Luce sul muro: un dialogo Merli, A. 2010, Un muro non basta, Edizioni della Meridiana, Firenze. Il libro può essere richiesto all’indirizzo
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Venerdi 23 settembre 2011, nell’anno della primavera araba, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha presentato formalmente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la richiesta di ammissione della Palestina come stato membro dell’organizzazione. Ora la richiesta farà il suo corso nelle stanze della diplomazia, dopo aver raggiunto il tavolo del Consiglio di Sicurezza fra l’entusiasmo dei tanti, lo scetticismo dei molti e il fastidio degli altri. Intanto la terra e la gente di Palestina continuano a fare i conti, ogni giorno, coi segni di un conflitto che rimane aperto, irrisolto. Fra questi, il muro di separazione, che a luglio 2011 ha raggiunto la lunghezza di 438 km rispetto ai 708 previsti, in gran parte all’interno dei territori occupati nel giugno 1967. Un anno fa, nell’ottobre 2010, è stato pubblicato un libro fotografico che documenta un viaggio lungo il muro di quasi sei anni. Oggi l’autore e il curatore di quel libro, intitolato “Un muro non basta” e pubblicato a Firenze da Edizioni della Meridiana, sono tornati a riflettere su quel muro in un dialogo fra la Toscana e la costa occidentale degli Stati Uniti. Andrea Merli – Federico, tu sai che ciò che mi ha spinto a fotografare il muro è il desiderio di fermare la luce che ogni giorno rivelava ai nostri occhi quei blocchi di cemento che andavano a dividere il territorio di Betlemme. Un muro massiccio, imponente, inarrestabile. Eppure, la luce che batteva su questo muro poteva e doveva essere fermata, raccolta, custodita. Era una luce preziosa, che si fermava sul cemento, incapace di raggiungere il terreno, perché raccontava una storia che non poteva essere ignorata. Allora sono sceso dalla terrazza e ho cominciato a camminare lungo questo muro, prima a Betlemme, poi a Gerusalemme, poi al nord della
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Cisgiordania, a Qalqiliya, Tulkarem. Dall’autunno 2004 all’estate 2010 ho messo insieme qualche migliaio di scatti. Di questi ne abbiamo scelti insieme 105, quelli che sono pubblicati sul libro. Anche tu, Federico, sei stato in Palestina, hai visto il muro. Ecco, partirei da qui. Quando lo hai visto coi tuoi occhi di uomo che arriva da fuori, che cosa hai provato? Federico Busonero -‐ La prima cosa che ho provato guardando il muro dalla macchina che mi portava dall’aeroporto di Tel Aviv a Ramallah è stato un senso di sgomento di fronte all’assurdità di una situazione che andava oltre quello che avrei potuto pensare di vedere, o di immaginare. Il checkpoint di Qalandiya non identifica soltanto la violenza della separazione di un popolo. E’ un assurdo storico. Come fotografo, l’incarico che mi aveva portato in Palestina richiedeva al mio sguardo di posarsi su altre cose, ma la violenza del muro era ed è dappertutto e non mi ha risparmiato. Il muro mi è rimasto dentro come un’esperienza mia, personale. Non lo guardavo come testimone di una situazione che riguardava altri, abitanti di un paese straniero, ma percepivo fin dallo sguardo una violenza indiscriminata che mi toccava da vicino, che segnava inevitabilmente la mia visione e che raggiungeva la mia coscienza di individuo. A. – Anche per me è stato così. Ricordo che quando guardavamo le fotografie alla ricerca di un percorso, in certi casi tu hai sentito l’esigenza di usare espressioni particolarmente forti. Per esempio, penso alla fotografia di quel divano che è un relitto, un rifiuto, uno scarto domestico, abbandonato sul ciglio della strada 60, all’altezza di Betlemme. Sullo sfondo si vede il muro e tu, davanti a questa immagine, hai detto ‘Questo è uno stupro del paesaggio, questo è lo stupro della Palestina’.
A margine della strada 60, 2009.
F. – Sì, ho usato questo termine riferito a quell’immagine, che ho ben presente. Quella scena esprime violenza. Sarebbe già una violenza vedere questa scena senza il muro, con quel divano
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abbandonato lì, fuori posto, fuori luogo. Il muro sullo sfondo, il palo, il divano… Il paesaggio è un bidone della spazzatura e trasmette un senso di abbandono della terra, perché la terra è stata occupata, è stata privata del suo valore intrinseco di appartenenza. La terra di Palestina è stata stuprata sotto tanti aspetti, sotto tante forme. Questa espressione forte, è vero, scaturiva da una visione sconsolata della Palestina che ho avuto viaggiando lungo il muro, ma anche all’interno, verso la valle del Giordano. Tutto questo ebbe un profondo impatto su di me. A. -‐ Un’immagine che tu mi hai aiutato a capire è quella che ho scattato senza afferrarne appieno il significato, sul momento. E’ l’immagine di quell’incrocio sulla strada 443 dove si vedono un semaforo, dei segnali stradali, una torre militare… in un quadro di periferia quasi indifferente. Di fronte a questa immagine, hai messo in evidenza il concetto di non-luogo.
Beituniya, 2010.
F. – Vedi, questo incrocio l’ho attraversato per la prima volta di notte, quando arrivai in Palestina e non capivo dove mi trovavo, cosa fosse. Poi ci sono ripassato diverse volte. Questa è la fotografia che io avrei fatto, se tu non l’avessi già fatta. Mi hai portato dentro una situazione fisica e mentale che per me era già lì. Per me questa è una fotografia importante non solo perché si vede il muro: se non fosse per quello, potremmo essere altrove, ovunque. Ecco perché ho parlato di non-‐luogo, riprendendo un concetto dell’antropologo Marc Augé. I non-‐luoghi sono luoghi di transizione, di passaggio, di collegamento dal punto A al punto B, luoghi che attraversiamo, luoghi che non sono mai destinazioni, luoghi che sono sempre mezzi e mai fini in sé. Nella fotografia c’è una freccia blu sopra il semaforo che indica verso il cielo; da un’altra parte c’è una freccia che mi dice che non posso andare a destra. C’è una cacofonia di simboli quasi astratta rispetto al luogo geografico in cui siamo. La fotografia ci parla dell’ambiguità di un luogo e l’ho associata alla fotografia degli incroci americani fotografati da Friedlander per esprimere la solitudine del paesaggio americano. I semafori, i segnali stradali… c’è un senso di spaesamento, di disagio, come se ci trovassimo in un
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luogo che è uguale a tanti altri luoghi. In realtà non lo è perché c’è il muro con la bandiera israeliana che lo identifica. Ma se tu lo rimuovi, potremmo essere ovunque. In questa immagine c’è un’altra cosa che mi ha colpito: è paradossale che io passi accanto al muro senza rendermene conto. La prima volta pensavo che fosse una prigione, un carcere. Poi, ho capito che era un’altra cosa. Non molto diversa, in effetti, ma un’altra cosa. Ecco la difficoltà di leggere il paesaggio in luoghi che fanno fatica a trovare una loro identità. A. – Oppure, potremmo dire, luoghi che hanno difficoltà a comunicare la loro identità per il timore di riconoscerla, per il timore di guardare il proprio riflesso. In questo ovunque non c’è nulla, se non semafori e cartelli che ci dicono la direzione che dobbiamo o non dobbiamo prendere. Indicazioni. Divieti. Muri. Regole. Sensi unici. Un ordine asfittico che fa a pugni col disordine del reale. Un ordine che, in questo caso, evoca il silenzio dell’oppressione, non l’esuberanza della libertà. Vorrei rivedere anche l’immagine del quartiere di Abu Dis, a Gerusalemme Est, dove una donna palestinese vestita in maniera pesante, da capo a piedi secondo la tradizione islamica più conservatrice, cammina in avanti, allontanandosi dal punto di osservazione. Sulla destra si vede un bambino che corre in bicicletta verso non si sa dove, davanti a un graffito ricco di simboli. Si vede un’arma, una scritta, un simbolo politico. Poi c’è il muro che chiude l’orizzonte. Questa è un’immagine abbastanza complessa perché è fatta di tanti elementi, densa di simboli. A differenza di prima, nel momento in cui ho scattato questa fotografia ho avuto la consapevolezza di cogliere una scena non soltanto descrittiva, ma anche evocativa di qualcosa di più, una scena che non ci mostra soltanto un momento, un istante, uno spazio, un luogo ben preciso con le sue coordinate spazio-‐temporali, ma una scena evocativa, per l’appunto, di una condizione.
Abu Dis, Gerusalemme Est, 2010.
F. -‐ Quello che dici è interessante. L’immagine di cui si parlava prima, quella dei segnali stradali, è opposta a questa. Intanto, lì siamo all’esterno del muro, si passa attraverso un non-‐luogo e non ci rendiamo conto dove siamo. Qui, invece, siamo dentro, all’interno del muro. Questo è il compito
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del fotografo che deve andare oltre il visibile, oltre la superficie delle cose. E qui hai colto una sintesi non solo del luogo, ma anche della disperazione di questo luogo. La fotografia è perfettamente bilanciata. Ci sono tre elementi che attirano il mio sguardo: sulla sinistra c’è la donna che è schiacciata da questa situazione e va verso il muro, verso il suo destino. Anche il ragazzo va in una direzione che non sappiamo quale sia, anche lui è chiuso come lo è la donna, ma vanno in direzioni opposte. E qui potremmo anche leggere una cesura, una sorta di incomunicabilità fra generazioni diverse, eppure prigioniere allo stesso modo. Poi c’è questa porta, che ancora ci dà un’idea di chiusura, e poi ci sono i segni sul muro di una casa, il mitra, una scritta. Qui vediamo che un muro domestico, inoffensivo, si tinge di simboli di resistenza e anche di violenza. Ma perché? L’immagine ce lo mostra, il perché: c’è un altro muro sullo sfondo, ben più grande e minaccioso. In questa fotografia dove si vedono due persone che si muovono c’è il dramma di un’intera popolazione che è stata privata della sua libertà di movimento. Di nuovo, ecco perché questa fotografia è opposta all’altra, dove si vedono ampi spazi per il movimento, le strade, ma non c’è nessuno che si muove. Le due fotografie messe accanto esprimono la condizione fuori/dentro. A. -‐ Aprendo il libro in questo momento, a circa un anno di distanza dalla pubblicazione, c’è un’immagine che ti colpisce, che ti attira, che trovi ancora attuale, magari di cui abbiamo parlato poco?
Qalandiya, lato nord, 2010.
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Qalandiya, lato sud, 2006.
F. -‐ La forza del libro è di aver colto la complessità della situazione sociale, economica e geografica nello spazio e nel tempo, scandita nella progressione di questo muro. Per esempio, un’immagine che porto dentro di me è quella della coppia che cammina verso il checkpont di Qalandiya. Qui non c’è solo il muro, ma si vede un contesto sociale in cui l’uomo cammina avanti e la donna segue dietro, è una scena che apre tutto un discorso sulla società palestinese rinchiusa in questo muro. Così come l’immagine successiva, in cui la costruzione fisica del muro contrasta fortemente con le piccole figure di cinque persone, che diventano quasi delle silhouettes. Se rimuovi le persone, questa diventa una semplice fotografia di documentazione. Ma le persone aumentano il carico espressivo dell’immagine nel momento in cui esprimono lo schiacciamento dell’individuo. Le persone ci sono, ma spariscono, vengono chiuse, murate dentro. Direi che queste due immagini sono complementari. La prima ci fa capire che esiste una società palestinese, coi suoi problemi aperti, certo, ma è una società che esiste. Qui, nella seconda immagine, la società sparisce. Si vedono solo persone distanti, in fila, schiacciate. La società non si vede più, scompare. Questa fotografia non è solo un documento sul muro, ma su una società che viene scardinata, frammentata, polverizzata dal muro. A. -‐ Secondo te, qual è il ruolo del fotografo in un contesto come questo? Che cosa deve fare, che cosa può fare, che cosa ci si deve aspettare da un fotografo? E’ sufficiente fotografare? Il fotografo è qualcosa di più di una figura che ferma la luce, la raccoglie e la mette da parte. F. -‐ Non c’è una risposta univoca. Non è solo cercare la luce che mette in evidenza quello che ci sta davanti. Il fotografo rappresenta, o dovrebbe cercare di rappresentare, la cattiva coscienza del mondo. Perché si interroga su quello che ha davanti. E su quello che noi facciamo qui, in questo momento. Questo è il suo ruolo, se si può parlare di una fotografia che costruisce una realtà. Come fotografi del reale ci assumiamo una responsabilità enorme. Ho parlato di coscienza perché la fotografia implica necessariamente una scelta etica. Questa è la forza del fotografo, il dovere e
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anche la solitudine del fotografo. Io credo che sia un viaggio molto solitario, quello del fotografo, che diventa un testimone scomodo. Questo tipo di lavoro può essere fatto in molti modi, anche attraverso la fotografia. Da queste fotografie si vede che il dolore dell’altro è diventato anche il tuo dolore. A. -‐ Condivido quello che dici, per quanto sia complicato metterlo in pratica. Il fotografo non è un collezionista di luci, come se fossero farfalle. E’ un soggetto pensante, inserito in un contesto, che compie una serie di scelte, non solo tecniche ma anche etiche. Sono scelte difficili che comportano responsabilità, ma anche solitudine, è vero. Un’altra cosa che mi chiedo è questa. Si può parlare, secondo te, di un’estetica del muro? Come sfuggire alla trappola di celebrarlo in qualche modo, questo muro, anche involontariamente? Come evitare di fare il gioco del muro nel momento in cui si colloca al centro di un progetto fotografico? Il muro non corre il rischio di diventare un soggetto di studio per l’appagamento intellettuale di osservatori privilegiati che arrivano da fuori col loro bel passaporto, senza le restrizioni che vincolano gli abitanti? So bene che questa domanda è molto scomoda, spinosa. In questi luoghi un osservatore occidentale ha il privilegio di passare abbastanza agevolmente da un lato all’altro del muro. Questo tipo di problema mi mette in crisi. F. -‐ Sai, ci sono due piani su cui credo di poter affrontare questa domanda. Uno è esclusivamente fotografico, mentre l’altro è più tecnico e riguarda il lavoro documentario portato avanti dalle agenzie delle Nazioni Unite, per esempio. Quello che accade sul terreno viene descritto nei loro rapporti in modo molto preciso, forense, analitico, come è giusto che sia. Dall’altra parte c’è il lavoro del fotografo. Il rischio che il muro offra la sponda a una sorta di compiacimento estetico c’è. Ma credo che sia un rischio trascurabile, o quantomeno accettabile, vista l’enormità della situazione che stiamo affrontando. La Palestina è un luogo fortemente simbolico. Il conflitto è una ferita aperta. Il rischio di estetizzare la violenza esiste in Palestina, in un contesto che ha una potenza visuale e concettuale fortissima, ma non solo in Palestina. Non è facile esserci, non è facile fotografarlo e nemmeno parlarne, però dobbiamo farlo. Io non vedo nelle tue fotografie un compiacimento di tipo intellettuale. In altri casi ci possono essere situazioni dove si può trarre un vantaggio da una situazione così potente. Comunque, è un rischio che dobbiamo correre. A. -‐ La mia domanda rimane sospesa. Ma sono disposto a correre questo rischio se l’immagine arriva a toccarti, a porti una domanda, a interrogarti. Tu puoi accostarti a un’immagine sulla base di considerazioni molto diverse, a partire dal fatto che può essere esteticamente interessante. E’ un rischio che vale la pena di affrontare nel momento in cui la fotografia crea un incentivo a considerare un problema, a considerare un contesto che altrimenti resterebbe al di fuori delle nostre percezioni, del nostro spazio mentale. Credo che il rischio dell’estetica del muro sia una declinazione dell’estetica del dramma che si presenta in tanti contesti del mondo: guerre, carestie, epidemie, stragi, calamità naturali. C’è un’estetica di fronte a tutto questo che esercita un’attrazione su di noi, non possiamo ignorarla. E’ un terreno molto, molto scivoloso quello su cui si muove il fotografo che decide di affrontare questo genere di soggetto. Però, alla fine, l’immagine fa il suo lavoro quando arriva a posarsi davanti agli occhi di qualcuno e a consegnare la sua domanda. F. -‐ Andrea, questo mi porta a un’altra osservazione. Ogni immagine che noi facciamo suscita a livello del cosciente un’esperienza estetica. Come ha detto bene Susan Sontag, le fotografie tendono per loro stessa natura a rendere le cose più belle di quello che sono, oppure più brutte di quello che sono. Proprio perché sono frammenti di realtà che isolano una parte dal tutto. A. -‐ … come se fossero pezzi colorati di un lenzuolo, che però in gran parte è grigiastro…
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Abu Dis, Gerusalemme Est, 2005.
Betlemme, 2009.
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F. -‐ Ma i soggetti delle fotografie possono anche essere pezzi di grigiastro, solo che in quel caso non vedresti le parti colorate. E allora potresti pensare, sbagliando, che il lenzuolo è tutto grigio. Il punto è che il tutto è sempre più grande di noi e di quello che vediamo. Prendiamo la tua immagine del muro che sale a serpentina. E’ un’immagine ben composta, quasi astratta, in cui si vede il muro che circonda un albero, poi continua la corsa lungo la collina. Di primo acchito, si può dire che questa è una bella fotografia, ben composta. Hai voluto far vedere la forma del muro, che è una forma geometrica, precisa. Questa è un’immagine, si potrebbe dire, che tende a estetizzare il muro. Anche un muro orrendo come questo, qui assume una forma astratta. Una persona che vede solo questa immagine può non percepire il dramma. Ma c’è un paesaggio che viene distrutto dall’avanzata di questo muro, intorno a questo frammento di realtà c’è altro e il libro ce lo mostra. Una persona che guarda soltanto questa immagine può apprezzarne l’ordine estetico. Però, intanto, si avvicina al contesto, sfoglia il libro e vede anche altro. C’è un punto essenziale: questa fotografia non viene proposta da sola, isolata, ma fa parte di un percorso approfondito attraverso un contesto complesso. A livello di progetto, tu non hai certamente voluto mettere in evidenza il muro come oggetto architettonico. Ancora, prendi quest’altra immagine. Anche qui si potrebbe porre lo stesso problema, anche questa può sembrare una bella immagine. D’altra parte, stiamo parlando dell’ambiguità e dei limiti della fotografia e dobbiamo essere consapevoli di questi limiti, come dire, naturali. La fotografia non pretende di esaurire il reale, non sostituisce l’esperienza diretta di un luogo e non appartiene solo al fotografo, ma anche a chi la guarda. In effetti, questo discorso riguarda l’identità dell’immagine fotografica e ci porta lontano. Però, qui non sei tu che hai visto il muro come oggetto estetico, come un pezzo di arredamento del paesaggio; semmai, può essere la percezione di chi guarda, senza conoscere, a orientarsi in quella direzione. Inoltre, attenzione, c’è un altro elemento che è parte integrante del lavoro e che non si può trascurare: la didascalia che ci dice che siamo a Betlemme. Mi segui? E allora viene immediatamente un senso di angoscia. Caspita, questa è Betlemme? Dov’è Betlemme? Betlemme non c’è più. Eppure, questo non è un carcere, questa è una città. Tu lo dici. E, in questo modo, riporti l’immagine al suo posto, la ancori al suo terreno, al suo luogo, frenando la fuga estetica di colui che guarda. A. – Sì, il tentativo è questo. Credo che sia importante che questo muro venga visto soprattutto da chi non lo conosce, da chi non farebbe attenzione a immagini più crude, per abitudine, timore o fastidio. Ed è importante che l’osservatore sia disposto a fare un percorso, ad abbandonare la pretesa di tirare conclusioni a partire da un’occhiata superficiale, passando da un’immagine a un’altra per mettere insieme un quadro che va oltre la singola impressione. A un livello più profondo, inoltre, potremmo dire che in queste immagini il demone c’è ma non si vede, nascosto dietro l’apparenza di un ordine estetico paradossalmente piacevole. Proprio come succede nella realtà. Andrea Merli / www.yoxphoto.com
Federico Busonero / www.federicobusonero.com
Una lunga esperienza in Palestina come operatore di progetti di cooperazione internazionale, dal 2004 al 2010, ha spinto Andrea Merli ad occuparsi di fotografia documentaria. Accanto al suo lavoro all’università di Betlemme, ha concepito e realizzato la campagna di sensibilizzazione “Un muro non basta”, promossa dal VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), che ha toccato 35 città in tutta Italia. Molti dei suoi progetti fotografici sono dedicati al Medioriente: Inside Out, Stones of Jordan, Rachel’s Tomb: an Alien in her Hometown? Diplomato al Master in Photojournalism and Documentary Photography del London College of Communication, è impegnato su progetti di documentazione fotografica, formazione e produzione di materiali per campagne informative. Oggi, vive in Toscana.
Nato a Grosseto, Federico Busonero si è formato come medico. Fotografo dal 1985, nel 1990 si è dedicato all’ambiente marino delle isole Fiji. Il risultato di questa ricerca fotografica è la pubblicazione di Fiji the Uncharted Sea (1996). Nel 2008 la rivista Italian Poetry Review del dipartimento di lingua italiana della Columbia University, New York, ha pubblicato l’articolo Visione e Interrogazione: Un Dialogo tra Poesia e Fotografia. Negli anni 2008-‐2009, su incarico dell’UNESCO e dell’OMS, ha realizzato due progetti fotografici nei Territori occupati palestinesi. Tra i suoi lavori figurano Permanent Blue Light, The Chapel of St. Ignatius, Foresta, Il Castagno, Sant’Antimo, The Land that Remains. Sue fotografie sono state acquisite dalla Biblioteca Nazionale di Francia e numerose collezioni private. Vive tra l’Italia e la costa occidentale degli USA.
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