Marcella Orefice
Come un muro di gomma racconto lungo
“Perche' Dio ha scelto la follia del mondo a confondere la saggezza e la debolezza del mondo a confondere la potenza...”
S. Paolo
Signor Presidente, nella speranza di ottenere piu' attenzione di quanta ne abbia avuta sino ad oggi in questo luogo dove sono costretto a vivere, mi rivolgo a lei con la presente, che, per conoscenza, verrà inoltrata in copia anche al Generale in capo della sezione terrestre del comando della flotta spaziale, nonché al segretario della sezione ricerca e sviluppo di Exodus21, dove ho prestato servizio come ricercatore per ben... dieci anni? Forse sono sette, ma non importa. Immagino che lei abbia già letto le mie note di servizio ed il mio curriculum vitae allegati; in caso contrario, mi permetto di raccomandarle di farlo prima di passare alla lettura della presente. Bene, ora vengo ai fatti, anzi al fatto che la mia vita e' praticamente finita, da quando il "Ductilius" e' stato brevettato ed impiegato nella costruzione degli scafi delle nuove navi destinate ai viaggi interstellari a lungo raggio. Lei si chiederà perché uno scienziato come me debba sentirsi finito nel momento in cui grazie a questo nuovo, rivoluzionario materiale viene avviata una nuova fase nella storia dei viaggi spaziali; bene, signore, abbia la pazienza di continuare a leggermi e lo saprà. Ricorda trent'anni fa il naufragio della S. Maria, nella cintura degli asteroidi? Quando si cominciò a parlare di stazioni orbitanti?
Avevo nove anni a quel tempo, e proprio allora ero stato sulla luna con mio padre, per il funerale del solo parente che ci fosse rimasto dopo la morte della mamma: mio zio Antony, che aveva lavorato lassù allo Smaltitore di rifiuti Archimede, ai margini del Mare delle Piogge. Era la prima volta che mettevo il naso fuori della Grande Cupola e quando, sbucando dalla caligine, la nave puntò la prua verso la piattaforma Selenia in costruzione e vidi le stelle, sebbene avessi visionato parecchie volte le olografie standard dello spazio interno, ebbene, le confesso che piansi di commozione. Era meglio che nel Planetario, incredibile e pur vero: lo spazio si stendeva di fronte a me limpido ed infinito, pareva ancora vergine, intatto come doveva essersi presentato secoli fa agli occhi del primo uomo che lo esplorò. Neppure le colossali cave di alluminio della Piana di Tycho che sorvolammo poi con la "pulce" lunare per arrivare allo smaltitore mi colpirono tanto quanto l'immensa e quieta immobilità dello spazio, e proprio in quel momento capii che quella sarebbe stata la mia strada, la strada delle stelle. Quando tornai a casa, fui preso da una passione furiosa: restavo per giornate intere nell' oloteca del mio blocco, visionando le registrazioni più antiche che potevo trovare, soprattutto quelle antecedenti il Grande Tramonto, quando non erano necessarie le cupole per poter vivere sulla terra.
La terra era azzurra allora e splendeva come un gioiello raro, contro il velluto blu intenso della galassia, talmente bella, che credo di dovere a quegli ologrammi, la voglia di diventare anche ingegnere aereospaziale, oltre che astrofisico: ero sicuro che sarei riuscito a costruire una nave capace di volare più in alto delle altre, più lontano, più veloce, alla ricerca di una nuova terra, tutta azzurra! Si dice spesso che solo i bambini sono pieni di fantasie, ma non fu così per me: crescendo, il mio sogno, invece di esaurirsi, diventò sempre più importante, ancor più della realtà, tanto che ero pronto persino ad inventarmela una realtà di sogno, pur di averla... forse perché mi chiamo Newton, Alex Newton, un nome che di per sé e' già tutto un programma! Il progetto Exodus 21 mi era sempre piaciuto, fin dai tempi in cui il primo accenno a suo proposito era parsa una follia. Mi ricordo l'espressione e le parole di mio padre a commento, come se lo avessi ancora qui, seduto di fronte all'olovisione: - Estrarre minerale dagli asteroidi e lavorarlo direttamente nello spazio! Questi sono pazzi! Prima Selenia attorno alla Luna, ora quest'altro coso orbitante attorno a Marte! Se continuano di questo passo, un giorno o l'altro ci verranno a dire che i piccoli omini verdi esistono davvero e noi fessi ci crederemo! Dovrebbero continuare col progetto "aria pura", invece di gettare i nostri soldi nel vuoto!
Che vuole, signore, mio padre era un tassista, non brillava certo per cultura e tutto quello che non aveva almeno quattro ruote, ben aderenti al suolo, e non fosse dipinto di giallo come la sua auto era fantascienza. Io, invece, ero diverso da lui; mia madre lo sapeva e, finché era vissuta, mi aveva accettato per quello che sono o, meglio, che ero. Vede, a me non sono mai piaciute né le arene né i gladiatori e nemmeno le sbronze di superextasis con gli amici, nei bordelli di New Los Angeles: a me piaceva leggere i vecchi libri, sa quelli di carta, rilegati, che conservano nei musei, nelle bacheche sotto vuoto? Riempivo la casa di squallide copie anastatiche di cartilene, pur di leggerne, e quasi tutti i miei momenti liberi li trascorrevo con loro, anche se mio padre aveva frainteso quel mio bisogno di conoscenza e mi chiamava "finocchio" e "smidollato", visto che preferivo Seneca o Yangari alle ragazze di Chinatown. Col tempo però, sebbene a malincuore si rassegnò all'idea di avere questo figlio "strano" - proprio così: strano! Arrivò persino ad anticipare la quota del costo dei miei studi iniziali, pur di togliersi d'attorno la mia faccia, finché col mio profitto e alcune borse di studio riuscii a pagarmeli da solo. E forse proprio perché mio padre era un uomo così attaccato alla terra, io fui sempre morbosamente attratto dal cielo, tanto che quando non leggevo o studiavo, stavo sempre col naso all'aria, a guardare in alto, fingendo di poter
arrivare con lo sguardo oltre la Cupola, oltre il grigio uniforme dell'atmosfera esterna non ancora filtrata, e più in su, fin dove le stelle erano nuovamente visibili, per inventarmi mondi lontani su cui la gente avrebbe potuto vivere come tanti secoli fa, alla luce diretta del sole e non delle alogene. La nostalgia, signore, la chiami come vuole: "nostalghia" "Sen sucht" – comunque un rimpianto malinconico, un desiderio struggente di cose belle, trascorse e lontane come la pungente sensazione di una corsa a piedi nudi sulla rena sottile o il colore del cielo in tempesta o il sonoro, verde silenzio di un bosco che vive, – fu, con la solitudine, la mia più fedele compagna di quegli anni. C'erano nell'immensità insondabile dell'universo altri mondi vivibili per noi? Certo, ma dove, come arrivarci? Decisi proprio allora che quello sarebbe stato l'unico scopo della mia esistenza: trovare il modo di raggiungere una nuova ipotetica terra azzurra. Studiai a fondo, mi diplomai e più tardi mi laureai niente di meno che con il professor Orlovski e poi con Senzani, insieme a quella serpe di Takeshi Yamamuri. Lo so che non dovrei parlare così del grande Yamamuri, il padre del "Ductilius", ma andiamo con ordine.
Quando compii ventisette anni, mio padre era morto da un pezzo, d'infarto in un bordello, ed Exodus21 era ormai una realtà orbitante. Non avevo più niente che mi tenesse legato a New L.A., ora che mio padre non c'era più ed i pochi amici che si erano laureati con me presto avrebbero raggiunto i loro centri per il perfezionamento, chi in una Cupola, chi in un'altra. Io mi ero già iscritto da due anni all'albo delle missioni speciali e Yamamuri con me, perché anche lui era solo al mondo e non aveva nulla che lo trattenesse in un luogo particolare. Così quando mi convocarono per un perfezionamento su Exodus21, su cui occorreva del personale scientifico, ci ritrovammo sulla stessa navetta che collegava la Grande Cupola all'orbita della stazione marziana. Stavo bevendo, seduto di fronte al vasto oblò della sala di ritrovo dello shuttle Pegasus, godendomi il panorama sempre esaltante dello spazio aperto, quando mi sentii sibilare negli orecchi: - Ho visto il tuo brutto muso anche se mi dai le spalle, Alex: nel cristallo! Yamamuri, la sua voce! Un'onda di repentino ribrezzo scosse i miei visceri e mi salì alla gola sotto forma di un groppo doloroso, capace di togliermi il respiro. Come paralizzato non mi volsi, mi limitai a sorridere pigramente all'immagine del suo viso sovrapposta a quella del mio, nel riflesso
concavo dell'oblò, e solo dopo un po' riuscii a ritrovare la voce: - Che cosa ci fai qui? - chiesi adagio. Ricordo che strinse quei suoi brutti occhietti obliqui nel rispondermi che anche lui era stato convocato per un tirocinio su Exodus e che sapeva che ci sarei stato anch'io: aveva letto il mio nome nell'elenco dei nominati. Io no, non avevo neppure sbirciato di sfuggita quella lista: non mi interessava sapere chi sarebbe partito con me, mi importava solo di iniziare il mio lavoro, di cominciare il cammino che mi avrebbe portato a raggiungere il mio sogno, a costruire la mia nave. Pensi, avevo già un nome per lei, l'avrei chiamata Gea: Terra, come gli antichi greci, perché avrebbe dovuto portare gli umani in una nuova terra appunto, azzurra e vivibile. Yamamuri non mi era mai piaciuto, ma in quel momento dovevo fare buon viso a cattiva sorte ed essere per lo meno cordiale: Exodus non era più grande di una Cupola standard e avremmo fatto più o meno lo stesso lavoro, quindi avrei avuto senz'altro la sgraditissima opportunità di incontrarlo. - Sono stato assegnato alla sezione ricerca e sviluppo, lo avevo chiesto espressamente. E tu? gli domandai, senza distogliere gli occhi dal buio tranquillo dello spazio. - Prova ad indovinare? - rispose, sornione.
Confesso che, nonostante i buoni propositi, provai un profondo senso di frustrazione e di rabbiosa impotenza, come quand'ero ragazzo, disarmato di fronte allo scherno crudele di mio padre. Takeshi Yamamuri era stato l'elemento disturbatore della mia vita fin dal college: io studiavo e lui copiava dai miei appunti; io sgobbavo in laboratorio e lui presentava con il suo nome, dopo averle ristese nel suo stile asciutto, le relazioni che abbozzavo io e che mi rubava appena poteva. Non e' che io non abbia mai reagito a tutto questo, ma vede, signore, io sono un uomo tranquillo: se fossi nato alla fine del ventunesimo secolo avrei di sicuro abbracciato la setta dei nuovi ecologisti, quelli che si ritirarono a vivere in ciò che rimaneva di Piccola Amazzonas e molto probabilmente sarei morto con loro, al sopraggiungere del Grande Tramonto. Non ho mai avuto la stoffa del gladiatore o del guerriero... Piuttosto dello scienziato o ancora, e la prego di non sorridere, del poeta, forse. Chi avrebbe mai creduto che era stata la mente di Alex, del mite Alex, a produrre di fatto quello che il brillante Yamamuri affermava essere suo? Non voglio dire con questo che non mi difesi mai, no. Imparai presto a tenere ben nascosti i miei lavori ed e' quindi facile dedurre che in fin dei conti anche Yamamuri fosse uno scienziato preparato, a cui bastava pochissimo per imparare.
Ma era ed è anche una di quelle pessime persone che hanno il dono di natura di potersi fare belle con le piume del pavone... Mi scusi, è un'espressione antica che sta a significare che lui, il grande Yamamuri, altro non e' che un bluff, un uomo intelligente sì, ma pur sempre un bluff. Una delle doti di base di un ricercatore e' la pazienza, credo: come sostenere altrimenti le delusioni dei primi esperimenti falliti, lo scherno di chi ti prende per pazzo appena affermi come tali realtà che hanno il sentore dell'incredibile? Ed io, che avevo sempre avuto pazienza - e con mio padre ce n'è voluta molta, mi creda - decisi che avrei continuato ad esercitarla anche su Exodus21, nei riguardi di Yamamuri. Il viaggio durò cinque mesi, durante i quali studiai e mi rilassai, e, grazie al cielo, vidi Yamamuri solo un paio di volte di sfuggita, perché di sicuro trascorreva il suo tempo libero nel bar-casino della nave; così non ci demmo fastidio, finché giunse il gran giorno dell'arrivo. Vedendo Exodus21 per la prima volta, confesso che provai un brivido: il genere umano aveva distrutto la Terra, stava trasformando la Luna in un corroso e spogliato immondezzaio: che cosa avrebbe fatto di Marte? Quanto avrebbe ancora sopportato la natura, prima di rivoltarsi contro chi ne aveva fatto scempio, prima di vendicarsi di noi? La stazione era là: un cilindro argenteo lungo circa una trentina di chilometri, largo più o meno tre,
apparentemente silenzioso e tranquillo, inquietante, addirittura alieno, contro lo spazio punteggiato di stelle. I tre giganteschi pannelli a specchio lunghi quanto la base stessa, cui la stazione doveva la sua illuminazione interna, nonché l'avvicendarsi virtuale delle stagioni, erano aperte nel vuoto come le elitre di un insetto mostruoso e riflettevano verso di noi i sinistri bagliori sanguigni di Marte. Ricordo che subito mi sentii a disagio, che provai un profondo senso di rifiuto nel mio intimo, come sempre di fronte alle manifestazioni clamorose della tecnologia più spinta, anche se poi ho vissuto di e per la tecnologia - ma non divaghiamo. Non dovevo lasciarmi suggestionare: forse Exodus a prima vista non sembrava il luogo più ospitale dell'universo, ma lì il mio sogno avrebbe potuto diventare realtà! Lì c'era il mio futuro, ormai! Dovevo star lì, se volevo non starci più, prima o poi! Sì, certo, ci sarebbe stato anche Yamamuri, purtroppo, ma era più importante il mio progetto o l'astio che nutrivo per quell' essere immondo? Per fortuna non lo vidi più, neppure dopo, quando, una volta attraccati allo spazioporto fummo divisi in gruppi e accompagnati ai nostri alloggi. I primi giorni furono pieni di impegni di tipo logistico.
Fummo alloggiati provvisoriamente in un edificio appena fuori la zona portuale, dove seguimmo un breve corso su come si viveva nella base e su come funzionava la burocrazia dell'Accademia delle scienze di cui facevamo ormai parte. Infatti Exodus21 era nata come colonia mineraria, ma in seguito era diventata anche un'importante sede scientifica. Dopo tre giorni ci condussero a visitare l'istituto e poi tutta la stazione, che da dentro, e dopo tali premesse, mi apparve molto meno sinistra di quanto avevo creduto in un primo momento, se non addirittura bella! Tre enormi "finestre" la attraversavano per tutta la sua lunghezza, in corrispondenza dei pannelli a specchio esterni che mi avevano sgomentato al mio arrivo, e permettevano una superba, fiammante veduta su Marte e su quella porzione di sistema solare. La superficie interna del cilindro era divisa in sei sezioni longitudinali, di cui le tre trasparenti si alternavano ad altre tre, atte ad ospitare gli insediamenti, o moduli, che componevano di fatto Exodus21. Noi scienziati vivevamo nella sezione Beta, i tecnici minerari nella sezione Alfa e nella terza sezione chiamata Gamma erano sistemate le colture e gli allevamenti, che fornivano cibo fresco, ed un completo centro ricreativo di vacanza. Mi adattai perfettamente alla gravità, che alle pareti era simile a quella terrestre, garantita dalla
rotazione costante della base su se stessa, e andava calando a mano a mano che ci si avvicinava all'ipotetica linea di altezza geometrica che attraversava il cilindro da cima a fondo: proprio a quel livello erano posti gli ambienti dove si poteva lavorare in assenza di gravità. Imparai prestissimo che vivere sulla base era molto meglio che vivere sotto una Cupola della terra, se non altro la visione dello spazio era assai più esaltante di quella della terra corrosa e sterile al di là del sottile schermo protettivo e filtrante che permetteva ai terrestri di sopravvivere. Ne fui così felice che mi dimenticai di Yamamuri. Mi gettai nel lavoro con un accanimento ed una passione che non avevo provato mai, anche perchè avevo splendidi collaboratori e colleghi, tutti, come me, bruciati dal sacro fuoco della passione, ma anche, come me, consapevoli che dietro tutta quella scienza e tecnologia c'era l'uomo, questo fragile, tenero animale che aveva osato vivere e giungere oltre il punto in cui la natura aveva posto barriere per lui invalicabili, l'animale a cui erano bastati solo 600 anni di vita tecnologica avanzata per distruggere il lento e sublime lavoro dei milioni di anni occorsi alla sua stessa specie per camminare eretta, dopo l'atto creativo di Dio, o di chi per Esso, che era durato invece solo sei giorni... "..Molti sono i prodigi, ma terribile quanto l'uomo non v'è nessun prodigio.." diceva Sofocle, millenni fa, ed aveva ragione, signore.
Dunque?... Sì, mi trovai bene su Exodus21; mi ambientai, tanto che decisi di fermarmici definitivamente quando il mio perfezionamento finì. Lavorai sodo e con profitto e nel giro di... mi pare cinque anni, mi ritrovai eletto membro effettivo dell'Assemblea delle Scienze Marziane, direttore di uno degli istituti più importanti e capii che quello era il momento di cominciare a parlare del mio sogno, quello della progettazione di un prototipo atto ai viaggi interstellari. Come per tutte le teorie a prima vista quasi impossibili, ci fu una certa resistenza da parte dei decani dell'Assemblea, laddove c'era stato entusiasmo, invece, tra i miei collaboratori; ma poi, visti anche i risultati che riuscivo ad ottenere con la mia equipe, ci fu un progressivo interessamento da parte del presidente e di qualcuno degli anziani dell'Accademia. Allora battei e ribattei, con tanta energia e convinzione che riuscii in fine a convincere anche gli altri. Gran giorno, quello! Fui elargito dell'autorizzazione a procedere e di due tra le più belle menti della terra, nonché dei fondi, per avviare il mio progetto "Gea", che all'inizio, però, in fase sperimentale, chiamai "Ramjet secondo". Le due belle menti appartenevano alla dott. Isabelle Bonnet, astrofisico, e ad un giovane astronauta ingegnere: il comandante Wilhelm "Willi" Schaefer, entrambi europei. Avevo trentatrè anni, l'età media del mio staff, lavoravo, ed i miei uomini con me, come un
pazzo, fino a sfinirmi, ma ero, anzi eravamo felici di rispolverare quel vecchio progetto del ventesimo secolo che era stato poi quasi del tutto dimenticato, tanto entusiasti da non sentire neppure la stanchezza. Isabelle, in special modo, portò nel mio laboratorio e nella mia vita un soffio d'aria pura. Io non avevo mai avuto esperienze importanti con donne perché non avevo mai avuto tempo per quell'aspetto della vita, e poi quelle che avevo conosciuto prima di diventare cittadino di Exodus21 non avevano mai apprezzato il mio amore per le belle cose passate e perdute: la poesia, la bellezza intrinseca della natura che vive! Donne della Cupola: volgari, divorate dalla smania del successo o dalle droghe, ed altre superficiali o gelide quanto i loro computer. Isabelle era diversa: non aveva dimenticato che dietro gli strumenti c'era il retaggio di tutti gli uomini da cui discendiamo, da quelli che avevano vissuto nelle caverne e poi nelle corti dei castelli, a quelli dei grattacieli fino alle Cupole, quelli che avevano combattuto con Cesare, con Mc Arthur, con Pratt e poi gli scienziati ed anche gli artisti che si erano sublimati in pura melodia e poesia ed infine, quelli che avevano intuito nell'orrida, folle bellezza di un dipinto di Bosh il preludio al Grande Tramonto, alla nostra grande follia. Isabelle lo capiva, come lo capivo io, e grazie a lei, per la prima volta nella mia vita, mi sentii
compreso, non più solo; allora inevitabilmente, irrimediabilmente, mi innamorai. Decisi che le avrei parlato dei miei sentimenti non appena avessi avuto qualcosa di importante da offrirle - e che cosa di meglio se non una nuova terra su cui vivere alla luce del sole? - Alex - mi dicevo -, ti ci vuole solo un pretesto, uno spunto, un aggancio logico: tieni duro e và avanti come Newton: cerca una mela! La cercai furiosamente la mia mela, signore, non trascurai nulla attorno a me, perché ero convinto che sarebbe bastato uno spunto semplice, la cosa più banale, magari l'indizio il più ovvio e scontato, per spronare la mia mente ed indurla al sublime atto del genio. Il Ramjet era stato in origine solo una teoria: il suo approfondimento avrebbe dovuto portare alla progettazione di un mezzo messo in orbita grazie ad una spinta iniziale fornita da un vettore tradizionale, che poi si sarebbe mosso nello spazio, grazie all'accelerazione costante fornita da un reattore nucleare; questo, "bruciando" gas interstellare, avrebbe raccolto il combustibile direttamente dallo spazio, durante il suo viaggio. Se volevo che questa teoria diventasse realtà avrei dovuto trovare "soltanto" il modo di progettare un motore atto ad accumulare le particelle di gas interstellare così rarefatto nell'universo - pensi, signore, meno di un atomo per centimetro cubo! - e, problema ancora maggiore, inventarmi un materiale nuovo, adatto
a sopportare l'usura cui un tale viaggio lo avrebbe sottoposto. Infatti, a causa della relatività, se la velocità di un veicolo raggiungesse valori luce o prossimi, quella delle particelle di materia interstellare che si trovano sospese nello spazio assumerebbe valori tendenti all'infinito, con il risultato che il veicolo verrebbe presto ridotto ad un colabrodo da quella gragnuola di proiettili incessanti. Intuivo che potevo farcela, avevo solo bisogno della mia mela, come l'altro Newton, e la trovai qualche tempo dopo. Ma prima, dopo anni di pace, durante i quali avevo quasi dimenticato la sua esistenza, ebbi nuovamente notizia dell'essere più spregevole dell'universo. Lessi la notizia sul giornale, dopo che ero stato assente dal mio laboratorio per un paio di giorni, a causa di un lieve malore, le mie solite emicranie che di tanto in tanto venivano a torturarmi: "... ingegner Yamamuri... nuovo motore a reazione nucleare... gran premio dell'Accademia delle scienze... " Le lascio immaginare la mia rabbia, signore! La mia delusione! Ancora era riuscito a rubarmi l'idea battendomi sul tempo! E io che volevo realizzare il mio sogno, per donarlo alla mia Isabelle! Quella notizia mi prostrò: come era riuscito quel malvagio a sapere che stavo lavorando ad un progetto simile? I progetti in fase sperimentale non erano di dominio pubblico ma protetti dal segreto. Che ci fosse stata una fuga di notizie
nell'ambito del Consiglio dei decani? O addirittura nel mio laboratorio? Impossibile: Willi era un amico fidato ed Isabelle... Decisi che sarei stato il più possibile prudente e che non mi sarei fidato di altri se non dei miei due amici. Eppoi Yamamuri, senza saperlo, mi aveva fatto un gran favore: ora i miei due problemi si erano ridotti ad uno solo: trovare un materiale nuovo, e questo forse poteva avvicinarmi ancor più alla realizzazione del mio sogno. Sapevo che Isabelle mi avrebbe aspettato, perché ora mi amava, me lo aveva detto. Era accaduto una sera d'estate, dell'estate fittizia di Exodus, di fronte al disco fiammante, appena incompleto di Marte che occhieggiava nel "cielo" del tramonto. - Quello e' l'Arsia Mons - le avevo detto, alludendo alla montagna che allungava ombre cremisi sul suolo dell'emisfero illuminato del pianeta visibile su di noi. - Se fossimo sulla terra e la terra fosse come un tempo, mi sarebbe piaciuto portarti sulle Alpi, Isabelle. Ho visto delle olografie: c'erano ghiacciai allora, e la gente si divertiva con la neve. Aveva sorriso, il suo splendido sorriso con le fossette. Pensai che mi sarebbe piaciuto un filo di vento tra i suoi bellissimi capelli bruni. - Possiamo sempre far finta che siano le Alpi! E perchè mi vorresti portare su una montagna? - aveva aggiunto curiosa.- Perchè ti mostrerei il mondo sotto di noi e ti direi...- esitai, ma il suo sguardo era buono,
mi metteva a mio agio: - Ti direi che... vorrei donartelo, il mondo, anzi, vedrai che prima o poi te ne donerò uno, perchè tu sei... importante per me e credo che... Oh, insomma! Io ti amo, Isabelle!... Aveva sgranato gli occhi e poi aveva sorriso, ancora, gettandomi le braccia al collo:- Alex... caro! - aveva detto felice - Anch'io... Ah, signore! Come potrei spiegarle la tenerezza di quel suo bacio, la dolcezza dei sui capelli tra le mie dita... la sua pelle di seta, senza diventare banale, mentre non c'era alcuna banalità nel mio amore? Sappia solo che da quell'istante sublime il mio mondo cambiò: non mi ero mai sentito così forte, signor Presidente, ora niente e nessuno poteva più spaventarmi, perchè c'era Isabelle con me, ormai, e mi amava! Avrei voluto che mio padre potesse vedere adesso il suo "strano figlio finocchio": un uomo completo, stimato e realizzato... amato! Non più solo, mai più! Ci sposammo dopo un anno... o due? non ricordo bene. Fu comunque dopo il mio secondo viaggio sulla luna, per controllare personalmente una partita di minerale che avevo ordinato per il laboratorio, estratto con un procedimento nuovo che ne avrebbe garantito la purezza assoluta e con il quale avremmo prodotto i primi campioni merceologici su cui compiere degli esperimenti. Sì, perché ora tutte le mie energie erano rivolte non solo alla mia bellissima moglie, ma anche alla ricerca di un materiale compatibile alle velocità
del motore Yamamuri, perché l'idea di trovare una nuova terra era comunque rimasta il mio grande sogno, ora più che mai con una donna al fianco con cui condividerlo! In quegli anni non mi risparmiai, tanto che Isabelle ad un certo punto si preoccupò, perché venne un momento in cui le mie emicranie aumentarono, ma io non me ne curavo e solo per farla felice accettai di trascorrere un periodo di vacanza su Gamma, per ritemprarmi dal lavoro. Le confesso che gradii moltissimo la vacanza, signore: sdraiato sotto un cielo fittizio, ma su erba vera, mi godetti splendide giornate di autentico riposo... autentico? Mica tanto! Per quanto facessi, non riuscivo a staccare completamente la mente dal lavoro. - Vedi? - dicevo a mia moglie, che non mi lasciava mai- E' stato sotto un albero come questo che Newton, quello antico, grazie ad una mela che aveva deciso di cadere, intuì la legge della gravitazione: ho bisogno di una mela, Isabelle... una mela... Lei mi accarezzava i capelli, sorridendo, senza dirmi nulla. - Hai mai notato come alcune tra le più grandi scoperte scientifiche sono avvenute per caso o grazie a qualcosa che di logico non aveva proprio nulla? - continuavo io - Il secchio con l'acqua di una inserviente ed una lastra fotografica ritenuta vergine e sviluppata unicamente per capriccio servirono per scoprire la radioattività e la struttura più intima dell'atomo. E ancora il
Generatore Magnitex delle Cupole: Medrol non lo progettò sulla base di un calcolo che per caso aveva sbagliato...? Isabelle: e se fosse il nonsenso, il caso per il caso, l'andare per assurdo, il vero arché della scienza? Pensa, tesoro, oltre il frattale: il caos e non la logica ordinata il grande motore dell'ingegno! La sera frequentavamo il circolo della colonia di vacanza dove si poteva fare di tutto: tennis, squash, piscina, pesca sportiva sul lago: c'era persino un campo da golf a nove buche, e poi biblioteca, oloteca, locali notturni e teatro. Isabelle era una patita di vecchi film, sa, quelli ancora non tridimensionali. Era una vera esperta: le piaceva il vecchio cinema europeo e fu proprio grazie a quel suo hobby che intuii la struttura di base del "Ductilius"... Sissignore: perché l'idea del Ductilius, anche del nome, fu mia, accidenti! E' MIA! E quello Yamamuri me l'ha rubata! Ma andiamo con ordine. Una sera Isabelle mi propose la visione di uno dei suoi film preferiti. Un film italiano, mi pare, la cronaca di un'inchiesta su un disastro aereo che era accadduto per davvero almeno tre, quattrocento anni fa e su cui non si era mai fatta luce perché le indagini nulla avevano potuto contro il muro di omertà eretto attorno al fatto, forse dagli stessi che avevano avuto oscure responsabilità proprio nella dinamica del disastro stesso. Si intitolava "Il muro di gomma" perché ogni indizio gettato contro quel muro di silenzio
per infrangerlo rimbalzava indietro, respinto come da un elastico muro di gomma... di gomma? Ma certo, la gomma, come avevo potuto non pensarci prima? Confesso che non riuscii in primo luogo a realizzare per intero quello che la mia mente per associazione di idee stava già intuendo ed addirittura cominciando ad elaborare. Eppure un'eccitazione strana mi colse allorché mi resi conto che era proprio di quello che avevo bisogno per lo scafo della mia "Gea": un materialebarriera capace di respingere gli infiniti, infinitamente piccoli proiettili che l' avrebbero aggredita, una volta lanciata nello spazio esterno. - Isabelle! - avevo gridato con voce roca - La mela... la mela di gomma! Come ho potuto non pensarci prima? Avrebbe dovuto vedere il viso di mia moglie, signore, la sua espressione sgomenta! Credo di averla spaventata con tutto quello strillare, ma poi, quando sempre eccitato ma più calmo le spiegai tutto per bene, capì e fu felice con me. Manco a dirlo tornammo al laboratorio il giorno dopo: dovevo parlare a Willi, che si era laureato con una magnifica tesi sulle leghe leggere, radunare tutta l'equipe e spiegare come dovevano essere indirizzati i nostri lavori da quel momento in poi: dovevamo abbinare le doti di elasticità e duttilità della gomma ad un materiale leggero ma resistente, adatto a ricoprire lo scafo di un'astronave in grado di procedere a velocità luce!
Un materiale capace di respingere le particelle interstellari, proprio come un muro di gomma! Diavolo, signore! era come ritornare ai tempi eroici di Fermi o di Medrol, ed anch'io, come Pierre Curie, avevo a fianco una splendida madame! Feci richiesta formale alla dottoressa Huong Lhi, chimico, Anziano delle università riunite di Mongolia, se volesse unirsi a noi nella ricerca e con mio massimo piacere accettò. Lavoravamo divisi in tre gruppi: io e Willi alla progettazione, Huong Lhi alla sperimentazione e Isabelle, la mia cara Isabelle, alla sezione astrofisica. Il mio laboratorio era lo stesso di tanti anni prima, quello che mi aveva entusiasmato al mio arrivo su Exodus, mentre Isabelle con i suoi lavorava due piani sopra, dove i macro-radiotelescopi della base scandagliavano senza posa l'universo. I laboratori di Huong e del suo gruppo, invece, erano stati sistemati al livello H, a gravita' zero. - Ti schiaccero', Yamamuri! - pensavo, mentre soddisfatto, giorno dopo giorno, vedevo procedere il mio progetto verso quello che sarebbe stato il successo più clamoroso della mia carriera. Yamamuri: quella specie di... puttaniere perverso, incapace della minima emozione di fronte al miracolo stupendo dell'universo vivente! Sarebbe arrivato secondo, questa volta! Ed io, lo "smidol lato, finocchio, parassita" lo avrei battuto sul tempo, finalmente!
Poi, d'improvviso, accadde di nuovo: la sua strada incrociò la mia, e questa volta nel peggiore dei modi, signore. Sono un uomo preciso, lo sono sempre stato: come potrei altrimenti fare il mestiere che faccio? Ho sempre tenuto in ordine tutti i miei appunti, con una meticolosità degna di uno di quei vecchi monaci che..., ma basta, altrimenti divago. Le dicevo dei miei appunti. Dunque una sera, prima di uscire per andarmene a casa, volli rivedere un' equazione che avevo tralasciato alcuni giorni prima - tralascio sempre un calcolo che non viene alla prima, per una questione di metodo: per non perdere tempo! - ed inorridii: i miei appunti, qualcuno me li aveva toccati, non erano più come li avevo lasciati io! In quel momento capii come deve sentirsi una donna violentata, signore! I miei appunti, conservati di solito in ordine cronologico - scrivo sempre la data e l'ora in alto, a destra di ogni foglio - tutti scompaginati, come se un gesto frettoloso e febbrile li avesse sconvolti. Chi poteva aver fatto ciò? In tanti anni il mio collaboratore più stretto, Willi, non si era mai permesso di usare del mio archivio, sebbene ne avesse il diritto, senza prima chiedere; eppoi, in quanto ad ordine, proprio lui, un tedesco... Come di fronte ad un ragno, signore: sa quella sensazione di angoscia repulsiva che a volte si prova alla loro vista? Lo stesso provai di fronte ai miei appunti violati, la stessa sensazione che
provavo di fronte a Yamamuri! Ma certo! Era stato lui! Come all'università: copiare i miei appunti, farsi bello con la mia fatica, ecco che cosa voleva, ecco chi era stato! Ma come, come aveva fatto? Sentii la mia fronte velarsi di gelido sudore: qualcuno dei miei mi tradiva! No, impossibile! Ma allora? Come aveva potuto un estraneo, di certo quel... quel maiale, arrivare sin lì? Dovevo stare attento, non fidarmi più di nessuno, di nessuno! Mi ricordai di Leonardo da Vinci, della sua scrittura speculare: avrei dovuto imitarlo, per confondere eventuali spie. Ovviamente col computer non potevo, ma registrai ogni mio scritto, anche il più banale, su nuovi files e cambiai tutti i codici d'accesso ai miei programmi. Non rivelai a nessuno, né ad Isabelle né a Willi, le nuove pass-words, per loro tranquillità e mia assoluta sicurezza: se qualcuno mi spiava, avrebbe dovuto faticare un bel po' per arrivare ai miei segreti! Feci anche un testamento: in caso di una mia morte improvvisa, solo mia moglie e Willi avrebbero potuto avere la chiave di un'anonima cassetta di sicurezza in cui era indicato come raggiungere un altro luogo segreto in cui veniva conservato un micro-disco con registrate le istruzioni per accedere ai miei archivi. Lo so che forse era tutto un po' troppo macchinoso, ma era l'unico modo per proteggere il mio sogno. Eppure non mi sentivo del tutto
sicuro: quel diavolo di Yamamuri poteva escogitare qualsiasi cosa pur di rovinarmi. Lo so che mi ha sempre odiato, perché nel suo intimo, pur disprezzandomi, é sempre stato consapevole che sono migliore di lui! Così, per la tensione, le mie emicranie peggiorarono, ma non lo dissi a nessuno, perché forse il mio nemico aspettava solo quello: che cedessi con i nervi per distruggermi, definitivamente. - Devo stare calmo!- mi dicevo - Questa volta non riuscirà a fregarmi. Sì, cercavo di essere tranquillo, di restare tranquillo, eppure, nonostante i miei sforzi, la notte, appena chiudevo gli occhi, il ghigno sardonico di quella bestia mi si parava di fronte, contro il buio tranquillo delle mie palpebre abbassate. Allora, con un moto improvviso dell'anima, una sorta di frenesia cominciava a crescere dentro di me, al ritmo del mio cuore accelerato, avvelenando i miei pensieri, pulsando contro le mie tempie, fino a farle dolere ferocemente. Si faceva angoscia, la più desolante... E se avesse vinto ancora lui? Se fosse riuscito a rubarmi anche quel progetto? Il mio sogno, addirittura? In quei momenti mi sentivo vulnerabile, come di fronte a mio padre, ai suoi insulti, e sentivo la mia sicurezza dileguarsi. Solo con grande sforzo riuscivo a ricordare che ero uno dei più importanti scienziati non solo di Exodus, ma anche di tutto il
mondo, che non ero solo, che c'erano Willi ed Isabelle, i miei cari collaboratori, che avevo la loro stima, il loro amore. Allora riuscivo a ritrovare un po' di pace e a dormire. Ma a volte neppure il sonno riusciva a sciogliermi per qualche tempo dai miei problemi: incubi spaventosi mi torturavano, tra cui uno, ricorrente, il più terribile, in cui mi trovavo in una stanza buia, senza porte e senza finestre, in cui intuivo aleggiare, nel tanfo dolciastro come di materia putrescente, qualcosa di terribile che non riuscivo a definire: una presenza maligna e oscura, il raschio sinistro di un diabolico respiro che mi incuteva un terrore che andava oltre quello atavico del buio e dell'ignoto. Poi d'un tratto, mentre tentavo disperatamente, brancolando, di trovare una via di fuga da quel luogo maledetto, su una delle pareti cominciava ad aprirsi un foro, che pian piano andava allargandosi come l'otturatore di una macchina fotografica e diventava sempre più grande, sempre di più, fino ad assumere le dimensioni di una larga finestra circolare, da cui entrava copiosa una luce violentissima. Abbagliato, non riuscivo a vedere l'esterno, verso cui volevo correre senza riuscirci, perchè il terrore, anche solo di intravedere la "cosa" orribile nascosta nel buio, mi paralizzava; allora serravo gli occhi, urlando disperato, mentre già il rantolo sconosciuto mi ghermiva come un gelido artiglio, e proprio a quel punto, mentre stavo per essere sopraffatto, la
mano gentile di mia moglie mi riportava alla realtà quieta della mia camera da letto. Vede, signore, avrei anche potuto sentire il parere di un medico, come mi suggeriva Isabelle quando mi vedeva, agitato, cercare rifugio nel suo abbraccio rassicurante, ma sa come sono i medici: se ti resta il pranzo sullo stomaco, tanto da non farti dormire bene, ecco che loro vanno a frugare nel tuo passato, ti dicono che ti succede così perché tua madre... o perché tuo padre... e bla, bla, bla... Ero solo stanco, forse lavoravo troppo, questo è vero, ma da qui a dire che avevo dei problemi gravi ce ne passa, signore! E poi non potevo prendermi vacanze, neppure brevi, dopo quello che era successo! Così finii col tenere per me, almeno quando riuscivo a controllarle, le mie reazioni involontarie, i miei incubi, i miei timori. Poi un giorno, mentre mi trovavo al livello H con Huong Lhi per il collaudo di un campione, Isabelle irruppe tutta eccitata, volando letteralmente, nel vasto salone. - L'ho trovata, Alex! - strillò felice - Ho trovato la nuova terra! Confesso che piansi. Sono un emotivo, lo avrà gia capito, signor Presidente, ma provi ad immaginare quello che provai nel mio io più profondo: quasi mille anni fa una Isabella regina aveva dato tre navi ad un uomo affinché partisse alla ricerca di un nuovo mondo, ed ecco che ora la mia Isabelle
mi dava un mondo nuovo, da raggiungere non appena avessi finito di approntare la mia nave! L'effetto di quella notizia mi scese fin nel profondo, annullando tensioni e paure: solo pura gioia di essere vivo, di esserlo lì, in quel momento, per quel momento con mia moglie. Già dal ventesimo secolo, come forse lei sa - ma ne dubito, perché voi politici, per ciò che esula dagli intrighi di potere, di solito preferite avere un consulente che si informi e poi riferisca -, erano stati compiuti studi per individuare o comunque stabilire dove potesse esserci un pianeta con caratteristiche il più possibile simili alla Terra, visto che ci si era resi conto che per trovare pianeti adatti alla vita umana, bisognava spingersi al di fuori del nostro sistema solare. La ricerca era stata circoscritta ad un'area compresa nei limiti dei dodici anni luce, per ovvie ragioni di spazio-tempo. Isabelle aveva voluto iniziare proprio da capo, dal sistema stellare triplo di Alfa Centauri, il più vicino, che dista dalla terra solo 4,3 anni luce. Scartata a priori Proxima, la terza stella del sistema, perchè troppo poco luminosa, la sua ricerca si era poi concentrata sulle due altre stelle del sistema, meglio conosciute come A e B, di massa praticamente uguale a quella del nostro sole e di luminosità molto simile. Era logico supporre che queste due stelle avessero dei pianeti che ruotavano nella loro orbita: non mi dilungherò a spiegarle come mia moglie ci riuscì,
sarebbero tecnicismi inutili in questa sede; vorrei solo poter rendere con le mie parole il sorriso radioso del suo volto nell'annunciarmi che il nostro sogno s'era fatto ancora più vicino. Era il secondo pianeta di Alfa Centauri B: chissà se c'erano forme viventi? - Chissà se c'è una civiltà, lassù? - mi chiese Isabelle, prima di addormentarsi, quella sera. - Chissà che cosa escogiterà Yamamuri se lo viene a sapere, per prendersi il merito anche di questo? - pensai tra me e me, inquieto. Convinsi tutti ad attendere un'ulteriore conferma dell'idoneità all'insediamento umano del nuovo pianeta, prima di dare l'annuncio ufficiale della scoperta. In realtà le sue caratteristiche erano già esaurientemente documentate, perché Isabelle era una scienziata scrupolosissima che non avrebbe mai resa pubblica la notizia di un qualcosa che non fosse stato prima verificato con cura: ma io volevo prendere tempo, dovevo proteggere quel nuovo successo dal mio nemico. Ed avevo ragione; infatti non era ancora passata una settimana dal giorno di "Azzurra" - avevamo battezzato così il nuovo pianeta- che accadde un fatto gravissimo, subito dopo il mio sonnellino pomeridiano: il mio studio, signore, manomesso! Non solo: le mie carte, un cuscino che tenevo appoggiato allo schienale della mia poltrona, alcuni libri, una trigrafia di Exodus: tutto dilaniato e sparso per la stanza, come se un cane rabbioso
avesse sfogato contro di loro un momento di sconsiderata follia. Confesso che ebbi paura e mi misi a tremare come una foglia. Non di meno bloccai la porta, affinché nessuno potesse entrare, ed esaminai sgomento quello sfacelo. Dovevo avvertire le guardie della sicurezza - il nostro lavoro dipendeva direttamente dall'alto comando della flotta, signore, non era più solo una questione di competizione tra scienziati: quello era sabotaggio! Ma proprio mentre stavo per azionare l'intercomunicatore, lo sguardo mi cadde sulla cosa, piccola, luccicante, seminascosta dalla resina espansa sbranata di quello che era stato il mio cuscino. Tolsi la mano dalla tastiera e la tesi verso il pavimento. Era una piccola chiave, di metallo dorato, come cento altre comunissime chiavi che servono ad aprire la porta di un alloggio, di certo però di uno privato, perché c'era anche una mascherina elettronica, fissata con una catenella, come per tutte le chiavi dei blocchi di soggiorno. Ansioso, corsi al decodificatore e la inserii. Era proprio quello che sembrava: una chiave, la chiave questa poi! - di un alloggio della sezione d'accoglienza di Exodus. Come poteva trovarsi lì nel mio studio, all'istituto? A meno che non fosse stata perduta proprio dall'esecutore materiale di quel disastro... Chiamai Willi e lo pregai di venire immediatamente da me. Lo misi al corrente di
tutto e lo pregai di non dire niente a nessuno fino al mio ritorno, di avvertire Isabelle che forse non sarei tornato per quella sera, che stesse tranquilla, poi uscii, deciso ad andare a vedere il luogo a cui si poteva accedere con quella chiave. Salii sul vagone della Metro veloce col cuore in gola ed un male feroce al capo, che mi straziava. Che cosa avrei trovato? Chi? Mi sentivo sgomento: c'era come una forte resistenza in me, e tante altre forze uguali e contrarie che agivano contemporaneamente, confondendomi: voglia di sapere, di non sapere, ma soprattutto paura, un terrore quasi panico, assurdo, senza limiti, che faceva palpitare il mio cuore fino a togliermi il respiro. Venti minuti dopo, ero all'altro capo di Exodus, sul modulo Alfa, con il terminal della Metro alle spalle, di fronte allo spazioporto. Alla mia destra, oltre ai giardini, si ergevano le costruzioni a gradoni del centro di accoglienza, dove avevo soggiornato anch'io per pochi giorni al mio arrivo alla base e dove doveva trovarsi la tana del mio nemico. Indugiai con lo sguardo sulla vita che mi brulicava attorno, perché l'idea di ingolfarmi nei corridoi del centro mi sgomentava: non ero ancora pronto per agire... e poi quel mal di testa! Viaggiatori in arrivo, con ancora lo stupore negli occhi, si affollavano attorno alle macchine distributrici di biglietti a cumulo, ansiosi di cambiare la loro valuta terrestre, e sciamavano
verso i tapis roulants che li avrebbero condotti fuori dall'area spazioportuale; altra gente in partenza per la terra indugiava coi saluti, coppie si baciavano; un paio di bambini, così rari sulla base dove le nascite devono essere tenute rigorosamente sotto controllo, giocavano vociando, allegri. Pensai che mi sarebbe piaciuto un bambino per casa... Poi il mio sguardo fu attratto più in là, dalla via tortuosa che s'ingolfa dietro le vaste costruzioni dei magazzini-merci, ingombra dei minatori in turno di riposo e dei viaggiatori alla ricerca di un'ora di svago. Attraversai la piazza, come un automa imboccai la via ed un lieve capogiro mi colse, forse un presentimento, alla luce intermittente, quasi ipnotica, delle insegne dei locali che la costellavano. Una biondona virtuale mi sorrise da una proiezione pubblicitaria, o meglio ebbi la sensazione che sorridesse solo a me... perché avrebbe dovuto? Strinsi nella mano la chiave sconosciuta, con forza, mentre la testa mi doleva sempre più e mi ritrovai nel locale, quasi senza capire come ci fossi arrivato. La vendita di droghe leggere e' consentita anche su Exodus, come sulla Terra, ed anche qui è il Superextasis che va per la maggiore. Immagino che lei sappia che, se ci si ferma alle due dosi giornaliere, come previsto dalla legge, il suo effetto equivale a quello di un bicchierino di
liquore di una volta; il problema è che sul modulo Alfa vivono quasi esclusivamente minatori turnisti che, dopo un paio di anni di base marziana, se ne tornano sulla Terra o su Selenia oppure sulla Luna, dove hanno famiglia. E quindi l'atmosfera di qui e' molto simile a quella che doveva respirarsi nei villaggi della frontiera americana alla fine del diciannovesimo secolo: uomini soli, lavoro duro, voglia di strafare e di non rispettare le leggi, ne' le dosi e la concentrazione di droga per dose. Era un locale basso d'aria e buio, a cui si a c c e d e va s c e n d e n d o u n a b r e ve s c a l a fiancheggiata da due dragoni dipinti a sgargianti colori che emettevano fiamme virtuali dalle fauci spalancate. Accecato dalla luce esterna, non riuscii neppure a vedere se ci fosse gente, e quanta: crollai ad uno dei tavoli, esausto, grato alla penombra che attutiva, pur senza spegnerlo, il dolore lancinante al mio capo. Non ero mai entrato in locali di quel tipo, quei locali che invece erano piaciuti così tanto a mio padre; anzi, ricordo di essermi sentito molto in imbarazzo per esserci entrato - ed "imbarazzo", mi creda, non e' che un eufemismo. - Ciao, professore, cosa prendi? - la domanda mi colse di sorpresa. Sussultai alla voce femminile, arrochita, ma che doveva essere stata chiara, un tempo, comunque suadente. Sollevando il viso dalle mani, la guardai.
Era sottile, dal viso scarno ed impassibile, contornato da lunghi capelli che scendevano lisci fin sulla schiena; portava un abito attillato di colore scuro, indefinibile nella penombra, che rivelava quasi completamente il corpo ossuto, senza seno, da efebo. Come faceva a sapere che ero un professore? Forse per la mascherina di riconoscimento dell'Istituto che portavo appuntata al bavero del mio abito. - Ho male - bisbigliai -, ho tanto male alla testa. Mi scoppia - gemetti. Le sue labbra sottili s'incresparono in una smorfia che avrebbe voluto essere un sorriso. - Ho capito - disse piano - Vengo subito. - Ecco qui - mormorò infatti poco dopo, comparendo dal profondo oscuro della sala - E' di quella speciale! Sbirciai in su, verso le sue mani tenute a coppa in grembo ed inorridii:- No...- bisbigliai alla vista dell'ampolla, di una di quelle orribili ampolle di cui era stata piena la mia casa sulla terra, da ragazzo. Scossi il capo, senza poter distogliere lo sguardo da quella cosa immonda. - Hai male ? Allora non fare tante storie, questa ti guarirà. - Non... non voglio... - mormorai terrorizzato. Lei rise ancora, la voce stridula, non piu' invitante come prima: - Non ho tempo da perdere. E stare qui ti costa.
Febbrilmente frugai nelle tasche, poi cacciai sul tavolo tutto quello che avevo, la chiave ed un paio di biglietti a cumulo ancora intatti. Lei si limitò ad afferrare quelli, con un gesto rapace, poi sorrise ancora, soddisfatta. - Te la lascio: se cambi idea...- posò l'ampolla e se ne andò, ancora inghiottita dal buio. Rimasi con gli occhi chiusi, più confuso e dolorante che mai. Ero andato fin laggiù allo spazioporto di Alfa per scoprire chi aveva distrutto il mio studio ed invece mi ritrovavo in una fumeria, di fronte ad una dose di superextasis: dov'era la logica in tutto ciò? Poi risi al pensiero che forse dalla porta con i dragoni sarebbe potuto comparire Yamamuri: lui era un esperto di fumerie, lo sapevo, come un esperto era stato mio padre. Presi l'ampolla tra le mani. Dopo la morte della mamma erano state le ampolle vuote i miei giocattoli abituali: con Peter, il figlio del mio vicino ci giocavamo a bocce, finché suo padre gli impedì di stare con me a causa di quel depravato del mio. Allora avevo giurato che non ne avrei mai più toccata una, neppure vuota, invece adesso... Era liscia e tonda, tiepida, gradevole al tatto. Tenerla tra le mani mi diede una specie di euforia, di eccitazione dolorosa, una sensazione intensa, come di una scudisciata. Sapevo bene come si faceva, lo avevo visto fare così tante volte: basta accostare la capsula di metallo al naso prima di tirare la linguetta ed e'
tutto: il gas esce acre e dolciastro ad un tempo, invade le narici ed i pensieri. Subito è come se una punta rovente ti trapassasse il cervello, ma poi stai bene, è la pace... E in quel momento, invece, stavo morendo di ansia e di dolore: senza indugio, senza reticenze, nonostante il terrore, tirai la linguetta. La coscienza ritornò gradualmente, istante dopo istante prese consistenza, come una larva che affiora dalla nebbia e si fa via via sempre più nitida. Percepii nuovamente il mio corpo, madido di sudore, e fui felice di constatare che non avevo più male alla testa, anzi mi sentivo bene spossato come se avessi usato a lungo tutti i miei muscoli, ma bene, nuovamente rilassato. Indubbiamente ero sdraiato, ma dove? Ricordavo solo la fumeria, il fatto che per la prima volta nella mia vita avevo fatto uso di una droga, nient'altro. Allungai la mano per tastare ciò che mi circondava. Pareva un letto. Ricordo che risi:- E' stato un incubo, ora sono sveglio, a casa, con Isabelle! - mi dissi. Aprii gli occhi e mandai un lungo urlo di terrore. La stanza dell'incubo, signore, quella buia con la finestra tonda: mi trovavo proprio lì! Pur nell' orrore che provavo, ebbi la forza di pensare che forse la droga stava continuando ad agire su di me, evocando dalla mia mente l'allucinazione più terribile che...
Mi rannicchiai su me stesso, tremando:- Calmati mi dicevo -, calmati e apri gli occhi, tutto sarà sparito! Mi ci volle un po', ma poi mi decisi e lo feci. Dapprima sbirciai con un occhio solo ed intravidi nella penombra suppellettili estranee, un lungo tavolo appoggiato ad una parete, un terminale, un decodificatore, una serie di ampolle vuote; poi aprii anche l'altro occhio e mi voltai. Era proprio la stanza dell'incubo, avvolta di penombra con la luce esterna che pioveva obliqua ed accecante dall'enorme finestra-oblò aperta sul muro di fronte al letto. Mancava solo la presenza maligna, grazie al cielo. Sospirai profondamente e mi sollevai a sedere. Il letto era sfatto completamente, come se qualcuno ci avesse dormito parecchie notti di seguito senza riordinarlo. Io c'ero sopra, malamente avvolto in una coperta, ancora vestito; dopo il primo momento di panico, i miei sensi s'erano fatti acutissimi, adesso, e percepii, in quello che subito mi parve un brusio informe ed esterno, il ronzio familiare del terminale acceso. Cautamente misi i piedi a terra e, come tentai di sollevarmi, il mio stomaco impazzì, ma fu solo un istante: con uno sforzo ulteriore mi alzai. Non riuscivo a capire dove fossi, come fossi arrivato lì e se davvero mi trovassi in un luogo reale oppure in una qualche fantasia evocata dalla droga, ma decisi di adattarmi a quella realtà contingente, per lo meno finché fosse durata.
Sul tavolo regnava un disordine indescrivibile di note e disegni: schemi elettronici, formule di struttura, catene polimeriche. Diavolo! Lei non ci crederà signor Presidente, ma quelli erano i miei appunti! Persino quello su cui avevo annotato che il nuovo materiale, avrebbe potuto chiamarsi "Ductilius"... Ma allora? Certo: nella fumeria avevo la chiave sconosciuta con me e, mentre ero sbronzo, qualcuno mi aveva senz'altro portato nell'appartamento corrispondente a quella chiave - dove, guarda caso, c'erano le copie dei miei lavori! - Sono a casa sua!- bisbigliai tremando, ormai consapevole - sono a casa di Yamamuri! Il vandalo e' lui! In preda ad una strana euforia controllai tutto quello che c'era sul tavolo, ma le sorprese non erano finite: richiamai il menu principale sul video, entrai nel primo programma del sistema – che per mia grande fortuna non era protetto – e quasi non credetti ai miei occhi quando vidi le formule che avevano caratterizzato i miei ultimi esperimenti con Huong, ampliate ed aggiornate. Allora stava davvero tentando di portarmi via la mia scoperta! Ci stava lavorando per conto suo! Quel lurido verme era proprio tutto quel male che io pensavo di lui! Come aveva fatto, con i miei programmi superprotetti? Distolsi lo sguardo dal monitor per lasciarlo scorrere, disgustato, sul disordine, il sudiciume, la biancheria sporca abbandonata sul pavimento tra avanzi di cibo
ammuffito e bottiglie vuote ammassate in ogni dove... proprio come mio padre. " Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza" aveva detto uno dei più grandi poeti del passato: ebbene sì, conoscenza e forza, coraggio e valore morale, signore, in una sola parola: virtu'! Non c'è vera conoscenza se non nella virtù: se quello che raggiungi con la conoscenza non e' rivolto al bene, non è compiuto nel bene. E che bene c'era in Yamamuri, ladro di idee, depravato e vandalo? Perché mi odiava al punto di volermi portar via tutto quello che era mio, tutto quello che mi distingueva da lui? Perché agiva subdolo, nell'ombra e non alla luce del sole? Avessi potuto trovarlo e parlargli di persona, per chiedergli il perché di tanto odio, di tanta malignità! Ma forse non c'è una ragione nel suo essere malvagio, come non c'è una qualche ragione nel male, una qualsiasi logica che non sia la sua intrinseca: essere il male, fare il male e basta! Avrei dovuto aspettare finché non fosse rientrato, per parlarne insieme una volta per tutte, io e lui, faccia a faccia: non ero più lo studente timido di un tempo, ora ero lo scienziato che... Non riuscii a finire il concetto perchè rabbrividii: c'era anche una vecchia fotografia sul tavolo, tra le altre mie carte, una che risaliva al tempo quando Willi e Isabelle, la mia Isabelle, erano arrivati su Exodus. L'avevo sempre tenuta nel mio studio, ora era lì. Aveva strappato via l'immagine
di Willi e la mia, aveva lasciato solo Isabelle. Giuro che sentii il sangue ghiacciarmisi nelle vene: ma certo, dopo le mie idee, dopo il lavoro di tutta la mia vita, c'erano solo due cose ancora che avrebbe potuto portarmi via: la vita stessa e mia moglie. Di certo non mi avrebbe ucciso: gli servivo, come serbatoio di idee, e poi non si sarebbe mai privato della vittima destinata al suo sadismo. Mia moglie, invece... Dovevo subito correre da Isabelle, per proteggerla, per farmi proteggere dal suo affetto avvolgente, per parlarle e metterla in guardia da quel mostro che lei non sapeva neppure che esistesse, per salvarla: dove era stato Yamamuri quella notte? Dove era in quel momento? E se mi avesse lasciato l'indizio apposta, per allontanarmi da casa? Mi precipitai come un pazzo fuori di quel covile. Corsi alla Metro veloce, ma non avevo più neppure un cumulo. Allora cercai un robotaxi, che ovviamente non potevo pagare e che non mi fece neppure salire in cabina. Vagai come un ossesso lungo il Viale principale, roso dall'ansia, finché riuscii a trovare un passaggio in una capsula di servizio postale con manovratore, che mi portò nuovamente su Beta, quasi al laboratorio. Quando arrivai all'istituto, dopo aver camminato e corso per mezz'ora, ero stanco, amareggiato e purtroppo nuovamente la testa mi doleva a morte, ma mi sentivo anche sollevato di essere di
nuovo lì. Quanto tempo era passato? Ero uscito il pomeriggio precedente, avevo dormito nella topaia di Yamamuri e dopo il mio avventuroso viaggio di ritorno stava ormai calando il tramonto: i miei collaboratori stavano per ritornare ai loro alloggi, alle loro famiglie. Salii sull'elevatore ansioso di soffocare il dolore attuale ed i brutti ricordi dell'esperienza appena vissuta nel tepore di un abbraccio e, quando finalmente giunsi al livello giusto, mi avviai quasi correndo verso il mio studio. Mi fermai poco prima della porta dell'ufficio di Willi, per ricompormi e proprio allora mi giunsero le voci, nitide, serene. - Allora, vieni da noi anche stasera? Myria ha cucinato una cenetta speciale: abbiamo avuto l'autorizzazione, potremo provare ad avere un figlio! Ci pensi Isabelle? Un bambino! - era stato Willi a parlare. Mi rallegrai in cuor mio per lui. Poi udii la voce di Isabelle, della mia Isabelle, augurare tante cose gentili, tanta felicità e poi:No, grazie anche a Myria, ma stasera non posso! rise, la sua risata fresca ed allegra, come quella di un'adolescente - Devo vedere il mio professor Yamamuri, lo sai! Dolore, signor presidente, quello intenso della mano in cui stavo affondando i denti, per non urlare, e quello lancinante, indicibile dell'anima. Mi sentivo offeso, umiliato, tradito, spogliato dei miei progetti, della mia pace, dei miei affetti. Ora
quel mostro mi aveva definitivamente ucciso, ero morto, sebbene il mio cuore battesse ancora. Erano tutti d'accordo, fin dal principio: non amici, perche' Willi le teneva il gioco e di sicuro anche gli altri; non amore: il "suo professor Yamamuri", suo! SUO! Suo di lei, che era mia! Che sarebbe dovuta essere mia! La mia vergogna... o forse no, non era colpa sua, lui l'aveva sedotta per arrivare a me, o forse non ancora ma stava per farlo ed io non sapevo far altro che fuggire, perché mi vergognavo di farmi vedere piangere. Era buio, ormai. Camminai lungo la strada verso il mio alloggio, piangendo come un bambino. La mia mela, il muro di gomma, Gea, Azzurra, il "Ductilius": avrei dato tutto in cambio della fedeltà di Isabelle, l'unica creatura che dopo mia madre mi aveva voluto bene. Il suo Yamamuri, aveva detto, ed io, di chi ero io? - No, si sbaglia: se la tradisce, non le ha mai voluto bene! Sussultai. Uno dei giovani di laboratorio mi era passato innanzi: come poteva leggermi dentro, sapere i fatti miei? - E tu, come sai... Come ti permetti? - gli chiesi, ruvido, afferrandolo malamente. - Ho solo detto buonasera, professore! Mi guardava stranito, mentre io continuavo a tenerlo stretto per il bavero dell'abito, con fare minaccioso. - No - bisbigliai, lasciandolo andare, cercando di ricompormi
- scusami, scusa. Scappò via, io continuai la mia strada barcollando, finché giunsi al centro commerciale che stava a metà strada tra il laboratorio e la mia abitazione. Un locale come tanti altri: luci basse, gente ai tavoli, musica di sottofondo. Vi entrai, in preda ad uno scoramento senza fine. Bevvi fino ad ubriacarmi, nella speranza di poter così attutire il dolore straziante del corpo e dell'anima, ma riuscii solo ad intontirmi, senza dimenticare, senza riuscire a far tacere i fantasmi della mente, che continuavano ad urlarmi dentro la mia vergogna. Allora uscii ancora fuori, all'aperto, forse ero ancora in tempo per salvare Isabelle. Mi misi a correre:- Non andrai da lui... Ti impedirò questa sciocchezza! - pensavo, procedendo come una furia verso casa. - Non riuscirai a salvarla! - mi disse all'improvviso l'insegna di un teatro. Scossi il capo: come poteva saperlo? Come poteva sapere quell'insegna ciò che stava accadendo nella mia vita privata? E se tutti, tutti avessero potuto leggermi dentro? Mi sentii improvvisamente trasparente e vulnerabile, schiacciato dallo scherno, perché anche le costruzioni attorno a me stavano ridendo, la stessa strada rideva, i vagoni della Metro urbana, i passanti tutti, tutto rideva di me! E correvo, disperato, furioso, finché proprio nei giardini che precedono il blocco in cui stava il mio alloggio ebbi la fugace visione di un'ombra che sgattaiolava via con fare sinistro.
- Sei tu, porco... porco...- urlai, in preda alla rabbia più cieca, gettandomi al suo inseguimento. Ah, signore, riuscii a sentire persino l'eco soffocata del suo cachinno raschiante. Era proprio lui! Ma improvvisamente un altro pensiero mi attraversò la mente: e se l'avesse già avuta? Se le avesse fatto del male? Che fuggisse, allora: a me importava solo di mia moglie, perchè l'amavo tanto. Lei era innocente, il mostro era solo lui. Ero così furioso che non badai a dove stavo mettendo i piedi, così inciampai, caddi e per la prima volta nella mia vita preferii perdere i sensi. Rinvenni dopo non so quanto, sempre più confuso, feci qualche passo e mi ritrovai sul pianerottolo del mio appartamento. La porta pareva chiusa, ma appena mi ci appoggiai per aprirla si spalancò e quasi caddi a terra un'altra volta. - Isabelle! - chiamai, mentre andavo spalancando una dietro l'altra le tre porte interne del mio alloggio, ma non mi rispose nessuno. Solo quando entrai in camera da letto, finalmente la vidi e le corsi vicino. Era bella, sa, signore? Bella come dieci anni prima, come quando l'avevo incontrata, i bei capelli bruni sparsi sulla veste candida da camera, che velava appena il suo bel corpo morbido. - Isabelle? - bisbigliai ancora. Le sollevai il capo delicatamente, e la baciai adagio in fronte perché dormiva così bene che sarebbe stato un delitto svegliarla. Dallo scollo
lento della veste, il capo pareva un fiore sull'esile, elegante stelo del collo... il suo collo, cinto da un segno sottile, violaceo, come un macabro gioiello. Allora compresi che ero arrivato troppo tardi. E ora sono qui, mi tengono qui, in quest'altra stanza da incubo, tra questi quattro muri imbottiti di gomma. Pensi, dicono che sono stato io ad uccidere la mia Isabelle, io che l'ho amata più della mia stessa vita! Dicono che sono pazzo e che e' stato Yamamuri ad inventere il "Ductilius", l'ho letto da qualche parte... quanto tempo fa? Il tempo qui e' ancor più relativo di fuori, è dilatato, non passa mai... o passa troppo in fretta? Dicono che sono pazzo: pensi con quanta fine malizia quella bestia ripugnante è riuscita a tessere la sua rete di menzogne! Comunque è per questo che le ho scritto, signore, perché dovete fermarlo, dovete fermare Yamamuri, ad ogni costo, perché finché sarà libero è una minaccia per l'intera umanità, per il bene del mondo: lui è il male, lui il mostro rantolante nel buio, lo dica a tutti, lo dica! Io sono finito ormai e so che nessuno mi crede quando dico di essere innocente, però lui non deve più fare male a nessuno... Lo sa che qui ancora c'e' gente che fa il suo gioco? C'e' un vecchio che viene a trovarmi ogni tanto e mi dice di essere Willi, come se non sapessi che Willi ha trentadue o... trentacinque anni! Ebbene, quel vecchio mi ha detto che la mia terra azzurra
sarà presto raggiunta e che mi ci porteranno. Ed è questo il dramma, signor Presidente, il motivo della presente: se vado io ci verrà anche Yamamuri, perché lo so che aspetta solo che io esca da qui per cominciare nuovamente a torturarmi, per continuare farmi del male, a fare del male a tutti quelli che non sono come lui, ed io non voglio malignità, bugie e assassini né sporcizie ad inquinare il mio sogno lassù! Lui farebbe della mia terra azzurra un luogo grigio, di droghe e di delitti, di Cupole... Invece l'umanità, l'insieme degli uomini onesti, ha il diritto di vivere in pace, nell'amore e nella giustizia, alla luce del sole e all'aria aperta, perché sta scritto che solo i giusti erediteranno la terra, e l'abiteranno per sempre. Mi lasci qui e fermi il mostro, signore, lei può farlo. La scongiuro: il futuro dell'universo è nelle sue mani! In fede Alex Newton
Al Comando Superiore della flotta interstellare sezione distaccata di Arca80 all'attenzione del generale Utterson Carissimo zio, nella mia sola funzione di nipote prediletta, ti rimetto una copia personale dell'ultimo messaggio del nostro caro Alex "Newton", perché tu possa constatare il suo attuale stato di salute. I medici che si occupano di lui non escludono che a questa fase di relativa calma possano seguirne altre in cui il manifestarsi di comportamenti estremi, tipici della malattia, sarebbe molto probabile: per ora, comunque, il paziente viene curato con i trattamenti standard e ti allego pertanto un dettagliato bollettino redatto proprio dal dott. Di Fazio, responsabile della nostra unità di igiene mentale, di certo più esauriente di me. Di fatto il nostro caro professore continua ad essere convinto di trovarsi su Exodus21 e ad ignorare che sono passati ben 32 anni da quel terribile giorno in cui in un raptus di follia uccise la moglie. Purtroppo ignora anche che siamo in viaggio verso Alfa Centauri da due anni e mezzo circa e che Azzurra, il suo sogno, e' ormai la nostra sola ed unica speranza. Dalle indagini che sono state svolte su di lui e sul suo passato, pare che avesse contratto la malattia ancora adolescente e che poi il morbo, non curato
adeguatamente, si sia man mano aggravato col tempo, visto che sino a pochi anni fa disturbi come quelli che hanno caratterizzato il decorso clinico del professore venivano catalogati come tipiche manifestazioni di disagi mentali comuni. Dobbiamo quindi essere grati una volta di più al dott. Lotti, che per primo si e' reso conto che c'è una correlazione tra l'aumento abnorme delle malattie mentali nella prima generazione dei terrestri costretti a vivere sotto le cupole e l'introduzione come moduli abitativi delle cupole stesse, perché nessun caso si può osservare nella prima generazione di terrestri nati e viventi sulle basi orbitanti Selenia o Exodus21. Come immagino tu sappia, tale sindrome, detta appunto sindrome da "eco-menomazione", dovuta ad un'alterazione nella dinamica chimica delle cellule neuroniche, determina nei soggetti a rischio una depressione perniciosa evolutiva grave che in fase terminale porta alla schizofrenia nelle sue forme più estreme. Le ultime stime danno come soggetti a rischio l'87 % di tutti i nati sotto le Cupole. Gli studi più recenti, sempre condotti da Lotti e dalla sua equipe, confermano che le macro-onde di energia Magnitex scoperta ed usata da Medrol per generare gli speciali campi magnetici capaci di dividere una bolla d'aria filtrata dall'atmosfera irreversibilmente inquinata, devono ritenersi l'elemento scatenante di tale sindrome.
Chiuso nel suo delirio, il nostro professore non sa delle città sconvolte dalla pazzia collettiva, delle guerre scatenate per l'improvvisa follia di chi si trovava nella stanza dei bottoni. Per sua fortuna non ha mai saputo che sulla terra, ormai, non si può più vivere neppure sotto le Cupole, tantomeno sotto le Cupole. Ignora che Exodus21 sta risorgendo solo da pochissimo tempo dalla distruzione e che quel che resta dell'umanità savia è stato trasportato su Arca80, dove da quindici anni si vive nelle disastrose condizioni che purtroppo noi tutti conosciamo bene! E che al confronto la vita qui sull'astronave e' un paradiso! Non conosce l'attesa spasmodica di sapere se questa missione di cui mi onoro essere il comandante confermerà che su Azzurra, o in qualche altra parte nell'universo, c'e' una nuova occasione per noi o se questo nuovo Grande Tramonto è l'ultimo che ci è stato dato di vivere. Ma non occorre che io ti ricordi ulteriormente le nostre miserie, zio. Mio padre va spesso a trovare il suo povero amico che ormai non lo riconosce più, proprio perchè ignora che sono trascorsi tanti anni, e, quando torna ai suoi compiti nella sezione tecnica e lo vedo assorto ed inquieto osservare il vuoto innanzi a sé, mi rendo conto che anche un po' della sua vita se ne é andata con i suoi amici e con la mamma.
- Aveva ragione lui, Gretel! - mi dice, a volte Questa è la vendetta della natura su noi! Poi tace turbato, ed io rispetto il suo silenzio, perché, anche se in tutti i miei trent'anni di vita ho sperimentato questi tempi oscuri, credo di non riuscire a capire fino in fondo che cosa significhi per lui essere sopravvissuto alla follia ed aver perso, con la terra, gli amici e gli affetti più cari. Io conosco solo l' esistenza che conduco qui su Gea, e quella di tutti gli anni che ho trascorso tra Selenia e la Luna, mentre ho solo un vago ricordo dell'epoca della rivolta degli ossessi su Exodus21, quando anche la mamma impazzì e ci lasciò per sempre... Forse con la tecnologia e l'abuso che abbiamo fatto di essa ci siamo spinti oltre quello che era lecito fare: "I giusti erediteranno la terra", dice il professore. Siamo stati ingiusti, zio, per questo siamo stati puniti ed abbiamo perso tutto. Forse i più grandi misteri non sono al di là delle stelle più lontane ma dentro di noi, dentro l'uomo, microcosmo alla deriva nell'universo come una galassia inesplorata, negli abissi insondabili del nostro spirito, nella nostra mente, negli infiniti mondi della creatività e della fantasia dove convivono, spesso in conflitto, angeli e demoni, dove è così indistinto e labile il confine tra il lecito e l'illecito, tra il bene ed il male. Comunque, al di là di ogni considerazione, mi sconcerta vedere gli eredi dei grandi uomini del passato e, soprattutto, un uomo della levatura di
Alexander Takeshi Yamamuri, "Newton", come era solita chiamarlo proprio la moglie, uno dei più grandi geni mai esistiti, ridotto a battere il nobile capo contro il muro di gomma della follia... Io sono cresciuta non solo nella reverenza che la grandezza del suo genio e delle sue opere esigono, ma soprattutto nell'affetto che mio padre, suo collaboratore ed amico per tanti anni e che lo ha voluto al seguito di questa missione benché malato - mi ha inculcato per lui. Ed ora, con amarezza nel vedere spenta nella debolezza della malattia la potenza del suo pensiero, e con pietà, la stessa che sento nei riguardi di noi tutti, mi chiedo cosa proverebbe Alex - e che cosa il suo alter-ego "Newton" - se riuscisse a rendersi conto che siamo su Gea, la "loro" nave, e che stiamo per raggiungere Azzurra, non solo: ma che forse quello che fu il sogno di un ragazzino triste e solo sarà davvero la salvezza del genere umano, una meravigliosa realtà. E mi chiedo anche, con sgomento, che cosa ne sarà di noi se la missione fallirà, ed anche, benché mi renda conto quanto sia sciocco e sterile farlo adesso, in questa situazione - come abbiamo potuto essere così ciechi ed incoscienti da non prevedere questa nostra tragedia, questo tramonto: l'epilogo definitivo... Adesso ti lascio. Saluta caramente la zia Olga e Anatolj per me, e a tutti voi un forte abbraccio.
Il prossimo rapporto ufficiale sulla missione "Azzurra" verrà diramato secondo le normali procedure se non interverranno situazioni straordinarie. Che Dio ci aiuti e ci accompagni. La tua affezionatissima nipote Comandante Margarethe Schaefer