, da lui stesso definita “La Tomba del Silenzio e del Riposo Infinito”, fu tutelata più tardi nel 1975. Il sito del Palais è stato acquistato dal Comune di Hauterives; è quindi di proprietà pubblica. Dopo essere stato non molto lontano da un terribile decadimento quarant’anni fa, il Palazzo è oggi una forza trainante per lo sviluppo locale
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economico e turistico, oltre a costituire un vivace spazio culturale. Come Monsieur Jourdain, ne Il Borghese Gentiluomo di Molière, componeva prose e poesie senza rendersene conto, Ferdinand Cheval ha creato senza saperlo. Suggerisco un nome per il Palais e per tutti gli Outsider Environments creati prima del 1945-1947, il periodo in cui Dubuffet per primo utilizzò l’espressione «art brut» nelle sue pubblicazioni: incunabula di art brut e outsider art, come si suole dire dei libri stampati tra il 1450 e il 1500. Sono davvero pochi gli esemplari “antichi” di Environments, e talvolta più vicini all’arte popolare che all’art brut. Li elenco brevemente. 1) Un gruppo di sculture anonime in una grotta presso Dénezésous-Doué (Anjou), detta Grotte des Mousseaux. Si tratta di circa 400 sculture incise sulla pietra della grotta. La sua probabile datazione è attorno al XVI secolo, ma è sempre difficile stabilire con precisione una data per questo tipo di arte popolare, qui in uno stile “a grottesca”. Il sito è stato inserito tra i MH nel 1969. 2) François Michaud (1810-1890) era un muratore e scalpellino che viveva in una regione molto povera, il Limousin, territorio famoso per aver sempre fornito ottimi muratori a tutta la Francia, fino al Nord e soprattutto a Parigi. Nel villaggio di Fransèches ha lasciato molte sculture in granito (Napoleone, Marianne, il Presidente della Repubblica Jules Grévy…). Niente di tutto ciò è tutelato. 3) L’abate Victor Paysant (1841-1921) visse a Le Ménil-Gandoin (Normandia). A partire dal 1873 dipinse le facciate della chiesa del villaggio con figure cristiane e formule latine del catechismo. Diede alla chiesa il nome di “Chiesa che vive e parla”. Le facciate furono imbiancate nel 1920 e riscoperte dieci anni fa. L’edificio non è posto sotto tutela. 4) Il caso più interessante di incunabula è senza dubbio il sito de Les Rochers Sculptés a Rothéneuf vicino a Saint-Malo in Bretagna. Il sito è sempre più conosciuto così come la bizzarra personalità del suo creatore, l’abate Adolphe-Julien Fouré (18391910). Costui era ancora più famoso all’epoca in cui realizzò le
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sue opere, esattamente nello stesso periodo di Ferdinand Cheval (1885/1879 - 1910/1912). Il sito è di proprietà privata, ma non è protetto come MH. La conservazione del sito e soprattutto delle sculture costituisce un problema davvero insolito, per via del continuo passaggio a piedi sull’area di migliaia di visitatori, senza alcun controllo e anche a causa del sale marino contenuto nell’atmosfera. Tuttavia la protezione di questo luogo è materia di discussione e diversi contatti sono già stati stabiliti.
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5) Ritengo che anche Maison Picassiette a Chartres possa rientrare in questa categoria di incunabula, perché il suo creatore, Raymond Isidore, iniziò l’opera nel 1938 (e la terminò nel 1962). Isidore, detto Picassiette, è oggi una superstar dell’art brut, dopo che Dubuffet, André Breton, Gilles Ehrmann, Clovis Prévost e Robert Doisneau lo hanno reso celebre. La casa e il giardino furono posti sotto tutela nel 1983 da Jack Lang, il nuovo Segretario di Stato per la Cultura del presidente Mitterrand, il
La casa di Raymond Isidore, detto Picassiette, a Chartres
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quale era stato eletto due anni prima. È forte la tentazione di tracciare un parallelo tra la vicenda di Picassiette e Lang nel 1983 e la storia di Cheval e Malraux nel 1969. La differenza principale è stata senz’altro l’assenza di polemiche nel primo caso. Che sia cambiato tutto in soli quindici anni? Difficile da credere. Per ragioni di tempo non posso soffermarmi ulteriormente su questa straordinaria opera ambientale. Vorrei però aggiungere qualcosa a proposito della sua conservazione. Maison Picassiette fu acquistata circa 30 anni fa dal Comune di Chartres; si tratta quindi di una proprietà pubblica aperta, gestita dal locale Museo delle Belle Arti. I mosaici sono stati restaurati, così come il colore blu delle malte, ma i danni ai dipinti murali sono piuttosto gravi e non ancora riparati. Alcuni dipinti esterni, ad esempio quelli del giardino, sono completamente scomparsi e la loro potenziale ricostituzione è dibattuta al momento. L’elenco di questi incunabula è estremamente breve per una ragione piuttosto evidente; questi ambienti non sono mai stati considerati opere d’arte meritevoli di conservazione. Non è dato sapere quanti di questi sono andati distrutti. In casi molto rari, alcuni ci sono noti solo grazie alle pubblicazioni. Ad esempio Camille Renault (1866-1954), un pasticcere che realizzò a partire dal 1934 uno straordinario giardino di sculture ad Attigny, nelle Ardenne, al confine con il Belgio. Se ne hanno notizie soltanto grazie a un numero della rivista Bizarre, datato 1955, in cui un articolo dai toni appassionati iniziava con queste parole: «È difficile immaginare che molto tempo fa Attigny fosse un luogo affascinante come Venezia o Timbuctu». A questo punto della mia presentazione vorrei citare un libro eccezionale, mi riferisco a I giardini immaginari di Bernard Lassus6, pubblicato nel 1977, un anno prima della famosa mostra del 1978, tenutasi presso il Musée d’art moderne de la Ville de Paris, con il titolo Les Singuliers de l’art7. Il biennio in questione rappresenta un punto di svolta. Ricordo le sorprendenti dichiarazioni di Lassus:
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«La scoperta di un animale fantastico, forse un drago (in questi giardini) [...] mi ha spinto a supporre che forse la fama del Palais idéal del postino Cheval e della Maison Picassiette di Raymond Isidore ci ha impedito di conoscere altre opere di questo tipo». Una sorta di premonizione, annunciata quando ancora soltanto l’opera di Cheval era stata protetta. Molti siti più recenti degli incunabula sono stati distrutti e le questioni relative alla loro tutela purtroppo non sono più rilevanti. Conoscerete senz’altro i nomi di alcuni dei creatori: Hyppolite Massé e la sua Maison de la Sirène (Les Sables d’Olonne, Vandea) e Joseph Marmin (Jardin aux Essarts, Vandea), entrambe le
Le Manège di Petit Pierre presso La Fabuloserie, Dicy (part.)
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La casa dipinta di Danielle Jacqui a Roquevaire
opere fotografate da Gilles Ehrmann; Frédéric Séron a CorbeilEssonne (foto di Robert Doisneau) e molti altri. Se pensiamo che non ci sia un antagonismo di base tra la natura stessa degli Outsider Environments e la loro potenziale conservazione in quanto parte del patrimonio ‘ufficiale’, numerosi contrasti in realtà emergono immediatamente. Ho voluto riassumere queste ambiguità, sviluppando tre punti.Innanzitutto, il conflitto tra beni mobili e immobili. Le principali istituzioni dedicate all’Art Brut (Losanna, Villeneuve d’Ascq) hanno a che fare principalmente con opere d’arte mobili (Aloïse Corbaz, Adolf Wölfli, Augustin Lesage), ma alcuni casi sono molto interessanti. Ad esempio l’abate Fouré, che oltre alla Grande Œuvre delle rocce scolpite a Rothéneuf, ha realizzato sculture in legno, il cui carattere mobile è fuori discussione; non c’è effettivamente un
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legame stretto tra le due parti della sua produzione. Al contrario, nel caso più recente della Ferme aux Avions (La Fattoria degli Aeroplani) di Arthur Vanabelle, vicino a Lille nel nord della Francia, il legame indissolubile tra il sito e la sua parte mobile scaturisce immediatamente. Non vorrei soffermarmi troppo su un fatto piuttosto ovvio, ma penso che sia proprio questo il cuore del nostro dibattito: il significato delle sculture mantenute nel loro sito originario e quello che acquisiscono una volta riportate all’interno di un museo (in questo caso il LAM, ma vale lo stesso per qualsiasi altro museo costruito in seguito nei dintorni del sito) sono radicalmente diversi. D’altra parte, la fattoria privata del suo scenario perderebbe interesse. Questo è ciò che Malraux aveva definito «la distruzione delle appartenenze». Una scelta difficile, ma una soluzione spesso inevitabile. In un certo modo il problema è lo stesso di altri siti, come Le Village Préludien di Chomo o Il Castello Incantato di Bentivegna, che richiedono soluzioni appropriate caso per caso. Ad esempio, Le Manège de Petit Pierre, acquistato da Alain Bourbonnais, interamente trasportato a La Fabuloserie a Dicy nel 1987 e non protetto come MH: un caso border-line e, quasi trent’anni dopo il trasferimento, si può sicuramente affermare che sia stato un vero successo, sebbene si tratti di un caso unico (insieme forse al Musée de la Doller di André Bindler, trasportato all’EcoMuseum di Ingersheim, in Alsazia)8. Il secondo punto riguarda la presenza attiva degli stessi creatori sui loro siti. Sommariamente, come è possibile conciliare la tutela ufficiale di un sito, che in qualche modo ne blocca le possibilità di cambiamento, con la volontà del creatore di trasformare il sito da lui stesso realizzato? La questione è sollevata puntualmente ogniqualvolta venga suggerita la protezione come MH di importanti opere architettoniche, il cui autore sia ancora in vita; il rischio è quello di generare una contraddizione tra il concetto di opera d’arte compiuta e il diritto innegabile dell’autore di modificare la sua creazione. Il caso più famoso riguarda gli
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Robert Tatin, Il dragone, scultura della Frénouse.
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edifici di Le Corbusier, già protetti ufficialmente nei primi anni “60, nonostante il celebre architetto sia morto nel 1965. Il tema dell’artista ancora in vita, nel caso degli Outsider Environments, assume rilevanza maggiore, dato che una delle forze motrici per questo tipo di composizioni, è proprio il principio di accumulazione e di saturazione dello spazio, il cosiddetto horror vacui o kenofobia. Danielle Jacqui, nata nel 1934 e attiva nei pressi di Marsiglia, “Celle qui peint” (“Colei che dipinge”), appartiene a questa categoria, come Franck Vriet, nella Francia occidentale vicino Cognac, o ancora Les Darcel in Bretagna. Oppure al contrario, un artista, come fece Raymond Isidore nel 1960, dice «Stop!». Ma è estremamente raro. «Il mio spirito mi ha detto di fermarmi e sono soddisfatto. Ho raggiunto il capolinea. Devo uscire, scappare dalla morte e unirmi al mio spirito. È un sentiero molto stretto, ma poi c’è un passaggio attraverso una
La Frénouse di Robert Tatin a Cossé-le-Vivien
porticina che conduce al paradiso...» Terzo punto. Al di là dei creatori outsider, come comportarsi nel caso dei cosiddetti artisti singuliers9? Tra l’altro, due importanti opere dello stesso Dubuffet sono state inserite nella lista dei MH: La Closerie Falbala e il suo Cabinet de Logologie, che si trova presso la Fondazione Dubuffet a Périgny-sur-Yerres, vicino Parigi (opera del 1971-1973, protetta nel 1998); LaTour aux Figure a Issyles-Moulineaux, un sobborgo parigino (opera del 1985, protetta nel 1992). Naturalmente non le prendo in considerazione come opere di ‘Art Brut’, per ovvie ragioni che non devo certo spiegare qui. Ma che dire di Chaissac, Tatin, Chomo e Linard? Quattro artisti, quattro situazioni diverse. Iniziamo da Gaston Chaissac, «colpito da ingenuità» come disse Michel Ragon. È un’informazione un po’ aneddotica, ma vale la pena darla. La scuola di Saint-Florent (Poitou), cittadina in cui
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ha vissuto per tredici anni (1948-1961) con la moglie, che era la maestra del villaggio, è stata inserita nella lista dei MH nel 1998, in particolare i servizi igienici e le pitture murali che contengono. Ironia postuma dell’artista nei confronti delle Istituzioni! Robert Tatin: il suo Domaine de la Frénouse a Cossé-le-Vivien (Francia occidentale), dove ha vissuto e lavorato dal 1962 al 1983, costituisce un caso insolito e per certi versi incredibile. Il sito non è protetto in quanto MH, ma in quanto Museo di grado superiore (“Musée de France”, il riconoscimento ufficiale). Fu lo stessoTatin ad incontrare l’allora Ministro della Cultura, Malraux in persona, e poco dopo, nel 1968, ottenne questo riconoscimento per sé e per la sua opera. Chomo (Roger Chomeaux), per la cui difesa si è molto impegnato Laurent Danchin: mi limito a dire brevemente che, secondo me, Chomo può essere considerato un’antitesi di Tatin per molti aspetti: ricerca della fama/desiderio di marginalità, inclinazione alle relazioni e influenze/spirito intransigente, l’autoorganizzazione per la sopravvivenza della propria opera/una visione sognata del destino delle cose e degli esseri. La vedova di Chomo chiese all’amministrazione di proteggere Le Village Préludien. Questa richiesta fu respinta nel 2001. Il rapporto dice: «Il sito è straordinario, incredibile e commovente, perché è prova di un progetto artistico sincero». Tuttavia la conclusione è stata, a torto o a ragione, che la tutela del sito come MH fosse «inappropriata». Jean Linard: la sua «Cattedrale» nella Francia centrale (tra Bourges e Nevers) è stata protetta nel 2012. SI tratta dell’ultimo sito outsider ad essere stato posto sotto tutela in Francia, in seguito a numerose richieste, petizioni e articoli di giornale. Su questo particolare punto, gli Environments di artisti Singuliers, sembra ci sia un vero problema in seno al Ministero della Cultura, ovvero: chi fa cosa? Non temo di affermare che a volte la gestione dei musei e l’amministrazione del patrimonio non collaborano tra loro come dovrebbero. Questa constatazione sarebbe pure di poco conto, se non vi fosse il chiaro segno di una ambiguità oggettiva e non ancora risolta: gli Outsider
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Environments sono dei siti strettamente legati al loro ambiente, oppure sono in primo luogo creazioni di artisti meritevoli di stare all’interno di un museo? Il concetto di patrimonio è molto antico in Europa. Il sistema giuridico e amministrativo, costruito al fine di rendere il patrimonio artistico sicuro e accessibile, sono fortemente radicati in Francia; risalgono al XIX Secolo. Tuttavia l’idea che siano possibili delle connessioni tra tale concetto ufficiale e gli Outsider Environments è piuttosto nuova, anche se il punto di partenza risale al 1969, poco meno di mezzo secolo fa. C’è molto lavoro da fare per convincere tutti i soggetti interessati (di ogni tipo) della rilevanza delle idee di Malraux: “work is in progress”, come si dice in inglese, e “lentement mais surement” (lentamente ma sicuramente) come diciamo noi in francese.
1
NdR. Si tratta della 55.Biennale di Venezia 2013, Il Palazzo Enciclopedico, a cura di M. Gioni, cfr. articolo di G. Carraro sulla nostra rivista n. 6, ottobre 2013, pp.157-163 (www. glifo.com)
2
NdR. Séraphine Louis ( 1864- 1942) pittrice autodidatta, scoperta da Uhde nel 1912, fu all’origine del fenomeno naïf in Francia.
3
NdR. Museo d’arte moderna e contemporanea presso Lille , che comprende anche una importante collezione di Art Brut
4
NdR. Frase chiave dell’estetica surrealista, ripresa dal poeta Lautréamont
5
NdR. L. Danchin, Art brut. L’istinct créateur, Gallimard, Parigi 2006.
6
NdR. B. Lassus, Jardins imaginaires, Presses de la connaissance, Parigi 1977, 1997.
7
NdR. La mostra coniò il termine Singulier (singolare) per designare quegli artisti autodidatti che, pur senza corrispondere alla definizione di art brut, erano ai margini dell’arte ufficiale. Il termine ha avuto particolare fortuna in Francia dove continua ad indicare outsider dal percorso artistico molto individualizzato.
8
NdR. Su questa opera come su altri environments citati nel testo consulta il sito web http://outsider-environments.blogspot.it
9
Cfr.. nota 7.
Traduzione dall’inglese di Marco Mezzatesta
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Patrimoni irregolari: definizioni e strategie di salvaguardia di Roberta Trapani
• Opere d’arte, paesaggi antropologici, spazi sociali di solidarietà • La funzione e la complessità degli outsider environments impongono nuove metodologie • Le trappole della tutela istituzionale
Nei primi anni ‘30, Jacques Brunius, poeta e cineasta, fa scoprire al gruppo surrealista la stupefacente produzione architettonica di un postino rurale di Hauterives: Ferdinand Cheval. Da questo momento, un lento processo di riconoscimento artistico investe in Francia, poi in Europa, oggetti simili a questo sito celebrato come un capolavoro e denominato Palais Idéal. Con il loro sguardo e le loro azioni, artisti, critici, curatori e ricercatori hanno contribuito dunque a dar forma a un nuovo mondo dell’arte. Il passaggio all’arte o - per usare un termine attualmente in voga in ambito sociologico - l’artificazione di queste eterotopie ha progressivamente portato alla loro protezione editoriale, poi patrimoniale e museale. Qualificando esteticamente queste creazioni come opere d’arte, classificandole come oggetti patrimoniali, spesso si offre loro l’unica chance di sopravvivenza. Ma per permettere questo tipo di protezione risulta a volte necessario frantumarle, trasferirne i frammenti in collezioni pubbliche o private, isolandoli dal contesto per il quale l’opera è stata ideata. Nel caso di una conservazione in loco - rara e auspicabile - la tendenza è invece spesso quella di una museificazione che snatura questi oggetti-luogo. L’artificazione di pratiche fuori cornice comporta, infatti, un processo di cambiamento di tre registri di valore: etico, estetico, economico. Per capire in cosa consiste questo cambiamento, evocherò in primo luogo il significato originario che hanno questi ego-musei nella società e nella grammatica spaziale contemporanee, per dedicarmi in seguito a questioni specifiche relative alla loro patrimonializzazione, riferendomi in particolare al territorio francese. Se è spesso impossibile conservare senza snaturare, delle soluzioni volte a limitare questa alterazione possono essere immaginate. Homo Faber e Homo Ludens Cosa sono queste elaborazioni che oggi definiamo outsider environments? In origine, si tratta di spazi di vita piuttosto
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modesti che, attraverso alcune operazioni di tipo pratico e simbolico, subiscono un’alterazione: da universi domestici sono trasformati in universi estetici. Gli autori di questa trasformazione sono gli abitanti stessi. Giocando con diversi materiali, recuperati nell’ambiente circostante la loro abitazione, sperimentando diverse tecniche e servendosi di strumenti rudimentali, questi abitanti danno forma a manufatti che espongono nello spazio esterno alla loro abitazione, invadendo qualsiasi angolo disponibile e straripando, a volte, fino a invadere lo spazio pubblico. È un lavoro quotidiano, contemporaneamente manuale e intellettuale, sperimentale ed evolutivo, che si evolve nel corso dei decenni seguendo il ritmo di vita degli autori. Quella del costruttore outsider è dunque una pratica di routine, che si ripete giorno per giorno, e tuttavia questa routine non genera noia, ma divertimento, perché favorisce l’acquisizione di competenze, l’immaginazione e l’innovazione1. Il costruttore outsider riattiva infatti una capacità assopita dell’essere umano: quella di pensare e inventare facendo. L’ideazione del suo lavoro nasce infatti dall’esecuzione. Da questo processo dialettico tra cognizione e costruzione prendono forma degli insiemi
Il Palais Idéal di Ferdinand Cheval, particolare con i tre giganti
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strutturati, colorati, kitsch e allo stesso tempo inventivi. In questi luoghi, la funzione sociale del “fabbricare” propria all’Homo Faber2 incontra quella del gioco propria all’Homo Ludens3, modello antropologico descritto da Huizinga nel 1938, poi designato dall’artista Constant come l’abitante ideale di New Babylon, la città situazionista. È ai “teatri di azioni e situazioni” di cui parla Constant che mi fanno pensare infatti questi spazi dove creazione ed esplorazione coincidono e dove il tempo “utile”, il tempo del consumo passivo, si trasforma in tempo ludico-costruttivo. Per definirli, si potrebbe anche prendere in prestito la nozione di spazio di Michel de Certeau: non un luogo geometrico e stabile, ma un “incrocio di mobilità”. In questi teatri di azioni e situazioni, costantemente animati e in movimento, il creatore outsider non è però l’unico attore. Gli abitanti del luogo circostante, i passanti, sono chiamati ad osservarlo in azione mentre raccoglie i suoi materiali o realizza le sue produzioni, sono invitati a partecipare all’evoluzione del sito e a trasmettersi la leggenda di un’impresa che cambia non solo uno spazio di vita personale, ma anche l’abitato collettivo. Identitari e relazionali, questi oggetti ricordano le riflessioni del filosofo e naturalista americano Henry David Thoreau4 per il quale costruire la propria casa è come costruire il proprio pensiero, ma riportano anche al concetto di capanna, descritta dal filosofo francese Gilles A. Tiberghien come “un modo di essere non tanto al riparo dal mondo, quanto piuttosto al di fuori di se stessi”.5 La facciata, il giardino, le sculture sono disposte secondo relazioni di coesistenza attraverso cui il creatore costruisce e rappresenta la sua identità, reale o immaginaria. Esposti agli sguardi esterni, questi ego-musei6 sono, in qualche maniera, ceduti volontariamente all’altro. Sono l’oggetto di un dono, questo atto che, secondo Jean Bazin, è capace di trasformare anche un oggetto “consueto e ordinario” in qualcosa dotato
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di una forza intrinseca, “una cosa unica”.7 Il sistema del dono e del contro-dono è un potente motore per questo tipo di produzione che l’abitante offre metaforicamente alla comunità e che serve come supporto e come pretesto per interagire con il mondo esterno. Queste elaborazioni presuppongono, per avere un senso, che si stabilisca un dialogo tra l’autore e lo spettatore. L’essenziale, la loro ragion d’essere deve essere cercata in questo discorso che rende possibile e simboleggia il contro-dono cui gli autori aspirano. Se essi cedono alla comunità i loro oggetti, chiedono in cambio il suo sguardo e la sua parola. Uno scambio simbolico ha dunque luogo in questi siti. Si fonda su ciò che Michel de Certeau chiama “racconto spaziale”8 e cioè un’azione narrativa con cui l’abitante esplicita all’osservatore la sua pratica spazioorganizzativa, consentendo al sistema di segni che egli inventa di essere praticato, percorso, sperimentato. Questa esperienza relazionale fortifica la sua identità, soddisfacendo allo stesso tempo la sua necessità di mantenere e di rafforzare i sentimenti collettivi. Ma qual è il senso di questi ego-musei nella società e nella grammatica spaziale contemporanee? Il paesaggio contemporaneo è segnato dal proliferare di autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, catene alberghiere. Sono i cosiddetti “non luoghi” di cui parla Marc Augé9 (1992), luoghi intercambiabili in cui l’individuo resta anonimo. Vi si moltiplicano anche tipologie architettoniche “locali” (casette standardizzate, complessi residenziali, villaggi turistici) che creano un’atmosfera familiare e rassicurante dietro la cui maschera si nasconde il vuoto. Questa realtà sempre più impersonale, propria della società globale, implica uno scollamento tra l’abitante e l’ambiente costruito, tra l’identità di un individuo, o di una comunità, e i luoghi. Nati all’interno di un paesaggio e di una cultura, gli outsider environments reinventano la materia, ma anche la memoria e
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l’identità di un territorio. Contrariamente ai “non luoghi” della società globale, questi ambienti sono contemporaneamente identitari, relazionali e storici e contribuiscono ad aprire una riflessione antropologica sull’abitare. Sono allora dei “paesaggi antropologici” in quanto evocano simultaneamente la nozione di “luogo antropologico”, che Marc Augé oppone a quella di “non luogo”, e il concetto di paesaggio, che il geografo Augustin Berque definisce come un’entità “relativa e dinamica, dove natura e società, sguardo e ambiente sono in costante interazione”.10 In questi siti, ogni oggetto fabbricato o riutilizzato non è infatti indipendente, ma interagisce con gli altri oggetti ed è inseparabile dal tutto. È in ragione di questa importanza attribuita all’elaborazione di relazioni (e dunque di paesaggio) piuttosto che a quella dei singoli oggetti, che l’architetto Bernard Lassus ha definito questi abitanti: “abitanti-paesaggisti”. 11 Problemi di tutela Come affrontare dunque la sorte di questi patrimoni fragili? Che tipo di conservazione immaginare per degli intrecci di oggetti dinamici e profondamente radicati al loro territorio d’origine? L’unica possibilità sembra quella di tutelarli come beni culturali. Ma siamo sicuri che questa sia la soluzione migliore? In realtà la classificazione si rivela spesso un’arma a doppio taglio. Il Ministero della Cultura francese si è trovato a dover intervenire per la tutela di alcuni outsider environments. La prima classificazione, quella appunto del Palais di Cheval, suscita nel 1960 una polemica che dura cinque anni e che porta i contendenti fino alla Camera dei Deputati. Mentre alcuni, tra cui il Ministero dei Beni Culturali, non ritiene questo sito altro che “un mucchio di sciocchezze che si affastellano nel cervello di uno zoticone”, un insieme “assolutamente orribile”, per il quale è meglio “non parlare d’arte”, altri lo qualificano
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come “un’opera d’arte straordinaria, curiosa, unica nel suo genere”, lamentando che “l’amministrazione delle Belle Arti, che spende milioni per ripristinare insignificanti castelli Luigi XVI, non spenda un centesimo per il povero e sublime postino Cheval”. Dopo una vera e propria guerra di logoramento, a cui partecipano architetti, giornalisti e politici, il sito sarà classificato nel 1969, grazie all’intervento di André Malraux. Alle provocazioni di coloro che si oppongono alla sua proposta di classificazione, Malraux risponde: “Che cos’è il Palais Idéal? È l’unico esempio di architettura naïf. [...] La risposta alla domanda è quindi semplice: in un periodo storico in cui l’arte naïf è diventata una realtà significativa, sarebbe puerile non classificarlo - quando siamo noi, i francesi, che abbiamo la possibilità di possederla, l’unica architettura naïf al mondo - e attendere che si distrugga”.12 Il caso del Palais Idéal diventerà esemplare in Francia. Altri siti saranno classificati negli anni 1980-1990, anni che vedono la nozione di patrimonio e la lista dei monumenti tutelati ampliarsi notevolmente. Queste misure di protezione, e i relativi obblighi, implicano tuttavia dei rischi. Basta considerare la
Visita scolastica al Palais Idéal
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tendenza mortifera propria a qualsiasi tutela istituzionale: la musealizzazione degli oggetti protetti. Si tratta di un processo che prevede la regolamentazione e l’immobilizzazione del bene e che tende a separare questo dal suo contesto. La Maison Bleue13, per esempio - insieme composto da una casa e un giardino, in cui una decina di cappelle e mulini a vento in miniatura sono stati costruiti tra il 1957 e il 1984 da Euclides Da Costa Ferreira - è stato acquisito dal Comune di Dives-surMer nel 1989 e iscritto all’inventario dei monumenti storici nel 1991. Nel 2005, per proteggerlo dagli agenti atmosferici, il giardino è coperto d’urgenza con una struttura in ferro e plexiglas, sotto la quale resta a tutt’oggi, per mancanza di soldi. Questo environment perde così tutto il suo senso: isolato dal paesaggio a partire dal quale e per il quale è stato creato, finisce fossilizzato in una vetrina. Per quanto riguarda il Palais Idéal, oggi non si può non notare il suo ottimo stato di conservazione, ma anche la sua progressiva “turistificazione”. Dopo oltre 40 anni della sua classificazione, il sito dispone oggi di una boutique di souvenir, di un servizio di comunicazione e promozione alla moda, di una programmazione di eventi a vocazione turistica, e conta oggi circa 150.000 visitatori all’anno. La standardizzazione e la feticizzazione di questo luogo, reso visibile e desiderabile, idoneo al consumo culturale, lo spoglia però della sua funzione simbolica, garante di unicità e di identità. Il più famoso degli outsider environments si trasforma infatti, gradualmente, in una merce di scambio in un contesto di competizione territoriale. Un altro esempio è quello della Cattedrale di Neuvy-DeuxClochers, sito composto da un’imponente architettura vernacolare e da un parco di sculture realizzate dal ceramista Jean Linard nel corso di più di quarant’anni. Quotidianamente rinnovato, restaurato o addirittura riformulato dal suo autore (morto nel 2010), dal 2012 il sito è incluso nell’inventario
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dei monumenti storici e tuttavia rimane in uno stato di conservazione allarmante. L’associazione che si occupa del posto non è autorizzata, infatti, a riabilitare le sculture arrugginite, i mosaici fatiscenti o i tetti danneggiati. Sebbene l’associazione abbia fatto un lungo lavoro di documentazione su come operava Linard e includa gli eredi diretti dell’artista, che hanno imparato da lui le sue pratiche, non può riprendere il lavoro di riparazione e restauro costante con cui l’autore provvedeva alla protezione del suo sito. Secondo la legge sui monumenti storici, l’edificio classificato o iscritto “non può essere distrutto o spostato, anche parzialmente, o essere oggetto di lavori di restauro, riparazione o qualsiasi cambiamento se l’autorità competente non ha preventivamente dato il suo consenso”. I lavori devono inoltre essere eseguiti sotto la supervisione dell’amministrazione degli affari culturali. Si tratta quindi di attendere tempi molto lunghi prima di ottenere i permessi, le sovvenzioni e l’intervento di esperti che, abituati a ripristinare cappelle e castelli, avranno bisogno di ulteriore tempo e finanziamenti per trovare i materiali appropriati e i metodi di
La Cattedrale di Jean Linard a Neuvy-DeuxClochers
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conservazione adatti a queste creazioni, lontane dai modelli architettonici tradizionali. Le tecniche utilizzate dagli outsider “non hanno niente a che vedere con quelle utilizzate per i monumenti storici”, si legge infatti nello studio per i lavori di restauro della Maison Picassiette14. Qualsiasi azione volta alla conservazione si rivela quindi estremamente complessa e costosa e scoraggia i comuni e gli enti locali, già in difficoltà per i tagli alla cultura. Inoltre, cercando di proteggere, mediante la classificazione e la sovvenzione, degli oggetti così effimeri e variabili, il legislatore si ritrova intrappolato in una contraddizione insolubile tra la logica patrimoniale dell’atemporalità e della sostenibilità, che mira a perpetuare l’oggetto tutelato nel lungo termine, e la logica contestuale, processuale ed effimera che costituisce la particolarità dei siti outsider. Come abbiamo visto, queste elaborazioni non sono dei semplici beni immobili, ma sono anche dei siti interattivi, risultato di pratiche in situazione e costruiti in maniera totalmente disinteressata. La conservazione in situ sembra richiedere la perdita del carattere gratuito, processuale e relazionale che li rende speciali. Ma se è spesso impossibile conservare senza alterare, dobbiamo anche ricordare - come ha già fatto Eva di Stefano in occasione dell’incontro EOA di Heidelberg15 - che qualsiasi modifica di un bene culturale deve essere subordinata alla specificità dell’opera, e che la specificità di questi luoghi risiede sia nella loro forma materiale (gli oggetti, le costruzioni) che nel concetto artistico immateriale che conferisce senso, valore, emozione e mistero. Non sarebbe allora più opportuno sacrificare ogni tipo di considerazione pratica di funzionalità, efficacia e soprattutto lo sfruttamento economico, a questa specificità storica, sociale ed estetica, e cercare piuttosto di preservare la dinamica secondo la quale il materiale e l’immateriale interagiscono dando un senso a questi luoghi?
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Processi relazionali e pratiche in divenire Per limitare l’alterazione di questi siti dopo la morte dei loro autori ed integrarli nella vita contemporanea senza precluderne la tutela, è urgente una presa di coscienza, ma ci sono anche delle strategie che possono essere rese operanti. In primo luogo, bisognerebbe condurre un’operazione di raccolta di dati e porre le basi di un pre-inventario che potrebbe aiutare a tutelare la memoria di questi luoghi e a metterli in contatto tra loro. Il materiale raccolto (video, foto, audio, etc.) potrebbe essere diffuso progressivamente su piattaforme web ed alimentarsi grazie alle informazioni e al contributo del pubblico, come una sorta di work in progress partecipativo16. Gli ambienti irregolari sono difficili da scoprire, la loro documentazione è essenzialmente frammentaria. Molte informazioni rimangono nella memoria di persone o in archivi privati, sotto forma di foto e di video amatoriali. Un inventario partecipativo agevolerebbe il rilevamento dati, consentendo ai cittadini di contribuire attivamente alla valorizzazione del patrimonio outsider del loro territorio e a mantenere viva la loro memoria. Se sono fatti in modo accurato e attento quando l’autore è ancora in attività, gli inventari potrebbero fungere anche da una guida pratica ed etica da seguire dopo la sua scomparsa. In secondo luogo, bisognerebbe favorire l’educazione alla conoscenza di questi patrimoni, attraverso insegnamenti che permettano l’acquisizione di un sapere storico, ma anche attraverso esplorazioni concrete, sensibili, e non solo virtuali, di questi siti. Infine, è opportuno stimolare la partecipazione collettiva - oltre a quella necessaria alla vita dell’inventario - convocando esperti e residenti, associazioni e strutture amministrative locali nella riappropriazione e nel riutilizzo di queste eredità collettive. Per ogni sito, bisognerebbe certo immaginare riformulazioni originali e approfondimenti giuridici, ma bisognerebbe soprattutto rinunciare al dogma
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Particolare della Cattedrale di Jean Linard
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La cascata del Rock Garden di Nek Chand a Chandigarh (India)
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della loro intangibilità e al formalismo del restauro storico. Alla musealizzazione del Palais Idéal contrapporrei quindi il caso del Rock Garden, giardino di sculture creato clandestinamente dall’artista autodidatta Nek Chand (19242015) a Chandigarh (India), dove sono stati assegnati contributi per la sua espansione e per la continua manutenzione, condotte da squadre formate sotto la direzione dell’artista. Ma penso anche, e soprattutto, alle esperienze di numerose associazioni locali che, nelle loro attività di salvaguardia, si preoccupano di sensibilizzare e coinvolgere le comunità locali. Un esempio è quello della casa di Giovanni Cammarata a Messina, in gran parte demolita alla fine del 2007. Dai piccoli gruppi di protesta formatisi per impedire la sua distruzione è nato Zona Cammarata, un collettivo di ricerca-azione composto da accademici, poeti urbani, attivisti politici e artisti visivi che mira a riabilitare non solo la dimensione artistica del lavoro, ma anche la sua capacità di sollecitare relazioni sociali, territoriali e urbane. Allo stesso modo, i membri dell’associazione per la tutela della Cathédrale de Jean Linard organizzano ogni anno varie manifestazioni, sollecitando la partecipazione delle popolazioni locali. L’associazione è riuscita anche ad aprire un dialogo con la conservatrice dei monumenti storici che, notando lo stato di conservazione allarmante del sito, si è mostrata disponibile a collaborare con l’associazione. Uno studio di conservazione preventiva è stato fatto nei giorni scorsi, con l’obiettivo di identificare i rischi specifici e le vulnerabilità dell’opera, stabilire misure di conservazione e soprattutto organizzare una formazione dei membri ad opera di un restauratore, che permetterà loro di essere indipendenti nella manutenzione del sito. Infine: non si potrebbero considerare le produzioni degli abitanti-paesaggisti come degli “oggetti-frontiera”17, a metà strada tra delle opere d’arte da conservare e dei luoghi antropologici da preservare nella loro vitalità? Non sarebbe
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più opportuno cercare le soluzioni per tutelarli in una zona di confine tra il patrimonio culturale materiale e l’immateriale? La Convenzione per la tutela del patrimonio culturale immateriale può essere un buon punto di riferimento per la tutela di questi oggetti-luogo, in quanto mira a salvaguardare dei patrimoni la cui unicità risiede nella loro dimensione evolutiva e processuale. Il Patrimonio Culturale Immateriale comprende infatti “pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e competenze (come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi) che le comunità, i gruppi e gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale.” La convenzione sottolinea la natura dinamica di questo patrimonio di oggetti e pratiche, considerandolo come un processo, piuttosto che come un prodotto. La necessità di attuare programmi di protezione di “pratiche in divenire” ha posto professionisti e amministratori del patrimonio culturale di fronte a una nuova e difficile situazione. Si è allora resa necessaria l’attuazione di azioni sociali e politiche che permettano ai gruppi di replicare queste pratiche e di essere coinvolti attivamente nella loro gestione, al fine di evitare azioni che portano alla conservazione di beni reificati. Così, per tutelare il valore materiale, ma anche emotivo e memoriale di questi patrimoni irregolari, la partecipazione attiva delle comunità può giocare un ruolo chiave. Favorire delle relazioni tra i luoghi e le popolazioni locali - relazioni che sarebbero necessariamente mutevoli, eterogenee, contraddittorie, in una parola storiche - permetterebbe di contraddire “il sogno di immobilità che è alle origini dell’utopia monumentale”18. Educare i cittadini a pensare questi siti come un patrimonio da proteggere, dando loro gli strumenti culturali, giuridici ed economici per prendersi cura di essi, permetterebbe di tutelare non solo la materialità di questi siti, ma anche la loro immaterialità, fatta di ricordi, storie, rituali personali e know-
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how. Favorire modalità di gestione dal basso, coinvolgendo le persone alle varie fasi della valorizzazione - dalla scelta dei siti per l’inventario alla loro interpretazione e trasmissione consentirebbe a questi luoghi di continuare ad esistere come opere d’arte, ma anche come spazi sociali di solidarietà. Questi luoghi straordinari, in grado di coniugare diversi linguaggi artistici e rompere le barriere tra arte e non-arte, tra ciò che è centrale e ciò che è periferico, tra oggetto e pratica, si situano in una zona di transizione tra mondi spesso considerati ermetici e invitano tutti - abitanti, artisti, curatori, appassionati e ricercatori di diverse discipline - a lavorare insieme per una antropologia dell’abitare.
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1
Cfr. R. Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008 (ed.or., The Craftsman, Yale University Press, 2008).
2
Per un’analisi di questo concetto in epoca contemporanea, cfr. H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, 1958; H. Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], Sansoni, Firenze 1963.
3
Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens [1938], Einaudi 2002.
4
Cfr. H. D. Thoreau, Walden ou la Vie dans les bois [1854], Gallimard, Parigi 1992, p. 47 (ed. it. Walden, ovvero Vita nei boschi, BUR, Milano 2006).
5
Cfr. G. A. Tiberghien, Nature, Art, Paysage, Actes Sud / ENSP, Parigi 2001, p. 119.
6
V. Moulinié, « L’autre de l’art - Production “ oeuvrière ” et égo-musée », comunicazione inedita, convegno Art spontané, art brut, art psychopathologique, direzione
scientifica Benoît Decron, organizzato dalla Galleria nazionale del Jeu de Paume in occasione dell’esposizione Chaissac, Studio-Théâtre de la Comédie Française (Carrousel du Louvre), Parigi, 14 ottobre 2000 (URL : http://halshs.archives-ouvertes. fr/halshs-00141941). 7
J. Bazin, Des clous dans la Joconde: l’anthropologie autrement, Anarcharsis, Tolosa 2008, p. 554.
8
Con l’espressione «récit d’espace», de Certeau descrive dei racconti che percorrono e organizzano luoghi, ma anche lo spazio costruito dalla scrittura stessa del racconto. Cfr. M. de Certeau, L’invention du quotidien 1. arts de faire, Gallimard, Parigi 1990, nota 12, pp. 170-191.
9
M. Augé, Nonluoghi : introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993.
10
A. Berque (a cura di), Cinq propositions pour une théorie du paysage, Champ Vallon, Seyssel 1994, p. 6.
11
B. Lassus, Jardins Imaginaires. Les habitants-paysagistes, Les Presses de la connaissance, Parigi 1977.
12
I documenti del dibattito in J.-P. Jouve, C. e C. Prévost, Le Palais Idéal du Facteur Cheval, éd. du Moniteur, Parigi 1981 pp. 9-11.
13
Cfr. C. Lechopier, Une mosaïque à ciel ouvert: la Maison bleue de Dives-sur-Mer, Cahiers du temps, Cabourg 2013.
14
A. Castello, «La maison Picassiette. Origine et restaurations», novembre 1997, in P. Calvel, Maison Picassiette. 1930-1962. Etude préalable à travaux de restauration. Première cour et maison d’habitation, Regione Centro, Dipartimento dell’Eure et Loir, Città di Chartres, Ministero della cultura e della comunicazione, Direzione dell’architettura e del Patrimonio, 01-05-2000, dossier d’archivio, Mediateca dell’architettura e del Patrimonio, Parigi (2000/002/025 ; EP / MH 10158).
15
E. di Stefano, “Who owns Outsider Art?”, intervento al convegno Ethical Questions around Outsider Art, Museum Prinzhorn, Heidelberg, 25 maggio 2013. (URL: https:// sites.google.com/site/oeetexts/stefano-eva-di-who-owns-outsider-art-2013)
16
Un modello è l’archivio on-line americano www.spacesarchives.org di SPACES [Saving and Preserving Arts and Cultural Environments], ma anche quello italiano www.costruttoridibabele.net curato da Gabriele Mina.
17
La nozione di «objet-frontière» é sviluppata in ambito antropologico. Cfr. P. Trompette, D. Vinck, «Retour sur la notion d’objet-frontière», Revue d’anthropologie des connaissances 2009/1, vol. 3, n° 1, p.7.
18
Cfr. D. Fabre, A. Iuso (a cura di), Les monuments sont habités, Éditions de la Maison des Sciences de l’Homme, Parigi 2010.
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Verso una rete internazionale di salvaguardia? Una testimonianza di Laurent Danchin
Attraverso il racconto del proprio percorso personale di avvicinamento a questa fenomenologia artistica, lo studioso francese traccia sinteticamente anche le tappe della crescita progressiva di consapevolezza culturale in Francia e altrove
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L’interesse per gli environments di Art Brut o Outsider1 (folk art environments negli USA) si è sviluppato in Francia e California alla fine degli anni ‘70, grazie ai progressi della fotografia e della televisione. Si trattava di una componente della cultura hippie, non della cultura gauchiste, alla ricerca di forme di vita alternative e parallele. Tutta una serie di opere e trasmissioni, diventate presto di culto per gli amatori, hanno divulgato allora la conoscenza dei principali siti francesi: il Palais Idéal, la casa di Picassiette, le rocce scolpite di Rothéneuf, La Frênouse di Robert Tatin, la giostra di PetitPierre, etc. All’estero si conoscevano soltanto le Torri di Watts a Los Angeles, e a Woodstock la casa di Clarence Schmidt, che tutte le rockstar avevano visitato. Gilles Ehrmann, François-Xavier Bouchart, Nadine Beauthéac, Jacques Verroust, Francis David, Claude Place, Jacques Lacarrière – alcuni fotografi, un’antropologa, alcuni scrittori e talora degli architetti (come il celebre Bernard Lassus e i suoi «abitanti- paesaggisti», ma anche Richard Jeandelle o Maarten Kloss) –, si sono distinti nella difesa di ciò che presto negli anni seguenti è diventato un genere. Ma anche due mostre parigine hanno avuto un ruolo fondamentale: Architectures marginales aux USA, nel novembre 1975 e, all’inizio del 1978, Les Singuliers de l’art, con gli audiovisivi che Claude e Clovis Prévost hanno dedicato ai «Costruttori dell’immaginario». Per quanto mi riguarda, l’innesco è stato l’incontro con Chomo con la scoperta del suo Village d’Art Préludien nel dicembre del 1975, ed è attraverso Chomo che ho conosciuto tutte le persone che gravitavano attorno a questi luoghi affascinanti: Prévost innnazitutto, poi Jean-Paul Vidal, il fotografo certamente più disinteressato, che è rimasto mio amico e il cui archivio è insostituibile. Ma i fotografi, come i giornalisti, una volta scattate le foto e pubblicati i loro testi, si curano raramente di ciò che accade ai loro soggetti
di reportage. A me gli autori interessavano tanto quanto le loro costruzioni: era inconcepibile non sostenerli, e mi sono velocemente orientato verso la salvaguardia dei luoghi che mi avevano toccato di più. Dopo la pubblicazione delle mie conversazioni con Chomo nel febbraio del 1978, mi sono prima molto impegnato nella salvaguardia del Manège de Petit-Pierre, per il quale ho organizzato una campagna-stampa finché è stato donato, dopo mille peripezie, alla Fabuloserie che è riuscita a salvarlo. È accaduto dal 1982 al 1988, data in cui ho incontrato lo specialista americano di questo tema, il fotografo Seymour Rosen, che aveva fondato SPACES, l’associazione per la salvaguardia diretta attualmente da Jo Farb Hernandez a Aptos, in California, e di cui sono membro da quest’anno. Poco dopo, nel 1989 a Londra, John Maizels lanciava la rivista Raw Vision, di cui sono diventato il corrispondente francese, e che, dopo Seymour, accordava un interesse speciale agli environments, in particolare a quello di Nek Chand, diventato l’emblema della rivista. Era l’inizio dell’internazionalizzazione della tematica prima di Internet. Mi sono interessato ancora a nuovi siti francesi: Marcel Landreau a Mantes-la-Ville, Fernand Chatelain
Chomo davanti al suo rifugio, 1976 ca.
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Il “villaggio dell’arte preludiana” di Chomo, presso Fontainebleu I Centauri, sculture del Giardino di Fernand Chatelain, Tours
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nella Sarthe, Robert Vasseur a Louviers, e sopratutto, nel 1984, ho potuto scrivere per la televisione, nella famosa trasmissione Capolavori in pericolo di Pierre De Lagarde consacrata abitualmente ad antiche chiese e castelli, un programma che presentava otto siti in pericolo. Un piccolo libro ha giocato a quel tempo un grande ruolo nel far conoscere agli amatori tutto il circuito dei siti ‘irregolari’: la Guide de la France Insolite di Claude Arz (1990), alla quale ho contribuito con tutti gli indirizzi che conoscevo. Ma, gli autori, in generale anziani, cominciavano a sparire e alcuni siti erano minacciati dalla rovina, compreso il Palais Idéal (nonostante fosse stato classificato come monumento storico nel settembre del 1969, ma il cui restauro è permanente dal 1981). Nel corso degli anni 1990-2000, volontari appassionati si sono battuti per salvare alcuni siti: Claude Lechopier per la Maison Bleue di Da Costa, à Dives-sur-Mer (2002-2006), o L’Hourloupe di Xavier Bertola, e Virginie Colinet a Tours
per il giardino di Chatelain, che è stato oggetto del primo restauro ufficiale con una restauratrice specializzata (20032005). Nel frattempo la Finlandia è divenuto il paese pioniere in Europa per lo studio e la tutela dei siti d’arte popolare contemporanea, e continuando, attraverso Raw Vision, ad annodare legami stretti con gli americani, ho cominciato nel 2002 a collaborare regolarmente con i finlandesi. Alcuni blog specializzati, per lo più francesi, hanno iniziato ad apparire su internet (art insolite e animula vagula nel settembre 2005, le poignard subtil e lesgrigrisdesophie rispettivamente a giugno e novembre del 2007, Outsider Environments Europe un anno dopo). Era maturato il clima per una presa di coscienza più generale, ed è la salvaguardia della ‘Cattedrale’ di Jean Linard, attraverso una petizione internazionale a gennaio 2012 che ha consentito la giunzione, che ho potuto facilitare, tra SPACES, la rete franco-italiana e i finlandesi. In questa occasione ho suggerito alla mia amica Raija Kallioinen la creazione di una sezione specifica dedicata agli environments in seno all’EOA, la nuova European Outsider Art Association, creata a Gand nel 2009. I tempi erano mutati, il movimento era stato attivato. Così quando la nuova direttrice del Palais Idéal, Marie-José George, mi ha proposto di collaborare, ho considerato la proposta come un simbolo incoraggiante tanto questo luogo è emblematico. È così che, dopo una mostra di pannelli fotografici dedicati agli environments e presentati sul muro di cinta del Palais (150.000 visitatori all’anno), abbiamo deciso, con tutta la rete degli amici francesi e italiani, di editare Itinéraire d’Art Singulier en France, una piccola guida pratica di 28 luoghi visitabili di arte outsider in Francia, inizio di una rete più globale, chiamata logicamente ad aprirsi all’Europa e al mondo nelle prossime edizioni. NdR. L’autore preferisce usare il termine francese Singulier (cfr. nota 7 articolo di M. Botlan, supra), che noi qui traduciamo liberamente con Outsider.
1
Traduzione dal francese di Eva di Stefano
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ANDRé ROBILLARD E LA COLLECTION DE L’ART BRUT: UNA STORIA CHE DURA di Sarah Lombardi
APPROFONDIMENTI «Ho avuto pazienza, e un giorno tutto si compie»1 André Robillard
Come l’Art Brut può cambiare la vita. La vicenda dell’ultimo artista ancora attivo tra quelli collezionati da Dubuffet, attraverso i documenti conservati nell’archivio del museo di Losanna
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Pronunciate il nome di André Robillard e otterrete tale commento: «Oh sì, l’autore dei fucili!». Se è vero che questo creatore di Art Brut, nato nel 1931, deve la riconoscibilità in ambito artistico soprattutto ai suoi assemblaggi, occorre ricordare che egli elabora senza sosta e per più di cinquant’anni un’opera ricca e complessa, che non si limita ai soli fucili. L’importante corpus di opere conservate alla Collection de l’Art Brut è costituito da 167 pezzi che testimoniano la varietà dei soggetti trattati e dei supporti impiegati. Comprende opere grafiche, assemblaggi, sculture di legno, tutte opere che testimoniano il ricorso dell’autore a un ampio ventaglio di tecniche e la sua capacità di sperimentare e cercare nuove vie. I suoi lavori sono divisi per temi: i fucili, gli animali, la guerra, il cosmo, lo sport. Le opere conservate presso il museo di Losanna sono state realizzate tra il 1964 e il 20132 . Tra queste, i primi disegni, di qualità abbastanza notevole e molto meno conosciuti di quelli compiuti dal 1994, si limitano alla rappresentazione di un solo soggetto trattato in aplat sul supporto3. Realizzati con matite colorate, con una tavolozza limitata di tinte, essi presentano spesso due piani e si sviluppano su tutto il foglio, con alcuni giochi di prospettiva4. Quali che siano i soggetti, l’autore trae ispirazione dai suoi ricordi d’infanzia, da quel libro della memoria costituito da volumi ed enciclopedie illustrati, così come attinge dalla televisione, una finestra aperta sul mondo esterno dinanzi ai suoi occhi, specialmente dato che André Robillard vive dall’età di ventinove anni presso l’ospedale psichiatrico di Fleury-les-Aubrais, vicino a Orléans. André Robillard, infine, ha soprattutto tra le sue caratteristiche di essere l’ultimo autore ancora vivente tra quelli collezionati da Jean Dubuffet che, a ottantatré anni, è ancora in attività.
Ripercorriamo, dunque, il suo itinerario creativo, che è legato a doppio filo con lo stesso Dubuffet, così come a Michel Thévoz, primo conservatore della Collection de l’Art Brut, e alla sua assistente, Geneviève Roulin. Il ruolo di Jean Dubuffet Nell’aprile 1963, sempre alla ricerca di produzioni extraculturali, Jean Dubuffet si reca all’ospedale di Fleuryles-Aubrais, dove vive André Robillard. Da questo viaggio raccoglie alcuni lavori, ma non si tratta di opere di Robillard, che a quell’epoca verosimilmente non ha ancora realizzato i suoi due fucili. Un anno dopo, l’autore crea i due primi assemblaggi, a quanto pare in modo non intenzionale, come ha spiegato ad Alain Moreau, direttore del teatro di Villefranche-sur-Saône, in occasione del loro inserimento nella Collection de l’Art Brut, nel settembre 2013:5 A. M. — E un bel giorno poi, hai realizzato un fucile. A. R. — Un fucile, si! A. M. — E allora, questo ha stupito tutti… A. R. — Sì e ha stupito anche me stesso, ne sono stato sconvolto senza che me ne rendessi conto. Stavo disegnando, e mi domandavo cosa volesse dire far ciò[…]. Nel 1965, il dottor Renard, medico di Robillard, segnala a Jean Dubuffet l’esistenza di questi due pezzi, simulacri di fucili dalla grande forza evocatrice, che il dottore data a partire dal marzo 1964. Per queste opere, l’autore aveva fatto ricorso a materiali di recupero che raccoglieva essenzialmente nella discarica dell’ospedale e conservava nel suo alloggio: legno, lattine in alluminio, barattoli di conserva, tubi di ferro, plastica, scotch e cinghie di tessuto. Queste due opere sono, dunque, inviate nel febbraio dello stesso anno alla Compagnie de l’Art Brut, a Parigi. In cambio, Dubuffet fa recapitare del denaro a Robillard. Questo improvviso riconoscimento artistico ottenuto grazie alla presenza delle sue opere nelle collezioni
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André Robillard, assemblaggio di legno e materiali vari, 1964. Tutte le opere riprodotte sono della Collection de l’Art Brut , Losanna.
della Compagnie de l’Art Brut è decisivo per l’autore: gli permette, infatti, di essere considerato non più come un paziente dell’ospedale psichiatrico, ma come un artista a tutti gli effetti6 . La sua ammirazione e la sua fedeltà verso Jean Dubuffet diverranno, dunque, eterni, come testimoniano le numerose lettere che Robillard gli indirizza dal 1965, e il ritratto fotografico di Dubuffet che egli conserva come cosa preziosa nella sua camera. Le relazioni con Michel Thévoz e Geneviève Roulin Per l’allestimento permanente della Collection de l’Art Brut, inaugurato a Losanna il 26 febbraio 1976, Michel Thévoz seleziona i due fucili di André Robillard. Questa scelta - tra le 5000 opere appartenenti al museo – testimonia il suo interesse per questa produzione e per il suo autore. Egli avvia, inoltre, dal dicembre 1977, una corrispondenza con lui: «Il dottor Roger Gentis mi ha appena fatto una felice sorpresa comunicandomi vostre notizie. Sapete che i due fucili che avete realizzato, ormai alcuni anni fa, occupano un posto di rilievo in una vetrina della Collection de l’Art Brut, a Losanna. Colpiscono molto i visitatori, che ammirano il vostro ingegno e la vostra inventiva. Ci pongono domande su di voi, e mi piacerebbe dar loro vostre notizie. Forse potreste fare il gesto amicale di farci sapere come state» 7. Robillard gli sarà sempre riconoscente di questo gesto, e resterà sempre molto legato al museo: «Ho costruito 2 Barche per la Collection de l’art Brut, io non dimentico la Collection de l’art Brut»�. Nel 1981, nell’ambito di una mostra dedicata alle acquisizioni recenti dell’istituzione, Michel Thévoz presenta nuovi fucili e assemblaggi di André Robillard, accanto ai lavori di altri creatori venuti ad arricchire le collezioni in quell’anno9. Negli anni ‘90, allestisce uno spazio del museo per presentarvi i lavori dell’autore in modo permanente: «Prepariamo le vetrine per montare i vostri fucili, sarà una cosa di grande
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effetto, monteremo anche gli animali, avrete un posto importante nel museo»�. Dopo la prima missiva di Michel Thévoz, datata 1977, l’autore realizza numerosi fucili, tutti differenti, sui quali inserisce con del feltro nero un nome che permetta di identificarne il modello e la sua origine: « Fusil russe rapide 256 (Fucile russo rapido 256)», «FUSIL LUNAIRE GERMANY VhERNER VON BRUN (Fucile lunare Germania Vherner Von Brun) o ancora «FUSIL RUSSE C.C.C.P. T.K.R 66 RAPIDE (Fucile russo C.C.C.P. T.K.R 66 rapido)». Parallelamente, André Robillard inizia a creare assemblaggi di dimensioni maggiori che rappresentano aerei da combattimento, fondamentalmente sputnik e carri armati. Questi nuovi lavori fanno riferimento stavolta ai suoi ricordi della Seconda Guerra Mondiale. Qualunque sia l’origine delle opere prodotte, la motivazione che lo spinge a creare è la necessità di stabilire un legame con l’altro, al di là delle mura dell’ospedale dove abita, al fine di infrangere il suo isolamento e la sua solitudine. Inoltre, dal 1977, realizza una grande quantità di opere (disegni e assemblaggi di ogni tipo), la maggior parte delle quali destinata alla Collection de l’Art Brut. Dal 1980, anno della sua prima visita al museo, il ritmo si accelera. André Robillard contravviene così al principio secondo il quale gli autori di Art Brut creerebbero prima di tutto per loro stessi, senza alcun destinatario. In questo senso, egli ha un approccio molto arcaico all’arte, che richiama il Medioevo: in quell’epoca, gli artisti avevano sempre un committente riconosciuto, come ad esempio una corte principesca o una comunità religiosa. Qui, la committenza per la quale egli crea è la Collection de l’Art Brut. È importante rilevare che sulla stessa linea di Jean Dubuffet, l’attenzione che gli dedica a sua volta Michel Thévoz è senza secondi fini di tipo commerciale o di lucro, e non rivela altro
(pagina seguente) Articolo di J.-B. Besençon in L’Illustré, n. 19, Losanna, ed. Ringier Romandie, 1995
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André Robillard, C. C. C. P., assemblaggio di legno e materiali vari, 1981
se non un puro entusiasmo di tipo artistico: «In ogni caso, sono davvero felice che voi abbiate adesso, qui alla Collection de l’Art Brut, opere così interessanti, così appassionanti, che avranno molto successo»�. A questo proposito, il dottor Roger Gentis ricorda, in una lettera destinata a Michel Thévoz nel 1982: «Così, è grazie a Dubuffet, a voi e a tutti quelli che hanno sostenuto le vostre azioni, che André Robillard ha potuto dare un senso alla sua vita - e vi assicuro che adesso egli è felice di vivere e di creare oggetti straordinari»�. La prima visita di André Robillard alla Collection de l’Art Brut Nell’agosto 1980, quattro anni dopo l’apertura del museo di Losanna dove sono conservate le sue opere, Robillard si reca nella città svizzera, dopo aver sollecitato Thévoz nell’aprile 1978, poi nel marzo 1980. Questo viaggio, seguito da altre visite successive, è rivelatore da più punti di vista. L’autore vede per la prima volta i suoi lavori esposti. Prende allora coscienza del fatto che essi sono considerati opere d’arte. Scopre anche che altre persone lavorano come lui in situazioni di marginalità, e si sente vicino a questi individui
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Auguste Forestier, assemblaggio di legno e materiali vari, 1935-1949
e alla loro produzione, che apprezza in modo particolare. A tal proposito, in una lettera indirizzata a Geneviève Roulin, accompagnata da un piccolo disegno fatto con la penna biro, afferma: «Amo molto le opere di art Brut»13. Durante la sua visita al museo, Robillard è affascinato soprattutto dai volti fatti di conchiglie di Maisonneuve (18631934)14. Ma apprezza in modo particolare anche le sculture di legno di Auguste Forestier (1887-1958), con il quale sente di avere degli elementi in comune: come lui, Forestier è stato internato in un ospedale psichiatrico e ha realizzato opere con materiali di recupero (pezzi di cuoio, brandelli di tessuto, pezzi
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di metallo, ecc…). Quanto al cognome ‘Forestier’ (forestale), Robillard non può restarvi indifferente, forse gli evoca il ricordo di suo padre, che lavorava come guardacaccia. Il suo incontro con l’opera di Forestier è decisivo nell’evoluzione della sua stessa produzione, giacché dal 1981 egli utilizza in egual modo dei rami caduti di albero per realizzare sculture designate con il termine di ‘bozzetti’. Per questa nuova serie di opere, Robillard traccia con la penna biro, su una tavola di legno, il contorno del suo soggetto fondamentalmente animali - prima di segarla a mano, poi disegna sulla forma ritagliata15. Con la scoperta dell’opera di Forestier, Robillard va ad attingere alla sorgente, ispirandosi direttamente al lavoro di un altro, un caso eccezionale nell’Art Brut. Sino alla fine dell’ottobre 1991, lavora a tempo pieno all’impianto di depurazione dell’ospedale e si dedica unicamente alle sue creazioni nel tempo libero. Dalla pensione, nel novembre 1991, vi si impegna totalmente e dichiara di destinare tutto il suo lavoro all’istituzione di Losanna: «tutte le opere che creerò sono per la Collection de l’art Brut, poiché è davvero Incredibile quello che voi fate Per Me …»16. Allo stesso tempo, a partire dagli anni Novanta, il riconoscimento in ambito museale derivante dalla sua presenza nella Collection de l’Art Brut incoraggia collezionisti e galleristi a interessarsi ai suoi lavori, in particolare ai fucili. Robillard non vi rimane indifferente. In una lettera indirizzata a Geneviève Roulin, confida: «Cara Geneviève, ti scrivo queste poche parole per dirti che il Tedesco verrà il 2 luglio per comprare i miei fucili, 20 fucili, per la mostra di Colonia, Ecco allora adesso, espongo in Germania, malgrado i miei sessant’anni continuo a lavorare, mi godo la vita […]». E poco prima di un viaggio in Belgio: «Mi fa piacere questa cosa di viaggiare ogni tanto, tutto questo mi cambia la vita»18. Creare permette a Robillard non solo di viaggiare, dopo
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Losanna in Francia, e poi in altri paesi. I suoi spostamenti sono anche forieri di nuovi incontri. Nel 1992, scrive a seguito della sua prima esposizione a Düsseldorf, in Germania, alla Galleria Susanne Zander: «Sono contento di avere degli amici nella mia vita, ché io amo molto Geneviève (Roulin), Suzanne Sander, Michel Nedjar e anche Michel Thévoz e qualcun altro…». Se il suo lavoro conosce una maggiore visibilità, attraverso mostre sempre più numerose, l’autore continua a ribadire i suoi legami di amicizia con coloro che lo fanno esporre, e lo stesso fa quando lavora per le gallerie private. Ma i nomi di Dubuffet eThévoz, i suoi numi tutelari, sono sempre menzionati quando egli si trova a parlare del suo percorso artistico. La corrispondenza La corrispondenza che Robillard intavola con le persone che incontra gli permette di consolidare i legami di amicizia che ha intrecciato attraverso la scorciatoia della creazione e di alimentarli. Lo testimoniano le centinaia di lettere, cartoline e biglietti di auguri di fine d’anno inviati al museo tra il 1977 e il 2001 - anno in cui Michel Thévoz lascia le sue funzioni e Geneviève Roulin muore -19, che attestano il suo legame privilegiato con il museo di Losanna. Le lettere sono redatte con penna biro blu e non sono mai datate. In compenso, sono tutte firmate con il suo nome accompagnato dall’indirizzo in calce alla pagina contornato da un cerchio, come la firma che compare sulle sue opere. Robillard vi evoca sua madre e sua sorella. Parla allo stesso tempo dei suoi problemi di salute, in particolare alla vista. Infine, si dilunga molto sulle sue opere e sulle nuove esposizioni in Francia e all’estero. A volte inserisce nelle buste alcune Polaroid dei suoi ultimi lavori: «il grande quadro con il pianeta Saturno», «3 Missili Apollo USA», «un’invenzione 2 Fucili con pedali di biciclette, a ruota libera, ed anche una catena, e la pedaliera (…)», «il bozzetto del pellicano e 4
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André Robillard, penna a sfera e matite colorate su carta, 1980 ca.
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fucili», «un serpente», «Apollo 15 e il fucile tedesco V2», «una scultura di lucertola», «un cobra », «una cicogna», «una spada », «una barca a vela», «l’imbarcazione americana da guerra», «due super fucili con lampadina, un fucile americano e un altro russo»20, o ancora «la navicella spaziale». La corrispondenza costituisce, dunque, una preziosa fonte di informazioni che ci permette di seguire l’evolversi del suo lavoro nel tempo. Ci informa allo stesso modo che lo scambio è pratica corrente tra Robillard e il museo. Ad esempio, nel maggio 1990 Michel Thévoz scrive a Robillard che si augura di offrirgli una fisarmonica cromatica, da ordinare a un negozio di Orléans21! Al contrario, a volte è l’autore che chiede di ricevere un oggetto ben
preciso. In due lettere datate 1992, Robillard scrive che è molto felice che la sua imbarcazione americana da guerra, munita di lanciamissili, alla quale ha dedicato tre giorni di lavoro, si trovi ormai al museo. In cambio, spera di ricevere un orologio Tissot, «di quelli che si ricaricano con i movimenti del polso, […] con il braccialetto di metallo dorato»�. Sulla totalità del corpus, 73 opere sono inventariate nei termini di donazione di Robillard. Ma sono verosimilmente 118 le opere che egli ha regalato, di cui non è specificata la modalità di acquisizione23. Se questa pratica può sorprendere nell’ambiente dell’arte contemporanea, dove ogni transazione è regolata da una somma di denaro spesso molto elevata, questa maniera di procedere è sempre esistita nell’Art Brut, dove la produzione non è sinonimo di un valore commerciale per l’autore, o comunque si tratta di un aspetto che rimane marginale ai suoi occhi. Ancor oggi André Robillard prosegue senza sosta la sua opera. A ottantatré anni, è ancor più attivo che mai, giacché alle sue insegne di disegnatore, scultore, cantante e musicista, dal 2008 ha aggiunto quelle di interprete accanto al regista Alexis Forestier - un altro ‘Forestier’! Il teatro rappresenta una nuova modalità di emancipazione per l’autore. La sua ultima mostra recentemente tenuta presso la Collection de l’Art Brut ( 28/11/ 2014 - 19/4/ 2015) è stata accompagnata dallo spettacolo Changer la vie, su e con André Robillard, presentato al teatro di Vidy, a Losanna, grazie a una collaborazione con il suo direttore, Vincent Baudriller. Cambiare la sua vita: questo è il potere delle opere di André Robillard.
L’Autrice ringrazia Bernadette Chevillion e Michel Thévoz per le loro preziose informazioni, così come Anic Zanzi per la sua rilettura e Pauline Mack per le sue ricerche presso gli archivi della Collection de l’Art Brut. 1
Da una lettera di André Robillard a Geneviève Roulin, assistente di Michel Thévoz alla Collection de l’Art Brut, ca. 1990, Archivi della Collection de l’Art Brut (CAB), Losanna. L’ortografia originale è stata mantenuta in tutte le citazioni seguenti tratte dalle lettere di André Robillard.
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Nel settembre 2013, in occasione di una visita di André Robillard al museo, che non aveva più visto da molti anni, sono stati acquisiti un fucile russo e due disegni.
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A causa della sua vista debole (è stato operato a più riprese di cataratta e ha subito un trapianto della cornea), André Robillard ha progressivamente semplificato le composizioni e utilizzato penne biro ed evidenziatori, che gli consentono di tracciare più facilmente i contorni.
3
È probabile che André Robillard abbia fatto ricorso alla tecnica della decalcomania per questa serie di disegni. Interrogato a tal proposito da Bernadette Chevillon, non ha voluto rispondere, e non vi fa mai allusione nelle sue lettere.
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In occasione de «La notte dei musei», il 21 settembre 2013, André Robillard è stato invitato dalla Collection de l’Art Brut. Nel corso della serata, ha raccontato di sé in musica, accompagnato da Alain Moreau.
5
Quando Robillard parla del suo lavoro, utilizza spesso l’espressione «marchingegni d’artista». Altrimenti, firma quasi tutti i suoi lavori - ad eccezione di quei due primi fucili - «Robillard André signé (firmato)» o «Signé Robillard André», poi circonda la firma con un cerchio. Nel febbraio 1990, pone la sua firma sullo stipite della porta d’ingresso.
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Lettera di Michel Thévoz ad André Robillard del 16 dicembre 1977, Archivi della Collection de l’Art Brut, Losanna.
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Lettera di André Robillard a Michel Thévoz del 1991, Archivi della Collection de l’Art Brut., Losanna.
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La mostra intitolata «Acquisitions 1980» presentava in particolare lavori di Angelo Meani, Josef Wittlich, Sylvain Fusco, Edmund Monsiel, Anna Zemankova e August Walla.
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Lettera di Michel Thévoz ad André Robillard del 23 maggio 1990, Archivi della Collection de l’Art Brut. Questo allestimento riuniva fucili, missili e animali di legno intagliato. Fu variato in seguito, nel 2009 , da Lucienne Peiry, direttrice del museo dal 2001 al 2011.
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Lettera di Michel Thévoz ad André Robillard del 2 novembre 1989, Archivi della Collection de l’Art Brut.
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Lettera di Roger Gentis a Michel Thévoz del 22 gennaio 1982, in R. Gentis, “André Robillard dans son atelier”, Projet Aloïse, Éditions du Scarabée/CEMEA, Parigi 1982, pp. 103-104.
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Lettera d’André Robillard a Geneviève Roulin, s. d., Archivi della Collection de l’Art Brut. Geneviève Roulin si recherà da lui l’anno successivo, il 24 e 25 marzo 1981, e poi in altre occasioni. In attesa di questo ipotetico viaggio, Robillard le aveva inviato una cartolina con una veduta dell’ingresso dell’ospedale. Anche molti collaboratori del museo gli faranno visita: André Grau, all’epoca portiere, con il suo camioncino, Félix Rodriguez, che aveva la mansione di segretario, e Alain Corbaz, attuale tecnico portiere.
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Scoprirà durante successive visite al museo altre opere, specialmente i disegni di Auguste Walla (1936-2001), un autore che incontra nel luglio 1999 grazie a Éric Moinat, amico di lunga data di André Robillard e collezionista della sua opera. A seguito delle sue visite, Robillard chiede spesso di ricevere edizioni del museo, specialmente il libro di Michel Thévoz (L’Art Brut, Skira, Ginevra 1975, 1980) con in copertina un’opera con le conchiglie di Maisonneuve, così come l’adesivo raffigurante questa stessa opera da poter incollare sul suo giubbotto da motociclista “i Fascicules de l’Art Brut” la cartolina raffigurante il suo fucile del 1964 stampata dall’istituzione, o ancora il manifesto della mostra in corso.
14
In un film dedicato ad alcuni autori di Art Brut, intitolato André et les martiens (Montpellier, CP productions, 2014, 66 min), il regista Philippe Lespinasse filma Robillard mentre sta realizzando una delle sue sculture di legno. Lo si vede inizialmente piegato in due per segare a livello del pavimento il suo supporto in uno spazio saturo di oggetti.
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Lettera d’André Robillard a Michel Thévoz, s. d., Archivi della Collection de l’Art Brut.
16
Lettera d’André Robillard a Geneviève Roulin, 1992, Archivi della Collection de l’Art Brut.
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Lettera d’André Robillard a Geneviève Roulin, 1985 o 1986 circa, Archivi della Collection de l’Art Brut. Le sue mostre all’estero gli hanno consentito di allacciare rapporti d’amicizia con persone del mondo intero, che egli immortala con la sua Polaroid.
18
Anche se l’autore continua a inviare lettere e cartoline dopo il 2001, esse si fanno comunque meno frequenti.
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Questi due ultimi pezzi erano riservati a una collezionista americana, ma di fronte al silenzio di quest’ultima, che non diede seguito alle sue lettere - «se non ricevo risposte non scrivo più, perdo il mio tempo» - entreranno nella collezione del museo.
20
Lettera di Michel Thévoz a André Robillard del 23 maggio 1990, Archivi della Collection de l’Art Brut.
21
Lettera di André Robillard a Michel Thévoz, 1992, Archivi della Collection de l’Art Brut.
22
Alcune opere sono state donate da collezionisti privati, come Le Cerf indien.
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Traduzione dal francese di Marina Giordano
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Henry Darger nel paese delle crudeltà e delle meraviglie di Alba Romano Pace
• Il tesoro in una stanza • La vicenda straordinaria di un artista clandestino diventato una star dell’Outsider Art • Un reportage della recente mostra al Museo d’Arte Moderna di Parigi
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851 Webster Avenue Chicago, tra le riviste accumulate l’una sull’altra in ogni angolo, tra scaffali colmi di libri per bambini, testi sacri e manuali di storia straripanti fin giù al pavimento, tra pareti ricoperte di carte geografiche, immagini di santi, ritagli di giornali appesi con le puntine da disegno o attentamente suddivisi in categorie dentro vecchi album, tra cataste di vinili affastellati al suolo, panieri colmi di gomitoli di corda, vecchie valige, bottiglie vuote a profusione, fogli di carta carbone, scatole di colori e acquarelli, Henry Darger, un anonimo lavapiatti all’Ospedale Saint Joseph, imbastisce quotidianamente e durante una vita intera, il suo ‘regno dell’irreale’. Dopo una prima esposizione nel 2006 alla Fondazione La Maison Rouge diretta da Antoine de Galbert1, Parigi ha celebrato nuovamente, con la mostra Henry Darger, 189219732, la straordinaria opera di questo artista outsider che entra a far parte della collezione permanente del Museo d’art moderne de la Ville de Paris, grazie al dono di 45 opere della Successione Darger, voluto da Kiyoko Lerner. Tutto si svolge lì, all’ 851 Webster Avenue, una palazzina di tre piani in uno spoglio quartiere di Chicago. A pochi passi da Darger vivono i proprietari del suo monolocale, i coniugi Nathan e Kiyoko Lerner. Per più di quaranta anni l’artista abita l’immobile, scandendo le sue giornate tra il lavoro all’ospedale, la messa in chiesa e le lunghe passeggiate in cerca d’oggetti gettati tra i rifiuti: pezzi di corda che annodava successivamente in gomitoli, vecchie riviste, bottiglie di PeptoBismal, un medicinale dal colore rosa fluorescente, usato nei primi del Novecento per curare i problemi intestinali dei bambini affetti dal colera. «Non parlava mai con nessuno. Se qualcuno gli rivolgeva la parola, lui rispondeva educatamente con una considerazione sul tempo meteorologico»3, racconta Nathan Lerner in una testimonianza apposta all’ingresso della mostra. Quando Henry Darger è costretto ad abbandonare la sua stanza, per finire i suoi giorni in una casa di riposo,
Lerner inizia a svuotare l’appartamento scoprendo il suo tesoro. Ben nascosti dal loro autore, vi erano innumerevoli fogli di carta, imponenti e fragili, lunghi quasi tre metri, creati mescolando collage, gouache, acquarello e calchi con carta carbone. Erano le illustrazioni di Darger per la sua saga guerriera narrante la storia delle Vivian girls: The Story of the Vivian Girls in What is Known as the Realms of the Unreal, of the Glandeco-Angelinian War Storm Caused by the Child Slave Rebellion in 13 volumi scritti tra il 1911 e il 1939, seguito dai sedici volumi di Further story of the Vivian girls in Chicago (1939-1940), un’opera di circa 15.000 pagine, la più lunga mai scritta nella storia: «Ormai è troppo tardi…gettate tutto» dirà amaramente il suo autore. Ma non sarà così. Noto fotografo, allievo di Moholy-Nagy e Walter Gropius, Nathan Lerner, intuisce immediatamente il valore della sua scoperta. L’esposizione al Museo della Ville de Paris si apre proprio sulle immagini dell’abitazione dell’artista, è quella la soglia
La principale bandiera nazionale di Abbieannia, matita su carta velina
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Giovani Rebbonnas Dortheréans. Blengins. Isole Caterina. Femmine. Uno con la coda a frusta, matita, acquarello, gouache e inchiostro nero su carta velina
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per entrare nell’universo di Darger, la frontiera tra realtà e immaginario, creazione e delirio. Gli ingrandimenti delle foto in bianco e nero scattate da Lerner nella stanza, rivestono interamente le pareti laterali della prima sala della mostra. Sulla parete frontale è proiettato un breve documentario sulla vita di Darger: la sua infanzia trascorsa, dopo la morte del padre, nell’asilo per bambini dementi dell’Illinos che venne coinvolto dagli scandali per maltrattamento e molestie sui minori, la sua fuga a piedi verso Chicago verso una vita nel totale isolamento, il suo aspetto da clochard. Un secondo film, mostra nuovamente la stanza di Darger, oggi ricostruita all’Intuit-The Center for Intuitive and Outsider Art di Chicago. La telecamera si sofferma meticolosamente su ogni angolo mostrando oggetto per oggetto quelle che erano le ossessioni dell’artista: il camino trasformato in una sorta d’altare, dove alle immagini di Cristo si accostavano i sette ritratti delle Vivian girls e un cartello: Vietato fumare sotto ogni pretesto! Rimasto orfano di madre a quattro anni,
Darger cresce col padre, un sarto immigrato dalla Germania che insegna al figlio a leggere e lo fa appassionare alle cronache della guerra di Secessione. Come passatempo, lo porta ad ammirare gli incendi che spesso avvolgono gli edifici dei sobborghi di Chicago. In The story of my life, il manoscritto biografico scritto da Darger tra il 1968 e il 1972, l’artista ricorda come un periodo felice i momenti trascorsi col padre. Tutto ciò si ritrova nella sua opera. La prima sala dopo l’ingresso, è quella dedicata alla prima produzione grafica di Darger riconducibile agli anni tra il 1915 e il 1930. Intitolata Rovine e caos, la sala dispiega e spiega il complesso universo di Darger con i suoi territori geografici, i suoi eserciti e le sue bandiere. L’epopea immaginaria di Darger narra della guerra tra le nazioni cristiane di Abbieannia e Angelinia ed i malvagi Glandeliniani, che hanno posto in schiavitù i bambini. La rivolta dei bambini e l’uccisione della loro leader, la piccola Anne Aronburg (personaggio ispirato a Giovanna d’Arco), scatena il conflitto armato Glandeco-Angeliniano. Le sette Vivian girls, bimbe bionde dagli abiti colorati, sono le eroine che salveranno i bambini dai soprusi e la prigionia. Le torture e gli abusi vissuti da Darger all’asilo per bambini dementi dell’Illinos ritornano in maniera prorompente nelle immagini descritte. La storia, scrive il suo autore: «coinvolge le nazioni di un mondo sconosciuto o immaginario, o paesi, aventi la nostra Terra per Luna… Questo pianeta immaginario è mille volte più grande del nostro mondo»4. Nella produzione del primo periodo, Darger usa maggiormente la tecnica del collage mista a gouache e vernice. Disegna e ricalca con la carta carbone le immagini ritagliate dalle riviste, i quotidiani, i fumetti e le pubblicità. Nell’imponente collage La battaglia di Calverinia, lungo quasi tre metri, che era appeso nella stanza dell’artista, è rappresentata la prima battaglia da cui si origina la guerra Glandeco-Angeliniana. Esplosioni, distruzione, schiere di soldati uccisi, carri da guerra, ed un’infinità di nubi
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nel cielo, dipinte con un acquarello blu intenso, mostrano l’apocalisse privata di Darger, la sua vendetta sulla dura realtà vissuta. Le catastrofi naturali affascinano particolarmente l’artista (per anni annota meticolosamente le previsioni meteorologiche), in loro vede il simbolo della punizione divina e dello sconvolgimento della realtà che permette una fuga verso un magico altrove, come nel racconto del Mago di Oz da lui tanto amato. L’esposizione prosegue con la sala Cronache di una guerra, che presenta i ritratti dei generali e le bandiere delle diverse nazioni coinvolte. Darger si diletta ad apporre i più bizzarri nomi ai luoghi e personaggi: Tilton Milton, Lamber Cheese, Johnston Jacken Manley. L’artista ricalca attentamente i volti e le uniformi, in ricordo probabilmente del mestiere di sarto del padre. Ugualmente colora l’interno delle figure con grande attenzione, facendo risaltare i modelli degli abiti, i bottoni, le coccarde, i colletti ed i copricapo. Tutto l’approccio di Darger sembra riportare alla memoria l’attività di sartoria del padre e degli zii, dove l’artista ha vissuto momenti sereni. I fogli attaccati sulle pareti con le puntine da disegno,
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i gomitoli, lo stesso metodo da lui usato di ricalcare le figure sulla carta, richiama la manualità del sarto che ricalca i cartamodelli sui tessuti. Anche i disegni delle bandiere, che seguono i ritratti dei generali nell’allestimento della mostra, rivelano un’attenzione particolare ai motivi delle stoffe, all’accostamento dei colori, alla precisione della linea, dritta, regolarissima, tracciata col righello, strumento anche esso usato nelle sartorie per disegnare gli abiti. Dopo il preambolo sui personaggi e le geografie immaginarie, il percorso espositivo si apre su: Le avventure delle Vivian girls, presentando le illustrazioni del romanzo, che Darger disegna a partire dal 1930. Si tratta di grandi e lunghi fogli rettangolari dipinti fronte e retro dove l’autore ricalca i personaggi con la carta carbone e li colora ad acquarello e gouache, riprendendone alcuni tratti a matita. Darger abbandona il collage preferendo l’uso della carta carbone o la carta lucida per ricalcare le figure che egli stesso ritaglia, a volte integralmente, altre scegliendo dei particolari che gli permettono di costruire i movimenti. Le immagini dei bimbi dei fumetti e delle pubblicità della cultura popolare americana
A Cadernina sono nuovamente minacciate da incendi di foresta, calco con carta carbone, matita, acquarello e gouache su quattro fogli di carta velina
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A Mc Calls Run Coller Junction una Vivian Girl salva des bambini strangolati da un fenomeno dalla forma spaventosa, calco su carta carbone, matita, acquarello, gouache e collage su carta velina
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contrastano con la crudeltà delle visioni di Darger. Bambini soffocati, legati, sventrati dagli spietati soldati Glandeliani, cercano la salvezza nell’arrivo delle sette Vivian girls, che grazie al loro coraggio e alla loro bontà fronteggiano la brutalità degli eserciti nemici. «Gli stessi spiriti celesti che mi sembrano avere un supremo fascino, non possono essere paragonati alle Vivian girls, che sorpassano di gran lunga tutto ciò che è piacevole agli occhi mortali»5 scrive Darger che affeziona sinceramente i suoi personaggi. Simbolo di purezza, di sacralità? Le Vivian girls, così come altri personaggi infantili sono sempre più frequentemente rappresentate nude da Darger, che disegna
l’organo genitale maschile sui corpi delle fanciulle. Su questo particolare perturbante s’interrogano tanto gli studiosi quanto i semplici osservatori dell’opera dell’artista. Che le Vivian girls rappresentino una sorta di essere androgino o che siano dei maschi travestiti da bambine come avanza un’ipotesi specificando che nel romanzo vi è un continuo gioco di travestimenti6? Che addirittura Darger sconoscesse l’anatomia femminile, come vuole un’altra teoria7? Eppure le ibridazioni nell’opera di Darger sono all’ordine del giorno e la penultima sala della mostra intitolata Serpenti Blengigomeniani (Blengins), lo esplicita. I serpenti blengins sono degli esseri chimerici, «non sono magici - spiega Darger - sono creature animali in carne e sangue come gli altri»8, alleati delle Vivian girls vivono nelle grotte e sono capaci di procurare ai bambini uno stato di trance iniettando un liquido dalla loro gola capace di far dimenticare le sofferenze e curare le ferite. I Blengins hanno ali di farfalla, volti di bambini, lunghe corna di cervo o ariete, corpi di serpente. L’artista si diletta ad utilizzare per questi dettagli le tinte e le fantasie più varie, mentre i colori fluorescenti definiscono le strie delle ali e fanno luccicare le scaglie della pelle dei draghi. L’armonia di queste immagini benefiche è rotta dalla sala successiva dedicata al Massacro degli innocenti. La produzione intorno al 1940, presenta le immagini tra le più cruente. Tra queste spicca il disegno dei bambini crocifissi su assi di legno e quelli sventrati, evocazione del massacro degli innocenti descritto nel Vangelo, ma forse anche eco delle terribili immagini della seconda guerra mondiale che dovevano circolare nei quotidiani statunitensi. L’esposizione si chiude con la sala Il dopoguerra. Tra gli anni 1950 e 1960 Darger scrive un doppio finale per il suo romanzo. Nel primo, presente attraverso le ultime opere della mostra, il bene vince sul male e le Vivian girls rientrano vittoriose nella loro terra. I paesaggi della campagna
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americana che ricordano i film western, sono sostituiti da immaginari giardini lussureggianti, fatti di grandi fiori colorati, animali fantastici, bimbi dalle ali iridate. Il senso di minaccia, come mostra la didascalia sopra le opere, è sempre presente. Raramente in effetti i volti dei bambini appaiono sereni, nei loro tratti, che Dargen riesce a disegnare con incredibile espressività, si legge sempre una certa paura se non addirittura orrore. Nell’opera Statue di Glangeliani che strangolano i bambini colpite da un fulmine (1960-1950 ca), l’armonia bucolica è rotta dall’immagine della scultura degli adulti Glandeliani con indosso il loro tipico cappello universitario, intenti a strangolare i bambini. Un fulmine colpisce la scultura: Dio vede e provvede, sembra voler dire Darger la cui fede rimarrà salda durante tutta la sua triste e spesso troppo crudele vita. L’esposizione, composta principalmente dal dono delle 45 opere della successione Darger a cui si aggiungevano i prestiti provenienti dal Museo d’Art brut di Losanna, dal MoMA di NewYork e da diverse collezioni private, presentava nelle sue sale l’integralità dei temi toccati dall’opera di Darger, accompagnata da un ampio catalogo che oltre ai testi imbastisce un interessante Dizionario dargeriano con le parole chiave che descrivono l’immaginario dell’artista. Solo la seconda conclusione dell’epopea delle Vivian girls,
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scritta da Darger in alternativa al lieto fine presentato dalla mostra, è stata omessa. La sua assenza apre uno squarcio nel cielo, come un’inspiegabile tempesta, un tornado che fa sprofondare nell’ombra l’umanità intera.
1
[Statue di Glandeliniani che strangolano dei bambini colpite da un fulmine], calco con carta carbone, matita, acquarello e gouache su sei fogli di carta velina
Henry Darger, bruit et fureri, La Maison Rouge, Parigi, 8 giugno - 24 settembre 2006
Henry Darger (1892-1973), a cura di Choghakate Kazarian, Musée d’art moderne de la Ville de Paris, 29/5-11/10 2015.
2
N. Lerner, On Henry Darger, 1987 accessibile sul sito http://www.nathanlerner.com/ articles/henry-darger.html
3
H. Darger, The story of the Vivian girls in the Realms of the Unreal, vol. 1 copertina.
4
Ibidem
5
Cf. M. Bonesteel Dictionnaire Darger - Nudité in Henry Darger, 1892-1973 catalogo della mostra al Musée d’art moderne de la Ville de Paris 29/5 – 11/10 2015, p 232
6
Ibidem
7
Ivi, p. 141
8
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Scrittori di corpi: Anne-Marie Gbindoun e Mehrdad Rashidi di Marta Spagnolello
• Sui rapporti tra figura e scrittura in due creatori sradicati dalla loro terra • Forme e segni impregnati di vissuto anche nell’opera del siciliano Giovanni Bosco
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Corpo e scrittura costituiscono gli elementi principali attorno ai quali si sviluppano le ricerche di Anne-Marie Gbindoun e Mehrdad Rashidi, artisti contemporanei legati, seppure a livelli diversi, al panorama dell’art brut1. Gbindoun e Rashidi approdano all’arte spinti da un’esigenza personale e nel tentativo di rielaborare le proprie immagini interiori, ricordi insistenti che chiedono di trovare una forma: «Mentre le immagini del mondo esterno sono essenzialmente delle offerte figurative, quelle del nostro ricordo corporeo sono legate all’esperienza esistenziale che noi abbiamo compiuto nel tempo e nello spazio2» scrive Hans Belting ponendo l’accento sul ruolo dell’immaginazione, del sogno e dell’ ‘esperienza esistenziale’ nella formazione delle immagini, temi molto cari anche all’art brut. Le “forme del ricordo” di Anne-Marie Gbindoun e Mehrdad Rashidi sono essenzialmente immagini di corpi. Teste e sagome umane affollano le opere dei due autori facendosi sempre portavoce di un ricordo o di un’esperienza vissuta. Si tratta di una rappresentazione soggettiva e mai illustrativa del corpo, in linea con la natura dei loro ricordi: frammentata, incompleta, ma fortemente ossessiva. Questa insistenza monotematica, da parte dei due artisti, trova una spiegazione in alcuni episodi biografici legati proprio ad esperienze drammatiche del corpo: le violenze che Anne-Marie Gbindoun subisce fin da piccola, l’espatrio per ragioni politiche che sradica Mehrdad Rashidi dalla sua terra natale sono eventi che, in modi diversi, ostacolano la libera espressione del corpo. Lo bloccano, lo violano o lo costringono ad un movimento involontario, in ogni caso il corpo è direttamente implicato e i fatti che subisce vengono rielaborati dai due autori attraverso un’attività artistica. La rappresentazione del corpo si lega, nelle opere di Gbindoun e Rashidi, ad un altro elemento fondamentale: la scrittura; tecniche, modalità e procedimenti tipici di quest’ultima
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(pag. 113-114) Anne-Marie Gbindoun, Une belle Journée, scrittura automatica su pagina di diario, 2012, Biblioteca universitaria di Losanna.
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vengono infatti adottati dai due artisti per dar vita ad una sorta di racconto figurativo. È come se Gbindoun e Rashidi, invece che limitarsi a rappresentare un corpo, lo ‘raccontassero’ facendo affidamento su alcune caratteristiche tipiche della struttura di un testo scritto. Anne-Marie Gbindoun, nata nel 1968 a Cotonou nel Benin e da anni residente in Svizzera, si cimenta nella compilazione di un diario personale nell’ambito di una terapia psichiatrica
con l’intento di riversare sulle pagine pensieri, ricordi e sensazioni altrimenti inesprimibili. La scrittura convenzionale si rivela tuttavia, anziché un canale, un impedimento al libero fluire della sua memoria. La giovane donna comincia quindi ad affidarsi al potere appagante di una pratica incontrollata: la scrittura si trasforma in un segno istintivo e gestuale che nel tempo darà forma a silhouette di corpi e volti nati proprio dalla giustapposizione e dall’accostamento di quei tratti scritturali automatici. Gbindoun ‘scopre’ queste figure tra le trame dei suoi diari, esse emergono in maniera inaspettata e sempre solo evocata. Raramente l’artista riesce ad associare loro un’identità o a ricostruire la genesi delle “sue scritture”, come ama definirle; spesso infatti dimentica la situazione o la persona che l’ha ispirata. Afferma inoltre di non sforzarsi troppo nel tentare di associare le sue opere a ricordi precisi perché nella maggior parte dei casi si tratterebbe di situazioni spiacevoli da rivivere3. La sua memoria, dunque, costituisce un serbatoio di immagini da sviluppare, ma non necessariamente da analizzare. La scelta di affidarsi alla pittura (una pittura evocativa) e alla scrittura automatica è proprio in linea con questa volontà di ricostruzione di sé che non sia funzionale, però, ad un racconto esplicito4. Nel corso degli anni Anne-Marie Gbindoun non ha mai smesso di dedicarsi a quest’attività; per l’artista si tratta di un esercizio quotidiano e vitale, da compiere in solitudine e in un clima di raccoglimento. Gbindoun è legata alla forma del diario, una dimensione più ‘intima’ rispetto alla singola pagina e che asseconda il clima di confidenza e libertà da lei ricercato. Attribuisce, inoltre, una particolare importanza alla grana della carta sulla quale far scorrere un pennello imbevuto nell’inchiostro di china, suo mezzo privilegiato. Oggi i suoi diari sono riconosciuti pubblicamente e valorizzati in quanto ‘libri d’artista’ nel corso di alcuni eventi speciali. Mehrdad Rashidi nasce nel 1963 a Sari, in Iran; costretto
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Mehrdad Rashidi, penna a sfera su carta, tra il 2006 e il 2013, Collection de l’Art Brut, Losanna 116
Mehrdad Rashidi, penna a sfera su carta, tra il 2007 e il 2013, Collection de l’Art Brut, Losanna 117
Giovanni Bosco, Gambe rosse e nere, pennarelli su cartoncino, 2008 118
ad abbandonare a soli vent’anni la sua terra d’origine per ragioni politiche, si rifugia in Germania dove vive ancora adesso. Comincia a disegnare nel 2006, all’età di quarantatré anni, spinto dalla necessità di superare la malinconia che spesso lo coglie e di creare il proprio ‘habitat figurativo’, un luogo immaginario popolato da pensieri e ricordi ai quali, egli, conferisce sempre un aspetto umano5. Rashidi dà vita alle sue creature a partire da un tratto continuo, una sorta di ‘catenella’ che fa sia da contorno sia da riempimento a quelle forme e che ricorda, nella sua grafica elegante ed essenziale, la scrittura corsiva. Anche i mezzi e gli strumenti di cui si serve sono tipicamente scritturali: pezzi di carta fortuiti, inchiostro e biro. Rashidi ‘appunta’ le proprie immagini interiori così come uno scrittore fissa in modo approssimativo le proprie idee su un foglio qualsiasi per non perderle e rielaborarle successivamente; nel caso dell’artistaRashidi, tuttavia, il disegno resta su quello stesso supporto d’occasione: la bozza coincide con l’opera e l’opera, a sua volta, coincide con un ricordo, un pensiero, un momento vissuto. Nella rappresentazione del corpo, il volto è la parte alla quale Rashidi attribuisce più importanza; le sue figure, incomplete, pullulano di teste che scrutano lo spettatore da diversi punti e inclinazioni. Questi volti prendono il posto di altri organi essenziali e la loro presenza moltiplicata dà vita a strane creature con le quali solo l’artista è capace di instaurare un rapporto di complicità, trattandosi di figure nate nel profondo della sua memoria. Rashidi assegna alla testa la funzione di rappresentare il tutto; il volto diviene così sineddoche di un intero organismo e di una storia che, attraverso esso, è rievocata. Questa operazione ricorda sorprendentemente l’opera di Giovanni Bosco. Le parti del corpo disegnate o dipinte dall’artista su muri e cartoni sono, secondo la definizione di Eva di Stefano, «forme impregnate di vissuto»6 più che
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semplici simboli, capaci di condensare in pochi tratti una serie di ricordi ed esperienze vissute dall’autore. Come Mehrdad Rashidi e Anne-Marie Gbindoun, anche Giovanni Bosco ha una storia difficile da raccontare: una serie di esperienze traumatiche fanno di lui un ‘corpo’ imprigionato, deriso e allontanato. Quando, in seguito a questi fatti, egli cerca di rifarsi una vita nella sua città natale, a Castellammare del Golfo, il suo diviene il corpo di un uomo trascurato, sporco e, ancora una volta, in gabbia. È in questa situazione di disfacimento fisico e morale che in Bosco scatta una pulsione di vita forte che lo spinge a creare per salvarsi; a partire da allora, il suo corpo si trasforma e diventa il mezzo e l’ispirazione per la sua arte. Le parti del corpo raffigurate da Bosco sono quasi sempre accompagnate da parole e numeri: scritte che fanno riferimento a persone incontrate, luoghi visitati, amici reali o immaginari, date significative. La sua intera opera, proprio per questi ripetuti riferimenti autobiografici e per la dimensione ‘narrativa’ e temporale che la caratterizza, è stata paragonata ad un ‘diario’. Il rapporto tra figurazione e scrittura, nelle opere di AnneMarie Gbindoun e Mehrdad Rashidi, va oltre l’adozione di tecniche e strumenti tipici della seconda. Della scrittura, infatti, i loro lavori sembrano trattenere un aspetto in particolare: la funzione narrativa. Il carattere ossessivo e la grande coerenza formale tra un lavoro e l’altro nelle opere dei due artisti sono così indicativi di un tentativo, da parte loro, di sviluppare una sorta di ‘racconto’ incentrato su alcuni fatti della propria «memoria corporea»7. Le loro creazioni si configurano come narrazioni autobiografiche o diaristiche il cui protagonista principale risulta sempre essere un corpo, immagine ricorrente dei loro ricordi e quindi della loro arte. Questa continuità temporale, tipica di una narrazione e che
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entrambi riescono a conferire alle proprie opere, permette loro di non fissare un ricordo in un’unica immagine conclusiva, ma di ‘aprirlo’ ad un incessante lavoro di “riscrittura di sé” che giunge a inattesi risultati artistici rivelandosi, così, allo stesso tempo creativo e ricreativo.
Nel 2010 la Collection de l’Art Brut di Losanna acquista due quaderni di scritture automatiche di Anne-Marie Gbindoun; i due diari entrano a far parte della collezione Neuve Invention. Il percorso artistico di Gbindoun è caratterizzato da regolari esposizioni in gallerie private non legate, per lo meno in modo esclusivo, all’art brut.
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H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma, Carocci 2011, p. 74
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Colloquio personale
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Parallelamente alle scritture Anne-Marie Gbindoun si dedica alla pittura; corpi e volti affollano anche le sue tele. L’artista concepisce la scrittura come «una forma di preparazione all’opera pittorica» (colloquio personale). In questo testo, ci si vuole focalizzare in particolare sui diari dell’artista, dati i punti di contatto con l’opera di Mehrdad Rashidi.
4
R. Cardinal, “The doodlings of Mehrdad Rashidi”, in The restless line. Images from Exile by Mehrdad Rashidi, Londra, Henry Boxer Gallery 2012, p. 9
5
E. di Stefano, Giovanni Bosco, «L’Art Brut», XXIV, Lausanne/Gollion, Collection de l’Art Brut Infolio 2013, p. 21
6
H. Belting, Antropologia delle immagini, cit., p. 84
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Il volto nell’Art Brut: autoritratti, identità ritrovate, identità rimosse di Lucienne Peiry
• Gli scarabocchi compulsivi dell’impiegato Ted Gordon • Le visioni della medium inglese Madge Gill • Il trauma bellico del polacco Edmund Monsiel • Lobanov, il russo che voleva essere Stalin • Attraverso le loro storie e opere, l’Autrice indaga con un metodo esemplare un tema ricorrente che diventa ossessione
Tutte le opere riprodotte in questo articolo sono della Collection de l’Art Brut di Losanna
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La pratica del ritratto presso gli autori di Art Brut è distante mille miglia da quella di numerose tradizioni, come nell’antico Egitto o nell’impero romano, dove il ritratto, il busto o la maschera funeraria avevano lo scopo di rendere perenne il ricordo del notabile deceduto e valorizzare la sua memoria tra i posteri. È anche molto distante dalla tradizione cristiana nella quale il ritratto è riservato alle alte gerarchie la cui effigie deve ricordare l’autorità, ed è lontana dalla tradizione accademica dove il ritratto aveva la funzione di celebrare lo status e il successo politico e/o sociale. Presso molti autori di Art Brut, invece, il modo di rappresentare la persona umana o il volto è più vicina alle pratiche del ritratto e autoritratto che si sviluppano presso gli artisti del XIX secolo e che perdurano nel XX secolo, in cui l’introspezione e la vita privata hanno un ruolo preponderante, come specialmente in Courbet, Van Gogh, Gauguin, Schiele, Bacon e Warhol. Comunque, è importante mettere in rilievo che gli autori di Art Brut, non consapevoli di operare nel campo della creazione artistica, agiscono al di fuori di un contesto culturale professionale, e fuori dalle tradizioni e da ogni ufficialità. Così l’Art Brut riunisce un insieme composito di opere dove ogni corpus corrisponde a un’estetica individuale1. Non è possibile assimilarla a un movimento o a una corrente artistica i cui membri sono raggruppati in un’azione collettiva con posizioni o rivendicazioni comuni. Di conseguenza, non è auspicabile, per quanto riguarda la rappresentazione della figura umana o del volto, cercare di individuare principi e modi specifici e comuni agli autori di Art Brut. L’immagine dell’altro, l’autoritratto, la rappresentazione del volto non rispondono per definizione a regole convenzionali, ma rivelano invece una figura interiore fortemente soggettivizzata. In questo senso la ricerca identitaria alla quale si dedicano moltissimi creatori gioca un ruolo di primo piano nelle loro pitture, disegni, sculture o installazioni. I volti che li
minacciano vi si trovano rappresentati a decine, centinaia, a volte migliaia, verosimilmente come altrettanti autoritratti. Tuttavia, questa interpretazione può essere soppiantata, come si vedrà, da altri modi di percepire e dare significato a questa profusione di facce. L’analisi di quattro autori di Art Brut particolarmente concentrati su questo soggetto iconografico, ricorrente nella loro produzione, ci condurrà in un percorso di riflessione sul tema del volto multiplo.
Ted Gordon, penna a biro e pennarello su carta, 1996
I volti brulicanti di Ted Gordon e Madge Gill L’americano Ted Gordon (1924) comincia a disegnare su un piccolo bloc-notes facendo anonimi scarabocchi mentre è a telefono. Quando la sua attenzione è totalmente catturata dalla conversazione con il suo interlocutore, lascia scorrere la penna sul foglio senza intenzionalità nè controllo2. Dopo aver appeso il ricevitore, guarda sorpreso il suo disegno e, incuriosito, decide di proseguire questa avventura grafica. Continuando ad usare gli stessi mezzi tecnici estremamente
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semplici – penna a sfera e piccoli bloc-notes -, il modesto e riservato impiegato d’ufficio si lancia spontaneamente nella creazione, senza che una qualche intenzione artistica presieda al suo approccio. Traccia sul suo supporto una figura, poi un’altra, e ossessivamente compone diverse centinaia di volti maschili, che si susseguono in infinite variazioni, formando un’inquietante galleria di ritratti. Tutte le teste sono rappresentate di faccia, ieratiche, in primo piano. Ogni parte della faccia, trattata con sobrietà, è oggetto di una attenzione sostenuta. Ted Gordon lavora in modo simmetrico, raddoppiando meticolosamente occhi, sopracciglia, orecchie, gote, narici. Si concentra soprattutto sugli occhi, sempre spalancati, dallo sguardo intenso. «Per centrare la pupilla uso un compasso […]. Voglio che abbiano l’aria viva, è per questo che metto le ciglia» dice Gordon3. Anche la bocca è molto presente e se le labbra sono aperte possono scoprire file di denti prominenti e regolari. Ogni parte del viso, chiaramente circoscritta, è arricchita di tratteggi, segni ondulati, forme circolari. Questa ripetizione apporta una specificità alle figure che si distinguono l’una dall’altra, le dota di una forte vitalità e dinamizza la composizione. Allo stesso tempo, la stretta simmetria che Gordon osserva rigorosamente nei suoi disegni, che proviene da quella che si manifesta nel suo proprio corpo, accentua l’effetto strutturale della faccia, costruisce il personaggio e stabilizza la composizione. I volti che disegna Ted Gordon sembrano rispecchiare giorno per giorno i suoi umori, le sue preoccupazioni, sensazioni e pensieri – i suoi stati psichici personali – componendo ciò che Michel Thévoz chiama il «sismografo della sua anima»4. Le migliaia di volti che realizza con perseveranza e assiduità appaiono senza dubbio come autoritratti, una rappresentazione della propria soggettività nella sua complessità e mutevolezza. «Quando faccio queste cose ho
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in mente il mio viso... Qualunque sia il volto che viene fuori è il mio volto, qualunque sia l’espressione è la mia espressione del momento in cui disegno. Questo scarabocchio è il mio modo di esprimermi.... Interpreto centinaia di ruoli, ma sono sempre io» afferma Gordon5. La creazione artistica funziona per lui come uno specchio interiore. La ripetizione dello stesso motivo iconografico si ritrova presso numerosi autori di Art Brut, tra cui l’inglese Madge Gill (1882 –1961)6 che lascia proliferare i volti nei suoi disegni a penna: alcuni di essi contengono parecchie decine di teste che si disseminano nei suoi paesaggi grafici. All’epoca dello spiritismo, la giovane donna entra in contatto, afferma, con l’adilà; sostiene che la sua mano è guidata dagli spiriti, in particolare da uno di essi chiamato «Myrninerest» (mio riposo interiore) che la incita a seguire le sue indicazioni. Queste sedute provocano il vacillare di tutti i riferimenti e la caduta delle inibizioni è tale da svegliare in lei capacità creatrici arcaiche e feconde. Madge Gill si abbandona così alla creazione artistica durante la notte, nell’esiguità del suo appartamento nella periferia di Londra, lavorando velocemente nella penombra rischiarata da una lampada ad olio7. La linea si fa allora avventurosa e la conduce dentro una composizione onirica e sofisticata. Come supporto utilizza cartone o grandi pezze di tessuto calicò che si procura al mercato, sui quali traccia invariabilmente, con inchiostro di china o una penna a sfera, una figura femminile sempre identica. Indossa un cappellino che crea a volte sugli occhi un’ombra portata, il viso è composto di un naso minuto, labbra sottili e un mento appuntito. Queste teste numerose appaiono dentro singolari architetture immaginarie, dotate di scale e scacchiere, due motivi iconografici utilizzati dal Rinascimento per comporre un sistema prospettico e dare sia effetto di profondità che struttura formale e stabilità alle opere. Nei disegni di Madge Gill, al contrario, questi
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Madge Gill, inchiostro di china su carta, 1951 126
Madge Gill, inchiostro di china su carta, 1954 127
elementi privano il fruitore di punti di riferimento creando degli effetti ottici destabilizzanti. Solo i volti appaiono come i punti d’ancoraggio nella composizione. Figlia illegittima, nata nei sobborghi di Londra, Madge Gill è allevata dalla madre e dalla zia che ne nascondono l’esistenza per parecchi anni. Nel primo periodo della vita, determinante per lo sviluppo interiore di ogni individuo, viene sottratta al mondo e deprivata della sensazione primordiale di essere vista e soprattutto guardata8. Così il viso femminile, che prolifera nelle centinaia di disegni realizzati nel corso di diversi decenni, può venire considerato come la ricerca di un’affermazione identitaria: un viso che entra in risonanza con il vuoto - dovuto all’isolamento - esperito nella sua infanzia. L’autoritratto che Madge Gill traccia instancabilmente e all’infinito, traduzione di un’esistenza a lungo negata, può essere interpretato come una vendetta simbolica sulla negazione della sua esistenza. Come lei, moltissimi autori di Art Brut si sono confrontati con l’esclusione nell’infanzia o nell’età adulta. Ma se la maggior parte di loro l’ha subita, altri l’hanno invece provocata, sentendosi profondamente estranei alla collettività; da disadattati hanno coltivato un esilio sociale, relazionale e mentale per tutta la vita. Le costellazioni facciali di Edmund Monsiel Il polacco Edmund Monsiel (1897-1962) sembra aver fatto di tutto per cancellare la sua persona e dissimulare la sua esistenza fino a farsi dimenticare. Durante la seconda guerra mondiale, i tedeschi gli confiscano il negozietto che gestisce in una città di provincia e, per timore di essere arrestato si rifugia presso il fratello a Wozuczyn, cittadina nei pressi di Lublino. Può anche darsi che questa minaccia, che lo ossessiona, gli abbia fornito il pretesto per un auto-sequestro. Si nasconde in un granaio fino alla fine della
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guerra, ma continua anche in seguito a rifiutare ogni contatto con l’esterno, compresa la sua cerchia familiare, rendendo così definitivo il suo ritiro dal mondo. Nessuno è autorizzato ad entrare nella sua piccola mansarda, le sue condizioni di vita restano misteriose fino alla sua morte nel 19629. Quasi in risposta a questa solitudine assoluta i volti invadono la totalità dei disegni di questo autore. Giustapposte, in allineamento sia verticale che orizzontale, ondulato o ondeggiante, le teste si succedono in una ripetizione lancinante. La composizione non è premeditata, nessun schizzo precede l’emergenza di questi rosari di facce. Dietro la porta chiusa del suo granaio, al sicuro da ogni tumulto della vita esterna, Edmund Monsiel si immerge
Edmund Monsiel, matita su carta, 1949 Edmund Monsiel, matita su carta, s.d.
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in uno stato che lo affranca dalla realtà; privato di ogni evasione, sfrutta febbrilmente l’energia centripeta residua – una forza personale orientata unicamente su se stesso – per seguire intuitivamente uno slancio grafico spontaneo. In questo processo creativo, ogni faccia sembra generata dalla precedente per richiamare subito la successiva, in una catena ininterrrotta. Il disegnatore sembra incantato dall’aspetto e dall’andamento dei suoi assemblaggi di volti e rinnova ritualmente l’esperienza alimentando senza tregua la sua ossessione. La testa si impone come unico motivo iconografico. A questo proposito Michel Thévoz osserva che «il tratto tenta a volte di deviare dal suo percorso obbligato, per esempio arrischiandosi a partire dal collo per schizzare un corpo, un abbraccio, delle mani. Uno sforzo inutile! Ogni curva viene subito deviata e riassegnata ad altri imprevedibili volti, come se il bianco del foglio fosse fisiognomicamente già pregnante, come se fosse già segretamente animato di un brulichio con la funzione di ‘anti-corpi’. Così bene che il corpo velleitario si decompone subito in metastasi facciali più esuberanti che mai. È proprio di una genesi cancerosa che si tratta, cioè di una generazione anarchica di cellule fisiognomiche iperattive che vampirizzano inesorabilmente le figure già compiute, per diventare esse stesse soggette a metastasi di secondo grado e così di seguito»10. I volti non sono tutti identici nelle cinquecento costellazioni facciali di Monsiel, che corrispondono ai cinquecento disegni ritrovati dopo la sua morte. Alcuni hanno un andamento ascensionale, come in una prospettiva simbolica, presente ad esempio nella pittura e scultura medievale - che Monsiel verosimilmente conosceva per avere frequentato le chiese-, dove la dimensione dei personaggi riflette l’importanza loro accordata. Il disegnatore inserisce a volte alcune teste più grandi - di aspetto cristiano - in architetture o decori ogivali, dotati di emblemi o attributi religiosi. Sul retro delle opere
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scrive con cura professioni di fede così come multiple sentenze morali esortanti alla pietà, come se le indirizzasse a se stesso o a un interlocutore immaginario. Madge Gill e Edmund Monsiel hanno in comune la rappresentazione del volto di fronte, senza rilievo nè modellato, senza profondità. Ignorando le regole estetiche insegnate nelle scuole d’arte e nelle accademie, nessuno dei due utilizza il procedimento di ombreggiatura. I volti bidimensionali ed enigmatici dei personaggi di Gill e Monsiel non hanno spessore, sono immagini disincarnate che abitano nel registro onirico o fantasmatico, traducendo una realtà interiore. Come apparizioni visive, che si potrebbero considerare allucinazioni o percezioni sensoriali improvvise che loro trascrivono su carta. In Ted Gordon, al contrario, lo stile - costituito da tratteggi, rigature e circonvoluzioni che compongono cavità e sporgenze - tende a caratterizzare i ritratti, a restituire degli stati psichici ma con una presenza umana pronunciata. La ricerca identitaria di Lobanov Un altro creatore di Art Brut sviluppa un insieme variato di dispositivi tecnici per formulare e investigare la relazione complessa che intrattiene con il volto, sia attraverso le rappresentazioni di personalità politiche eroiche che nei suoi autoritratti dipinti e fotografati. Si tratta del russo Alexander Pavlovitch Lobanov (1924–2003)11. La produzione di Alexander Lobanov è quella di un uomo incolto, quasi analfabeta, tagliato fuori dal mondo, che ha conosciuto una catena di drammi nell’infanzia e nella giovinezza - la malattia, l’emarginazione, l’internamento psichiatrico, il dolore, la privazione affettiva-. Malgrado il confinamento in manicomio, sublimerà la sua tragedia e lavorerà a ciò che appare come una ricostruzione simbolica della sua identità, il dispiegamento di una mitologia onirica
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Aleksander Lobanov, acquarello, penna a biro, pennarelli e matite colorate su carta, tra il 1960 e il 2003
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unica, realizzando centinaia di disegni, pitture, collages e fotografie. Lobanov è in primo luogo un collezionista di immagini: figure convenzionali recuperate da riviste popolari, manifesti di propaganda, cataloghi di armi, e cartoline postali. Conserva tutto per precauzione in una valigia sotto il letto chiusa con un doppio lucchetto, di cui tiene le chiavi sempre addosso. Il disegnatore ritaglia, copia, ricalca. Le fonti multiple dalle quali attinge innescano il processo creativo. Lobanov si lascia ispirare, trasportare dalla loro pregnanza che gli apre continuamente vie di espressione nuove e insospettate. Dopo una serie di rappresentazioni di Lenin e Stalin, visti di fronte e in posa fiera e imponente, si susseguono gli autoritratti dipinti – soggetto di predilezione di Lobanov – diventando col tempo sempre più sofisticati, finché il suo stesso volto e la sua persona costituiranno l’unico oggetto di ricerca. Scopre in seguito la tecnica fotografica , in uno studio di Jaroslav, città vicina dove lo porta, a bordo del proprio camion, l’amico Guennadi Gerassimov, impiegato dell’ospedale psichiatrico. Dopo qualche seduta di posa all’esterno, con addosso una
semplice chapka, il berretto tradizionale russo, Lobanov preferisce la sessione di posa all’interno dello studio. Questo luogo diventa il teatro delirante dei suoi fantasmi, uno spazio privilegiato di libertà e stravaganza. Vestito con una giacca troppo grande prestata per l’occasione da Guennadi, bardato con medaglie e chincaglierie di fortuna, decorato con copricapi diversi, parato di emblemi e di simulacri di fucili confezionati con cartone di recupero, dipinti e decorati finemente, offre il suo viso e l’intera persona all’obiettivo, in abito da cerimonia, davanti a scenografie magniloquenti di cui inventa una quarantina di varianti. Oltre duecento pose, dove appare spesso in una postura frontale, ieratica e solenne. Le centinaia di foto vengono poi collocate dentro cornici da lui stesso doviziosamente decorate con pittura, cucito e ricamo. Messa in scena teatrale, decorazione, fotomontaggio, collage, pittura e disegno sono al servizio del suo volto che prende un’importanza cruciale e si trova al centro del suo delirio megalomane che raggiunge qui una sorta di parossismo creativo. L’influenza dell’iconografia sovietica trionfalista e ideologica – particolarmente nei ritratti di Stalin- è eloquente. La figura militare eroica è presente a più riprese nei ritratti dipinti. Sarebbe errato interpretare questa rappresentazione tutelare come un inno al dittatore, andrebbe letta piuttosto come l’immagine sublimata del padre ideale. Acquista tutt’altro sinificato negli autoritratti fotografici e nei fotomontaggi. L’artista prende i tratti dell’eroe, adotta la sua postura e i suoi attributi. All’immagine di Stalin si sostituisce quella dello stesso Lobanov, l’incolto, l’escluso che prende la parola, si rende autonomo e acquisisce un’identità fantasmatica glorificata nell’autoritratto. Diviene l’icona di se stesso e gioca un ruolo di primo piano nella storia che si sostituisce al silenzio al quale è stato ridotto. Inoltre, la follia megalomane di Lobanov entra in risonanza con quella di coloro che hanno
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Aleksander Lobanov, collage di disegni e fotografia su carta, tra il 1960 e il 2003
delirato sulla figura grandiosa di Napoleone e che si sono identificati con lui , così come è stata descritta dalla storica Laure Murat nel suo saggio L’uomo che credeva di essere Napoleone12. Il volto: un’indagine plurale Se si adotta un punto di visto psicoanalitico, i volti che proliferano nelle opere di Ted Gordon, Madge Gill, Edmund Monsiel e Alexander Lobanov , appaiono - con più evidenza nell’opera disegnata, dipinta e fotografica di quest’ultimo
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- come autoritratti grazie ai quali tutti loro rivendicano un’esistenza, un riconoscimento di cui sono stati privati13. È possibile considerare questa inflazione facciale anche come il riflesso delle personalità plurime che costituiscono ogni individuo, i volti nascosti, sotterranei, negati o fantasticati, di cui qualche traccia emerge involontariamente nei sogni, nei lapsus e negli atti mancati, ma anche nei deliri creativi come quelli di Gordon, di Gill, di Monsiel e di Lobanov, che lasciano libero corso alla loro immaginazione e rivelano così le loro «identità represse»14. Queste opere sono una dimostrazione conturbante della mobilità mentale e psichica di cui è dotato l’essere umano alla nascita, prima che le scelte e le costrizioni educative non riducano lo spettro delle sue capacità; gli autori di Art Brut la ritrovano nella loro creazione autodidatta e libera, in disparte, lontano dalla scena artistica stabilita e omologata. Le facoltà arcaiche che riescono a risvegliare li conducono ad esplorare teritori insospettati, in un nomadismo mentale fecondo che corrisponde a un’odissea interiore e silenziosa. Invece, in una prospettiva antropologica, va osservato che l’esperienza del vuoto e talora le tragedie biografiche con le quali gli autori di Art Brut si sono confrontati, così come il fatto di essere sfuggiti al condizionamento di una cultura più elevata e coercitiva li dota di una sensibilità particolarmente sviluppata di natura selvaggia e visionaria. Questa sensibilità ispira in loro la rappresentazione onnipresente del volto sviluppata in centinaia, quando non in migliaia, di composizioni. Questi creatori dell’ombra e del margine testimoniano a modo loro lo statuto del volto che, nella società occidentale contemporanea, è considerato la sede dell’espressione dei sentimenti, lo spazio privilegiato in cui si manifestano personalità e spiritualità dell’essere umano. Come se avessero percepito che questa intensa presenza del volto proviene da una inibizione, da una vera rimozione,
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dato che originariamente, e in molte comunità ancora oggi, è il corpo intero – dipinto, tatuato, decorato – ad essere protagonista e a giocare il ruolo di specchio dell’anima e dello spirito. Essendo la nostra anatomia generalmente velata, il volto costituisce ciò che resta della nudità originaria. Attraverso l’analisi e l’indagine del volto che perseguono senza sosta sul piano simbolico, questi autori scorniciano proprio il volto ritrovando così, paradossalmente, una corporeità ancestrale perduta.
L’A. ringrazia Anne-Lise Delacrétaz, Marie-Hélène Jeanneret, Marx Lévy, Brigitte Maire, Vincent Monod, Francesco Panese, Pascal Roman, Michel Thévoz et Roland Tillmanns. Questo testo è un estratto del saggio di Lucienne Peiry pubblicato in: M.Hennard Dutheil de la Rochère, L. Guido, B. Maire, F. Panese, N. Roelens (a cura di), Visages. Histoires, représentations, créations, Editions BHMS. Coll. Bibliothèque d’histoire de la médecine et de la santé, Lausanne, 2015. Per gentile concessione dell’Autrice.
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SI fa riferimento alla Collection de l’Art Brut di Losanna, che comprende la prima collezione di Art Brut al mondo, realizzata da Dubuffet e donata da lui nel 1971 alla città di Losanna. www.artbrut.ch
1
Testimonianza raccolta da John M.MacGregor; cfr. Id., Ted Gordon, in: «L’Art Brut»16, Losanna, Collection de l’Art Brut, 1990, pp. 36-61.
2
Cit. in Ibidem, p.45.
3
M. Thévoz, testo per invito esposizione, Losanna, Collection de l’Art Brut,1996.
4
Cit. in J.M. MacGregor, op. cit., p. 48.
5
NdR. Ricordiamo ai lettori che la nostra rivista ha già pubblicato un importante articolo sull’artista: R. Cardinal, Madge Gill, artista medianica, in «O.O.A. Rivista dell’Osservatorio Outsider Art» n. 7, Glifo edizioni, Palermo aprile 2014, pp. 60-69 (www.glifo.com.).
6
Suo figlio riferisce in questi termini le prime trance medianiche della Gill: «Il 3 marzo 1920 lei, divenuta nel frattempo medium resta in trance diretta da uno spirito molto avanzato che noi conoscevamo ormai con il nome di MYRNINEREST, la sua guida […] L’ispirazione non ha mai cessato di essere una sola e vera, realizzata in varie tappe... Disegni spiritici o ‘ispirati’, scritti, discorsi, canti, sonate al pianoforte, lavori a maglia, tessitura di tappetini di seta […] »in R. Cardinal, Madge Gill, «L’Art Brut », 9, Compagnie de l’Art Brut, Parigi 1973.
7
Cfr. D. W. Winnicott, Jeu et réalité, Gallimard, Parigi 1971.
8
Cfr. M. Thévoz, Monsiel, in: «L’Art Brut 11», Lausanne, Collection de l’Art Brut, 1982 pp. 52-65.
9
M.Thévoz, Art Brut, psychose et médiumnité, La Différence, Parigi 1990 p.37.
10
D.De Miscault, A. Escudié, A., (a cura di), Aleksander Pavlovitch Lobanov, auteur d’art brut russe, Editions Aquilon, Parigi 2007.
11
Nel suo studio Laure Murat tratta specialmente dei «problemi di identità e soggettività, di usurpazione e proiezione […], tra essere e immaginare di essere, credersi, pretendere di e prendersi per. Così tanto che la domanda non sarà la classica: Chi sono io? ma piuttosto: sono davvero io quello che credo di essere ?» L. Murat, L’Homme qui se prenait pour Napoléon. Pour une histoire politique de la folie, Gallimard, Parigi 2013, p.178.
12
Cfr. la nozione di riconoscimento nel senso in cui la intende il filosofo tedesco: A.Honneth, La Lutte pour la reconnaissance (Kampf um Anerkennung), Cerf, Parigi 2000
13
Cfr. M.Thévoz (1982), op. cit., pp. 53-65.; Id. (1990), op. cit.
14
Traduzione dal francese di Eva di Stefano
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Dal punto di vista degli artisti: intervista a François Burland STORIE DI CONFINE
• Continua la nostra inchiesta sugli artisti in bilico tra art brut e arte contemporanea • L’artista ci racconta la sua formazione, le trappole del mercato e del successo, e un esperimento straordinario di co-working creativo
Ritratto di François Burland. Foto Murielle Michetti
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di Teresa Maranzano
François Burland (Losanna, 1958) è un artista poliedrico. Negli anni Ottanta, le sue prime opere entrano a far parte della Collection de l’Art Brut (sezione “Neuve Invention”), e conoscono al tempo stesso una diffusione nell’ambito dell’arte contemporanea. Nell’arco di trent’anni, il suo stile non cessa di evolvere: alle prime serie di disegni con forme umane e animali che emergono da motivi astratti motivi snodandosi attraverso scene di guerra, di danza o di metamorfosi, seguono i disegni a matita e gesso che raggiungono a volte dimensioni maestose, le sculture con materiali riciclati, i tessuti con slogan e immagini ricamate, e di recente, le sculture monumentali che compongono l’Atomik Magik Circus, progetto partecipativo di cui è all’origine, che ha ricevuto nel 2013 il prestigioso premio FEMS (Fondazione Edouard e Maurice Sandoz). Abbiamo incontrato François Burland a Ginevra, in occasione della mostra retrospettiva “Atomik Bazar” che si è svolta nelle gallerie del Forum Meyrin a febbraio e marzo 2015. Qual è stato il suo percorso artistico? Sono autodidatta. Ho iniziato a disegnare per caso quand’ero giovane. Degli amici mi hanno consigliato di fare vedere il mio lavoro a un critico d’arte e al direttore del museo dell’Art Brut. Pierre Keller mi ha presentato alla Galleria Rivolta di Losanna, che oggi non esiste più ma è stata a lungo un’importante galleria d’arte contemporanea. Poi ho incontrato Michel
François Burland, Google total control, 2009. Matita su carta da pacco, Collection de l’Art Brut, Losanna
Thévoz, e ho conosciuto anche Geneviève Roulin1. I miei disegni gli sono piaciuti, mi hanno comprato due o tre opere. Da quel momento sono entrato in un contesto ‘labellizzato’, che rassicurava i collezionisti, la mia famiglia e me stesso: adesso sapevano dove collocare questo matto e tutto andava bene! Ho iniziato a farmi conoscere e rapidamente sono stato inserito in un circuito internazionale. È stato un regalo incredibile, sono infinitamente grato di tutto quello che questo ambiente mi ha offerto e del suo apporto. Quando la Galleria Rivolta e la Collection de l’Art Brut mi hanno aperto la porta ero un vero emarginato, avevo vissuto quattro anni per strada, pensavo che non ne sarei mai venuto fuori. È come quando i ragazzi di strada cominciano a fare pugilato, a correre, a giocare a basket. Ho capito che potevo uscirne attraverso l’arte. Non avevo competenze intellettuali, non avevo studiato, non ero un pugile, non sarei mai stato un campione sportivo, non ero neanche capace di fare il
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François Burland, sculture con materiali di riciclo
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delinquente. Allora mi sono detto che era l’unica cosa da fare, che era una fortuna per me. Mi ha riportato alla vita, e mi ha anche permesso di sfuggire il contatto con gli altri. Durante i primi anni ho vissuto in autarchia producendo delle cose per conto mio. Poi a poco a poco Michel Thévoz mi ha fatto leggere dei libri, Geneviève Roulin mi ha portato al cinema, mi hanno fatto incontrare delle persone, quel poco di cultura che ho lo devo a loro. Il paradosso, è che dopo hanno finito per rimproverarmi di essere troppo colto, di stare troppo bene. È stato scioccante. C’è una sofferenza incredibile quando si è emarginati. Non sapevo più come fare per entrare nel mondo. Quando ogni tentativo per trovare la tua strada fallisce diventi un vagabondo perché non vuoi saperne più niente. Sono stato talmente male per non avere saputo inserirmi e per non essere stato accolto, che a un certo punto mi sono escluso da solo.
François Burland, ricamo
Attraverso l’arte ho trovato la mia strada, ho fatto molta terapia, ho seguito una formazione, avrei potuto praticare, e me lo hanno rimproverato. Ero scioccato. Era un ambiente di benestanti. A me hanno chiesto di rinunciare a tutti i miei diritti. Sulle trecento opere mie che possiede la Collection de l’Art Brut, solo due sono state acquistate, le altre le ho donate tutte. In questa fase del suo percorso, si può parlare di una filiazione nell’art brut? Mi è stato sempre rimproverato di non avere fatto una scelta di campo, perché fin dall’inizio sono stato sia nell’art brut che nell’arte contemporanea. Avevo i piedi in due staffe. Certo, visto che ero proprio un emarginato, mi sono sentito molto vicino a Michel Thévoz e Geneviève Roulin, persone poco convenzionali, impegnate politicamente, intelligenti, e
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ad artisti come Robillard, che ho incontrato quando avevo vent’anni. Sono stati incontri magnifici. Intorno al museo gravitavano veramente delle persone pazzesche! Oggi ci sono universitari, funzionari, non mi riconosco più in questo ambiente. E nemmeno in quello dell’arte contemporanea! Come sono le sue relazioni con i musei e le gallerie? Buone e cattive, sia nell’art brut che nell’arte contemporanea. Con alcuni direttori di musei ho avuto delle ottime relazioni. Mi hanno realmente sostenuto, mi hanno fatto delle mostre, erano presenti, c’era un equilibrio, ognuno ci guadagnava. Certi musei mi sostengono veramente. Il direttore del Kunstmuseum di Turgovia, ad esempio, mi presenta ai suoi colleghi, mi accompagna agli appuntamenti, lavoriamo insieme su dei progetti. Nell’Art Brut si ha spesso a che fare con artisti marginali, presi in carico dai servizi sociali, che non hanno bisogno di soldi perché vivono grazie a un sussidio o in un’istituzione. Non danno alcun valore alle loro opere, apprezzano giusto il fatto di essere riconosciuti. Io non avevo scelta. Ero talmente tagliato fuori, era la sola cosa che sapevo fare nella vita e che poteva permettermi di guadagnare e di vivere in maniera quasi decente… Di conseguenza, era complicato, perché volevo che il mio lavoro fosse riconosciuto anche dal punto di vista economico. Tra i galleristi, ci sono gli onesti, e gli altri. È favoloso quando una galleria ti permette di accedere alle grandi fiere internazionali, hai una visibilità incredibile. Questi mercanti prendono dei rischi e rispetto il loro impegno. Il problema, purtroppo, sono quelli che non pagano gli artisti outsider. Alcuni galleristi hanno giocato con la mia quotazione. Hanno fatto salire i prezzi da 3.000 a 150.000 euro in un solo giorno. Ce n’è uno che ha venduto così alla FIAC una trentina di opere a dei grandi collezionisti d’arte contemporanea. Mi compravano un’opera a 1.000 euro e la rivendevano a 60.000
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senza che vedessi un soldo in più. C’è un sacco di gente che non mi ha pagato. Io non avevo accesso a quel mercato, non lo conoscevo, mi hanno bruciato. Mi hanno rimproverato di avere una quotazione incoerente, quando invece i miei prezzi sono gli stessi da 25 anni. I galleristi con cui lavora le chiedono un certo tipo di opere? Si, vogliono tutti la serie a colori perché funziona benissimo. Avevo vent’anni quando facevo queste opere, ed erano vendute prima ancora di esporle! Mi sono detto che dovevo uscire da lì se no finiva male. Quando ho cambiato stile e ho iniziato a disegnare dei mostri un po’ bizzarri tutti hanno detto che non avrebbe funzionato. Tranne Thévoz, che li ha trovati molto buoni. In seguito ho cambiato talmente tante volte di stile e di storie che adesso, quando lavoro ancora sulla stessa serie, la gente si stupisce. Sto attento a non mettermi sotto pressione, a lavorare su una serie fino a quando va bene per me, senza farmi influenzare dagli altri. Vado avanti seguendo le mie voglie e la mia fantasia. Quando i galleristi mi chiedono di fare una certa serie o le opere a colori mi rifiuto, non lo faccio. Quando ci si lascia con qualcuno è finita, non si può tornare indietro. Lei collabora con partner di ogni tipo, nell’art brut e nell’arte contemporanea. Quali criteri orientano le sue scelte? Non ho nessuna strategia. I miei criteri sono gli incontri, l’amore, il legame con gli altri. Anche quando disegno sono spesso in relazione con qualcuno. È un motore per creare. Non m’interessa farlo solo per me stesso, è una masturbazione. Ha altre fonti di reddito oltre alla vendita delle sue opere? No. Da quando lavoro con l’Atomik Circus elaboro dei progetti e ricerco dei fondi che permettono di pagare il mio lavoro e quello della mia équipe. Le opere sono effimere. Sono talmente monumentali che vengono distrutte dopo le
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mostre. Sono contento di non dovere più occuparmi della conservazione, non ne posso più di tutte le opere che ho fatto. Oggi quello che mi piace di più è il lavoro di gruppo, vedere cosa succede quando si lavora insieme, tra di noi, tra tutte queste persone che sono marginali, che vengono da orizzonti diversi. Sono dei progetti federatori, che uniscono le persone, e che mi spingono un poco in una zona scomoda. Mi piace andare lì dove non dovrei stare, dove non ho niente da fare. Le persone che lavorano con me non hanno un domicilio fisso ma possiedono delle competenze incredibili. C’è una ricamatrice che lavora per Chanel e Gautier, e quando è con me salda, taglia con la motosega, costruisce le mie sculture, a volte le chiedo di fare dei ricami. Un altro lavora come scenografo per i più grandi registi. L’anno scorso, quando abbiamo concluso il nostro anno di lavoro, è stato incredibile. All’inizio stavamo tutti male, ci siamo guariti tutti! Mi affascina vedere che il fatto di lavorare insieme su delle cose che non servono a niente, che non hanno senso, che non funzionano, possa riabilitare, rincollare, restituire dignità a delle persone che si appassionano per delle cose ridicole, per progetti che non stanno né in cielo né in terra. Oggi il mio lavoro è un pretesto per creare la relazione. La mia più grande competenza consiste nel creare delle situazioni che permettono a delle persone d’incontrarsi. Qual è il suo ruolo in questi progetti? Penso che il carburante sia il mio desiderio. Sono talmente preso dalla mia storia, non so né come né perché ma tutti mi seguono. Sono come una calamita! Voglio fare un disco volante alto 20 metri, mi ritrovo con 17 persone pronte a realizzarlo! Ma ci vogliono persone veramente competenti per farlo, dei veri tecnici. Ognuno può esprimere il suo parere sul progetto. Guardiamo, proviamo, discutiamo tutti insieme, e quando sono tutti d’accordo si comincia. Dubitiamo e
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avanziamo insieme. Se non funziona, non è colpa loro, posso assumermene la responsabilità. Se funziona, non è merito mio. Sono io che porto il progetto, che metto l’energia, che trovo i soldi, che metto insieme le persone, e gli piaccio abbastanza perché dicano, ok, con lui lo facciamo. Alla fine del processo, l’opera è firmata François Burland? Adesso si chiama Atomik Circus. Mi nascondo dietro questo nome. Sono solo quello che lo vende meglio. Io non ho più bisogno di questa luce, ne ho avuta abbastanza, non sono più lo stesso di quarant’anni fa. Da qualche anno a questa parte, l’Art Brut conosce una larga diffusione. È un vantaggio per lei in quanto artista? No, al contrario mi nuoce. In ogni caso, quelli dell’art brut mi hanno sempre rimproverato di essere nell’arte contemporanea, e viceversa. C’è un sacco di gente che fabbrica delle immagini “alla maniera di” per entrare in questo circuito. Secondo lei, è ancora possibile vivere e lavorare in modo completamente isolato dalla società, avere un profilo come quello che Dubuffet aveva tracciato per gli artisti d’art brut? Forse ci sono in giro ancora degli autisti che possono fare a meno di stimoli sociali, ma non credo. Ho degli amici che continuano a creare in maniera onesta chiusi nel loro mondo. Ma c’è anche una grande sofferenza a non potere andare verso gli altri. È terrificante vedere partire il treno senza di te.
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François Burland, Atomik Magic Circus, particolare della mostra al Quartier Général, Anciens abattoirs de La Chaux-deFonds, 2015
NdR. Si tratta del primo direttore della Collection de l’Art Brut di Losanna (dal 1976 al 2001) e della sua assistente.
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Norman Mommens: la ‘decrescita felice’ di Lorenzo Madaro
Nel clima degli anni ‘70 uno scultore belga giramondo si sottrae al sistema dell’arte contemporanea e si ritira nel Salento diventando ‘un outsider a metà’ e trasformando una masseria ‘alla fine del mondo’ in un luogo d’arte e le proprie opere in guardiani della natura Norman Mommsen e Patience Gray
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Giunti nel Capo di Leuca chiunque è costretto a interrompere il proprio viaggio; oltre c’è solo il mare. Lo scultore belga Norman Mommens, con la compagna Patience Gray – scrittrice e giornalista inglese1 – nel 1970 approdò nelle campagne del Salento estremo, a Salve. Ci rimasero per trent’anni, fino alla loro morte, vivendo un legame estremo con la terra di “Spigolizzi” e la loro masseria. Oggi questi luoghi sono custoditi da Nicolas Gray, figlio di Patience, e dalla sua compagna. I coniugi Gray sono contrari a un’eventuale musealizzazione – Nicolas precisa infatti che “deve restare un luogo di lavoro” –, ma certamente aspirano a un adeguato rispetto di questa masseria, che ha significato molto per la cultura salentina, e non solo, per diversi decenni. Qui si avverte il ricordo tangibile di Norman e Patience, in particolar modo nelle grandi sculture primitiviste interrate nei terreni vicini alla casa-studio, nei piccoli scudi dipinti su carta e nelle fotografie che narrano di una vita sospesa tra i ritmi
della campagna e le visioni dell’arte. D’altronde, come ricorda Nicolas, «Giunsero qui perché cercavano il sole. Ma arrivati a Salve si fermarono perché non c’erano più strade. Era la fine del mondo». Il 1970, anno del trasferimento in Salento, è uno spartiacque, un vero e proprio momento di rinascita e cambiamento nella vita dell’artista e della sua compagna. Con la scoperta di un sud rurale, allora incontaminato, della natura e del mare e della luce salentina, cambia anche lo stile di vita e il suo lavoro diviene sempre più un percorso privato, che viene scandito dal passare dei giorni nelle mura domestiche o nella campagna circostante incontaminata. Da artista giramondo, per molti versi già attivo nel sistema dell’arte contemporanea di allora, seppur in maniera defilata, opta per un volontario isolamento - saranno invece intensi i rapporti con la gente del luogo, penso a Rolando Civilla, editore della rivista Acontrappunto, che gli ha spesso dedicato attenzioni, o al poeta e scrittore Antonio Verri - pur sempre operativo. Un outsider a metà, potremmo dire, per sintetizzare in maniera certamente un po’ approssimativa il suo percorso a partire dal fatidico 1970. Nato nel 1922 ad Anversa2, da padre belga e madre inglese, studia all’Accademia d’architettura e arti applicate Elkerlyc, non lontano da Amsterdam, secondo quanto riportano i profili biografici tracciati in maniera autonoma dal figlio della sua compagna, Nicolas Gray, secondo il quale «Sopravvivere ai bombardamenti alleati
Casa Rosa, Masseria Spigolizzi, Salve (Salento)
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Interno della cucina della Masseria
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lasciò in lui un profondo senso di meraviglia nei confronti di ogni nuovo giorno. Gli anni immediatamente successivi al dopoguerra in Belgio, lo videro svolgere tante e diverse attività: servizio militare; scenografo teatrale; disegnatore industriale». Dal 1949 iniziò a lavorare le ceramiche in Inghilterra, dove sposa la vasaia Ursula Trevelyan3, pronipote di Charles Darwin. Iniziò a scolpire nel 1952 adottando il granito come materiale d’elezione e vivendo per qualche periodo in una tenda in una cava della Cornovaglia. La sua vita è nomade e avventurosa, l’arte lo spinge a sperimentare, anche a muoversi su versanti apparentemente distanti, scrivendo e illustrando pubblicazioni per bambini. Nel 1962, con la compagna Patience, lascia l’Inghilterra e dopo alcuni periodi trascorsi in Catalogna, in Provenza e a Carrara, approdano alla masseria Spigolizzi. Non lontano dallo Ionio, su un promontorio che scruta silenzioso il mare, circondato da rocce e alberi, vegetazione spontanea e squarci di cielo. Hanno vissuto per più decenni senza elettricità, così Mommens utilizzava soltanto attrezzi manuali per concepire le sue sculture in pietra. Sono stati antesignani della decrescita felice, praticandola costantemente.
«Patience e Norman, quindi, approdano nell’agro di Salve spinti da un ‘bisogno di spazio’, sia per lavorare sia per ospitare l’imponente famiglia di lavori di marmo di Norman. Qui lo spazio certo non mancava e per acquistare un pezzo di terra nel Finibus Terrae non era necessario spendere una fortuna», ricorda Gray, aggiungendo: «Installare la propria casa e il proprio studio nel Salento rappresentava un nuovo inizio. ‘La vita comincia a Spigolizzi!’ diceva». Non ancora cinquantenne, sembrava aver intrapreso una strada completamente nuova che l’avrebbe portato alla scoperta di se stesso. Mentre studiava la campagna circostante o quando osservava il cielo dalla sua ‘specchia’ con, sullo sfondo, il Finibus Terrae di Leuca, a stretto contatto con le stagioni e con il movimento delle sfere celesti, Norman giunse alla decisione che il mondo dell’arte internazionale non faceva per lui. Il suo rapporto con tutto ciò che lo circondava era di gran lunga più importante che inseguire riconoscimenti a Roma, Londra o New York. Questa lacerazione con le ambizioni tipiche del sistema dell’arte, determinano la sua fase più outsider, in cui il suo lavoro diventa ancor più vicino a certo rigore primitivo, sia nell’utilizzo delle cromie, che
Sculture nel giardino di Norman aMommsen
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Norman Mommsen, Fledgling (Pivello), scultura in mostra nel Palazzo Ducale di Specchia, 2015
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delle forme rigorose delle sculture. «Per molti anni vissero alla giornata, confidando su ciò che l’orto gli dava da mettere in tavola, e, comunque, andarono avanti ed erano felici. Fecero della frugalità una virtù, una filosofia di vita», rammenta ancora Gray, che sostiene: «Da questo si capisce come mai Norman abbia consacrato gli ultimi trent’anni della sua vita a creare opere che non avrebbe nemmeno provato a vendere. Eppure, non si affannava in una specie di ‘vuoto culturale’ perché c’erano, senz’altro, i commenti e l’apprezzamento delle persone che per Norman contavano: gli amici, i vicini, i suoi mecenati, i giovani ammiratori. Le sue sculture, i suoi quadri, le poesie, i fumetti e perfino i suoi presepi parlavano alla gente. Aveva un pubblico di aficionado... Dopotutto, un artista non può fare a meno del suo pubblico». Le sculture antropomorfe, alcune di grandi dimensioni, le realizzava in marmo, con un’attenzione estrema alla levigatezza della materia e al rigore estremo delle forme. Le sue sculture sono essenziali, minimali quasi, sono idoli da osservare, guardiani della natura circostante che vigilano nella silenziosa campagna di Spigolizzi ancora oggi. La casa è un vero e proprio ‘ambiente outsider’, sin dall’esterno, le pareti perimetrali sono dipinte e osservandolo con lo sguardo all’insù, sul terrazzo si intravedono sculture, mentre di fronte all’abitazione, al centro di una grande aia, appare, con la solennità di un idolo primitivo, la grande opera Anatolì. All’interno della casa-studio, a cui si accede da un grande
ambiente, si entra immediatamente in contatto con il suo immaginario: lì trovano ancora oggi posto un grande dipinto trapezoidale che echeggia influssi minimalisti, una serie di sue sculture ‘primitive’ di grandi dimensioni e poi disegni, studi preparatori, illustrazioni, segni, appunti. La sua produzione - mai catalogata, almeno non in maniera approfondita e scientifica - è sconfinata e consiste naturalmente anche nella scultura di piccolo formato (in cui riprende il rigore formale primitivista), che nella casa trova posto un po’ ovunque, persino negli anfratti delle pareti. Ma quelli della casa - soprattutto gli ambienti della cucina - sono anche i luoghi della fusione tra vita privata e vita creativa, che nel suo caso s’intrecciano inesorabilmente. Così un grande dipinto parietale, che ricopre parte della volta e un’intera lunetta della stessa cucina, fa emergere l’attenzione per un alfabeto visivo elaborato eppure apparentemente immediato, dove figure antropomorfe e brani di vegetazione s’intersecano in un continuum che appare come un omaggio alla terra, a quella terra, come emerge dalla parte testuale in cui si legge Salve. Spigolizzi. Ionio. Tre riferimenti essenziali, netti, a cui però appartengono trent’anni di vita e arte vissuti nella macchia mediterranea cresciuta attorno alle vecchie pareti della masseria. La presenza di un artista straniero nel Salento a partire da quegli anni è un fenomeno relativamente diffuso, anche se Mommens è stato tra i primissimi. Uno stimolante progetto editoriale - accompagnato da un documentario -
Norman Mommsen, Girl, scultura in mostra nel Palazzo Ducale di Specchia, 2015
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Norman Mommsen, Anatoli o Gran Pazzo, scultura nel giardino della Masseria
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ideato dalla fotografa Caterina Gerardi con i fondamentali contributi testuali di Marina Pizzarelli e Marilena Cataldini, ha di recente raccontato speciali fenomeni di migrazioni intellettuali Verso Sud 4. Alina Kalczynska, moglie del grande editore d’arte Vanni Scheiwiller e raffinata artista del segno, Helmut Dirnaichner, Mary Obering, Franco Vaccari e molti altri, soprattutto in tempi recenti, hanno deciso di spingersi a sud e di approdare in Salento, alla ricerca di un buen retiro adeguato per dedicare impegno e energie al proprio processo creativo. L’esperienza di Mommens è stata pionieristica in tal senso - quasi in concomitanza con Norman e Patience, in Salento era già approdata la coppia Helen Ashbee, artista inglese figlia dell’architetto Charles Robert, e Arno Mandello - avendo scelto nel 1970 un’area del tutto lontana dalle mete turistiche e dai circuiti modaioli che hanno poi invaso città straordinarie come Santa Maria di Leuca, Gallipoli e Otranto negli ultimi quindici anni di boom estivo incontrollato. Tra l’altro Norman aveva un’alta coscienza ecologica, si è sempre impegnato moltissimo nella difesa del territorio dai disastri ecologici incombenti, d’altronde il suo affetto per il Salento era sconfinato. Nella masseria Spigolizzi aveva anche intenzione - gli eredi conservano i progetti - di fondare una scuola d’arte non convenzionale in quell’angolo di campagna, pensando anche alla realizzazione degli alloggi per gli studenti e alle aule. Dall’incisione su pietra alle tecniche miste su carta, dai dipinti alla scultura: Mommens - sia nelle sue opere figurative, che in quelle di un minimalismo meditato con i colori caldi del Mediterraneo - è sempre stato un talento eclettico, instancabile. I pochi documenti conservati nella Masseria Spigolizzi non consentono una ricostruzione esaustiva della sua attività espositiva, perciò bisogna per adesso attenersi ai dati reperiti dagli eredi, che magari potrebbero donare copia a un’istituzione pubblica dei vari documenti custoditi per consentirne la fruizione.
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Mommens nel 1964 espone alla Galleria del Dose di Venezia; l’anno seguente è all’American church di San Paolo a Roma, con Peter Rockwell, Charles Wells & Jef Gorris. Nel 1967 e nel 1969 partecipa alla Biennale di Carrara; nel 1986 propone una doppia personale con Helmut Dirnaichner a Palazzo d’Elia di Casarano, non lontano da Spigolizzi; esperienza riproposta tre anni dopo al circolo La Scaletta di Matera. Nel 1993 e nel 1997 espone alla King St Gallery di Cambridge. Muore l’8 febbraio 2000. Nel 2011 la galleria l’Osanna di Nardò gli dedica una mostra all’interno di un palinsesto, curato da Marina Pizzarelli, dedicato agli artisti stranieri approdati in Salento. Si sono poi susseguite un paio di occasioni espositive senza però un adeguato supporto critico e curatoriale, tra Specchia e Presicce. Nonostante l’attenzione agli allestimenti, ben curati, i lavori di Mommens in queste due ultime occasioni non sono state oggetto di riflessioni accurate sulla sua opera. Bisogna altresì chiarire che anche nei recenti tentativi di ricostruzione delle vicende artistiche locali5, il suo lavoro non è mai stato esposto e approfondito. Eppure il suo lavoro in anni recenti ha trovato delle collocazioni - come abbiamo visto non del tutto congrue - di visibilità, ma evidentemente il suo essere un artista fuori da ogni categoria non ha favorito un’integrazione con un determinato establishment culturale locale. Si è persa pertanto l’opportunità di poter inquadrare il suo lavoro anche all’interno delle coeve esperienze della scultura in Terra d’Otranto. Probabilmente anche il suo eclettismo stilistico è stato frainteso, le sue naturali inclinazioni con l’arte minimalista, le tangenze con un primitivismo assorbito in chiave non esotica ma antropologica e mediterranea, e certamente non mediato dalla lezione delle Avanguardie storiche. E poi l’attenzione al libro d’artista, inteso come diario di segni e parole, come dimostra anche To my darling, un video dell’artista Rossella Piccinno dedicato alla serie di libretti d’artista che Mommens concepiva ogni anno in occasione del compleanno della sua
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compagna. Ancora una volta nell’orbita di una stretta relazione tra arte e vita, che la giovane artista salentina, con interessi e attività ormai internazionali, è stata in grado di ben chiarire nel suo documentario. Adesso - come capita per il Santuario della pazienza di Ezechiele Leandro, ormai vincolato dalla Soprintendenza, eccezionale caso di ambiente outsider in Puglia - però ci sarebbe da intervenire con un restauro conservativo delle opere che sono all’esterno della Masseria, alcune in uno stato del tutto precario, e con una catalogazione scientifica dei disegni, dei libri, dei dipinti, delle opere grafiche e dei suoi scritti, anche quelli epistolari. La sua ricerca merita un adeguato studio e un progetto espositivo esaustivo. 1
Per un profilo sulla scrittrice Gray, scomparsa nel marzo 2005, cfr. http://www.theguardian.com/news/2005/mar/18/guardianobituaries.food [4 settembre 2015].
2
Le notizie biografiche riportate qui di seguito sono frutto di una serie di dialoghi con Nicolas Gray. Le date e i relativi riferimenti alle mostre sono stati reperiti dalla documentazione conservata da Gray alla Masseria Spigolizzi di Salve, in Salento.
Cfr. http://www.theguardian.com/artanddesign/2010/feb/03/ursula-mommens-obituary [4 settembre 2015].
3
Cfr. Verso sud, fotografie e documentario di C. Gerardi e testi di M. Pizzarelli e M. Cataldini, Anima Mundi Edizioni, Otranto 2009.
4
I contributi dedicati al contesto artistico salentino degli anni Settanta sono ancora pochi e per certi versi parziali, manca ad oggi una ricognizione completa che tenga conto anche di relazioni e confronti con altri contesti, di un’analisi degli spazi espositivi e della loro attività e dei ruoli dei singoli operatori e coprotagonisti. Per alcuni ragguagli, riporto qui di seguito alcuni riferimenti: I. Petrucci Laudisa, Arte, in Profili Produttivi delle province italiane. Lecce, s.e., Lecce 1981; T. Carpentieri, Arte gruppi 1960-1979, in Ibidem; M. Guastella, Per l’avvio ad una storia dell’arte nel Salento nel secondo Novecento (anni ’60 - ’70), in «Kronos», n. 7, Periodico del Dipartimento dei Beni delle Arti e della Storia, Facoltà di Beni Culturali, Congedo, Galatina 2004; M. Guastella, Episodi artistici nel Salento dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta, in Arte in Terra d’Otrano tra Otto e Novecento, catalogo della mostra (Lecce, Museo Provinciale, 9 dicembre 2007-31 marzo 2008), a cura di A. Cassiano, M. Afferri, R&R Editrice, Matera 2008; T. Carpentieri, Un secolo d’arte a Lecce e dintorni, in Il presente si fa storia: scritti in onore di Luciano Caramel, a cura di C. De Carli, F. Tedeschi, Vita e Pensiero, Milano 2008.
5
Cfr. A. Serafino, Ezechiele Leandro, in Artisti Salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, a cura di A. Cassiano, R&R Editrice, Matera 2007.
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La pulsione creativa allo scoperto di Giada Carraro
LIBRI
Pubblicato in Spagna il primo vero manuale per un approccio complessivo alla fenomenologia dell’Outsider Art attraverso una classificazione delle sue manifestazioni
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Arte outsider: la pulsión creativa al desnudo (330 pagine, immagini a colori, ampia bibliografia finale) è un libro di recente pubblicazione, concepito come il primo di una serie di volumi che la giovane autrice madrilena Graciela García curerà all’interno della collana Wunderkammer, diretta da Gorka López de Munain, per la casa editrice Sans Soleil Ediciones. Sicuramente un libro ormai indispensabile, che va a colmare un vuoto presente nella bibliografia outsider, spagnola e non, per l’ampia panoramica offerta e il tentativo di ordinare l’eterogeneità che caratterizza tale fenomeno storico-artistico. Nella parte introduttiva si incontra una riflessione attorno al significato e l’utilità del termine stesso di arte outsider, cercando innanzitutto di definire ciò che accomuna gli artisti riuniti sotto questa definizione: sono adulti privi di formazione artistica che manifestano in modo imperioso e repentino l’esigenza di creare e “dare forma”. Ad accomunarli, però, non c’è soltanto questo: sono artisti - prosegue l’autrice - che rifiutano gli standard culturali a favore di un criterio proprio; le loro opere trasmettono un modo particolare e personale di vedere il mondo e relazionarsi con esso. Il processo artistico si confonde con la vita stessa dell’autore e ha un periodo di incubazione molto lungo, riuscendo a rivelarsi solo quando qualcosa agisce da detonatore, quindi quando un’esperienza di vita
intensa o un trauma li obbliga ad attivare delle risorse latenti. L’arte, in questi casi, diviene un’opportunità per recuperare la sensazione di ordine e controllo nel mezzo della voragine, oltre a un modo per trattenere i pensieri. È quasi una sorta di processo catartico, un’arte del cammino che si arresta semplicemente quando si è esaurito lo spazio a disposizione, mentre la creatività diviene al tempo stesso rifugio e dono: ognuno di essi si crea un mondo alternativo nel quale vivere e l’espressione del singolare acquisisce un valore unico. Seguendo tale filo conduttore si incontreranno, pagina dopo pagina, non solo malati mentali, ma anche autori semplicemente privi di formazione artistica che si dedicano alla creazione con urgenza e devozione, restando al margine del contesto artistico. Per quanto diversi, la condivisione di certe caratteristiche li porta verso percorsi simili, con dinamiche che si ripetono e si rivelano con forza nell’uno e nell’altro. È sulla base di questi punti di coincidenza che Graciela García ha costituito quello che pare essere un vero e proprio “inventario outsider”. Il primo capitolo, Repetición, estereotipia y estilo, riflette sulla forza della ripetizione, che nelle opere outsider si traduce nella reiterazione di un gesto o di un simbolo, fino a divenire vera ossessione, come in Carlo Zinelli, a cui dedica una sezione speciale. Nel secondo capitolo, Arte mediúmnico y visionario, analizza l’opera visionaria e medianica prodotta sotto stati alterati di coscienza da artisti come Madge Gill, Laure Pigeon, Seraphine Louis, Jules Leclercq, Josefa Tolr, Anna Zemankova e, infine, Auguste Lesage. Il terzo capitolo, invece,
Carlo Zinelli, Figure, 1964, Fondazione Carlo Zinelli
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Arthur Bispo do Rosario, assemblaggio di materiali vari, Museu Bispo do Rosario, Rio de Janeiro
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intitolato Escritura plástica, parla dell’uso della parola scritta indipendentemente dalla sua funzione narrativa, come avviene nelle opere di Jacob Mohr, Melvin Way, Charles Benefiel, Ray Hamilton, Johann Knopf, Pedro Alonso Ruiz, August Walla e Dwight Mackintosh. A seguire, Bordados, textiles, muñecos è dedicato alla produzione artistica tessile, quasi un omaggio a una tecnica e un materiale di solito attribuiti all’ambito femminile. I protagonisti: Ghada Amer, Paula Rego, Agnes Richter, Gabriele Urbach, Tarcisio Merati, Raymond Matterson, Marie-Rose Lortet e un approfondimento sull’opera di Judith Scott. Nel capitolo successivo, Reciclaje y acumulación, si affronta la consuetudine propria degli artisti outsider di usare materiali estranei al mondo dell’arte, quasi sottoponendoli a un’apoteosi. Ampia è la sezione dedicata ad Arthur Bispo Do Rosário e alla sua missione di catalogazione del mondo. Per concludere, Microuniversos, máquinas maravillosas y mapas, parla della necessità dell’uomo di creare un mondo e un sistema capace di rispondere alle sue aspettative e che sia controllabile, analizzando in modo approfondito uno degli artisti outsider più conosciuti a livello internazionale, Adolf Wölfli. Nonostante la suddivisione in capitoli, la linea di confine tra le varie categorie individuate è molto sottile e le varie sezioni sembrano intrecciarsi tra loro. Il metodo usato non segue specifici principi scientifici, bensì un’intuizione e un’inclinazione personale che molto deve al processo creativo outsider. In conclusione, dopo una tavola sinottica in cui sono riassunti i principali ingredienti della creazione
outsider, l’autrice ritorna a interrogarsi sulla legittimità dell’espressione stessa di arte outsider. A Ricardo Aquino, direttore del museo Bispo do Rosário, si deve una visione particolarmente aperta del fenomeno: egli rifiuta qualsiasi terminologia, poiché si tratta solo di forme di esclusione e di controllo, e di conseguenza rifiuta anche le false dicotomie (centro-periferia, dentrofuori, salute-malattia mentale). Tuttavia, secondo Graciela García, per quanto il termine sia scomodo, ciò che contiene è meraviglioso e senza un concetto unificatore non si parlerebbe di loro. Si tratta solo di riconoscere come denominatore comune l’autodidattismo e l’impulso irrefrenabile di dedicarsi all’arte, concependo l’arte outsider come una sorta di arte atemporale e privata che si sprigiona inevitabilmente dagli individui. Non si può dimenticare, infine, l’impegno profuso in questi anni dalla García nella direzione del blog El jombre Jazmin (http://elhombrejazmin.com) e nel progetto Bric-àBrac (http://www.arteoutsider.com) che comprende, oltre alla collana di libri avviata con la pubblicazione in oggetto, anche la pubblicazione annuale di una rivista digitale.
Jorge Juan Maldonado e Eulogio Raguillo Estremera, Las Caras de Buendia, Cuenca (Spagna)
Il libro: Graciela García, Arte outsider: la pulsión creativa al desnudo, Sans Soleil Ediciones, Barcelona 2015.
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Art Brut per l’infanzia di Eva di Stefano
Un percorso di gioco attraverso opere di Art Brut che stimola la capacità di osservazione, la creatività e la fantasia, e mette in evidenza la capacità comunicativa dell’arte irregolare
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Si può imparare a guardare con l’Art Brut? Si può giocare con le sue figure? Il delizioso libro-gioco di Lucienne Peiry, appena pubblicato in Francia in una delle collane specializzate nell’infanzia delle edizioni Thierry Magnier (Parigi), risponde di sì: anzi l’infanzia, libera dai pregiudizi che intasano lo sguardo degli adulti, è più ricettiva e perciò rappresenta un pubblico privilegiato e sensibile per questa fenomenologia artistica. Ai bambini la Collection de l’Art brut di Losanna piace molto e le animatrici didattiche non devono fare troppa fatica a catturarli. Già in due precedenti volumetti della stessa casa editrice, la studiosa svizzera si era rivolta all’infanzia: Bobines d’Art Brut (Magnier, 2002) presentava con brevi testi una serie di opere ingegnose, paradossali e burlesche fatte di conchiglie, mollica di pane, bucce di legumi, pasta dentifricia etc., aprendo la porta dell’incanto della creatività quotidiana; un medesimo carattere ludico animava Bestioles d’Art Brut, concepito assieme ad Anic Zanzi (Magnier, 2006), un piccolo bestiario fantastico di animali misteriosi e strampalati che facilmente diventano protagonisti di favole bizzarre da inventare assieme. Una delle caratteristiche dell’Art Brut e Outsider, nonostante le esistenze spesso drammatiche e isolate dei creatori, è quella di azzerare lo iato tra stile infantile e stile adulto. Ciò non vuol dire che questi artisti disegnano come bambini, ma piuttosto che, liberi da regole tecniche e scolastiche, stanno in ascolto del bambino che è in loro, e che invece nella mag-
gior parte di noi è stato esiliato per sempre. Spiega Michel Thévoz: «Tutto accade come se l’autore di Art Brut rinnovasse, sviluppasse e rendesse più complessi, con una facoltà adulta di concentrazione e perseveranza, gli impulsi plastici tratti direttamente dalla prima infanzia […]. A tal punto che una interruzione effettiva di parecchi decenni imposta dalle circostanze sociali a degli individui costretti a lavorare duro dopo una scolarizzazione elementare parrebbe non avere alcuna conseguenza formale: al tempo della pensione, anziani come Aloïs Wey o Edouard Boschey hanno ripreso senza soluzione di continuità il filo dei loro disegni infantili, che hanno rapidamente declinato in un senso originale come se tra i dodici e i settant’anni non ci fosse stato che un brutto momento da fare passare»1. Inoltre la componente ludica è insita in autori che manipolano ogni sorta di materiali per dare vita al proprio mondo: il gioco dopotutto, come ha detto Johan Huizinga, è un fattore preculturale che consente di creare il proprio territorio. E personalmente ricordo il riso e il divertimento di Giovanni Bosco (va ricordato che la biografia di Bosco è tra quelle più sventurate) mentre mi mostrava i suoi disegni durante la mia prima visita nella
Gaston Duf
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sua stanza a Castellammare del Golfo e mi invitava ad indovinare i soggetti del suo bestiario personale: rane, conigli e serpentelli. Proprio un bambino del suo paese, Andrea Cancemi, ha centrato il punto scrivendo sul quaderno delle firme in occasione della mostra del ‘Museo temporaneo’2: “Giovanni Bosco era un artista meraviglioso e anche se era un ‘picchiatello’ a me sembrava un uomo normale”. Proprio un’opera del siciliano Giovanni Bosco, uno dei suoi personaggi circondato da cuori e da scritte, è sulla copertina di questo nuovo libro per bambini che propone una serie di indovinelli e facili esercizi di osservazione, ad esempio nel caso di Bosco: “trova nel disegno le seguenti parole: testa, naso, pane, dolce”, oppure in altre pagine: “quante gambe vedi?” o “sapresti imitare la postura di questo personaggio?” o ancora “prova ad indovinare che mestiere fa questo tizio”. Le opere sono di autori famosi in quest’ambito (Carlo, Walla, Forestier etc.), le pagine sono coloratissime e contengono anche una piccola nota sull’artista o un commento all’immagine, da cui si può partire per inventare altre storie, altre favole e altri disegni. Il testo, in francese e in inglese, è destinato a un pubblico internazionale consapevole di quanto sia fondamentale per l’apprendimento generale educare con gioia all’arte i propri bambini: l’Art Brut può diventare uno strumento fondamentale perché ha dalla sua parte la sincerità e la fantasia, qualità che i bimbi da sempre sentono e prediligono. M. Thévoz, L’Art Brut, Skira, Ginevra 1980, p. 50.
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Il Museo Temporaneo dedicato all’artista fu allestito a Castellammare del Golfo nel 2014 e in seguito dismesso. Cfr. il servizio di V. Di Miceli sul n. 8 della nostra rivista, Glifo edizioni, Palermo ottobre 2014, pp.150-155. Il quaderno delle firme citato è conservato dall’Associazione Outsider Art Giovanni Bosco, che ha realizzato la manifestazione.
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Il libro: Lucienne Peiry, Bonhomme d’Art Brut - Figures d’Art Brut, Editions Thierry Magnier, Parigi 2015
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August Walla 163
Bill Traylor
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Gaston Chaissac
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La casa dei simboli di Bonaria Manca e il dibattito sulla sua tutela di Rossella Faraglia
REPORT
• Come valorizzare senza snaturare? Se ne è discusso a Tuscania in occasione di una giornata dedicata all’artista-pastora • Il progetto di un itinerario d’arte attraverso i numerosi giardini e case d’arte della Tuscia
Bonaria Manca nella sua casa, 2015
I percorsi degli artisti irregolari hanno spesso dei punti di tangenza. Per molti l’inizio coincide con un cambiamento radicale a volte traumatico della propria vita. Nel caso di Bonaria Manca, pittrice nata nel 1925 a Orune (Nuoro), la passione per la pittura è nata quando aveva cinquant’anni, a seguito della separazione dal marito e della morte della madre e del fratello. Ma un evento traumatico aveva già segnato la sua vita. A ventitrè anni aveva dovuto seguire la sua famiglia di pastori nell’Alto Lazio, a Tuscania. E qui, in un paesaggio che ancora oggi è di stupefacente e intatta bellezza, con le sue valli, rilievi tufacei e storia stratificata, anche Bonaria si fece pastora. Rimasta poi sola nella casa, un po’ fuori del paese, scoprì attraverso il ricamo una passione per il colore e cominciò a dipingere tele, tavole, e se i supporti mobili non c’erano, allora dipingeva i muri e i soffitti della casa, in una terapeutica auto-narrazione della propria biografia. Non usa solo i colori Bonaria, usa anche le pietre, anzi le
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Pittura murale, particolare
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Camera da letto di Bonaria Manca
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“pietrine”, come le chiama lei, raccolte intorno a casa, in cui vede segni del passaggio di popolazioni ancestrali che lì intorno, tanti secoli prima del suo arrivo, hanno vissuto, lavorato, scambiato commerci e adorato le proprie divinità. Germinazioni sacre, arcaiche che lei ha visto e ritratto: «questi personaggi li ho visti, sennò perché li ho fatti, che ne sapevo... come si sono rivelati a me si potevano rivelare anche ad altri». Così come ha ritratto i personaggi della religione cristiana. Ma non c’è contraddizione: la divinità è nella natura, nelle foglie, nel canto e nel volo degli uccelli, nella luna con il suo
“mistero gigante”, è il dio della vita che rinasce ogni giorno. E che di certo l’ha guidata nel reinventarsi la propria vita dopo lo sradicamento. Dunque la casa è l’opera di Bonaria, in dialogo costante con la natura intorno, soggetto dei suoi canti, anch’essi inerenti alla sua espressione artistica. Questa casa l’artista ha rischiato di perderla in un momento difficile, per problemi economici e di salute. Le tante persone che da decenni si occupano di far conoscere la sua opera, non sempre riconosciuta dalla comunità in cui vive - altro tratto in comune con gli outsider - nel 2014 hanno organizzato a Tuscania, per le Giornate Europee del Patrimonio, una manifestazione dove venne lanciato un grido d’allarme sulle difficili condizioni dell’artista e fu presentata una monografia a cura di Pavel Konečný e Roberta Trapani. Poco dopo si è costituito un comitato allo scopo di raccogliere fondi per scongiurare il pericolo della perdita dell’immobile e avviare le pratiche per la dichiarazione di vincolo. Quest’anno, il 19 settembre 2015, l’Associazione per Bonaria Manca, nata dal comitato disciolto dopo aver conseguito gli scopi prefissati, nella stessa cornice istituzionale ha organizzato un’altra giornata dedicata all’artista e ha potuto riferire che gli obiettivi sono stati raggiunti: le insolvenze sono state sanate (l’artista, che non ama affatto vendere le opere, ha eccezionalmente accettato di cedere alcuni dipinti) e il Ministero ha dichiarato che la casa d’artista della pittrice è sottoposta a dichiarazione d’interesse (definizione cha ha sostituito quella di vincolo) e tutela. Il titolo della manifestazione, L’arte di Bonaria Manca e la sua casa dei simboli. Un patrimonio da proteggere era quanto mai significativo perché, ora che il pericolo della perdita materiale della casa è scongiurato e che le istituzioni hanno riconosciuto il suo valore culturale, c’è il rischio di un’altra e non meno grave perdita. Come messo in luce nell’ultimo convegno dell’ European Outsider Art Association, la conservazione degli ambienti outsider non
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ha quasi nulla a che vedere con la conservazione degli ambienti artistici tradizionali ed è problematica per la loro stessa natura: per i materiali usati e per i luoghi in cui si trovano. Ci si chiede persino “se” conservare qualcosa che, alla scomparsa del suo autore, perde completamente di significato. Non è questo il caso di Bonaria, piuttosto c’è il rischio di congelamento di uno spazio vitale e artistico che, per essere valorizzato, dovrebbe invece essere inserito in un circuito virtuoso di conoscenza del territorio, come parte significante di esso. Evitando le trappole della valorizzazione come messa a reddito e l’arruolamento di Bonaria Manca in mondi di artefatta notorietà che non le si confanno. Questa sì sarebbe la perdita più grave. La giornata si è aperta con la proiezione del film L’isola di Bonaria (2015) di Luigi Simone Veneziano, che dà la parola a vecchi e nuovi amatori dell’opera dell’artista e un documentario è stato proiettato anche a chiusura dell’incontro: La sérénité sans carburant (2004) della regista francese Marie Famulicki, documento importante per comprendere l’universo di Bonaria, che vi racconta di sé e della sua cultura antica in modo coinvolgente. Tra queste due proiezioni, hanno dato il loro contributo studiosi e appassionati: i membri dell’associazione, tra cui il presidente Maurizio Fiasco e Maria Rita Fiasco, che ha condotto i lavori. E poi la nipote Paola Manca e Dominique Queloz, restauratrice e amica di lunga data dell’artista; Maria Vittoria Migaleddu, presidente dell’Associazione Culturale dei Sardi a Roma ed Ettore Serra, presidente dell’Associazione Sarda Domus, che seguono un progetto di museo virtuale dedicato all’artista; e Ulderico Santamaria, che ha messo in luce il carattere effimero dei materiali utilizzati nell’arte outsider e la necessità di una “conservazione preventiva”. Secondo Roberta Trapani, storica dell’arte e da molti anni studiosa dell’opera di Bonaria Manca, i progetti più urgenti a cui si sta
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lavorando affinché questa casa-museo non resti inerte sono essenzialmente due: una catalogazione minuziosa dei dipinti e dei tessuti che sia affiancata da supporti sonori che registrino la voce di Bonaria che racconta ciò che si incontra nella ‘casa dei simboli’ e - perché no? - i suoi canti, opere immateriali ma fondamentali per comprendere il suo mondo e la sua espressione. Il secondo versante prevede la creazione di una rete di itinerari d’arte nella Tuscia, che leghino luoghi come il parco dei Mostri di Bomarzo, il giardino di Daniel Spoerri sull’Amiata, quello di Niki di Saint-Phalle a Garavicchio, con altri che sono fuori dell’arte istituzionalizzata - come la casa di Pietro Moschini, scultore outsider tuscanese, aperta in occasione di questa giornata. Secondo Trapani l’arte di Bonaria, così radicata nella sua biografia e nella sua terra, ha tutta la forza conturbante dell’Art Brut: se si vuole conservarla e renderla viva bisogna anzitutto aderire al suo messaggio che è di ‘continuare a immaginare’. La pittrice era presente durante tutta la manifestazione e - nonostante l’età veneranda e l’aspetto meno fiero di un tempo - nei suoi interventi parlati e cantati ha mantenuto intatta la sua grande forza. Non credo le interessino le classificazioni (art brut, art naïve, arte irregolare...), ma sono certa che le interessi ancora essere considerata una persona libera ed autentica. Per questo è necessario usare molta cautela nel trattare lo straordinario patrimonio visivo e sonoro che ci regala, fragile come tutti i doni delle anime non allineate.
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La tutela possibile. L’esempio del ‘castello incantato’ di Filippo Bentivegna di Lorenzo Madaro
Un convegno e un nuovo micromuseo a Sciacca mettono in luce l’inizio di un processo di valorizzazione scientifica del famoso sito siciliano
Un angolo del giardino di sculture di Filippo Bentivegna
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Era necessario il convegno Outsider Art. L’Altro dell’Arte dedicato alla straordinaria figura di Filippo Bentivegna, ma non solo - che si è svolto proprio al Palazzo Comunale di Sciacca, all’indomani del riconoscimento di bene storicoartistico apposto dalla Regione Sicilia al suo straordinario Castello incantato. Ed essenzialmente per due ragioni: per le prospettive di studio e valorizzazione del sito che sono emerse dalle relazioni degli studiosi coinvolti, ma anche per connettere idealmente storie e vicende legate alla tutela di questi luoghi “altri” sparsi per il Paese, aspetto questo primario per una messa in rete del tutto auspicabile anche per sollecitare, in tal senso, la legislazione dei beni culturali. Le due giornate di studi, promosse dalla Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento il 27 e 28 giugno scorsi, sono state organizzate anche grazie alla collaborazione scientifica dell’Osservatorio Outsider Art di Palermo diretto da Eva di Stefano, curatrice tra l’altro del
recentissimo convegno internazionale Heterotopias che si è tenuto tra Palermo e Messina prima dell’estate 2015. Nel 1919, al suo ritorno in Sicilia dopo il soggiorno negli States, come ricordano le biografie che lo riguardano, Bentivegna avvia il suo straordinario progetto scolpendo centinaia di teste che daranno vita al suo capolavoro nell’agro del paese1. Dopo diverse vicende e i restauri discutibili del percorso che si dipana tra i gruppi scultorei, che hanno cambiato certamente la percezione dell’intero giardino di pietra, anche per la stretta vicinanza con strutture architettoniche non esattamente integrate con il paesaggio, con il riconoscimento attuato dalla Soprintendenza2 guidata da Caterina Greco e la stretta collaborazione scientifica di Rita Ferlisi - a cui si deve l’organizzazione del convegno -, si è inaugurato contestualmente un piccolo spazio museale dedicato alle opere mobili del Bentivegna. Allestito con cura, con apparati biografici e coordinate efficaci sulle radici e le modalità
Particolare della pittura murale all’interno della piccola casa
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Sculture in pietra nel piccolo museo annesso al “Castello Incantato”
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d’espressione dell’Outsider Art, lo spazio propone documenti fotografici e video e una selezione di sculture di Bentivegna, provenienti da collezioni private, restaurate per l’occasione3. Una lectio magistralis dello psichiatra Vittorino Andreoli, membro della Compagnia dell’Art Brut dal 1966, ha aperto il convegno con uno sguardo dilatato, tra questioni propriamente cliniche, analisi antropologiche e culturali, avanzando sollecitazioni su cui poi si è molto discusso. E se Lucienne Peiry, direttrice della Collection de l’Art Brut di Losanna dal 2001 al 2011 ha puntato l’attenzione sulle opere del Bentivegna custodite nel museo, Eva di Stefano si è concentrata sul confronto tra i “due Bentivegna” - Filippo e Salvatore detto “il Moro”- anche con ampi confronti con la cultura figurativa indigena, Giorgio Bedoni, psichiatra e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera ha analizzato la collezione Prinzhorn di Heidelberg; Giulia Ingarao, storica dell’arte, ha ripercorso la letteratura critica - tra storia e leggenda, sottotitolava il suo intervento - su Bentivegna, mentre l’antropologo Sergio Todesco ha proposto una riflessione sulle “Immagini della follia nella cultura popolare siciliana”. Chi scrive ha tracciato invece una prima ricognizione sull’attività di Ezechiele Leandro, outsider salentino in via di riscoperta, anche in seguito al vincolo della sua casamuseo e del suo Giardino della pazienza a San Cesario di Lecce, mentre Umberto Marsala, presidente della locale sezione di Italia Nostra, ha sottolineato le problematiche relative al rilievo architettonico del Castello incantato.
Particolarmente interessante, anche per le pratiche legate a un processo di rigenerazione urbana dal basso, l’intervento di Pier Paolo Zampieri, docente di sociologia urbana nell’ateneo messinese. Lo studioso è infatti parte integrante di un gruppo che da anni studia e cerca di valorizzare il sito messinese di Cammarata. E proprio con una riflessione diffusa sulle prospettive di recupero del complesso del Castello incantato - con una tavola rotonda a cui ha partecipato la storica dell’arte Paola Capone, con altri relatori, tra cui la soprintendente Caterina Greco - si è conclusa la due giorni, tra analisi, ricognizioni e auspici. La messa in rete dei siti siciliani, per esempio, sarebbe uno straordinario passo avanti: l’esempio illuminato delle istituzioni che hanno promosso la nascita del piccolo museo Bentivegna - in primis la Soprintendenza - andrebbe difatti perseguito.
Scultura in legno recuperata, tra le opere esposte
Sull’artista cfr. E. di Stefano, Pietre e sirene di Filippo Bentivegna, in Id., Irregolari. Art Brut e Outsider Art in Sicilia, Kalós, Palermo 2008, al quale si rimanda per una bibliografia completa a partire dal 1955.
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Cfr. P. Nicita, Il Giardino incantato diventa un monumento, in “La Repubblica”, ed. Palermo, 4 marzo 2015.
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3
Cfr. in merito il mio Outsider art da museo in Sicilia. A Sciacca apre quello dedicato a Filippo Bentivegna, l’artista del Castello incantato amato da Jean Dubuffet: ecco le immagini, in “Artribune.com”, 5 luglio 2015.
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GLI AUTORI DEI TESTI NOTE INFORMATIVE Marc Botlan, fino al 2014 curatore generale del patrimonio artistico francese, ha sovrainteso al restauro di importanti monumenti ‘irregolari’ come il Palais Idéal di Cheval e la Maison Picassiette a Chartres. Paola Capone insegna Storia dell’arte moderna e Storia delle arti grafiche all’Università di Salerno; si occupa di iconografia del giardino e del paesaggio mediterraneo; al centro dei suoi interessi la nozione di ‘abitanti- paesaggisti’ di Bertrand Lassus. Roger Cardinal, professore emerito dell’Università di Kent e uno dei maggiori esperti internazionali di Art Brut; dopo aver coniato il termine Outsider Art nell’omonimo volume del 1972, il primo studio in inglese sul tema, ha pubblicato numerosi saggi sulle arti marginali e su singoli creatori, curando dagli anni ‘70 mostre significative a Londra, New York e Parigi. Giada Carraro, storica dell’arte, vive presso Venezia e collabora a progetti di catalogazione con le soprintendenze venete; ricercatrice indipendente di Outsider Art, oggi dirige per le edizioni Sans Soleil la rivista spagnola on line “Bric-à - Brac” dedicata a questo tema. Laurent Danchin, saggista e critico d’arte, vive a Parigi; studioso di Dubuffet e autore di importanti pubblicazioni, è tra i maggiori specialisti internazionali di Art Brut, Outsider Art e creazioni autodidatte; è responsabile della redazione francese della rivista ‘Raw Vision’. Eva di Stefano ha insegnato dal 1992 al 2013 Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Palermo, ha fondato e dirige l’Osservatorio Outsider Art e l’omonima rivista. Rossella Faraglia, storica dell’arte, presidente dell’Associazione culturale “L’arte della memoria” di Roma; la sua passione per l’arte outsider è nata dalla conoscenza di Bonaria Manca e della sua “casa dei simboli” di Tuscania. Joëlle Jouneau è presidente e fondatrice dell’Associazione “Les amis de l’œuvre de l’Abbé Fouré”; vive a Saint- Malo (Francia). Sarah Lombardi, storica dell’arte, dirige dal 2013 la Collection de l’Art Brut di Losanna, con cui ha collaborato dal 2004 coordinando diverse esposizioni; ha lavorato anche come curatrice in Canada presso la ‘Fondation pour l’art thérapeutique et l’art brut du Québec’, a Montréal; ha al suo attivo diverse pubblicazioni sull’Art Brut. Lorenzo Madaro, docente di Storia e Metodologia della critica d’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, cura mostre e collabora per le arti visive all’edizione pugliese di “la Repubblica”. Teresa Maranzano, storica dell’arte e curatrice specializzata in Art Brut, vive a Ginevra dove coordina il progetto Mir’arts, il cui obiettivo è promuovere gli artisti svizzeri in situazione di handicap. Lucienne Peiry, storica dell’arte e specialista internazionale di Art Brut, ha diretto il museo della Collection de l’Art Brut a Losanna dal 2001 al 2011, oggi tiene dei corsi presso l’Università di Losanna; tra i suoi libri l’imprescindibile L’Art Brut (Flammarion, Parigi 1°ed. 1997) tradotto in diverse lingue, recentemente anche in cinese.
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Alba Romano Pace ha conseguito il dottorato in Storia dell’arte all’Università di Parigi I - Sorbonne; studiosa del surrealismo, ha al suo attivo la cura di mostre e numerose pubblicazioni; vive tra Palermo e Parigi. Marta Spagnolello, laureata in storia dell’arte, ha collaborato con la Galleria Rizomi Art Brut di Torino e svolto ricerche presso la Collection dell’Art Brut di Losanna; vive tra Capriolo (Brescia) e Losanna. Roberta Trapani, dottoranda presso l’università di Parigi X-Nanterre, studiosa e curatrice di Art Brut e Outsider Art, co-fondatrice del CrAB, tiene corsi di storia dell’arte presso le università di Parigi Est e Ovest.
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CREDITI FOTOGRAFICI
I numeri si riferiscono alle pagine della rivista da 16 a 23: Maria Muratore, Palermo 2015 27: Lucienne Peiry, 2014 da 28 a 35: Cartoline d’epoca, Archivio Association des Amis de l’oeuvre de l’Abbé Fouré, Saint- Malo (Francia) 37: Marina Sajeva, Palermo 2015 38: Antonio Lo Nardo, Palermo 2015 39: Naida Samonà, Messina 2015 43: Hidehiko Nagaishi; © Collezione Palais Idéal, Hauterives (Francia) 44: © Collezione Palais Idéal e DR/ Mémoires de la Drôme, Hauterives 45: Naida Samonà, Messina 2015 46: Gerhard Milting; © Museum Junkerhaus, Lemgo (Germania). 47, 49: © Jo Farb Hernandez, 2011 55: © Palais Idéal e DR/ Mémoires de la Drôme, Hauterives 60, 61: © Clovis Prévost, Hédouville, 1976 63: Jean-François Hamon; courtesy La Fabuloserie, Dicy (Francia) 64: Roberta Trapani, 2013 66: Courtesy Musée Robert Tatin, Cossé-le-Vivien (Francia) 67: Roberta Trapani, 2009 71: Emmanuel Georges;© Collezione Palais Idéal, Hauterives (Francia) 75: Emmanuel Georges;© Collezione Palais Idéal, Hauterives (Francia) 77,79: Roberta Trapani, 2015 81: PhIlippe Lespinasse, 2005 87: Archivio Laurent Danchin, Parigi 88 a sinistra: Pascal Brousse, 2015; Archivio Laurent Danchin, Parigi 88 a destra: Jean Pierre Faurie, Archivio Laurent Danchin, Parigi 92, 94-95: Courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 96: Maïna Loat e Dorine Besson, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 97: Claude Bornard; Collection de l’Art Brut, Losanna 100: Collection de l’Art Brut, Losanna da 105 a 113: © Eric Emo / Musée d’Art Moderne / Roger-Viollet; © 2015 Kiyoko Lerner / ADAGP, Parigi 115, 116: Marta Spagnolello, 2015; Biblioteca Universitaria di Losanna, sezione libri rari e preziosi 118: Olivier Laffely, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 119: Marie Humair, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 120: Collezione Osservatorio Outsider Art, Palermo 125: Jean-Marie Almonte, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 128: Morgane Détraz, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna 129: Claude Bornand; Collection de l’Art Brut, Losanna 131: Olivier Laffely, Atelier de numérisation, Comune di Losanna; courtesy Collection de l’Art Brut, Losanna
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134,136: Amélie Blanc; Collection de l’Art Brut, Losanna 140,141,142: © Murielle Michetti / François Burland 143: ©François Burland 147: ©Isabelle Amian 148: Archivio Masseria Spigolizzi, Salve (Lecce); courtesy Nicolas Gray da 149 a 151: Lorenzo Madaro, 2015 152,153: Archivio Masseria Spigolizzi, Salve (Lecce); courtesy Nicolas Gray 154: Carlo Bevilacqua, 2015 da 158 a 161: Sans Soleil Ediciones, Barcelona 2015 da 162 a 165: Editions Thierry Magnier, Parigi 2015 166,167: Francesca Bertuglia, 2015 168: Salvatore Bongiorno/ ZEP Studio, 2010 da 172 a 175: Lorenzo Madaro, 2015
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