arcasacra 1 collana diretta da Jolanda Capriglione Consiglio scientifico Abdrahman Ayoub (Institut National du Patrimoine, Tunis) Christophe Balaÿ, Institut National des Langues et Civilisations Orientales, Paris Antimo Cesaro (Seconda Università di Napoli) Mohammed Chadli (Curatore del Museo Nejjarine, Fès) Giulio Maria Chiodi (Università dell'Insubria) Maria Pia Incutti (Presidente della Fondazione Plart) Aurelio Pérez Jimenez (Università di Malaga) Delfim Leão (Università di Coimbra) Khosrow Neshan (Università di Ahwaz) Fiammetta Ricci (Università di Teramo) Maria Felicia Schepis (Università di Messina) Maria Anita Stefanelli (Università di Roma Tre)
Arcasacra è una nuova collana che si propone di essere luogo privilegiato delle memorie che si fanno parola viva, logos anche iconico di contrasto al pericolo della dimenticanza sempre in agguato. Architetture, percorsi, pietre, palazzi, giardini, cromíe, paesaggi, al contempo cultura materiale e simbolica, sono il tessuto mai silente della nostra identità storica, eppure quotidiana: necessario, dunque, dar loro nuova vita nella scrittura di parole e di immagini che trasformano un libro in un’arca di salvezza a fronte del fluire troppo rapido del presente, spazio sacro, ma non unico, della nostra vita.
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Ristampa 0123456
Anno 2015 2016 2017 2018 2019 2020
Tutti i diritti riservati © 2015 Artetetra edizioni C.R.E.S.O. - Cultura e civiltà. Biblioteca di Palazzo Lanza Corso Gran Priorato di Malta, 25 - 81043 Capua (Ce) Tel. 0823 1874952 e-mail:
[email protected] ISBN 978-88-909537-9-8 L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d’autore.
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Petra narrat Racconti maravigliosi delle pietre di Capua a cura di Jolanda Capriglione e Antimo Cesaro foto di Franco Cucciardi
Artetetra edizioni 3
Lello Agretti, Come pietra
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Carmine Antropoli (forse ...)
Un medico vale molte pietre, pardon: vite
Lo so, lo so, sono stata fortunata a capitare nelle mani del più bravo chirurgo del mondo (almeno per me): stavano per sbriciolarmi, per ridurmi in pietrisco da utilizzare come manto della bella strada che da S. Angelo va verso Capys, pardon: Capua, uff! volevo dire Casilinum, una strada sottile che trascorre le giornate in quieta chiacchiera con il suo grande Amore, il fiume Volturno che giorno e notte la costeggia, la lambisce, l’accarezza con le sue acque. Dico la verità, sono un po’ gelosa perché una volta, tanto tempo fa, il fiume era arrivato fino a me con qualche proposta, un invito a scorrere con lui sulla riva e io quasi quasi avrei accettato, vittima del suo irresistibile charme verdeacqua, ma si sa, il Volturno è il classico playboy pronto a usare senza scrupoli tutte le armi della seduzione, fruscìo dei rami di salice, musica delle rive, pesci guizzanti, per conquistare uomini e cose e pietre certo!, a cominciare da Annibale e i suoi, elefanti compresi, ricordate? Sai quante pietre di spoglio (in ogni senso ...) avrà fatto sue, come si suol dire, pietre levigate, pietre incise, pietre con bassorilievi, altorilievi, pietre che ora giacciono lì in attesa, forse vana, di un ritorno di fiamma, pardon: d’acqua ... Ecco, io mi trovavo dalle parti di S. Angelo, ai piedi del Monte Tifata, quasi sotto la Basilica (bellissima, anche perché fatta con molte mie sorelle, cugine, zie, prozie, nonne, bisnonne e amiche varie), quando mi è capitata questa botta terribile che mi ha cambiato la vita. Un minuto prima ero un bel decoro di un nobile palatium e un minuto dopo bam! uno scellerato mi ha ridotto in pezzi. No, non era del posto, non poteva essere un capuano un omaccione così brutale e insensibile, veniva da fuori: un barbaro, mi hanno detto. Chissà che vuol dire questa strana parola. La mia amica Jolanda sostiene che, secondo lo storico greco Strabone, il
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Petra narrat barbaro è colui che ba-ba-ba, parla male il greco insomma, ma se è così, sai quanti barbari ci sono fra noi! Diciamo la verità: non è necessario venire ‘da fuori’ per essere un barbaro! Le autorità sanno bene dove sono ora: in un bel giardino di Sant’Angelo in Formis e di qui sono passati tanti ... barbari che hanno fatto grande Capua, da Federico II a Pier della Vigna, da Francesco di Giorgio Martino a Giuliano da Maiano, da Boccaccio a San Roberto Bellarmino, da Collecini a Patturelli. Nessuno era ‘di qua’, ma sono i padri della nostra storia. Comunque, per ritornare alla mia vicenda, questo ‘barbaro’ è arrivato, ha preso una mazza di ferro e mi ha ridotta in pezzi fra le grida, gli strepiti e le maledizioni dei presenti inorriditi da tanta inutile furia. Proprio le grida hanno attirato l’attenzione del mio salvatore. Un chirurgo dal nome ebreo, Carminus, che vorrebbe dire ‘giardino’, il cognome greco, Antropolis, e la faccia aperta e chiara di chi sa quello che fa (ok, non sempre ...): è arrivato di corsa con i suoi strumenti, uno stuolo di aiutanti metà dei quali scuoteva il capo (“Dotto’, ma lasciate perdere, che potete fare?”), mentre l’altra metà era già all’opera con aghi, filo e tutto quanto serve per il successo di un’operazione, ancorché difficile. Eh sì, come dice Omero: “Un medico vale molte vite!”. L’intervento è andato bene, quasi tutti i miei poveri pezzi sono ritornati al loro posto, ma che fatica! E oggi mi trovo nel verde di un giardino, per volere di Carminus, non lontano dal mio amato fiume, ma non lontano neppure dal mio salvatore, e guardo il mondo scorrere davanti ai miei occhi. Non più visir venuti dall’Oriente, non più cavalieri di ritorno da Tunisi (o forse Djerba-la-douce) con l’imperatore, non più megalomani delle disfide, ma ancora tanta, tanta Bellezza. In fondo, lo so, sono stata fortunata. Ma sì, sì, Capua continua ad essere dopo millenni una gran Signora dell’Arte e della Bellezza ed io, pietra di spoglio, posso ben testimoniarlo!
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S. Angelo in Formis. Casa Antropoli. Rilievo con decorazione floreale
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Via San Giovanni a Corte. Edicola funeraria con tre donne della famiglia Ordonia
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Michela Angrisani
I tre togati Ogni notte, nei vicoli del centro storico, si sentono dei bisbigli. Che strano! Non c’è anima viva in giro ... Eppure, nel silenzio, un mormorio, quasi un fruscio, accompagna lo scorrere delle ore in cui scende tra noi mortali Morfeo. Gli abitanti dell’attuale Capua pensano che sia il vento a portare da lontano i suoni e le voci di gente che altrove chiacchiera e discute. In realtà, nessuno si è mai accorto che, in ogni angolo di strada, le antiche testimonianze di un passato ormai dimenticato, ‘riciclate’ nella costruzione dei muri delle case, rivivono e ... parlano ... Dopo la mezzanotte, infatti, i bisbigli diventano parole, frasi, discorsi ... Primo Togato, il Saggio: “Ancora in disaccordo voi due? Vi prego, abbiate la bontà di parlare d’altro! Sono lustri, decenni, secoli oramai che discutete sull’anno di fondazione della nostra città!” Secondo Togato, l’Erudito: “Non mi interrompere. Ormai dovresti saperlo che mi irrita essere disturbato mentre parlo ... Cosa dicevo? Ah, sì. Insisto: Capys è stata fondata solo 260 anni prima della rovinosa conquista dei Romani! Prima di allora, l’ho letto nei miei libri, in questa terra non vi erano altro che capre selvatiche e pochi pescatori di fiume ...”. Terzo Togato, il Nobile: “Ah, rieccoci! Ma che dici ... se la mia antica gens, quella dei Magi, calca questo suolo da prima che la lupa allattasse i gemelli! I miei antenati, venuti da molto lontano, hanno colonizzato questa terra prima ancora che arrivassero i Sanniti ed hanno fondato Capys, con nobili e antiche istituzioni ...”. L’Erudito: “Ma che dici ... Solo sciocchezze! Non ti sopporto più! Tu e la tua gens, la nobiltà, gli antichi Penati ...”. Il Saggio: “BASTA! Sembrate Velleio Patercolo e Catone, ricordate gli storiografi? Nemmeno loro erano mai d’accordo su niente! Ascoltate me, per una volta ... Siamo come alberi senza radici: da tempo quest’edicola, che ci accoglie, è stata barbaramente allontanata dai nostri resti 9
Petra narrat mortali, finiti chissà dove ... Ricordate chi siamo, la dignità del nostro ruolo e la candida veste che ancora portiamo ... E se la sventura ci condusse alla morte, riflettiamo almeno sugli errori commessi e basta, BASTA con sterili diatribe”. Così, l’ignoto e saggio Togato, messa la mano sulla spalla destra del suo vicino, riprende a parlare: “Ricordate ... Capys era fedele alleata di Roma. La nostra amata città già prosperava grazie ai commerci con l’Egeo, alla produzione di grano e di profumi; ma da quando, sarà stato circa un secolo prima della sua distruzione, la via Appia la collegò con l’Urbe, con essa soprattutto commerciava, fiorendo in ricchezza e potenza ... Pazzi, pazzi e irriconoscenti i capi del partito popolare: dopo la battaglia di Canne, credendo i Romani ormai perduti, si schierarono dalla parte del Cartaginese, fornendo ad Annibale viveri e asilo ... Mai scelta fu più scellerata ... Perché Roma, è noto, vinse e decretò la nostra fine: i senatori, tutti, anche quelli che come noi non avevano tradito, furono messi a morte; la città fu privata di tutti i diritti civili; il territorio le fu espropriato e divenne ager publicus, per essere venduto ai cittadini romani”. La tristezza vince le parole che sempre più flebili tornano ad essere brusio ... lentamente il cielo si fa più chiaro e poi rosa, mentre ai primi raggi del sole i tre togati rimangono lì, impietriti nella memoria, silenti per il dolore ... Chi, durante il giorno, passa davanti a questa edicola/pietra non immagina cosa avvenga al cadere delle tenebre, né conosce la storia dei tre togati ed anzi, spesso, incurante li sorpassa senza nemmeno avvedersene, quasi per abitudine. Loro hanno vissuto l’età dell’oro di Capys e sono stati travolti dalla sua rovina: gli anni, i secoli, i millenni seguenti li hanno trascorsi a litigare, a rimuginare, impietriti nel loro dolore ... Non si sono accorti, nelle lunghe notti, dei discorsi accesi sull’origine della città, che frattanto Capys è stata più volte colonizzata dai Romani, dalla Gens Julia, da Augusto e da Nerone; che Adriano ha completato con statue, colonne e ornamenti di marmo il maestoso anfiteatro; che Costantino ha elargito generose donazioni per la Basilica Apostolorum e che Ambrogio vi ha presieduto un sinodo; che è stata bizantina e poi angioina e aragonese, fino ad arrivare, notte dopo notte, ai nostri giorni ... 10
Petra narrat E, come talora accade anche a noi, la realtà è cambiata sotto i loro occhi, senza che nemmeno se ne avvedessero: mentre ogni notte l’Erudito continua a litigare con il Togato di antica famiglia ed il Saggio li interrompe per ricordare la triste storia della loro fine ...
Sant’Angelo in Formis. Casa Antropoli. Epigrafe
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Piazza Giudici. Casa Comunale. Chiave d’arco con divinità barbata (Giove?)
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Nando Astarita
Pietra d’amore
Mihi placet fabulam narrare ... Oh, scusate, torno sempre alla lingua che, per prima, parlai... Dunque, ho deciso di raccontar la mia storia perché voglio diffondere amore. Posso farlo, so d’esserne capace. E lo sanno anche altri, ma voglio lo sappiano tutti. Conosco poco la vita di oggi, perché, per quanto già complicata, continua a mutare veloce, ma quel che vedo mi rattrista non poco. Troppa la gente che vive soltanto per goder di danaro e potere. È gara fra tutti e perciò hanno fretta. Pochi riescono, ancora, a fermarsi per apprezzar la bellezza d’un pesco in fiore, del sole che muore o di Selene che si riflette nel fiume. Molti cercano sesso, troppo pochi l’amore. Troppi son soli. Ecco, perciò, la mia storia e spero che serva. Il sole s’era levato da poco, ma già beveva rugiada dal gran campo dov’ero, non lontano dal bianco anfiteatro, dall’arco Adriano e dalle mura della grande città, Capys. La vidi, in quella luce radente, venire, armoniosa nella sua bianca veste e, sulle labbra, un sorriso di vita. La conoscevo, perché già altre volte aveva, in quel campo, raccolto erbe fino a riempirne il cesto di giunchi. Cominciò, dunque, il suo fare e, intanto, la sua voce lieve spargeva nell’aria una dolce melodia. Ora, il sole baciava più forte la pelle e lei, prima, lasciò scivolare un suo velo a scoprire le spalle, poi, sfilato che ebbe un osseo spillone, liberò una cascata di corvini capelli a bearsi di luce. Quindi, al suono più forte della sua voce, cominciò a far passi di danza, dapprima lenti e brevi, poi sempre più rapidi e lunghi. Volteggiava leggera quella giovane donna ed a tratti, quando i piedi poggiavano appena sul verde stillante, sembrava volasse con quella sua veste a formar bianche ali nell’aria. Ma, improvviso, in un vorticare veloce, inciampò su di me e cadde di schianto. La sua testa batté forte e lei, immobile, rimase col viso nascosto nell’erba. La guardavo e soffrivo perché, in fondo, la colpa era mia, ch’ero quasi del tutto nascosta nel verde. Rimpiangevo di non poter far nulla per lei e restavo, impotente, a sperare. 13
Petra narrat Poi, finalmente, poco lontano, passò un uomo a cavallo. Era il giovane Marco Tiberio Sallustio che, lasciata la casa sul colle, non lontana dal circo e dal tempio a Diana, andava, per l’Appia, al porto fluviale, per principiare una nuova giornata del suo commercio di grano. Marco, visto quel corpo di donna giacere nel campo, s’avvicinò prontamente. Le aveva, appena, sollevato il capo dal suolo, quando la giovane, incerta, aprì gli occhi e lo fece incantare: erano verdi come il mare, della sua terra d’Apulia, in certe cale segrete. Ma poi lei, dopo aver a lungo guardato quel giovane che la sorreggeva, gli sorrise ed allora Marco si sentì più leggero. D’un tratto, per lui, tutto era scomparso d’intorno. Sapeva soltanto d’aver fra le braccia la ragazza più bella che avesse mai visto e, mentre si perdeva nel mare profondo di quegli occhi, sentì crescergli dentro l’amore. Poi, la sollevò in braccio, poiché aveva gonfia la caviglia, per porla adagio sul suo cavallo. Ed infine, le raccolse il calzare che, da quando era inciampata, mi era rimasto vicino e s’avviò per montare anche lui. Ma ci ripensò e lo vidi tornare, osservarmi e, dopo avermi raccolta, mi depose nella sua sacca di pelle. Era strano, pensai, perché non ero speciale né bella intagliata, come sapevo di altre. Infatti, in quel campo, ero solo una delle tante, avanzate dal travertino, cavato da Santo Jorio, per costruire quell’anfiteatro. Non riuscivo, quindi, nemmeno ad immaginare cosa potesse fare il bel Marco con una pietra di circa una libbra. L’ho saputo qualche mese più tardi. Il giorno delle nozze, fu gran festa nella bella casa di Marco e quando tutti gli ospiti furono andati via e già i servi spegnevano torce, lui prese per mano Claudia, divenuta sua sposa, e raggiunse la porta di casa. Fuori, accanto all’ingresso e fra i rossi mattoni del muro, alla luce di una torcia, spiccava il mio bianco. Lì mi aveva fatto murare, dopo avermi resa più bella ed incisa con una grande C. Intanto che Claudia guardava sorpresa e felice, Marco diceva: “Devo a lei se ti ho conosciuta, se nel mio cuore è entrato l’amore per te e per la vita. Sono certo che porta fortuna. Sarà sempre qui, per offrire ancora il suo dono d’amore oltre che a noi, ai nostri figli, ai figli dei figli e a chiunque avrà fede in lei. A chiunque la toccherà”. Dopo queste parole, entrambi posero le loro mani su di me e, con un bacio, divennero uno, mentre Selene splendeva alta nel cielo. Quella famiglia crebbe di 14
Petra narrat molti figli e tutti furono condotti, di volta in volta, dinanzi a me a sentir quella storia che, da essi, si trasmise ai loro figli ed a tutti quelli che poi seguirono. Passava il tempo, ma io era sempre lì, felice di dare l’amore a quegli uomini e donne che, spesso, avevano occhi di mare. Finché venne il giorno che il sole fu oscurato da fumo d’incendi ed intorno a me grida e rumore di spade. Uomini mori e feroci sparsero sangue e distrussero tutto d’intorno. Era l’841 e per lite di successione un principe aveva assoldato spietati saraceni per saccheggiare e distruggere quella città. I sopravvissuti alla strage si rifugiarono poco lontano, sotto il Monte Triflisco e, da quel giorno, intorno a me fu solo silenzio, non c’era più vita. Non mi sembrava vero che di quella città, più antica di Roma e con cui rivaleggiava in grandezza insieme a Cartagine ed Antiochia, non restasse più niente. Nel tempo, avevo sentito tante storie sulla sua origine. Chi la diceva fondata dagli Osci, nel 600 a.C., chi, invece, da Capi, compagno di Enea, perché in un antico sepolcro era stata trovata una tavoletta con questa notizia. Per altri ancora, era stata fondata da Remo, figlio di Enea che tal nome le diede in ricordo dell’avo Capi ed infine, da altri, seppi che doveva il suo nome ai vasti campi in cui era sorta. Comunque, fu città popolata da molte centinaia di migliaia di persone e, tra esse, vi erano decine di migliaia di gladiatori famosi ovunque e migliaia di coloni romani a cui furono date le terre del Campo Stellato, poi detto Mazzoni. E quella città era così prospera e ricca che nessun’altra aveva il suo lusso e perfino il Senato romano pensò d’abitarvi e per il fiero Annibale fu come patria. Le ville più belle erano sui monti Tifata, mentre la città era cinta da forti mura, di oltre sei miglia di giro, con sette porte, fra cui ricordo quelle Albana, Atellana e Cumana. Era, ovviamente, ricca di monumenti, terme, magnifici palazzi e templi fra cui, nel Campidoglio, quelli a Mitra, Diana, Giove ed Apollo. Il suo anfiteatro, coi quattro piani e gli ottanta grandi archi, in ognuno dei quali un sacro busto, e con la cima ornata di statue, era di poco secondo a quello romano, ma non per bellezza. Inoltre, appena fuori le mura, l’arco per Adriano s’ergeva magnifico sull’Appia mentre d’intorno vasti e fertilissimi campi erano tagliati da vie, adorne di ricchi sepolcri che portavano ovunque e sul fiume vicino, il porto permetteva ricchi commerci. Dal lontano Taburno, Augusto vi aveva condotto buonissima acqua, perciò detta Giulia. Infine, a goder della luce riflessa, da quella grande città, tutt’intorno, erano sorti tanti centri minori: Casa Apollo, Casa Giove, Casa Marte, poi detta 15
Petra narrat Martianisium, e tanti altri ancora. Per tutto ciò essa non amava le armi e sempre aveva cercato alleanze, per non essere distrutta, fino a quei terribili giorni di morte che mi lasciarono sola fra quei ruderi, anneriti dal fuoco e soffocati dai rovi. Passò tempo e finalmente nell’856, cominciai a veder venir carri a portar via quel che restava di case e di templi e sentii che gli abitanti, sfuggiti alla strage, vivevano in una nuova Capys, ricostruita poco lontano, dov’era il porto fluviale di Casilinum. Poi quel recupero finì ed ero già rassegnata a sparire, sommersa da rovi, quando un giorno vidi fermarsi un bel carro ed i servi aiutar a scendere d’esso un uomo dai capelli bianchi e con ricca veste. Si guardava d’intorno, quasi a voler riconoscer qualcosa. Poi, mi s’avvicinò e sorrise. Aveva gli occhi di mare. Il servo mi cavò da quel muro, ormai ridotto a poco, e mi porse all’uomo che mi strinse forte al suo petto. Dopo un breve viaggio, giungemmo nella nuova città, sorta in un abbraccio del fiume. Qui era vita e splendeva ogni cosa. Il carro si fermò dinanzi ad una gran casa. Lì, fui ammirata dall’intera famiglia riunita e poi da amici invitati e la mia storia ripetuta più volte. Finché, dopo qualche giorno, fui collocata sul muro esterno di quella casa, così come aveva fatto, molto tempo prima, il giovane Marco. La mia storia correva per la città perché, ora, erano in tanti a venire. Giovani, specialmente, che si guardavano negli occhi ridenti, posavano le loro mani su di me, e si giuravano amore. Ed io ero così felice di generar tanto amore mentre il tempo correva e la nuova città, ora detta Capoa, diventava ancora potente e ne sovrastava molte altre d’intorno. Ma, purtroppo, da allora, la pace durò poco. Arrivarono, nel tempo, popoli diversi: Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini e tanti altri ancora che fecero e disfecero mura, che distrussero e costruirono torri, archi, edifici, ma sempre d’intorno sparsero sangue anche se mai fu distrutta la sua grande storia e voglia di cultura. Capitò anche, una volta, che i capuani, sfiniti da lungo assedio, si fidarono di chi prometteva salvezza in cambio di resa ed aprirono le porte della città. Si chiamava Borgia, l’ingannatore, ed i suoi soldati fecero vandalico saccheggio e terribile strage e furono tante le donne costrette a gettarsi nel fiume per non soggiacere ad abusi. Ma poi, da allora, più e più volte, i tempi di pace furono rotti da quelli di guerra. L’ultima volta, anche dal cielo, arrivò morte e distruzione con immenso 16
Petra narrat fragore. E, come mai prima, immensi furono i danni di quella guerra, ma la casa dove m’avevano posta si salvò. Tuttavia, con la vita e le novità, che correvano sempre più, ben presto la mia storia venne dimenticata quasi da tutti. Nessuno veniva a cercarmi mentre io restavo sempre lì, ancorata a quel muro e tutto intorno cambiava, perfino l’aria che ora mi consumava. Per fortuna son forte ed ancora resisto ma, come dicevo, sempre più sono triste perché vedo sempre meno amore nei cuori di chi mi passa vicino. Non sento più dolci parole, ma solo tanto rumore in questa Capua di oggi. E tutti vanno troppo veloci per aver tempo d’amare. Ho deciso così di parlare, di raccontare la mia storia sperando di far rinascere la voglia d’amore. Ho visto che tanti, specie se giovani, scrivono molto su tavolette, ma senza stilo, con dita. Ho anche sentito che quegli scritti, certo per magia, viaggiano veloci nell’aria ed arrivano alle persone cui son destinati. Altri scritti, addirittura, restano nell’aria e chiunque ne può godere, come del sole. Ecco, io vorrei che questa storia venisse scritta su una di quelle tavolette e restasse per sempre nell’aria, così che chiunque, leggendola e guardando una mia immagine, anche con gli occhi del cuore, sentisse nascere dentro l’amore. Son certa che se tutti amassero di più le persone e madre natura, non ci sarebbero più incendi, né armi, né sangue. Vivrà la vita ... assì vo’ ddio!
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Via San Salvatore. Bassorilievo in forma di melograno
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Francesco Bellofatto
Perché mi imbratti? - Perché mi imbratti? La voce, improvvisa e squillante, nonostante secoli e secoli sulle spalle, fece sobbalzare il ragazzo, che quasi lasciò cadere il pennarello rosso. - Sono vecchia, ma non morta, anzi più viva che mai. Rughe sì, tante: segni del tempo che ne arricchivano l’antica bellezza. Come l’origine dai monti Tifatini ... - Cosa c’è, a scuola non ti hanno insegnato nulla? La pietra addolcì il tono della sua voce ed iniziò a raccontare al suo incredulo interlocutore. - Sono qui da secoli, lungo la strada Appia che conduceva a Roma. A due passi dal ponte sul Volturno, dove c’era il porto di Casilinum. Un passato glorioso, molto più antico di me. Il ragazzo, dimenticando lo sfregio che stava facendo - forse per amore, forse per stupido vandalismo - si mostrava sempre più interessato. La mano dell’uomo aveva innalzato, distrutto e poi ricostruito i segni di quel passato. L’aveva ferito con assurde e stridenti superfetazioni, poi, sapientemente, aveva ripristinato l’originario splendore. - Sono figlia del Principato, continuò la pietra, mi hanno edificato uomini in fuga dai saraceni. Con Pandolfo Testadiferro raggiungemmo il nostro apogeo, dominando tutta Terra di Lavoro, da Montecassino a Napoli. Dai Longobardi ai Normanni, le pietre rafforzarono la cinta muraria a protezione del porto fluviale, rendendo Capua un nodo strategico per i traffici commerciali. - Ma durò poco - aggiunse la pietra: Enrico VI di Svevia ordinò la demolizione delle mura. Fortunatamente il saggio Federico II ordinò la costruzione dell’arco di trionfo e delle due torri a difesa del ponte romano. Il ragazzo volse lo sguardo verso i ruderi del ponte ... 19
Petra narrat - Lo so a cosa pensi - la voce cristallina sgorgava dalla superficie levigata: alla stupidità degli uomini che costruiscono, distruggono, per poi ricostruire. Svevi e angioini hanno fatto questo di continuo, fino all’arrivo degli aragonesi, quando la Magna Curia fu saccheggiata dalle truppe di Cesare Borgia. - Questa storia la conosco anch’io - disse sorridendo il ragazzo - e la pietra si stupì sentendo la sua voce: i capuani, stremati dal lungo assedio, aprirono le porte della città ai soldati, dopo la promessa del Borgia di risparmiarli. Promessa che non mantenne: le truppe saccheggiarono Capua, mettendo a ferro e fuoco tutto. Con l’inganno morirono in migliaia, forse anche dei miei antenati ... Un vento leggero spirava da nord. Altre battaglie e altri saccheggi avevano conosciuto quelle terre: nei boschi, ancora il segno di Diana; a valle, le Matres Matutae, con le braccia traboccanti di bambini, vegliano propiziatorie sul futuro. Più a sud, tracce di Tirreni ed Etruschi: la Casa di Apollo, il Pagus Jovus e la Casa Hirta, il tempio della cerva cara alla dea dei Tifatini e quello del vitello, l’animale trasfigurato da Giove per rapire Europa. Intorno, le tracce del sacro si sposano col pagano: la Casa di Cerere, il Tempio delle Grazie, Bellona, Vittoria, il dio Giano ... Il ragazzo, vinta la ritrosia che notoriamente hanno gli studenti - ma non solo loro - verso la storia, si avvicinò alla pietra e incominciò ad accarezzarne la superficie rugosa ... - Angiola ... sussurrò il ragazzo, trovando con i polpastrelli le piccole fessure scavate, nel tempo, quasi delle rughe sulla faccia della pietra. - Per Diana Tifatina - esclamò la pietra - e tu che ne sai di Angiola? - È una fiaba che mi raccontava mia nonna, quella di una sua antenata e del bel soldato - replicò sicuro il ragazzo. Era la storia di un grande amore vissuto da una sua antenata. - Ma quale fiaba o leggenda: io sono la pietra di Angiola. - Il ragazzo la guardò stupita, con gli occhi increduli ... - Certo, qui. Quelle fessure che vedi sono i segni della sciabola del soldato napoleonico che si era innamorato della bella Angiola. Qui giurarono di ritrovarsi e lei, dopo la sconfitta dei francesi di re Gioacchino, tornò per anni e anni ad accarezzare quei segni d’amore, attendendo invano il suo ritorno. Il ragazzo guardava la pietra con occhi lucidi, quasi riconoscenti per aver chiuso il cerchio. 20
Petra narrat - Ha trovato un pezzo del suo passato, solo la memoria, solo il ricordo ha valore. - Mia madre si chiama Angiola, come la sua ava. Adesso comprendo tante cose della mia famiglia, della mia città. Ritrovo i fili della storia. Lontano, oltre l’ansa del Volturno, moderne architetture disegnavano il polo della ricerca. - Tecnologia, futuro: tutto questo è nullo senza memoria. Ed ogni più innovativo strumento per esplorare i cieli e le galassie ha bisogno di ricondursi a noi pietre per ritrovare la propria memoria, la propria identità.
Piazza Duomo. Facciata laterale.Epigrafi
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Via San Tommaso. Cippo funerario
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Jolanda Capriglione
Petra narrat
Pietre, blocchi di pietre, lastre tombali, pezzi di antichi sarcofagi, qualche stemma qua e là inciso ben visibile nella pietra, nel marmo e poi colonne, capitelli ricchi di foglie e volute, pulvini, rocchetti e qualche abaco squadrato. Sono migrati tutti dall’Antica Capys per far rinascere Casilinum dopo la fine di tutto, di imperi e splendori, pronti a rinascere nei misteri delle metempsicosi, la fine di Seplasia la profumata, dopo la fine (malefica maledizione di Spartaco?) dei grandi ‘giochi’ dell’Anfiteatro amato da patrizi e imperatori, mercanti e plebei, dopo che barbari incolti erano passati, ignari e ciechi, a tentare di cancellare secoli e secoli e secoli di storia. Ma la Bellezza, più forte di tutto, ha cominciato a muoversi, a camminare per recarsi verso l’ansa di quel fiume potente che, si dice, portò agli otia perfino il severo Annibale per offrirsi all’abbraccio sensuale del Volturno e rinascere in forma di decoro, di basamento, di trabeazione, di echino e collarino, plinto e stilobate, ma sì, per rinascere a nuova vita nella Basilica di S. Angelo, custode incomparabile dei Campi Stellati, nelle chiese, nelle mura, nei conventi, nei giardini, nelle nuove domus. È ben più di un millennio che queste magnifiche fuggitive sono lì a godersi gli splendori di Federico, le lezioni di Pier della Vigna, le furie di qualche Fieramosca, le orazioni di Vescovi potenti e umili parroci, ad ascoltare i pianti e la forza degli Ebrei fuggiti dalla crudeltà degli anatemi spagnoli per andare nella più sicura e accogliente Giudea Capuana. È ben più di un millennio: qui le antiche pietre hanno sopportato in silenzio le fiamme volute dal feroce Valentino, la disperazione delle guerre (troppe!) insieme ai cólti camminamenti accanto a loro di imperatori, re e regine, dame e cardinali, ma ora, ora vogliono parlare, narrare le loro vere storie, storie di vita, di vite spezzate, ma non cancellate dal Tempo, Fanciullo che pazzeia puntando pedine ...1 1
Eraclito fr. 52 DK
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Petra narrat Ero un mercante due millenni fa, poco più poco meno, che importa? e portavo il senso, l’essenza delle mie rose le rose di Seplasia a Lesbia, la capricciosa amata di Catullo, ma d’improvviso un turbinio di gladii dalla corta impugnatura, di elmi e scudi rotondi e nel sole un giovine alto, occhidimare volle rapirmi per tenermi con sé dalle parti del Tempio di Diana erto sul monte, tra nuovi profumi di timo, menta, fragranze d’alloro ... A lungo ci amammo, io dimentico delle mie amate rose egli immemore di scontri e rapimenti finché la nera Parca inesorabile tagliò il filo che mi teneva legato alla vita. Fu così che fra lacrime cocenti il mio amato volle il mio volto ben fermo nella pietra. Ed eccomi pronto a raccontarvi ancora di lui, del suo sguardo lucente e delle armille che mi donava insieme a vesti dorate che carezzavano il mio corpo, sete più lievi di piume di pavone. Quanto timo e quanta menta abbiamo calpestato nelle notti ignare di contorni, il timo la menta l’alloro, il mirto. Più di tutto il mirto caro ad Afrodite ...
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S. Angelo in Formis. Campanile. Frammento di rilievo
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Piazza Bellarmino. Resti di un colonnato di età romana già utilizzato nella Chiesa di Ognissanti (distrutta)
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Maruzza Capuano
Come una sciarpa al vento
Io, in verità, sono stata da sempre abituata a certe altezze, e ancora oggi, anche se il panorama è molto ristretto se comparato con quello al quale ero abituata, posso dire di aver mantenuto comunque una certa posizione ... Me lo chiedi ed io ti racconterò cominciando da quando feci il mio primo viaggio per arrivare in questo posto. Vivevo a mezza collina, in uno spiazzo insieme ad altre pietre, certamente meno ben formate di me e ci tenevamo compagnia, ci crogiolavamo al sole, accoglievamo con piacere la carezza delle lucertole e anche quando pioveva era proprio come fare un bel bagno. Cosa vuoi, eravamo giovani e tutto ci piaceva. In primavera poi il luogo si animava, dame austere e ornate da monili d’oro venivano a passeggiare nei prati vicino al nostro gruppetto per poi scendere nelle grandi tombe sparse all’intorno per trascorrere in silenzio momenti di confidenza con i loro cari. Poi una mattina all’improvviso sentimmo voci aspre; a volte, te lo dico in confidenza, quella lingua così gutturale e misteriosa mi dava quasi fastidio. Alle voci si unì il rumore di animali, due uomini si avvicinarono e presero a gettarci su un carro tirato da buoi. Era un frastuono di pietre accavallate l’una sull’altra, qualcuna di noi si ferì e le schegge volarono per l’aria. Io, già da allora, ero la più bella anche se un po’ tozza in alcuni punti e poi sovrastavo tutte in altezza. Il giorno stesso cominciò un viaggio verso dove non lo so. Lo seppi dopo giorni estenuanti sotto un sole eccessivo, sballottate senza sosta. Arrivammo finalmente, il carro si fermò in un largo spiazzo, voci e lingue diverse si accavallavano. Fummo rovesciate per terra, ammonticchiate, il mio peso mi portò in basso e tutte quelle pietre sopra di me mi davano proprio fastidio. Sembrava che tutti gli uomini radunati avessero molta fretta, ordini si susseguivano in maniera concitata. Fu così che mani callose e forti cominciarono a spostarci, a selezionarci e io, naturalmente, fui messa da parte, unica e sola, sicuramente prescelta. 27
Petra narrat Cosa vuoi, mi stavo convincendo che il mio destino fosse quello di svettare sopra le altre! Non per niente la città che cominciarono a costruire ebbe il nome di Capys che in etrusco, che è poi la lingua della mia infanzia, vuol dire sparviero, falco o anche aquila, avvoltoio, insomma tutto ciò che può volare molto alto, e io, naturalmente, in alto fui posta ad ornamento e sostegno di una porta che immetteva in una casa sontuosa. Pensa che al di sopra della porta c’era un’iscrizione A falcone qui tusca lingua capys dicitur a ricordare proprio la mia terra e l’importanza di noi tutte che da quel luogo venivamo. Da lì, si può dire cominciò la mia ascesa! In quella casa si radunavano dotti personaggi, un vero circolo aristocratico e io dalla porta aperta sentivo parlare di etruschi e di popolazioni che avevano occupato tempo prima quel territorio e che gli ospiti della casa chiamavano oschi e sanniti. Questo mi inorgogliva perché mi è sempre piaciuto trovarmi in un ambiente per così dire ... internazionale. Una sera addirittura sentii parlare del parente di un certo Enea che da Troia era sbarcato sulle spiagge di una penisola. Per la verità mi era difficile seguire quei discorsi, non conoscevo la geografia e così mi distrassi guardando i carretti che passavano sotto di me. Non so dirti quanti anni o secoli trascorsero, non ho una buona cognizione del tempo, certo è che una mattina, ricordo era primavera, l’alba si stava annunciando con il cielo già rosato, sentimmo voci concitate, di nuovo rumore di carri, risuonavano i ferri che colpivano i muri, le pietre, tutte le costruzioni. Fu così che ancora una volta mi trovai per terra, ma sempre scelta e messa da parte, isolata. Questa volta il viaggio fu più breve. Stavano costruendo una nuova città, poco distante dalla vecchia Capys, usavano le stesse pietre ma il progetto era magnifico. Cominciarono anche a costruire un grande anfiteatro, i mastri assistevano alla posa controllando attentamente che ogni blocco corrispondesse al progetto, le carrucole portavano le pietre in alto per aggiungere piano a piano, arco ad arco. Io però rimanevo sempre per terra, certamente preoccupata che mi avessero dimenticata. Finchè fui sollevata e non finivo mai di salire, vedevo gli uomini in basso allontanarsi, finalmente il cesto fu fatto ruotare verso l’interno, fui sollevata e posta fra due massi molto grandi per creare maggior forza e poi, all’improvviso un gran colpo sulla mia sommità per incastrarmi meglio, per gli dèi, veramente una botta tremenda! Sopra di noi niente altro che il cielo. 28
Petra narrat Più tardi Roma stessa si sarebbe servita di questo modello per edificare quello che chiamarono l’Anfiteatro Flavio. Cominciarono allora tempi magnifici per me, potevo godere di un panorama vastissimo, la città era ai miei piedi, ma soprattutto quello che mi riempiva di brividi erano gli avvenimenti che animavano quel luogo. Tutto era perfettamente organizzato, gli abitanti si divertivano nell’assistere ai giochi e io ormai potevo capire tutte le parole che echeggiavano sugli spalti: stavo imparando la lingua dei dominatori. Eravamo diventati la città più importante dopo Roma, una strada, l’Appia, la collegava alla nostra Capua e mi sembrava che ormai per me non ci sarebbe stato nei secoli niente di meglio. E mi sbagliavo, molti terribili accadimenti avrebbero scompigliato la vita di tutte noi. Ricordo bene che durante i giochi dei gladiatori tutto il teatro tremava per l’emozione nell’attesa che entrasse il bellissimo Spartaco. Il suo nome risuonava dagli spalti e lui avanzava sicuro, quasi con protervia. Era alto e aveva gesti eleganti, ma nell’arena era spietato. Solo che altrettanto spietato era colui che l’aveva comprato e lo teneva insieme agli altri gladiatori nella scuola poco distante dall’anfiteatro. Pensi che un giovane simile, nato in Tracia da una famiglia di pastori e che già aveva subito angherie da parte dei soldati romani con i quali combatteva, perché arruolato nel loro esercito, avrebbe resistito a lungo sopportando una condizione disumana per sé e per i suoi colleghi? Questi Romani, sempre troppo sicuri del loro potere lo avevano sottovalutato. Fu così che Spartaco fuggì da Capua con più di cinquanta gladiatori e si rifugiò alle falde del Vesuvio, affrontò le prime legioni che gli furono mandate contro e le vinse armato di soli attrezzi agricoli e dei pochi coltelli che aveva potuto sottrarre alla scuola. Al suo sparuto drappello si aggiunsero presto numerosi schiavi desiderosi di liberarsi dallo sfruttamento. Per cinque lunghi anni combatté contro i Romani i quali presto cominciarono a capire di che pasta fosse fatto. Purtroppo fra i suoi seguaci cominciarono le defezioni e così le sue forze si indebolirono. Durante l’ultima cruenta battaglia, come sentii dire, ad caput Sylaris fluminis, all’incirca alle sorgenti del fiume Sele, per la quale Roma aveva finalmente scomodato un proconsole di nome Crasso, Spartaco e i suoi furono uccisi. 29
Petra narrat Sul campo rimasero sessantamila schiavi e in più, per sottolineare la forza di Roma, il vincitore fece crocefiggere i superstiti lungo tutta la via Appia da Capua a Roma. Un vero scellerato questo Crasso. Solo un anno prima della sua vittoria definitiva aveva ordinato la soppressione di quattromila, dico quattromila suoi legionari responsabili, a suo dire, di un’altra sconfitta di Roma e per essere chiaro li aveva eliminati con il sistema della verberatio che altro non era che una serie di bastonate da assestare fino alla morte. Certamente non si può dire che io abbia un grande cuore, ma quando ripenso a tanta crudeltà mi stizzisco e divento di cattivo umore. Credevo di aver visto e sentito abbastanza, già troppo sangue aveva segnato la vita di questa città, cosa altro poteva succedere? Figurati che già molto tempo prima di Spartaco un altro personaggio coraggioso aveva determinato avvenimenti che sarebbero rimasti per sempre nella storia di Roma anche dopo la fine del suo Impero. Hai mai sentito parlare di un certo Annibale? Uno che veniva dall’Africa e che si mise in testa di sfidare Roma portandosi appresso anche un bel po’ di elefanti. C’è da dire che i Romani, gente seria e poco propensa all’immaginazione, all’inizio rimanevano sempre attoniti e disorientati ogni volta che si presentava qualcuno che lavorava per così dire di fantasia. Ora, ti pare possibile che gli elefanti possano oltrepassare montagne che dicevano fossero altissime, ma che io dalla mia visuale non avevo mai intercettato? E invece questo Annibale, cresciuto nell’odio verso Roma, era riuscito a scendere vittorioso verso le nostre terre, era andato anche più giù ed aveva sconfitto i Romani in una battaglia memorabile. Ma i Romani questo avevano di buono, dopo il primo stordimento si ricompattavano e con tenacia e ferocia riprendevano a contrastare il nemico per raggiungere finalmente la vittoria. Successe anche con Annibale il quale era riparato a Capua dove si trattenne tutto l’inverno per consentire alle sue truppe di riposare e prepararsi per nuovi combattimenti. Pessima decisione. Naturalmente i Romani, dopo che riuscirono a sconfiggerlo, inventarono la storiella che lui e le sue truppe erano stati catturati dal lusso, dalla corruzione e dalle dissolutezze di Capua e per questoavevano perso la guerra. Non fu così: Annibale perse la guerra perché i Romani furono tenaci e perché Cartagine non poté inviare rinforzi al suo condottiero. Ma si sa, da sempre sono i vincitori che scrivono la storia e così il nome di Capua fu infamato e 30
Petra narrat la città pagò a caro prezzo la sua ribellione. E sembra che un certo letterato di nome Cicerone ci si mettesse d’impegno per screditare la fama della nostra città, ne scrisse a lungo e quello che lui disse fu per molto tempo l’unica verità. Mi chiedi di continuare a raccontare, io ti dirò solo che arrivata quassù, durante gli ultimi tempi, nel leggero torpore che mi prende di pomeriggio, riesco a ricordare brandelli di avvenimenti e mi domando se siano veramente successi o se siano solo farneticazioni. Sto perdendo lo smalto di una volta, mi vedo lunga e secca a furia di colpi di scalpello e mi spazientisco. Ma tant’è, non mi va certo di suscitare in te commenti irrisori nei miei riguardi, in fondo ho ancora qualcosa da dire. Dunque, ti dicevo, il teatro era superbo, un magnifico silenzio lo avvolgeva dopo ogni spettacolo. Successe una volta, all’improvviso. L’aria sopraffina e pungente della sera, aiutata da una leggera brezza, portò il suono modulato di un canto senza parole, ondulato come una sciarpa al vento, come se fosse emesso a bocca semichiusa. Contemporaneamente vedevo sollevarsi sugli spalti figure trasparenti ammantate di grigio e di bianco. Sembrava un canto ultraterreno e ne ebbi conferma quando all’improvviso vidi entrare nell’arena una fanciulla. Avanzava leggera, le vesti colorate si muovevano appena, prese a salire i primi scalini, la melodia si fece più intensa e sembrava rivolta a lei. Le figure si scostavano per farla salire finché lei tese le braccia verso il cielo e poi verso di loro, il mormorio sonoro aumentò e nel primo buio della sera sembrò per un momento che la sua figuretta fasciata dalla musica si accendesse di luce. Era forse per lei una iniziazione? Non ti so dire, so solo che all’improvviso il canto cessò ed io non riuscii a vedere più niente e niente di simile successe più. Poi, dopo che nuove spoliazioni avvennero e che ancora una volta le pietre del teatro furono spostate, parte di questo distrutto, i grandi massi smembrati e noi, più piccole, ammassate e poi ricomposte, mi trovai in una specie di torre, insieme ad altre consorelle, squadrate come me, resistenti, quasi arcigne. Dove erano finite l’armonia e la dolcezza della lingua latina? Ora sentivo parole nuove, veramente barbare direi. Ma io volevo capire, che senso aveva stare lì, in un edificio prestigioso, come imbalsamata senza poter partecipare. Non volevo annoiarmi. E così, lentamente e con grande sforzo la spuntai anche questa volta. 31
Petra narrat Poco sotto di noi c’erano uomini d’arme che parlavano: ancora combattimenti, dinastie da sopraffare, altre città da conquistare. Dove si trovavano? Ma esistevano davvero? Certamente la ferocia che vidi manifestarsi in quei tempi giustificava questi racconti. Non ne potevo più dell’odore del sangue e invece, ancora una volta, rumore assordante di cavalli, grida e richiami, stridere di spade incrociate, come sempre distruzione e morte. Quello che capii da questi avvenimenti fu che, come la saggezza popolare ricorda da sempre, i peggiori serpenti sono i parenti. Pare che ci fossero delle dinastie in lotta fra loro, erano tutte discendenti da uno stesso capostipite e quella di Capua riuscì ad imporsi. Ma a che prezzo! Per raggiungere il loro scopo anche quelli, come si dice, non badarono a spese e si rivolsero ai musulmani i quali non si lasciarono pregare e piombarono distruggendo tutto senza ritegno. Comincio a stizzirmi e divento di cattivo umore ogni volta che ripenso a questi avvenimenti, va bene che erano tempi difficili, ma insomma ... Fu così che, dopo una nuova incursione e un nuovo spostamento, mi ritrovai sistemata, ancora ad altezza d’uomo, in una torre svettante e solida costruita dalle maestranze di questi nuovi invasori. Erano tutti miei amici i grandi blocchi di calcare e di travertino prelevati dai monumenti romani e, si fa per dire, mi pianse il cuore nel vederli prendere a martellate e ridurre in conci ben squadrati, di forma allungata, alti tutti alla stessa maniera: non c’era più la loro vera anima. Ancora una volta la mia posizione era piuttosto in basso, ad altezza d’uomo. Questa volta mi faceva male un fianco per i colpi ricevuti per adattarmi meglio alla muratura, ancora una volta non mi ero spaccata ma ero stufa marcia di tutti questi spostamenti. Certamente avrei preferito mantenermi in alto, ma è anche vero che cominciavo ad infischiarmene di dove mi mettessero, era sufficiente che la finissero una buona volta con questa storia del leva e metti. Comunque avevo sempre un vantaggio, potevo ascoltare con facilità i racconti che i cavalieri si scambiavano durante il riposo e il loro parlare mi ricordava il mio amato latino. Fu una delle poche volte che, seguendo i loro discorsi, mi abbandonai alla fantasia, ricevetti refrigerio dopo la vista nei secoli di tanto patire e presi a sognare, beatamente avvolta dal calore del sole. Mi sembra di ricordare che il giovane che raccontava, sceso da poco da cavallo e ricoperto di polvere, si chiamasse 32
Petra narrat Rainulfo. “C’è un luogo incantato” diceva al suo amico “con alle spalle montagne che al tramonto diventano rosa e con un piccolo fiume che scorre in basso e rimbalza sui massi. In alto, sulla roccia possente, stanno costruendo un borgo fortificato a difesa dei confini. Sulle mura roteano i gheppi, i boschi sono ricchi di cinghiali e di volpi. Su tutto svetta già il castello, ho visitato le sue stanze, severe, grandi tanto da poter accogliere i cavalieri che scenderanno fino al mare di Puglia per raggiungere Gerusalemme”. Come ti ho già detto io di geografia non ne so niente, non capivo dove sarebbero andati i cavalieri, ma mi piaceva immaginare di salire con loro a cavallo e partire. O meglio, pensavo al silenzio di quel luogo, alle pietre, una vicina all’altra, così fortunate da vivere in pace, forse per sempre, al più sferzate dal vento gelido dell’inverno, tanto compatte e ben assestate da trasmettere sicurezza ai suoi abitanti nei giorni di tempesta. Pensavo che mi sarebbe piaciuto stare lì, chissà quante ancora ne avrei sentite. Ma ormai ero incastrata in quella realtà e non avevo scampo. Chissà che effetto fa ascoltare lo scorrere inesausto dell’acqua: dovrebbe essere rasserenante mentre io in tutta la mia vita non ne ho mai potuto sentire la voce! Sono veramente stanca ora, ho come un gran peso sulle spalle, anche se la porzione di muro che ci separa dal tetto non è poi così alta. Mi sento compressa fra voi, quasi mi manca l’aria. Ti do un consiglio, presta attenzione alle voci che salgono dalla finestra sotto di noi e perdi meno tempo a chiacchierare con le tue consorelle. Da quello che ho potuto capire, siamo in un palazzo che chiamano Museo. Ho sentito che ci sono molte pietre che ricordano il cammino della mia adorata Capua. Oggetti splendidi, lapidi, statue. Oh le statue dell’anfiteatro, così belle e nobili, sballottate da un posto all’altro, ridotte in pezzi, incastrate in posizioni mortificanti! Presta attenzione, sei giovane, forse capirai più di me. Ne sentirai delle belle, cose per così dire campate in aria, ma che sembra abbiano invece molta importanza. Figurati un po’, sembra, ma a questo è proprio difficile credere, che ora si possano vedere le immagini di Capua come era ai tempi della mia giovinezza, meglio di come la ricordi io e che chiunque le possa vedere in tutto il mondo, contemporaneamente. Mondo, ma di che mondo parlano e quanto è grande? Quanta ingenua credulità! Come se fosse possibile restituire alla vista un passato del tutto annientato. Scemenze, stregonerie, illusioni ... Come se bastasse un click! 33
Corso Gran Priorato di Malta. Epigrafe
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Antimo Cesaro
Sogno lapideo di una notte di mezza estate Per la libertà d’espressione in ricordo dei giornalisti di Charlie Hebdo Jane: Tu alla gente hai sempre preferito le pietre. Jim: Dalle pietre c’è da imparare. Jane: Cosa? Jim: Ciò che i popoli hanno dimenticato nel tempo. Amère Victoire, 1957, film diretto da Nicholas Ray
Pietre. Ci sono cuori di pietra - di chi non conosce la pietà. Volti di pietra - di chi è dimentico del pudore. Natiche di pietra - di chi si ritiene inamovibile e indispensabile. Mostri di pietra - come quelli di Bomarzo. Guanciali di pietra - come quelli dell’eremita o di chi non è a posto con la propria coscienza. Castelli di pietra - come il Castrum lapidum capuano. Convitati di pietra - come sa bene El burlador de Sevilla e ogni Don Giovanni. Foreste di pietra, età di pietra, mal di pietra, case di pietra ... E, come se non bastasse, ci sono pietre e pietre ... a rendere ancor più variegato il florilegio. Pietre umili e preziose. Pietre d’inciampo e pietre di paragone. Pietre scartate dai costruttori e pietre scavate dalla goccia. Pietre dello scandalo e pietre di chi è senza peccato. Pietre miliari e pietre modeste (magari destinate a diventar testata d’angolo). Pietre incise, istoriate, narranti e pietre fredde, sorde e silenti. Pietre da tumulo e pietre che cantano (come quelle di un’antica cattedrale). Pietre ciclopiche e pietre pulviscolari. Pietre variopinte e pietre incolori. Pietre 35
Petra narrat grezze e pietre tagliate. Pietre da mulino e pietre di confine. Pietre emostatiche (come l’allume di rocca) e pietre sanguigne (come l’ematite). Pietre terrestri e pietre celesti, lunari ed extraterrestri. Pietre sacre e fondanti (come quella nera della Ka’ba o quella su cui è stata eretta la Chiesa) e pietre omicide e maledette (come quella che uccise Golia o come il diamante Hope). Pietre focaie e pietre erratiche. Pietre ogamiche (testimoni di civiltà scomparse) e pietre agelaste (care a Demetra). Pietre ipocrite (come per lo più quelle tombali) e pietre della memoria (come la Chianca amara di Vieste). Pietre impassibili e pietre filosofali ... Sono, queste ultime, quelle in grado di trasmutare la materia e di dischiudere orizzonti di un’antica saggezza ... Una pietra capuana di tal fatta, in verità filosofica piuttosto che filosofale ha, negli ultimi mesi, più volte colpito la mia attenzione. Si tratta di una pietra apparentemente ‘anonima’ nella sua austera bellezza. È certamente una pietra di spoglio, una delle tante, numerosissime, che - custodi della memoria dei luoghi - arricchiscono le mura e i palazzi della città. È incastonata nell’angolo meridionale della parete della chiesa di San Domenico che si affaccia sul Corso Gran Priorato di Malta, la via dei palazzi nobiliari. Spicca come un cimelio, nella sua sobria vetustà, tra la messe di vari corpi di fabbrica addossati - nel succedersi dei tempi e delle età - ai resti dell’area palaziale longobarda. Alcuni muri dell’antica dimora, successivamente inglobati nella duecentesca torre campanaria, insieme a più recenti (e orribili) superfetazioni hanno infine creato - in un coacervo indistinto di stili architettonici - un tetro e affascinante ambiente (oggi abbandonato), forse il laboratorio segreto di un alchimista di qualche secolo fa. Cosa rende “unica” questa pietra tra tante? Alcune lettere incise da una mano senza tempo. Ne restano sette ancora visibili: ... ERIS TOM ... Esse si propongono come misterioso enigma al lettore moderno che volesse cimentarsi nella ricostruzione dell’originario graffito. La prima volta che il mio sguardo si posò su quella pietra fu in una calda notte della scorsa estate, il 19 agosto: data fatidica ed evocativa. Cadevano duemila anni dalla morte di Augusto, quella sera. 36
Petra narrat Già, Augusto ... Avevo da poco lasciato i locali della biblioteca e del caffè letterario Ex libris, lì nel cortile di Palazzo Lanza, fumoso e profumato di aroma di sigari all’anice, avidamente aspirati in compagnia di un buon vino. Già, Ex libris ... Complice una bottiglia (o più, non ricordo) di ottimo Falerno, la mia vista era diventata - insieme - aguzza e torbida come non mai. Da miope che ero, mi ritrovavo - a tratti - stranamente ipermetrope e, poi, nuovamente miope. E quando le mie retine si interessarono a quella pietra, essa svelò il suo segreto: quel graffito corrotto che destò la mia curiosità. Già, ... ERIS TOM ... Cosa lega - benevolo lettore - Augusto, Ex libris, ed ... ERIS TOM ...? I primi due termini del trinomio, non destano (o non dovrebbero destare) eccessive preoccupazioni esegetiche. Che Augusto si interessasse di libri e biblioteche è cosa nota. Ed infatti, alla prima raccolta libraria pubblica di Roma, voluta da Asinio Pollione nel 39 a.C. per celebrare il suo trionfo sugli Illiri, se ne aggiunsero altre due all’indomani della sua ascesa al vertice dell’impero. La prima fu sistemata presso il tempio di Apollo Palatino (contiguo alla residenza imperiale), la seconda nel Porticus Octaviae (una passeggiata coperta intitolata alla sorella del principe). Il modello di riferimento era - com’è evidente - la città di Alessandria, la cui biblioteca era ospitata all’interno della reggia tolemaica. Ma Augusto non si limitò all’istituzione di biblioteche. Tentò anche di creare, attraverso Mecenate (il cavaliere etrusco che per oltre un ventennio fu suo ascoltato consigliere per le ‘politiche culturali’), un vero e proprio movimento di intellettuali filo-imperiali (Virgilio, Orazio, Properzio e Tito Livio), pronti a fare da cassa di risonanza alle sue parole d’ordine. Regista occulto delle delicate dinamiche del rapporto potere-sapere, egli tentò di indirizzare la produzione culturale del suo tempo preoccupandosi di evitare la circolazione di opere sgradite, ordinando la distruzione di testi ‘non allineati’ e perseguendo duramente i loro autori. Ce lo testimonia Svetonio, informandoci di una lettera del principe indirizzata al bibliotecario Pompeo Macro con la quale si vietava la lettura di alcuni scritti giovanili di Cesare. 37
Petra narrat Cassio Dione, invece, ci racconta dell’inflessibile repressione che riguardò, per ordine di Augusto, i cosiddetti libelli ingiuriosi: opuscoli anonimi, a contenuto scandalistico, riguardanti la vita dell’imperatore e dei suoi più stretti familiari, rastrellati sia a Roma che nelle province e dati alle fiamme. In questo stesso clima culturale e politico si inquadra, poi, la vicenda - testimoniata da Seneca il Vecchio - del rogo degli opera omnia di Tito Labieno (seguito immediatamente dal suicidio di quest’ultimo), in ossequio a un deliberato del Senato, sul quale pesò certamente la volontà del principe. Senza interpellare il Senato e facendo unicamente affidamento alla sulla? sua auctoritas, Augusto provvide, invece, ad emanare l’edictum di condanna per il poeta Ovidio, brillante autore delle Metamorfosi e della provocatoria Arte di amare. Era l’8 d.C.: il poeta fu esiliato in una desolata terra barbarica, a Tomi, uno sperduto villaggio sul Mar Nero. La cognitio extra ordinem era un potere giurisdizionale personale del princeps che, in forza dell’autorità tribunizia di cui era investito, si arrogava la facoltà e l’onere di vigilare sui ‘buoni costumi’. Non ci meraviglia, perciò, che alla relegatio fosse associata, come pena accessoria, il bando dei libri di Ovidio e dei suoi busti o ritratti da tutte le biblioteche pubbliche. Dietro la decisione di Augusto si celavano quasi certamente motivazioni politiche, per noi non ulteriormente precisabili e sulle quali lo stesso Ovidio ritenne opportuno mantenere il riserbo (silenda culpa), limitandosi ad attribuire l’esilio ad un carmen, forse una licenziosa trica, contenuta nei tres libelli dell’Ars amandi. Certamente il poeta non poteva essere annoverato nel gruppo degli intellettuali di corte posti al servizio dell’ideologia politica del principe. Aveva avuto contatti con il sodalizio letterario di Messalla Corvino, di simpatie repubblicane. In più, nel generale rilassamento dei costumi prodotto dall’influenza ellenistica sugli antichi mores, si era subito ritagliato un’immagine anticonformista e trasgressiva, tale da renderlo indiscusso protagonista della ricca e spensierata Roma del tempo, cui si era di buon grado conformato, con pose da libertino. Le sue poesie, infatti, traducevano in versi una vita fatta di avventure galanti in seno ad una società disinvolta e mondana che ostentava, però, un perbenismo di facciata apparentemente ligio all’austera morale degli avi esaltata dalla propaganda di regime. 38
Petra narrat La sua fortunata vicenda di poeta frivolo e brillante cessò bruscamente con la condanna che lo costrinse ad affrontare, ormai cinquantenne, l’esilio agli estremi confini dell’impero. Val la pena sottolineare che la motivazione giuridica della censura fu rinvenuta in un’interpretazione estensiva della lex maiestatis, per la quale, ci informa Tacito (Annali, I 72, 2), le azioni erano passibili di castigo, non le parole. Appare evidente che con l’instaurazione dell’impero il concetto di laesa maiestas era a tal punto mutato dal tempo della Respublica dall’aver assunto i tratti di un vero e proprio ‘reato d’opinione’. E certamente, in generale, lo scritto o il detto critico o ingiurioso non rientravano nell’ambito delle leggi di lesa maestà, perché non erano delitti attraverso i quali si poteva ritenere menomata la maestà del popolo. Eppure, Ovidio fu indirettamente accusato di ‘tradimento della patria’, il massimo crimen, perché ora la patria si identificava con la persona del princeps. Imperatore e pontefice massimo, Augusto, divi Iuli Iulii? filius e prossimo a divenire anch’egli divus, condensava in sé ogni aspetto politico, religioso e sacrale della vita dello Stato: l’iniuria che lo toccava diventava, insieme, reato e sacrilegium. È sulla base di queste premesse che vanno interpretate le motivazioni dell’impegno posto da Augusto nella fondazione di nuove biblioteche. Un’azione che, se da un lato, aveva lo scopo di consolidarne l’immagine di protettore della cultura, dall’altro, offriva la possibilità di un controllo capillare sulla produzione e sulla circolazione delle opere. Non a caso, infatti, l’imperatore curò personalmente la scelta dei bibliotecari e la costituzione del catalogo, talora pronunciandosi espressamente per scoraggiare l’acquisizione di testi a vario titolo ‘sgraditi’. In quest’ottica, i cinque libri di distici elegiaci dei Tristia ovidiani assumono, nell’economia di questo mio breve racconto, un valore del tutto particolare. Una di queste ‘elegie dell’esilio’ è carica, poi, uno straordinario valore simbolico. È la prima del terzo libro: in essa il poeta si fa libro o, meglio, un libro si fa persona. Un libro - liber ex libris - è dunque il protagonista dell’elegia che, parlando in prima persona, ci racconta delle sue mortificanti peregrinazioni per le strade di Roma dove, giunto dalla lontana Tomi, cerca inutilmente ospitalità. Tutte le istituzioni gli negano asilo e la stessa statua della Libertà, posta nell’omonimo atrium a presidio della biblioteca pubblica, si dimostra sorda e insensibile ai suoi ragionamenti... 39
Petra narrat Ovidio, come sappiamo, non fece più ritorno a Roma. Morì a Tomi, probabilmente nel 18 d.C., dopo dieci anni di esilio, secondo le testimonianze di Plinio il Vecchio e Stazio. Avvicinandomi alla conclusione, mi fa piacere richiamare l’attenzione (ipotizzando un possibile collegamento con la relegatio del poeta di Sulmona) su un graffito ritrovato nella città sepolta di Ercolano che recita: MORIERIS TOMI. Non è azzardato interpretare l’antica iscrizione come una frase di ammirato ricordo per la triste vicenda del disinibito cantore dell’amore che, ancora a distanza di circa venti secoli, continua ad esercitare un fascino singolarissimo. E si scioglie, così, anche l’enigma che ho proposto poco prima al mio benigno lettore, sollecitando la sua dotta curiosità. ... ERIS TOM ..., la scritta lacunosa che campeggia su una nobile pietra capuana va completata ripensando alla triste vicenda dell’esilio ovidiano: MORIERIS TOMI. Una frase forse divenuta proverbiale nel mondo antico e incisa a mo’ di beffa, di irrisione o di minaccia sulle mura della casa o lungo il percorso quotidianamente seguito da un anonimo eroe capuano della libertà del pensiero. Una pietra, la mia favorita, che farebbe bella mostra di sé tra le preziose epigrafi raccolte nel lapidario ‘Theodor Mommsen’ del ricco e - ahimè - ancor poco visitato Museo Campano. Dovrebbe però essere esposta con un’avvertenza: essa rivela il suo segreto solo agli uomini liberi, estimatori del vinum Falernum! MORIERIS TOMI. Una frase di una malinconica modernità: oggi uomini armati di kalashnikov hanno fatto irruzione nella sede del settimanale satirico francese - caustico e irriverente - Charlie Hebdo compiendo una strage ...
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Petra narrat Nel mezzo del cammino c’era una pietra c’era una pietra nel mezzo del cammino c’era una pietra nel mezzo del cammino c’era una pietra. Non mi scorderò mai di quell’avvenimento nella vita delle mie retine stanche. Non mi scorderò che nel mezzo del cammino c’era una pietra c’era una pietra c’era una pietra nel mezzo del cammino nel mezzo del cammino c’era una pietra. Carlos Drummond de Andrade Capua, 7 gennaio 2015
S. Angelo in Formis. Frammento di colonna
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Castello delle Pietre. Facciata. Frammenti architettonici (cornice e piastrino)
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Barbara Cussino
La mia pietra di Capua
La mia pietra di Capua, incastonata come spurio oggetto nella parete rustica e severa di quel palazzo del ‘700, era lì a raccontarmi ogni giorno la sua storia. Quelle iniziali pv, quel colore ocra, quello sporgere timidamente oltre il limite simmetrico del muro che la ospitava erano segno di una comunicazione metafisica. Io mi chiedevo ogni giorno cosa volesse dirmi. Me lo chiedevo durante le mie processioni quotidiane verso la dannazione. Già, perché davanti a quella pietra io passavo per raggiungere la ricevitoria del lotto. Lì consumavo il mio tempo e le mie sostanze. I miei giorni e le mie notti erano assediate dai numeri. O meglio da figure, situazioni, simboli che io, maestro della smorfia partenopea, trasformavo in numeri. Mi animava la certezza di un patto segreto tra me e l’universo nascosto dietro quella parata di messaggi subliminali. Io li decodificavo e li traducevo in numeri. Giocarli, attendere e patire delusioni era la lancinante sequenza successiva. Subito dopo rovesciavo su di me la colpa imperdonabile di aver sbagliato l’interpretazione. Non avevo capito il messaggio segreto che ora, a numeri finalmente estratti, mi si rivelava con cartesiana chiarezza. E allora ripartivo verso la ricevitoria e, passando davanti alla mia pietra sporgente, ne sentivo il sussurro dolce e compassionevole. Ma non ascoltavo, non capivo, non pensavo. Una volta, però, la pioggia incessante mi bloccò provvidenzialmente proprio sotto quel portone, a ridosso della mia pietra. Così potei accarezzarla, passando le dita lungo quelle iniziali incise come un’eloquente, eterna rivendicazione. Notai allora che in un angolo sotto le lettere pv era ritratto un uccello. Mi sforzai di capire quale uccello fosse. Era stilizzato e solo la mia autoipnosi mi indusse a vederci una civetta, simbolo di chiaroveggenza. Corsi allora sotto la pioggia in ricevitoria. 43
Petra narrat Se perfino la mia pietra mi attribuiva il potere di trafiggere con i miei occhi le tenebre, era evidente come io fossi l’autentico signore dell’oscuro mondo dei numeri. Ma anche questa volta le mie illusioni furono sconfitte dalla realtà e ciò che scaturì dall’urna mi rese più povero e più depresso. Ripassai davanti alla mia pietra per guardarla meglio. Ero piegato dagli eventi e quasi corsi a chiederle consiglio. Così capii. Il volatile non era una civetta, ma una colomba. Non v’era inciso un simbolo di chiaroveggenza, ma un simbolo di pace. Pv erano semplicemente le iniziali di pax vobiscum e cioè pace a voi. D’un tratto mi sentii avvolto da un’improvvisa quiete. Il demone del gioco uscì da me. La pietra aveva vinto la sua partita. Quando vi ripassai davanti non sporgeva più. Esaurita la sua taumaturgica funzione era tornata ad incastonarsi alla perfezione nel disegno della parete senza irregolarità. Ciò fino a quando non fosse passato un nuovo inquieto viandante a cui consegnare il proprio eterno infallibile auspicio.
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Via Duomo. Epigrafi
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Corso Gran Priorato di Malta. Cippo
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Raffaele Cutillo
La città scorre sul mio sguardo pietrificato
Sono sentinella fedele a questo crocicchio, immobile e attenta. Il movimento del capo mi è stato congelato dallo scalpello di un anonimo scultore e il mio corpo, carne e sangue solo immaginabili, è sprofondato nell’ipogeo di Capua, città possente e fortificata che ha fatto della stratificazione la sua essenza. Ho un collo alto che ricorda quello delle donne di Modigliani e sono racchiusa in un piccolo tempio fuori scala con un timpano rigoroso, segnato al centro da un misterioso disco bombato, sottili cornici lineari e geometria razionale. Qualche ragazzino impertinente mi deride dicendo che sembro uno speaker della Rai, riflesso in primo piano dentro uno di quei vecchi e larghi televisori con il tubo catodico e dal menphisiano design post-moderno dell’involucro privo di esuberanza cromatica. Ho gli occhi che puntano in un’unica direzione, filo impalpabile teso lungo via Roma, mia casa, strada ritta e bisettrice penetrante l’ansa più tormentata del fiume, attraversata dal tempo e dal movimento, dall’ansia e dalla gioia, dalla speranza, dal tradimento, viva di giorno e ancora velatamente oscura all’aurora, come in tutte le normalità del mondo abitato. Ma per volere del Fato ed errore incontrollato dell’uomo che mi ha modellato, conservo l’udito e ancora la parola attraverso labbra di pietra, mute solo in apparenza. E di notte, nel silenzio onirico della città sono mille le mie grida, sussurri, voci. Rimbalzano sul tufo settecentesco del palazzo Marotta-Migliore che mi sta davanti, lungo le pareti degli androni sontuosi, dribblano i fregi o le crepe degli intonaci, sfiorano gli archi tesi delle logge e i gradini elicoidali del convento dell’Annunziata per raggiungere le orecchie delle mie compagne incastonate ovunque qui, nella piazza dei Giudici o al Gran Priorato, a ridosso delle acque del dio Volturno o dei bassi portici del Mercato, nella casa del Fieramosca o a guardia delle chiese. E fino al Museo dove prima giocano spiritosamente a spirale sul piccolo capo del Mamozio per poi piegarsi, morbidamente, sulle guance 47
Petra narrat delle Matres e lì sussurrare la Fantasia e raccontare il Mito ai neonati immobilizzati dalle garze, protetti dalle braccia possenti della fatica terrena. Di rimando assorbo, e senza mai distrarmi, il flatus vocis delle altre teste di nero vulcanico o candido calcare, condannate alla mia stessa fissità. Oltre le storie dell’infanzia, il nostro dialogo si fa fitto, le discussioni pacate e profonde, il giudizio netto, spassionato, impietoso. A volte, all’unisono, alziamo al cielo un coro di melodie dolcissime o ritmi sincopati, colonne sonore per i sogni della gente di Capua dal sapore sannita e aragonese, saraceno e latino, borbonico ed etrusco, normanno e greco. Siamo punti connessi di una rete rossa nel buio, come di quei raggi laser invisibili agli occhi che fanno da sfondo mondriano ai furti avventurosi della storia del cinema e, tutte insieme, città nella città. Di questa segniamo delusioni e aspettative conservandone il progredire come piastre elettroniche anzi tempo o vasi di creta che, frantumati, rilascerebbero nell’aria le tracce di ogni suo quotidiano, delle intimità ingenue o anche delle passioni più indicibili. Di giorno, invece, resituisco solo il plasticismo statuario, celando l’anima della notte. Le persone mi sfiorano, i bambini mi accarezzano, qualche fotografo digrigna i denti dietro l’obiettivo nello sforzo della migliore inquadratura del mio naso consunto dal tempo, i cani mi annusano a conferma del loro territorio già marcato, qualche vecchio strizza gli occhi per leggere l’incerto testo che è inciso sopra la mia testa: A•SEXTO•M•L•GRYPO. Provo anche dolore. Per alcuni graffi, pur superficiali, ho la bocca costantemente impastata per quella insopportabile patina formata dai gas di scarico. Fortuna, però, da tempo il dolore è finalmente alleviato dalla vista dei tanti giovani universitari che hanno reso vivace una strada a rischio decadenza, o dalle piacevoli carezze sulla mia faccia del vento caldo di sud est che sfiora quel sinuoso corso di acque e canne dove ancora scorgo il volo del falco, auspicio di abbondanza, nome leggero del fiume e della città. Ho anche un compagno affettuoso. È un fiero di pietra, in posa d’attacco, posto sull’angolo opposto all’edificio che mi sovrasta. Spesso, nel segreto della metamorfosi notturna, danziamo o facciamo baruffa, giochiamo al chiar di luna o prendiamo in giro i gatti della stretta strada che presidiamo insieme. O ridia48
Petra narrat mo a squarciagola come per alcune strane visioni del giorno, allorquando fingiamo di essere blocchi lapidei inanimati. Proprio stanotte commentavamo, divertiti, di un’auto con una buffa torre illuminata sul tettuccio. Origliando i dialoghi di alcuni bambini avevamo saputo che effettuava riprese in città per poi restituire le immagini su quel diabolico apparecchio che chiamano computer. Avevamo poi sbirciato su quegli schermi tra le mani di alcuni adolescenti scoprendo che nei frames c’eravamo anche noi. Ridevamo felici perché, a differenza degli umani, le nostre facce erano sorridenti, naturali, evidenti, chiare. E senza quella strana pennellata di pixels che ne altera le sembianze per preservare una presunta riservatezza. La riconoscibilità è stata una sorta di riscatto. La rivincita sulla nostra dolce condanna, immobile silenzio fatto di pietra.
Via Roma. Leone in pietra calcarea
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Via E. Fieramosca. Parte di iscrizione dedicatoria
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Laura del Verme
A testa in giù
Secoli e secoli passati in una posizione davvero scomoda. Eppure il verso della posa era chiaro. Segui le lettere, ragazzo, allineale come se volessi leggerle, ed il gioco è fatto. Invece, per pigrizia, ci hai castigati tutti. Io scomoda e costretta a guardare solo piedi, e voi, anche quando fermate il passo per pochi secondi, andate via insoddisfatti delle mie forme. È raro che qualcuno si inginocchi a terra per cercare di capire la mia storia. Eppure dal tono delle lettere, dalla loro forma, dalla loro grandezza si capisce fin troppo bene che io sono stata, un tempo ormai lontano, autorevole. Che non passavo inosservata, insomma. Se non fossi così soda, si vedrebbe che sorrido mentre lo penso. Mi avete strappato a ben più impegnativi compiti solo per farmi reggere uno squallido pezzo di muro? Meritereste una bella lezione! Almeno potessi fare uno starnuto, così tanto per stiracchiarmi per un po’ su questo selciato. È pazzesco che, per colpa vostra, la mia storia sia svanita senza lasciare traccia. Mah! Quanto è diventata fragile, inafferrabile, addirittura illusoria, la memoria. Mi ignorate o semplicemente non esisto? Eppure c’è stato un tempo in cui era vitale selezionare non solo ciò che andava trasmesso, ma anche la materia di cui erano fatte le parole. Io sono stata scelta con cura. Lasciatemi dire per una volta ciò che penso da secoli: è più sano per l’uomo ricordare solo quanto la sua memoria riesce a trattenere. Oggi voi sapete annotare tutto. E quello che non scrivete, lo leggete, lo registrate, lo riascoltate come, dove e quando volete. Tutto, anche l’inutile, è a portata di mano. E quel che più stupisce una come me, è il fatto che tutto è alla portata di tutti. Io no. Il mio messaggio era accessibile solo a pochi che talvolta lo condividevano con altri. Quando ero in forma smagliante, la mia sola presenza era suf51
Petra narrat ficiente a fermare lo sguardo. Ora, vecchia e mutila, posso permettermi almeno un affettuoso rimprovero? Siete attorniati dalla confusione, da un caso che sempre più accumula frammenti inutilizzabili di memoria. Sembrate inzeppati anche voi nell’anonimato più sterile, murati da vocaboli vuoti, da pesanti rumori, da immagini ferme. Io che ero la voce ufficiale di un mondo mi sono trasformata in un’eco. Sapete chi è? Una bellissima ninfa che pare fosse particolarmente abile nell’arte del raccontare. Talmente abile che Zeus la ingaggiava per distrarre la moglie durante le sue frequenti scappatelle. Ma la regina degli dèi era attenta e furba e scoprì presto l’inganno. La sua vendetta fu come sempre crudele e privò la ninfa della sua abilità condannandola a ripetere soltanto le ultime parole delle frasi che udiva. Io, come lei, sono condannata a mantenere vivo per voi un oscuro frammento di memoria. Lettere che riverberano, rimbalzano e si rincorrono riportando brani di una vicenda che subisce, nel continuo trascorrere del tempo, variazioni di effetti, forme, contenuti e interpretazioni e che oggi è diventata per tanti di voi, sconosciuta. Visto che non mi guardate più con l’ammirazione stupita di un tempo, un po’ di coerenza! Toglietemi di dosso questo inservibile muro e riportatemi a casa.
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Corso Gran Priorato di Malta. Epigrafe latina
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Largo E. Bova. Base di colonna
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Emilio Di Cioccio
Tessa e Pato
L’arenile l’accarezzava delicatamente, il soffio della brezza sussurrava dolci parole e quel movimento ondoso, così lento e costante, sembrava volerle levigare alcuni angoli ancora spigolosi. Attorno, c’erano tanti piccoli ciottoli simili a lei, confusi tra la schiuma dei flutti e le bolle sulla sabbia calda. Non aveva mai visto il mare ... Era molto diverso dal fiume Volturno della sua Capua ... Aveva sempre pensato che quello fosse l’unico corso d’acqua esistente sulla terra ... E invece ... C’era una volta una pietra di nome Tessa. Aveva trascorso la vita a Capua, insieme alle sue sorelle, sovrastando tutta la città e i suoi abitanti, ricoprendo l’esterno della torre con merli lobati che si erge fiera e oggi abbandonata, nel castello dei principi normanni. Nel 1062 Tessa aveva percorso molta strada. Era stata prelevata dall’Anfiteatro dalla popolazione di stirpe germanica e utilizzata per realizzare la maestosa sede del Principato, il castello delle pietre appunto, usata per tenere i longobardi sotto scacco. Tessa era tra le pietre più ammirate e invidiate dalle sorelle, era accanto ad una delle tre grandi finestre bifore e mai avrebbe pensato di lasciare quel palazzo, che tante storie e leggende aveva ispirato su cavalieri normanni e le loro fantastiche gesta. Draghi invincibili, donzelle salvate, che cosa poteva desiderare di più? Il mio aspetto non muta e vivrò qui per l’eternità, amava ripetere ... Se il suo aspetto era rimasto invariato, lo stesso non era accaduto per il palazzo, costretto a fare i conti con l’usura. Fu durante una tempestosa notte di luglio di non so quale anno, flagellata dal nubifragio estivo, che un fulmine colpì la torre in tufo. Tessa crollò a terra e vi rimase fino all’indomani. Stordita e infreddolita, alle prime luci del sole, fu sollevata dalla morbida mano di Antongiulio, che la ripose nella sua tasca. Da allora il buio ... 55
Petra narrat Così si ritrovò sulla distesa di sabbia color perla. Antongiulio giocava con la sorellina Marina e i suoi amichetti sulla spiaggia. Correvano verso l’acqua con secchiello e paletta, si tuffavano ... Sembravano divertirsi molto ... Tessa ogni tanto veniva sommersa dal mare e strabuzzava gli occhi di fronte alle meraviglie sott’acqua: pesciolini di ogni colore, granchietti che agitavano le chele, muovendosi lateralmente e facendo bolle con la saliva, buffi cavallucci marini che le si avvicinavano con un movimento di coda ... Gli ippocampi non sono soltanto frutto di racconti mitologici, esistono davvero, pensava entusiasta. Fu tra un cavallone e l’altro che alla piccola pietra si avvicinò il gabbiano Pato. Ciao, sei nuova di qui? Io mi chiamo Pato, le disse. Tessa non ebbe modo di rispondere. Antongiulio e Marina avevano quasi afferrato il pennuto, costringendolo alla fuga ... Voglio tornare a casa, gridò ... E si lasciò trascinare dal moto ondoso giù nell’enorme distesa d’acqua ... Il colore del mare diventava di un blu sempre più scuro, le persone erano lontane dalla sua vista e le risate dei bambini sembravano un lontano sibilo. Tessa cercò di restare a galla, ma era stanca e le forze venivano meno. La povera pietra non riuscì ad evitare la vorace bocca spalancata di un tonno rosso, che la inghiottì. Fu così per lei ancora buio ... Oissa, oissa!, le urla di alcuni pescatori risvegliarono la piccola naufraga di tufo. Tessa era in un angolo, sulla prua della barca. Accanto a lei il tonno rosso che l’aveva mangiata non muoveva più le branchie ... Era stato pulito da un uomo, per poi essere lavorato e inscatolato. Il sudore che il lupo di mare emanava aveva un forte odore di abissi. Con il viso semicoperto da un cappello in puro lino, pescava a piene mani tra i pesci rimasti intrappolati nella rete gettata a terra accanto a lui. I suoi gesti erano meccanici, ad uno ad uno per i poveri tonni si prospettava lo stesso infausto destino ... La dolce Tessa vide in lontananza la costa. Non ebbe un attimo di tentennamento, si lasciò cadere di nuovo tra gli spruzzi di schiuma che si rompevano contro l’imbarcazione in movimento ... La spinta di Archimede mi farà risalire in superficie, riflettè. Ma fu catturata da 56
Petra narrat un’altra forza, più potente. Un vortice di acqua e bollicine la trascinò all’interno di un collettore. Era un depuratore. Tessa si abbandonò alla corrente e, spaventata, chiuse gli occhi. Per lei di nuovo il buio ... Tu che ci fai qui? gridò Pato. La pietra, ancora tutta bagnata, aprì gli occhi a fatica; in controluce, dinanzi a sé aveva il gabbiano che aveva incontrato sulla spiaggia. Si guardò attorno, per capire ... Era accanto ad un tombino, vicino ad un porticciolo. Finalmente aveva raggiunto la terraferma! È una lunga storia - rispose con un filo di voce - Potresti aiutarmi a ritrovare la via di casa? Pato non se lo fece ripetere due volte. Con il suo becco prese delicatamente Tessa e si sollevò in volo. Cominciò a volteggiare, sfruttando le correnti d’aria che via via captava. In lontananza la piccola ospite iniziò ad intravedere il ponte romano, ricostruito sul fiume Volturno. Era la sua amata Capua! Era tornata a casa! Giunta dinanzi al castello dei principi normanni, Tessa osservò a lungo il luogo dove aveva vissuto al sicuro per anni. Il mondo è pieno di meraviglie - disse tra sé - Ora che lo so, non posso più restare qui. Voglio scoprire gli angoli più remoti della mia splendida città: la Porta di Capua, il castello di Carlo V, porta Napoli ... Mi rimetterò in marcia. E poi ... Chissà!
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Corso Gran Priorato di Malta. Palazzo della Cento Persone. Epigrafe
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Francesco Forlani
I contendenti
Giocano. Giocano, fanno la conta, saltellano, sfiorano appena la coda di gente, prima di entrare. È una pietra. Sembra morta ma è viva, lo senti il respiro? È viva o morta? Le pietre non muoiono mai. Si spostano, diventano sempre qualcosa. Lo vedi, è un palazzo, ma prima era stata una chiesa, una cosa più antica, longobarda. Una cosa? Che cosa? Una cosa tagliata, scolpita, le vedi le foglie? Portata da braccia infelici, sorretta e poi posta in capo a colonne. A questa colonna. Le pietre son sempre pulite anche quando si sporcano Se si sporcano non sono pulite. Son sporche o pulite? Le lava la pioggia? La pioggia non arriva fin dentro ai palazzi e ai cortili se sono coperti. Giocano. Giocano, fanno la conta, saltellano, sfiorano appena la coda di gente prima di entrare. Salgono sulla scala appoggiata alla colonna. Osservano, vedono, da vicino vicino, una pietra che fa da ornamento La pioggia non arriva fin dentro ai palazzi e ai cortili se sono coperti. Hanno un’anima e un corpo. E se ci avvicini l’orecchio ti sembra che dica qualcosa, la pietra. Ti vuole di certo portare alla mente qualcosa. Le pietre come le statue non mentono mai se le ascolti. E loro che sanno ogni cosa perché le hanno viste non fanno parola a nessuno, ma dicono quel che è successo. Anche quando niente succede, o così pare, e allora le interrogano gli uomini e cercano di indovinare. Come quando le conchiglie ti soffiano dentro il vento e le onde del mare per dirti se è il tempo di andare in vacanza? Qui non c’è il mare, anche se il fiume talvolta si gonfia di pioggia e correndo tra gli argini pare un oceano e la città è sopra l’ansa del fiume Volturno. La senti ora? Le senti le grida, lo strepito degli zoccoli sopra al selciato e la furia dei cavalieri? Tredici in ognuno dei campi e il più valente poco avanti che porta le 59
Petra narrat insegne dei Ferramosca e il nome di un greco famoso per una sconfitta. Ettore Fieramosca Ferramosca o Fieramosca? Giocano. Giocano, fanno la conta, saltellano, sfiorano appena la coda di gente prima di entrare. Salgono sulla scala appoggiata alla colonna. Osservano, vedono, da vicino vicino, una pietra che fa da ornamento nel chiostro e sembra moltiplicare lo sguardo il succedersi delle volte e nel gioco di luci e di ombre rimbomba la voce dei due contendenti Ferramosca o Fieramosca? E chi altri? Dei tredici cavalieri soltanto, si conosce il nome e quello dello sfidante francese, detto La Motte. Mais oui, je suis sûr que c’est le même “Ettore invece era un giovane pallido, coi capelli castagni, che nessuno non pensava d’aver mai veduto un viso d’uomo più bello né più malinconico del suo” così lo descrive il poeta. Il Fieramosca ci aveva un fratello più piccolo anch’egli valente. La moglie Isabella alla morte aveva su pietra segnato che pietra anche lei per il troppo dolore sarebbe con tutto il suo corpo rimasta in quel tempio. Del primogenito invece lasciato da solo vagando, di pietra in pietra, di terra straniera in terra senza più eserciti e senza l’amore di nobildonna, rimane soltanto il ricordo. Un fantasma? Una pietra? Un fantasma e una pietra. Un ricordo. Giocano. Giocano, fanno la conta, saltellano, sfiorano appena la coda di gente prima di entrare. Salgono sulla scala appoggiata alla colonna. Osservano, vedono, da vicino vicino, una pietra che fa da ornamento nel chiostro e sembra moltiplicare lo sguardo il succedersi delle volte e nel gioco di luci e di ombre rimbomba la voce dei due contendenti. Hanno fame ché è l’ora di andare a mangiare. Così scendono e vanno di corsa per non fare tardi.
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Via Bartolomeo de Capua. Palazzo Rinaldi-Campanino (sec. XV). Dall’alto: Epigrafe di O. Rinaldi. Tondo con puttino alato (sec. XVII). Protome di età romana raffigurante un atleta (?)
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Corso Appio. Antico Palazzo della Posta. Statua di togato
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Pio Forlani
Il segreto del Mascherone. De Sade a Capua Ti guardo negli occhi e mi convinco che c’è qualcosa che vorresti dirmi, mascherone, e non puoi. Uomini, donne, giovani e anziani, seduttori, chansonnier, nobili ed eretici in fuga, cocotte e Ufficiali dell’Armata, assassini e dotti abati ti hanno sfiorato in questi secoli, lanciando sguardi frettolosi e meravigliati alle tue cavità. Come se un misterioso sortilegio avesse voluto punire la tua loquacità. Furono forse loro, i due consoli romani acefali, incastonati nell’arco dell’androne dell’Albergo della Posta, al Corso Appio di Capua, a condannarti con disprezzo all’eterno supplizio? Condannato a restare per l’eternità, immobile immagine pietrificata ad accogliere i viaggiatori con il tuo ghigno, a ricevere nelle tue mostruose fauci le braci delle torce che hanno illuminato, nella notte, le strade del Grand Tour. Cosa mai avrai visto? Quali inconfessabili segreti avrai rivelato? Mi rispondi: “Fu in quella fresca sera di fine estate che, rivestitomi in fretta e furia, mi ero precipitato al suono del corno della Posta ad aprire il grande portone di legno dell’albergo. In pochi attimi la carrozza fu nel cortile. La luce della mia torcia gettava lampi sulle froge fumanti dei cavalli quando, tra le imprecazioni dei cocchieri impolverati che preparavano la stalla, vidi una mano inguantata aprire lo sportello e un giovane signore scendere elegantemente dalla vettura, precedendo una stupenda fanciulla. Già mi preparavo ai miei doveri di accoglienza quando, inaspettatamente, una terza figura mi si parò di fronte nel semibuio del cortile, il parruccone bianco con il tricorno poggiato sulla fronte, intabarrato in un mantello fino al mento, lo sguardo perso nel vuoto. Li vidi scivolare nell’ombra. Corsi allora con il bagaglio a precederli sulla scala, fermandomi alla prima stanza del primo piano, l’unica rimasta libera. In un attimo erano dentro, già assaporando il riposo pensai. La stessa mano inguantata mi adagiò nella mano tre passaporti e una luccicante moneta, licenziandomi. 63
Petra narrat Non so perché, ma avvertivo un profondo turbamento, lo stesso che si prova in presenza di una personalità diabolica. Ma cosa, riflettevo, poteva esserci di diabolico in quella comitiva? Perché un angelo avrebbe dovuto unirsi ad un diavolo? Li vidi, dopo poco, scendere nella sala e prendere posto a tavola. Accorsi subito al gesto del giovane gentiluomo. In un pessimo italiano dal forte accento francese mi fu chiesto cosa fosse ancora possibile mangiare a quell’ora. Con lo sguardo fisso sul generoso décolleté della meravigliosa creatura, recitai a memoria il menù della cena: insalata di lattuga o di carote, raù, fritto, arrosto di capretto o di vaccina, buon vino, formaggio e frutta. Con il pane, quattro carlini a coperto, mio signore, conclusi. Una brevissima esitazione, durante la quale li sentii motteggiare sul britannico nome Grosley, precedette la conferma dell’ordine. Consumarono velocemente e gioiosamente risalirono in camera. Non senza aver saldato il conto, accompagnandolo con una onesta mancia. Con un sorriso di soddisfazione ricordai che proprio quel pomeriggio avevo ricambiato la paglia nei sacchi di quella camera. Si era fatta notte. Mi addormentai avendo ancora negli occhi le fattezze di quella meravigliosa creatura, per quanto angosciato dalla sua diabolica compagnia. Come ogni mattina, passò all’alba il gendarme per il controllo dei passaporti e fui stordito da uno dei nomi che gli sentii declamare con voce greve impastata di sigaro: Marchese Donatien Alphonse Francois de Sade. Sobbalzai, all’udire quel nome. Pochi anni di seminario mi avevano, per la vita, regalato infinita curiosità per ogni carta stampata. Ne ero certo. Era lui. Il divino Marchese. L’Europa intera lo conosceva e ne narrava sottovoce le turpi pratiche. Vidi discendere dopo poco la gaia comitiva. Ne approfittai per guardarlo negli occhi. Sentii come una lama penetrarmi il cervello. Servii loro la colazione e mi precipitai in camera a prelevare il bagaglio. Feci caso, allora, all’elegante piastra d’argento, fissata al manico della borsa, con l’anagramma DAFdS. Era la sua. La borsa del divino! La carrozza con i cavalli freschi era giù ad attenderli nell’androne. Velocemente il giovane gentiluomo pagò il conto e ringraziò, facendo poi accomodare il divino e la meravigliosa creatura, per prender infine posto a bordo lui stesso. Al grido del cocchiere la carrozza si avviò verso il por64
Petra narrat tone, non prima che due occhi di donna mi avessero lanciato uno sguardo implorante. Impallidii. Cosa mi chiedevano quegli occhi? Quale connubio legava Eros e Pathos in quello sguardo? Sono passati duecentocinquanta anni e sono sempre qui, all’Albergo della Posta, al Corso Appio di Capua, a sopportare lo scherno di chi, entrando, mi insulta con lo sguardo. Non sai, tu che ora mi deridi, che i miei occhi custodiranno per l’eternità la memoria dello sguardo del Divino Marchese, lui, Donatien Alphonse Francois de Sade. DAFdS.
Corso Gran Priorato di Malta. Palazzo della Cento Persone. Rilievo con togato
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Chiesa di Sant’Angelo in Audoaldis. Epigrafe, colonna e capitello
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Vittorio Giorgi
La Pietra della Memoria, la Memoria della Pietra
Nell’antichità gli Uomini scrivevano la propria Storia, in senso letterale e simbolico, nelle Pietre, affidandone ad esse la Memoria per le future generazioni. Pochi sanno, tuttavia, che anche le Pietre hanno una propria Memoria. Quanti ricordi, quante emozioni, quanto incessante movimento c’è nella mia immobilità! E la mia Anima di Pietra non è muta, perciò voglio raccontarvi di me e del lungo percorso che ho fatto prima di giungere qui a Capua. Ricordo quando un’abile mano di scultore mi portò alla luce in quelle meravigliose Terre dell’Asia centrale dove, tra tutte, risplendeva la bellezza di Samarcanda. Gli architetti mi posero a decoro delle Porta della città, tanto che ricordo bene quando tra quelle mura entrò col suo furore il giovane principe macedone Alexandros che rimase impressionato da tanto splendore. Alla sua Gloria volle aggiungere l’Amore, così prese in sposa la fanciulla più attraente, Roxane. Quel ricordo di più di duemila anni fa mi emoziona ancora ... Passarono secoli e poi vidi arrivare Amir Temur, che voi italiani conoscete come Tamerlano, il fondatore dell’impero Timuride con capitale la mia Samarcanda, che egli rese ancor più bella e grandiosa. Era il XIV secolo ed in quel tempo vedevo entrare ed uscire ogni giorno dalla Porta della città mercanti, monaci, guerrieri, scienziati, filosofi e ladroni, cammelli, asini e cavalli. Era il tempo della Via della Seta. Quante storie potrei raccontarvi ... Ricordo quando un giorno giunse un certo Ruy Gonzalez de Clavijo, inviato dal re Enrico III di Castiglia e Leon come ambasciatore alla corte di Tamerlano. Durante la permanenza Clavijo scrisse in un diario tutto ciò che i suoi occhi avevano colto ed ammirato in quella terra senza tempo. Terminata la missione, gli fu offerta la possibilità di portare con sé una Pietra della città a perenne memoria. E così, per caso o per destino, scelse proprio me. 67
Petra narrat Che viaggio avventuroso, quante tribolazioni per raggiungere Damasco e le coste del Mediterraneo per poi salire a bordo di una più comoda nave. Nella terra iberica trascorsi un po’ di tempo, fino a quando non venni trasportata al seguito di re Carlo V, che mi offrì in dono ad un nobile signore di una delle più ricche città del Regno di Napoli: Capua. Il nobile signore, che stava completando la costruzione del suo Palazzo, decise di incastonarmi nella facciata, in basso, accanto al portone d’ingresso. Quasi come se dovessi guardare e farmi guardare dai passanti! Quanti signori e nobildonne ho visto in questo Palazzo, di quanti gioie e dolori, amori e passioni la mia Memoria di Pietra è custode. Di me ho raccontato abbastanza. Di Samarcanda e Capua, non credo. Per questo, un nuovo viaggio nella storia e nel tempo dell’Uzbekistan e dell’Italia vi aspetta!.
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Castello delle Pietre. Frammenti di cornici
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Chiesa di Sant’Angelo in Audoaldis. Frammento di lastra
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Flavio Ianniciello
Capua: una pietra racconta
Salve. Probabilmente vi starete chiedendo chi è che vi sta parlando; ebbene sì, sono proprio io. Ma no! Non lì, un po’ più a destra, ecco, più giù ... più giù: eccomi là! Adesso mi avete proprio inquadrato bene: sono COLONIA IVLIA FELIX, l’epigrafe che vedete esposta. Stupiti, eh? Ma, per favore, prima di chiedervi come è possibile che un blocco di pietra parli, vi prego, ascoltate la mia storia. Come forse avete già notato dal mio aspetto, non sono una “giovincella”. Eh, eh! tenetevi forte! ho quasi duemila anni, no, no, forse più di duemila ... ahimé, la mia memoria comincia a perdere colpi ... Ma quel che ricordo bene è l’atmosfera solenne di quella radiosa mattina dell’anno 155 d.C. in cui ufficialmente venni al mondo, quando l’imperatore Antonino Pio inaugurò l’Anfiteatro di Capua, il luogo in cui ero esposta, anche se di spalle all’ingresso meridionale ... che ingiustizia!!! Da allora la mia vita non è stata né particolarmente felice né insopportabilmente triste o noiosa. Agli inizi trascorrevo il mio tempo incuriosita da tutto ciò che si svolgeva all’interno dell’Anfiteatro: sentivo in continuazione urla, fischi e acclamazioni che andavano avanti anche per molte ore. Almeno la metà delle volte mi veniva un gran mal di testa! Qualche volta, beh, avrei desiderato godermi quelle belle mattinate di sole che la nostra terra ci riserva, osservando, con il sereno distacco che mi derivava dall’essere dura come la pietra, l’andirivieni talvolta frenetico, talaltra lento e sonnacchioso degli oltre venticinquemila abitanti che popolavano la città. Comunque, vedevo sempre la gente uscire entusiasta dallo spettacolo. Solo dopo che tutti avevano sgombrato l’arena, il personale dell’anfiteatro portava via, su dei grossi carri, cumuli di uomini e animali, che pensavo essere semplicemente svenuti o sbronzi: solo in seguito, grazie ai miei nuovi amici del Museo Campano, avrei saputo che si trattava di vittime dei giochi gladiatorii, 71
Petra narrat giochi violenti nei quali sudore e sangue si mischiavano alla polvere dell’arena, ma non voglio entrare nei dettagli ... il solo ricordo mi fa tuttora rabbrividire! Ad ogni modo, i miei primi trecento anni di vita proseguirono senza grossi scossoni, almeno finché l’Anfiteatro rimase aperto al pubblico. Ma poi, noia e abbandono ... E il peggio doveva ancora venire! Dopo un altro centinaio di anni certi barbari, chiamati Vandali, lo distrussero completamente. Sepolta dalle macerie! Poteva andarmi peggio di così? Non rispondete, eh? Ebbene sì! Nel IX secolo tutta la città venne rasa al suolo dai Saraceni. Era giunta questa volta DAVVERO la fine? No. Dovetti aspettare più di mezzo millennio, ma alla fine nel Settecento, l’archeologo Alessio Mazzocchi mi rinvenne assieme all’anfiteatro. Fui poi esposta sotto l’arco della chiesa di Sant’Eligio dove, beh, ho vissuto molto bene, anche se non come all’anfiteatro ... Dopo non molto tempo venni finalmente portata qui, al Museo Campano di Capua, dove mi sono fatta diversi amici, come quei tre vasi rivenuti a Stabia (una delle quattro città distrutte dal Vesuvio, ottant’anni prima che io nascessi) o l’elmo dell’altra stanza (che ringrazio di cuore per avermi insegnato la vostra lingua, il nuovo Latino, l’Itaclap ... Iza ... Istalian ... Itoliana ... Italiano!) ... Bene, signori, questa è stata la mia storia. Siete liberi di fare domande a me o ai miei amici, ma, attenzione, questa sarà l’unica volta che parleremo! E nessun altro deve sapere che noi reperti, se davvero lo desideriamo, possiamo parlare.
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Via S. Giovanni a Corte. Epigrafe
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Piazza Bellarmino. Epigrafe
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Petra narrat
Tony Laudadio
La pietra di Prometeo
È un uomo. Non cammina ancora completamente eretto, ma è quasi erectus, ha la mascella allungata e il corpo è ancora ricoperto da lunghissimi peli - che fanno pensare più a una scimmia - ma è un uomo. Ed ha anche alcune qualità, è habilis, nei limiti della sua specie, del suo tempo e del suo luogo. Gli altri del suo branco, però, non sono proprio come lui: camminano poggiando più spesso le mani a terra, si piegano molto e si accovacciano, hanno peli anche più lunghi e cacciano le prede usando quasi solo mani e denti. Sono più selvaggi, più aggressivi. E però, nonostante questo, ora hanno paura di lui. È questo il vero motivo per cui lo hanno legato a questa pietra enorme, questo masso, con le corde che lui stesso aveva ricavato dagli alberi e le piante. L’uomo guarda la sua pietra e ne riconosce le venature, le spigolosità, gli incavi. Sa come dormirci sopra, come sedersi per mangiare quel poco che gli concedono. Ha adattato il suo corpo alla pietra perché sa che lì dovrà restare per sempre, lì dovrà morire, il suo branco non lo libererà. Tuttavia non lo uccidono, anche di questo hanno paura. Hanno paura dei giganti. È accaduto qualche luna prima. Una notte che il cielo cadeva sulla terra e l’acqua invece di stare sotto i loro piedi, veniva giù sulle loro teste e i giganti, sopra le nuvole nere come il sonno, lanciavano le loro lance luminose, squarciando il buio e le orecchie, mentre il branco trovava riparo nella grande caverna più per terrore che per difendersi dalla tempesta - quella notte l’uomo non entra con gli altri. Resta lì, sulla bocca della grotta. Guarda fuori, in alto. Guarda negli occhi i giganti e li sfida, provoca la loro rabbia, fermo e dritto. I giganti agitano le loro braccia di vento e tuono, percuotono le montagne, ed è come se persino il suolo si smuovesse, traballasse sotto le loro gambe, costringendo tutti a stare seduti: i giganti li obbligano a stare giù. E invece lui è eretto, se ne sta lì, a testa alta, curioso, a spiare il loro potere, su due piedi. E quando, alla fine, i giganti si placano e se ne vanno, quella notte nera, lui esce dalla grotta, nel pantano, anco75
Petra narrat ra insoddisfatto, impudente, come a volerli inseguire, come a cercare qualcosa. Il branco non osa alzare nemmeno gli occhi, nessuno si rimette in piedi: restano sulla terra, qualcuno in ginocchio, come offrendo il collo alla belva più forte, come lo strisciare dei vermi. Dopo tanto tempo, quasi all’alba, alla luce che riporta alla vita - dopo la morte di ogni notte - e quando già i primi bagliori appaiono dall’entrata della caverna scura e fredda, dall’angolo dove si è stretto per farsi coraggio, il branco vede avvicinarsi un altro bagliore, più luminoso e fluttuante. Un’altra luce, più calda e piacevole, incantevole e magica. I vecchi capiscono subito: è l’animale. L’animale feroce che mai nessuno aveva potuto neanche sfiorare, l’animale che distrugge gli alberi e l’erba, e i frutti e il legno, l’animale senza occhi e senza gambe, ma che vede e corre veloce, l’animale senza pietà e senza cuore, che spazza via in poco tempo intere foreste e lascia tutto secco e fumoso, e alza polvere nera che ferisce la gola e il naso. L’animale di luce e calore. Ebbene ecco il prodigio, anzi il maleficio: l’animale, nelle mani dell’uomo eretto, ora è addomesticato, se ne sta quieto e morbido, accucciato in cima ad un ramo lungo, che si consuma sì, ma poco a poco. L’uomo ha vinto l’animale di luce, l’ha soggiogato, e ora lo porta con sé, come fosse cosa sua, come se lui stesso fosse un gigante. L’uomo poggia il fuoco a terra, incastrando il ramo tra le pietre, ed esce fuori a cercare ancora. Torna con altra legna e poi altra, ne fa un cumulo. Poi prova a spiegare agli altri, in quella loro lingua povera e imprecisa, con le mani, con i gesti e i versi. Comunica, in quel loro modo, che quello è il nutrimento: l’animale ha sempre fame, bisogna dargli da mangiare, altrimenti muore e scompare. Ha sempre fame ma è un animale buono e utile. “Guardate come scalda la caverna, guardate come illumina il nostro buio. Non bisogna aver paura di lui, bisogna solo nutrirlo poco a poco, nella misura giusta, senza farlo ingrandire e senza farlo morire. E lui lavorerà per noi, con la sua luce e il suo calore. Non toccatelo però, ché non si lascia carezzare, morde e fa male. Avvicinatevi, non abbiate paura”. Poi l’uomo si siede lì, affianco al suo animale e aspetta che tutti prendano confidenza con quel regalo dei giganti. Ma il branco non perdona, quello è un maleficio. Il sacrilegio è compiuto, pensano, quello non è un dono: l’uomo lo ha rubato. L’uomo ha rubato l’animale di luce ai giganti e adesso quelli verranno a punirli, distruggeranno la terra, manderanno acqua a sommergerli, animali e insetti a consumargli le carni, acqua incande76
Petra narrat scente a ricoprirli. Non c’è altro da fare, sentenziano i più vecchi, l’uomo va sacrificato, va punito, per calmare i giganti. La prossima volta che torneranno dovranno vederlo legato, in punizione perenne, fino alla sua morte. E allora lo prendono, lo portano al masso, alla sua pietra - questa pietra chiara e porosa - e lo legano stretto, che non possa mai fuggire, mani e piedi, senza riparo e senza pelli. È quella la sua punizione, quella la pena per chi ruba ai giganti, quello il dolore da patire. Per molte notti il branco lo protegge dalle bestie feroci, ma solo perché aspettano la punizione dall’alto, aspettano i giganti. E ora l’uomo è lì, in attesa, consumato, spento, sfinito. Qui l’uomo scopre, per la prima volta, l’amarezza. E inventa la disperazione. Infine i giganti arrivano, tornano: lo vedono, scatenano la loro rabbia, loro che tutto sanno, acqua e fiamme su di lui, e tuoni di paura e terremoti, tutto scaricano su quell’essere impuro. Ed è così che dev’essere: nessuno può sfidare i giganti del cielo, invisibili e tremendi. Lo hanno torturato, su quella pietra, per una notte e un giorno, senza compassione, crudeli e giusti. Ma non lo hanno ucciso, non loro lo faranno. Altri per loro: gli animali della foresta, i loro servi bestiali, i leoni, i lupi, le aquile feroci, sventreranno la sua carne, mangeranno le sue viscere e gli toglieranno il sangue dal corpo. Questo è quello che accadrà su quel masso, quella pietra, quell’altare. Il sacrificio dell’uomo per il peccato di presunzione, per aver rubato ai giganti, per aver portato all’uomo ciò che non poteva avere. Ora è di nuovo notte, ora il branco non lo protegge più, il sacrificio è compiuto e lo lasciano al suo destino. L’uomo sente i versi spaventosi avvicinarsi, le belve girano attorno al suo masso, ormai, attirate dall’odore della sua carne, spinte dalla fame antica ed eterna. Sa che tra poco morirà e qui l’uomo scopre la rassegnazione. È solo, come solo un uomo può essere. Ma prima di morire, volge un ultimo sguardo all’entrata della caverna. Vede i bagliori riflessi sulla roccia e sulla sua pietra: il branco ha tenuto in vita l’animale di luce e calore, lo ha nutrito e controllato. Ora scalda la loro pelle e li protegge nei sogni della morte provvisoria, notturna. Il branco è vivo. Il fuoco esiste.
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Duomo. Facciata laterale. Chiave d’arco con busto della dea Diana
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Lidia Luberto
Laura e Federico
Sono qui da tanto tempo, cinquanta, cento anni, chissà. Difficile quantificare, per me che percepisco lo scorrere del tempo solo attraverso le stagioni che mutano e le persone che passano. Volendo azzardare, credo di essere stata inserita sul muro di questo palazzo verso la fine dell’800. Ma io sono molto più vecchia, ne sono certa, anche se non so come né da dove arrivai a Capua. Ricordo solo che, prima di essere qui, ero parte di un edificio ancora più antico, forse di epoca romana, non so. Comunque, in questa mia più recente collocazione, mi sono sempre sentita esattamente nel posto giusto, come se questo luogo fosse fatto apposta per me. Così, da anni, guardo immobile, dall’alto della mia posizione privilegiata, la gente che passeggia e si affretta, ascolto le loro voci, i racconti, assisto agli incontri, mi diverto ad osservare le facce, a immaginare le loro vite, a indovinare i pensieri. Uomini e donne, ragazzi, vecchi, giovani, mamme, papà, nonni: quanta gente è passata davanti a me. Li vedo bambini che camminano stretti alla mano dei loro genitori, li osservo crescere, li ritrovo già adulti che, a loro volta, portano a spasso i propri figli, e poi anziani, alle prese con i nipoti. Generazioni di capuani che si avvicendano e mutano, ma a me non sembrano poi così diversi gli uomini e le donne di ieri da quelli di oggi. I dolori, le gioie, gli entusiasmi, le difficoltà, le paure, in fondo, sono sempre le stesse. Le reazioni mutano, ma, forse, anche queste solo in apparenza. Secoli di storie, secoli di vite. E tra le tante che in questi anni ho visto scorrere davanti a me, sono rimasti nel mio cuore di pietra, che poi, evidentemente, tanto duro non è, Federico e Laura. Li conobbi che erano ragazzi. Frequentavano la stessa scuola. Si incontravano ogni giorno proprio nell’angolo che è sotto di me, andavano a scuola insieme. Un po’ alla volta vidi sbocciare il loro amore. Com’erano teneri! E quasi quasi, persino io che in fatto di emozioni e sentimenti dovrei sentire 79
Petra narrat poco o niente, li invidiavo. Erano sempre allegri, sorridenti: un inno alla vita il loro giovane amore. Parlavano, parlavano e facevano progetti per il futuro, sognavano ad occhi aperti, immaginavano, con la voglia e l’entusiasmo di mettercela tutta, e si facevano promesse di eternità. Non ci pensavano proprio alle difficoltà, come se non esistessero per loro, come se la forza o l’incoscienza dell’età potesse tenerle lontano da loro. Beata gioventù. Poi, per un periodo non li vidi più. Cominciai a preoccuparmi: dov’erano, cosa facevano, Laura e Federico? Perché non venivano più qui? Dove si incontravano? Avrei voluto scendere da questo angolo per andare a cercarli, per saperne di più. Invece, il mio destino, irreversibile, era quello di rimanere dove sono, chissà poi, per quanti secoli ancora. Un giorno poi, ecco Federico, da solo però. Si fermò e attese. Avevo creduto che da lì a poco avrei visto Laura. Invece, arrivò un amico. Ma almeno riuscii a sapere cosa era successo. Laura era costretta a casa da suo padre che non approvava quell’amore. Federico apparteneva ad una famiglia povera mentre quella di Laura era ricca e anche un po’ nobile. Ma che tempi, mi disperai, che idee, pensai. E poi saremmo noi le pietre! Federico era davvero sconfortato: come avrebbe fatto a rivedere la sua amata? Montecchi e Capuleti ... ma non erano passati quei pregiudizi, quei preconcetti? Eravamo nel pieno del boom economico, la guerra era ormai alle spalle: a proposito, per fortuna io e il palazzo dove avevo trovato alloggiamento eravamo stati risparmiati, ma quanta paura durante quelle giornate di battaglie, quante preoccupazioni. Ebbene, ora che c’era tutto da vivere e da gioire perché le cose sembravano andare finalmente meglio, ancora esisteva qualcuno che si complicava la vita e la complicava agli altri. Ero sinceramente in pena per quei ragazzi. Cosa avrebbero fatto, cosa sarebbe successo, che ne sarebbe stato dell’amore che li legava? Un giorno li vidi spuntare da lontano. Orami erano mesi che mancavano. Fu un incontro struggente, pieno di lacrime, baci, abbracci e giuramenti. “Io non ti lascerò mai” diceva Federico “ti aspetterò, non posso neppure pensare alla mia vita senza di te”. E Laura contraccambiava con convinzione: “Anch’io ti aspetterò. A costo di rimanere da sola, non ci sarà mai un altro uomo”. Mi sembrava un’ingenuità, una di quelle promesse difficili da mantenere. I tempi cominciavano a cambiare e l’amore pure. I capelloni, le minigonne, 80
Petra narrat l’amore libero e le coppie aperte. Davvero, pensavo, questi due giovani sembrano usciti da un’altra epoca. Passarono i mesi, gli anni. Oramai li avevo persi di vista e quasi non ci pensavo più. Invece, un giorno riapparvero. Federico era diventato un uomo affascinante. Bello lo era sempre stato, alto, magro con i capelli e gli occhi nerissimi, ma quella classe, quel portamento, non li avevo notati prima, forse era merito del tempo trascorso che gli aveva regalato una diversa sicurezza. Laura sembrava ancora la ragazza dolce e sensibile che era stata. Era rimasta sottile, la capigliatura scura con qualche riflesso rosso, l’eleganza che aveva sempre avuto. Camminava sul marciapiede sotto il mio palazzo, con al fianco un uomo e due ragazzini. Fu una fulminazione anche per me. Si fermarono, gli uni di fronte all’altro. “Buongiorno, Federico, come stai?” l’apostrofó Laura. “Bene” rispose Federico con la voce che a stento nascondeva l’emozione. “Ti presento mio marito” continuò la donna “e questi sono i miei figli”. Dopo alcune battute generiche, ognuno prese la propria strada. Non riuscivo a pensarci, neppure io. Com’è strana la vita. Promesse, sogni, speranze che poi si rivelano illusioni. Passarono alcuni giorni e li vidi tornare, Laura e Federico. Questa vola erano soli. “Federico, amore mio, perché sei ancora tu il mio amore, perdonami” disse Laura. E cominciò a raccontare cosa era accaduto a lei e alla sua vita. Il padre l’aveva allontanata da Capua, l’aveva mandata a studiare a Milano da una zia. Perciò si erano persi di vista. Mentre Federico era rimasto a Capua, aspettando che Laura tornasse. Aveva studiato, si era laureato. Ora era un ingegnere e come tale era stato mandato dall’azienda per cui lavorava negli Stati Uniti, aveva fatto carriera. E ora era tornato. Lui sì che l’aveva mantenuta quella promessa: non era sposato, aveva avuto delle donne, certo, ma in tutte aveva cercato lei, inutilmente. Così era rimasto solo. “E tutte le lettere che ti ho spedito?” chiese Federico. “Di quali lettere parli?” rispose Laura. Non le aveva ricevute quelle lettere. Il padre le aveva intercettate e cestinate. Perciò aveva creduto che Federico si fosse dimenticato di lei e, dunque, aveva accettato di sposare un uomo che non aveva scelto. Era stato suo padre, più che a proporlo, ad imporlo. Ma ora si erano ritrovati e il loro amore era vivo, come allora. Si promisero di rivedersi, ancora qui sotto di me, che ero diventata la testimone del loro amore. Tornarono qualche giorno dopo. Lui arrivava con 81
Petra narrat l’auto e poi andavano via insieme. Durò così per alcuni mesi. Una mattina arrivarono a piedi e si fermarono come sempre proprio davanti a me. “Scusami Federico - stava dicendo Laura - non ce la faccio. No, non posso lasciare i miei figli. Sei tu l’uomo della mia vita e lo sarai per sempre, ma ora nel mio cuore ci sono anche loro. Sono lacerata, distrutta, ma non me la sento di vivere lontana dai miei bambini”. Federico non disse una parola. La lasciò lì, davanti a me che rimanevo inerme al mio solito posto. Avrei voluto fare qualcosa per loro. Riavvolgere il nastro del tempo, tornare indietro negli anni e mutare il loro destino. Ma io sono solo una pietra, non posso che assistere dall’alto della mia posizione a ciò che accade intorno a me. Sono passati alcuni mesi, e Laura e Federico sono tornati ad incontrarsi qui. Lo faranno ogni anno, nello stesso giorno. Ancora oggi, quando il tempo ha lasciato le sue tracce sui loro visi essi sono qui. Ormai, Federico è tornato definitivamente a vivere a Capua. I figli di Laura sono fuori, all’estero e Laura è più libera. Così, vengono quasi tutti i giorni a passeggiare davanti al mio palazzo. Chiacchierano e ridono come fossero ragazzi. Mi sembra di rivedere nei loro volti la gioia e l’entusiasmo della gioventù. Come se il tempo non fosse trascorso, come se la loro vita fosse ancora tutta da inventare. E chissà che non sia proprio così. Il tempo, e chi lo sa meglio di me, è solo una stupida convenzione. Il tempo è quello che sentiamo dentro, è quello che avvertiamo nel cuore. E il tempo dell’amore è esattamente quando e come decidiamo di viverlo. Un giorno, un anno o un secolo, che importanza ha? Mentre mi sembra di capire dalle loro frasi, solo spezzoni, però, che una decisione la stanno prendendo, alla buon’ora. Sono almeno trent’anni che tifo per loro e per il loro amore e aspetto anch’io che questa svolta si compia. Mah, cosa sta succedendo? Cosa sono queste vibrazioni? Accidenti, mi pare di capire, dal via vai di operai e attrezzature, che questo palazzo sta per essere demolito. Pare che in questo stesso luogo sarà edificato una struttura più moderna e funzionale. Mi sembra di aver capito che non mi getteranno via come un residuo edile e che, anzi, vorranno sistemarmi in bella mostra nel nuovo edificio per testimoniare la mia antica e nobile provenienza e la vetustà di questa storica e bella città. Ma io non sono poi così contenta. Vorrei riuscire a sapere come finirà la storia 82
Petra narrat d’amore fra Laura e Federico, cosa decideranno di fare, se il destino ha riservato per loro, finalmente, la felicità che il loro sentimento profondo e instancabile merita. Spero, perciò, di rivederli ancora, magari dalla mia nuova postazione privilegiata. E chissà che non mi riconoscano e vengano ad incontrarsi di nuovo davanti a me, arrivando, questa volta, dallo stesso lato e proseguendo, insieme, nella medesima direzione.
S. Angelo in Formis. Colonna in marmo di età imperiale
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Piazza Giudici. Casa comunale. Chiave d’arco con busto del dio Mercurio
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Marilena Lucente
Gli occhi cavi di Mercurio L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contro me giusto Dante, Inferno, XII, 70-72 Gli occhi. Più di tutto mi mancano gli occhi. I miei occhi, che hanno visto i monti della Grecia e i mari del Tirreno, i furfanti sul porto di Pozzuoli e i mercanti nel tempio di Giove. Ho conosciuto le divinità dell’Olimpo e i lari di Roma, i leoni di pietra e i sigilli dell’impero. L’aquila reale. Che vista, l’aquila! Un milione di cellule in ogni occhio, angolo di visione: trecento gradi, immagini ingrandite di sette volte al centro della retina. Ad ali spiegate in alto nel cielo riesce a vedere il cerbiatto nascosto nell’erba, il pesce che nuota beato. L’aquila ha occhi che possono tutto. I miei, adesso, non sono che un ricordo di quello che furono e di quello che videro. Indimenticabili, gli occhi dei romani. Rapaci che sapevano vedere lontano. Ma pure in quegli altri occhi stranieri che di qui sono passati c’era una specie di lontananza. Temo non sia il solo: ditemi voi se avete mai visto sguardi senza nostalgia e occhi privi di struggimento. I suoi occhi avevano l’azzurro del sud che lui, venuto dalla Germania, amava a dismisura. A dismisura. Tutto in Federico era a dismisura: le sue imprese, la sete per la conoscenza, la curiosità per i numeri, per gli astri, la passione per la caccia e per i falchi. I falchi, anche loro con occhi prodigiosi. Un milione di coni per millimetro quadrato. Ripeto: un milione di coni per millimetro quadrato. Fate un po’ il conto voi umani, che ne avete appena centosessantamila, in un millimetro quadrato. Dall’aquila al falco, dall’impero romano a quello di Federico. Il Puer Apuliae, lo Stupor Mundi, che a Capua volle le porte del suo nuovo regno. Tutto doveva essere stupore e meraviglia ai suoi occhi, perché tutto doveva stupire gli occhi dei sudditi. Aveva 85
Petra narrat uno sguardo più veloce del vento. E il vento lo conosco bene io, che ci ho vissuto dentro, calzari alati e caduceo, messaggi di Zeus e promesse tradite, segreti e inganni, auguri e sortilegi. Ogni messaggio ho portato tra cielo e terra. Io sono il vento. Dicono che negli occhi degli uomini si vede quello che vedranno. Lo so sembra strana questa cosa qui, ma c’è qualcuno che ne è proprio convinto. Dentro certi occhi, sin da bambini, si riconoscono strade e castelli, greggi e scudieri, guerre e baci, indimenticabili. Misteri dello sguardo. Come altri occhi che cambiano colore, e si fanno trasparenti alla luce e poi all’improvviso scuriscono, rispondendo ai moti del cuore. Misteri dello sguardo: io stesso tante volte mi sono chiesto come fa il mondo che è così grande - terre fiumi laghi mari nuvole stelle a migliaia e campi rossi di papaveri e montagne bianche di neve - a entrare negli occhi degli uomini che sono così piccoli. Occhio pupilla iride, tutta l’immensità racchiusa in un punto, giù in fondo. Misteri. Come quelle immagini che si conficcano dentro la carne e non se ne vanno più. E avrei voluto vedere quello che c’era negli occhi di quel bambino, Pietro, Pier delle Vigne come poi lo chiamarono, che qui era nato e correva scalzo con i vestiti ruvidi sulla pelle nuda in queste strade. Presto incominciò a contare i passi che lo separavano dalle città dove si studiava il diritto, si facevano le leggi e abitava la politica. Ma tutto è partito da qui e niente ti lega al destino come il posto che ti ha visto nascere. Lo so bene io, adesso che sono solo una pietra strappata a me stessa. Insieme a me capitelli, urne, sarcofaghi, grottesche, colonne. Qualcuna è qui per ordine dell’imperatore. E ai suoi ordini fermi e decisi non si poteva dire di no. Prendere le pietre, le pietre di Augusto e incastonarle in nuovi muri, lungo altre strade. Pietre da spolio: secoli cuciti ad altri secoli, anni rammendati ai giorni. Perché tutti dovevano sapere che il potere era unico, da Dio discendeva e Dio lo dava a chi riteneva degno. Così dai romani era passato agli svevi. Dopo aver conosciuto maestri e giuristi, vescovi e diplomatici, Pier incontrò l’Imperatore, proprio lui, lo Stupor Mundi. E tanta era la grazia e la sapienza che Pier aveva accumulato in anni di studio, e tanto elegante e raffinato l’eloquio che in breve tempo divenne il suo consigliere, il protonotaro, il logoteta. Quanta luce occorre per stare accanto a chi splende? Abbagliava, Federico. I tanti che gli 86
Petra narrat stavano intorno mai avrebbero potuto riconoscerne i difetti. Soprattutto: mai avrebbero voluto vedere le ombre del loro sovrano. Per Pier arrivarono le missioni diplomatiche a Roma e in Inghilterra, i giorni in Sicilia trascorsi tra pergamene e sigilli, i momenti di gloria e i momenti di amore. Quell’amore che gli occhi non vedono, ma è così forte, misteri dello sguardo, che attira anche il ferro, come una calamita. Ed erano sere di musici e cantori, versi dolci, tra l’odore aspro degli agrumi. Ma ciò che legava Pier delle Vigne e Federico era l’amore per la Giustizia. Di lei entrambi si dicevano servi e padroni. Erano pronti a dare nuove leggi al mondo. E ci riuscirono: intere costituzioni furono scritte e riscritte. L’impero, benché antico, si voleva nuovo. E mentre loro correvano avanti nel tempo, disegnando il futuro con parole dotte e decise, noi pietre restavamo immobili ad ascoltare lo scalpitio dei cavalli, l’eco delle spade, il fragore di un regno che diventava sempre più grande e si riempiva di nemici: il papa, i principi, i baroni ribelli. Ma riuscimmo a sentire quel rumore di chiavi che aprivano il cuore di Federico. L’imperatore non aveva più segreti per Pier e lui sigillava tutto, con lealtà e fedeltà. La dignità che metteva nei suoi gesti diventava fama e gloria per entrambi. Quanta luce occorre per stare vicino a chi splende? Sino a quando il vento crudele dell’invidia o dell’incomprensione spezzò la loro amicizia e i lieti onori si trasformarono in tristi lutti. L’ira di Federico fu incontenibile: il logoteta sia imprigionato e condannato a morte. Gli ordini dell’imperatore non si discutono. Darei i miei calzari alati, il mio caduceo, il mio cappello, per sapere quel che accadde. Darei persino i miei occhi vuoti per conoscere la ragione degli occhi del poeta bruciati con il ferro rovente. Ordine di Federico. Quegli occhi ciechi e bruciati sentirono il rumore delle catene ai polsi. Pier delle Vigne, condannato per tradimento. Infangato per l’eternità. E ancora oggi, la sua anima, nel regno dei morti, chiede giustizia. Partecipe di una congiura, così dicevano. Per avvelenare l’imperatore. Maledette corti piene di serpi e intrighi. Davvero Pier sarebbe stato capace di uccidere l’uomo a cui doveva tutto e a cui aveva dato tutto? Meglio scacciare questo pensiero. Tra i mormori della Storia, il nome di una donna come un sussurro. Sua moglie piaceva all’imperatore o era stato il 87
Petra narrat protonotaro a essere sedotto dalle carni di una giovane cortigiana? Per amore si vive e per amore si muore. E nessuno osi guardare quello che piace all’imperatore tra le sete dell’alcova. Accecato Pier, dalla cieca violenza del potere. Federico non proferì più parola sull’accaduto. Quasi sopraffatto dal dolore. Solo una volta si lasciò andare ad una confidenza, un breve passaggio in una lettera. Pier, uomo retto e valoroso, aveva trasformato il bastone della giustizia in un serpente. Perché gli uomini sono volubili, e non c’è niente che duri. Si era fatto corrompere, Pier delle Vigne, e dopo aver conquistato terre e favori adesso voleva di più. Corruzione. Per vile denaro. Come Imperatore non poteva immaginare niente di peggio. Il potere abbaglia. Per questo nell’Impero c’era bisogno di giustizia. Perché solo la giustizia può proteggere gli uomini da se stessi, solo la giustizia rimette al mondo il mondo. Ordinò l’arresto di Pier delle Vigne, lontano dai suoi occhi, lontano dalla sua città. Non un documento ufficiale, non una traccia scritta del processo. Inquietante, in un regno in pieno di pergamene su cui si annotava tutto quello tutto quello che succedeva. Quando Pier uscì dal carcere, scortato dai funzionari e dai cavalieri di Federico, si lanciò da cavallo. E morì! Con la testa fracassata tra i sassi. Non era più capace di vivere, non voleva sopravvivere. A cosa? Alla propria vergogna o al venir meno della fiducia? Quale peggiore tortura: tradire o essere traditi? Pier delle Vigne è innocente o colpevole? Nemmeno la mia chiave, la chiave di Mercurio, quella che ancora oggi gli uomini muovono per conoscere il perché delle cose conosce la risposta. Perché? Questa parola, piccola tenace insidiosa necessaria, vola in alto e scende giù in picchiata più di quanto facciano aquile e falchi con le loro piume dei colori della notte. Milioni di perché in ogni luogo, in ogni tempo. E per questo, io, protettore dei commerci e degli inganni, dell’eloquenza e degli scongiuri, amo le domande e rovescio il mondo per trovare le risposte. Tuttavia c’è solo un posto dove nemmeno gli dèi riescono ad arrivare: il cuore dell’uomo. Il punto più oscuro, la caverna più profonda, là dove la luce si mescola al buio, lo splendore alla miseria, le leggi si ritorcono in pene, la giustizia entra in un regno dove più niente le appartiene. Il cuore è il più cavo dei nostri organi. E lasciate che ve lo dica il figlio di Zeus e Maia: non ci sono 88
Petra narrat occhi, in tutta la storia dell’umanità, che possono dire di aver visto per intero quello che c’è dentro il cuore di un altro essere umano. Darei persino il mio nome, per sapere quello che successe poi. Invece ancora oggi, uomini e donne camminano tra le pietre e i misteri, e quando in Piazza dei Giudici la notte si fa densa si possono ancora sentire le parole del poeta e dell’imperatore, ciascuno con la propria verità. E neppure io col mio caduceo riesco ad annodare le due voci. Se solo potessi sciogliermi da questa pietra, riprendere i calzari alati, volare e acciuffare quei due, togliergli di dosso lo stupore che abbaglia e il nero che opprime, se solo riuscissi a spingere il loro sguardo sino all’essenza, dove la verità parla da sola. Neppure la Storia sa raccontare le vicende degli uomini. Non basta contare le pietre, datare i documenti e riconoscere i monumenti. Il desiderio di verità mi fa fremere. Io Ermes Mercurio ho voglia di entrare ancora nel vento. Nel vento impetuoso della storia, nel vento impetuoso del cuore. Perché la verità è un volo di desideri e paure, un mulinello di polvere e luce, memoria e oblio, dentro gli occhi cavi del tempo.
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S. Angelo in Formis. Giardino Antropoli. Rilievo con tralci e cornucopia
Petra narrat
Pasquale Mercone Jr.
Just arrived Sono appena arrivato. Anzi, per essere più precisi, sono appena nato. Sono neo-nato. Qui hanno deciso di fare festa alla grande: sento suoni altissimi, quasi grida, vedo pietre che rotolano da tutte le parti, nubi di polvere e strani figuri vestiti di pelli di capretto, o forse di gatto a pelo lungo, non so … che festeggiano, appunto. Tutto questo perché ho deciso di entrare nel mondo? Ma è troppo, anche per uno strafigo come me! Fino a qualche giorno fa ero nella pancia della mia bellissima mamma e lei mi aveva detto, certo, che il mio arrivo sarebbe stato una gioia immensa per tutti, il mio superpapà, i nonni, gli zii, le zie, la zia che continuava a raccomandare che mi facessero ascoltare Mozart (ma sì, quello dei cioccolatini!), Haydn e Boccherini, ma qui devo essere proprio capitato in un concerto rock: che fracasso e che strepiti ... Accanto a me un signore continua a salmodiare: sono arrivati i barbari, sono-arrivati-i-barbari. 90
Petra narrat Deve essere un avvocato perché si rivolge a un certo Mirra per chiedere se si può avanzare una protesta alle Nazioni Unite sulla base della Convenzione di Ginevra (o forse Vienna, chissà). E perché poi? Per un po’ di ammuìna? Un momento però: qui c’è qualcosa che non va perché questi tizi vestiti di capretto (o gatto, non so) buttano giù tutto, statue, decori, colonne, capitelli: saranno talebani dell’Isis o Isis dei talebani, non ho capito bene. Comincio a preoccuparmi: un rocchio in testa non sarebbe piacevole, no, no! Ma ... eccola, stiamo calmi tutti, sono salvo finalmente: è arrivata la mia supermamma Francesca che mi prende fra le braccia più sicure dell’Arca di Noè e mi porta via di qui, poco lontano, vicino a un fiume volteggiante e mi appoggia su una magnifica pietra adorna di una cornucopia. Portafortuna, dice zia Jolanda, portabenessere. Con questa zia non si sa mai (è quella di Mozart ...) perché mi dice continuamente che devo studiare: cioè? Comunque, mi guarda estasiata. Mi adora e, del resto, come potrebbe resistermi e, soprattutto, perché dovrebbe? Intanto, mi godo la vita accanto al fiume sdraiato sulla mia pietra: apro gli occhi e vedo alta sulla collina una chiesa stupenda fra i cipressi. Mi dicono che è la chiesa di S. Angelo in Formis. Angelo? Ma sono io, come dice la mia mamma! Oh, oh! La mia pietra-cornucopia si muove pian pianino per andare a salutare altre sue amiche: mammamia quante pietre sono fuggite da Capys per venire a Capua. Rotonde, quadrate, rettangolari, piccole, grandi e tutte spogliate. No, la mia mamma mi corregge: non sono né spogliate e neppure spigliate, sono pietre di spoglio, spolio, uff!, che parola difficile. Insomma, mezza Capua è fatta con queste pietre ed è bellissima. Sia chiaro, però, io dalla mia (parallelepipedo con cornucopia in rilievo) non mi muovo: il mio superpapà Silvestro ha già avanzato regolare richiesta su carta intestata alle autorità. Ma, sogno o son desto? Su una carta intestata è scritto: Pasquale Mercone, Avvocato. Sono già avvocato e non lo sapevo? Ha proprio ragione la mia mamma: forget it e godiamoci i fiori, il sole e la brezza che viene dal fiume e pure Bijou che mi guarda senza parlare, abbaiare, per non disturbare, credo (XX Febbraio MMXV).
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S. Angelo in Formis. Casa Antropoli. Rilievo con meandro
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Angelo Morlando
Nella tasca di un ebreo di Cafarnao
Mi chiamo Cefa. È trascorso tanto tempo dalla mia nascita. Ricordo solo un lampo iniziale e mille colori in una spirale infinita in continuo movimento. Sbalzata in tutte le direzioni fino a un lungo riposo; anche questo senza tempo. E poi una nuova luce ... Un rumore di scalpello. Delle voci umane. Giorni e giorni di intagli, incisioni, scheggiature e levigature fino a diventare ciò che sono ancora oggi, anche se con qualche segno del solito tempo. Ho ricordi lontani, ma il più vicino mi riporta in Galilea, quando viaggiavo nella tasca di un ebreo di Cafarnao con un nome molto simile al mio. Ricordo quella voce: ... e su questa pietra edificherò la mia Chiesa ... Ho ormai accettato che quella voce potente non si rivolgesse direttamente a me, ma crederci mi ha dato tanta autostima. Con il pescatore di Betsaida giunsi a Roma, attorniata da ali di urla e pianti. Fu un periodo difficile. Le mie compagne vennero spesso utilizzate per lapidazioni femminicide. Io stessa fui nominata più volte per tali atti osceni, ma la mia guida si rifiutò sempre di mostrarmi all’esterno, pertanto, ascoltai tanto, ma vidi poco. Nonostante il mio visus limitato, fu molto di più di una persecuzione. Ho subito il suo martirio e quando i suoi panni vennero deposti prima della crocifissione, una mano furtiva mi accolse. Giunsi nelle mani di un mercante che mi chiamò pietra angolare; anche questo nome mi fu caro, ma io sono stata sempre moderata, equilibrata, contenuta. In poche parole, sono sempre stata al mio posto; e sentirmi responsabilizzata al punto da essere considerata un sostengo solido sul quale basare l’intera costruzione, mi sembrò eccessivo e mi ribellai ... E fui punita ... Mi incisero a lungo, secondo un disegno evidente e precostituito. E fu così chiaro anche perché spesso mi rinfacciassero che non avessi una sola faccia. Da quel giorno mi è stato chiaro di possedere sei facce, di cui una nascosta. 93
Petra narrat Il mercante mi condusse ad un porto di tranquillità1, dal quale ero già passato con la mia precedente guida pochi anni prima per la consacrazione di un Santo2, e non ci volle molto (qualche centinaio d’anni) per darmi una definitiva collocazione in un luogo santo e sacro3 dal quale poter osservare tutto e tutti da ogni prospettiva. Con sei facce non è difficile. Ne ho viste e sentite tante. Preghiere e bestemmie, costruzioni e distruzioni, Santi e Demoni, benefici e malefici, ma la mia vita è strettamente legata agli esseri umani e, negli ultimi tempi, ho visto nascere e diffondersi, come il virus dell’Ebola, una nuova specie di stolti, sciocchi, sconsiderati, sprovveduti, ottusi, balordi, incoscienti. La moltitudine li definisce stupidi, ma mi fa sempre sorridere la definizione di stupido che ascoltai da una persona molto saggia: “... lo stupido è colui che nel suo agire reca sicuramente danno agli altri, ma quasi certamente non reca beneficio a se stesso ...”. Li seguo ogni momento, nel loro frenetico correre e rincorrersi, ma nella mia stasi faccio sicuramente più movimento. Li definisco i non esseri, perché la loro breve vita è costellata dal non decidere. Ne ho viste e sentite tante e credo che, fortunatamente, questa nuova specie avrà vita breve. Ho accumulato troppa storia, troppo coraggio, troppo fare per rinunciare a credere che questa specie svanirà. La mia sesta faccia mi conferma la mia convinta irrequietezza: che si può cambiare, migliorandosi, senza distruggere il proprio passato e le proprie origini. A proposito ... A seguito della mia ribellione, di cui ho già detto, mi incisero sulla faccia interna, quella nascosta, una stella argeade, la stella a sedici punte dei re Macedoni ... ma questa è un’altra storia ...
1 Alle origini dei tempi, l’area tra l’odierna Casilinum-Capua e Santa Maria Capua Vetere, era anche indicata come porto di tranquillità per la sua collocazione orografica e la bellezza complessiva del territorio. 2 Una nota storiografica, mista a leggenda, vuole che San Pietro, prima di procedere verso Roma, avesse consacrato San Prisco quale vescovo di Capua. 3 Il riferimento è alla basilica di Santa Maria Maggiore, edificata nel 432 ca. da San Simmaco, vescovo di Capua e odierno patrono di Santa Maria Capua Vetere, e parzialmente distrutta a seguito delle invasioni dei Saraceni del IX secolo d.C.
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Via Roma. Cippo funerario romano in calcare
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Via dei Principi Normanni. Epigrafe latina
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Luca Murolo
Quelle maledette porte
Quelle maledette porte erano il punto debole del suo piano, ma se lo era studiato bene. Un piano semplice ed audace, che necessitava di velocità e coraggio, ed Antonio Corcione possedeva entrambe queste doti, ed in più aveva una ferocia innata. La ferocia di una belva. Non era un sadico, ma sapeva essere di una violenza estrema, quella violenza così selvaggia che spaventa la gente civile. E su quella ferocia aveva contato; ma qualcosa era andato storto. Tutta colpa di quelle maledette porte! Il Banco Popolare di Capua, era una piccola banca, e la filiale che Antonio Corcione aveva preso di mira, un’ancor più piccola agenzia. Ma avevano montato quelle maledette porte nuove, quelle con il bancomat all’interno, che se non se ne chiude una, l’altra non si apre, e nell’andito tra le due porte non le si può comandare. Si può solo obbligare qualcuno dall’interno ad aprire. E Corcione se l’era studiata bene: sapeva che quel giorno ci sarebbero stati vari versamenti cospicui, e prima di ora di pranzo il contante non sarebbe stato chiuso in cassaforte, ma lasciato lì nelle casse, a disposizione dei clienti; e sua naturalmente. Ma sapeva soprattutto che il direttore, Raffaele D’Amore, aveva un debole per Elisa Fiore, la giovane impiegata con la scrivania nei pressi dell’entrata. A dire il vero non era un segreto, tutto il paese se ne era accorto e mormorava. Il direttore, a casa, non aveva vita facile. La moglie gli dava il tormento, ma non poteva seguirlo ovunque, perché essendo un’insegnante, per di più madre di due figli, aveva il suo da fare. E subiva, ma non in silenzio. Il Corcione entrò nell’istituto, disarmò e tramortì la guardia giurata, e prese immediatamente la bella Elisa, stringendole la gola con una delle sue forti brac97
Petra narrat cia. Con l’altra mano impugnava una pistola, con la quale minacciava, a turno, gli astanti e l’impiegata. Lanciò un sacco, una federa di un guanciale di casa, ai due cassieri, e gliela fece riempire con le banconote. Aprì la prima porta, e trascinandosi dietro la povera ragazza, la varcò, ed attese pazientemente che si chiudesse. Adesso veniva la parte più delicata di tutta l’operazione. Sapeva che sarebbe tutto dipeso dalla paura che sarebbe stato capace di incutere. - Apri! - urlò, rivolto al direttore ed un po’ a chiunque fosse in grado di obbedire. Fece inginocchiare la ragazza tenendola per i capelli, e le sparò nel polpaccio destro. L’urlo che questa emise, strozzato dal dolore e dallo choc, fu agghiacciante, ma con la sua voce stridula la sovrastò: - Apri!! Il dottor D’Amore era un uomo tranquillo, di mezz’età, e non se lo fece ripetere. Ma furono quei minuti persi a fregare il delinquente. Uscì dalla banca, si guardò intorno, lasciò l’ostaggio, e montò sullo scooterone rubato che aveva parcheggiato lì fuori. Non si accorse di un’altra guardia giurata che era sopraggiunta nel frattempo, si era nascosta dietro un’auto posteggiata. Non appena infilò la pistola nel giubbino, l’altra mano occupata dal malloppo, questi fece fuoco due volte e lo colpì all’addome. Il dolore fu lancinante. Quelle maledette porte! Ma che c’entravano, adesso le porte? Era uscito, no? Le idee gli si iniziavano a confondere. Come la vista. Che dolore! Non riusciva quasi più a camminare, metteva a fatica i piedi l’uno dietro l’altro. Ma non aveva uno scooter? Maledette porte, maledetto dolore! 98
Petra narrat Sì, era caduto, ed ora si trascinava a piedi per i vicoli della città vecchia. Il dolore era atroce. Dov’era Amalia? Se solo ci fosse lei, Amalia. L’unica donna che aveva mai amato. L’unico essere umano che l’avesse mai capito. Il dolore era divenuto insopportabile. Le gambe non lo sostennero più. Si accasciò contro la parete rosa, scrostata, di un vecchio palazzo. E finalmente non sentì più nulla, né il dolore, né la frustrazione per i suoi numerosi fallimenti. Solo la quiete. La mano destra stringeva ancora, patetica, il malloppo, la sinistra scivolava su di una pietra intagliata incassata nel muro. - Amalia ... - mormorò con un filo di voce -Amalia ... sei tu? - Sì, Antonio, riposa ... - gli rispose la pietra antica, ritornata per un istante in vita. Un istante infinitesimale. Solo per quel disperato. - Eccolo! - esclamò il maresciallo Altieri. L’abbondante ventre che si ostinava a comprimere con la cintura dell’uniforme, non l’aveva certo aiutato in quegli ultimi cento metri, fatti di corsa dietro al bandito. Era tutto sudato. Quando aveva abbandonato la moto, e si era infilato a piedi negli stretti vicoli del centro storico, anche i Carabinieri erano stati obbligati a lasciare l’auto ed a seguirlo a piedi. - È morto - disse il brigadiere Varriale, inginocchiato accanto al corpo. - Poveraccio! - il maresciallo, più anziano di servizio e di età, era più incline alla misericordia umana - Era un pezzo di merda! - precisò a mezza voce il militare, ancora accosciato - ha sparato a quella donna a sangue freddo ... senza pietà. Gli sta bene! - Varriale ...! - lo ammonì il superiore - era un poveraccio. Non lo hai riconosciuto? - continuò - È Corcione, il marito di quell’Amalia Corcione morta di overdose due mesi fa. - Elisa, amore - le sussurrò, tenero, il direttore - come ti senti? 99
Petra narrat - Di schifo! - rispose la ragazza, più annoiata che dolorante. La stanza a due letti dell’ospedale, era occupata solo da lei. Un trattamento di lusso, in quei tempi di restrizioni sanitarie ... L’uomo le si avvicinò, come per baciarle le labbra, ma lei si scostò, sprucida, con una smorfia che chiedeva di esser lasciata in pace. Però, prima che ritornasse a sedere, gli chiese a bassa voce: - Ma non ho capito una cosa, addosso a quel disgraziato, hanno trovato solo 19.000 euro. A noi ne mancano più di 700.000 ... - Non ci pensare, tesoro mio - il D’Amore le rispose a voce ancor più bassa - pensa solo a stare bene. Appena guarisci, ti porto a Parigi. - Puci puci! - esclamò lei, tornando a voltarsi e, quasi casualmente gli porse la bocca, per un bacio più che affettuoso - E mi porti anche al Crazy Horse? - Ma certo, amore mio, e ti compro anche quella Mini che desideravi tanto. Tu pensa solo a star bene.
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Corso Gran Priorato di Malta. Frammento di ara
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Via Pier della Vigna. La dea Cerere con spighe di grano e cornucopia
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Francesca Nardi
La testimone
Se soltanto potessi rotolare ... come quel pomello di marmo levigato che decorava il triclinio di Octavia ... una piccola opera d’arte di marmo variegato che si è staccato sotto i colpi violenti di maglio inferti dal barbaro ed intatto è scivolato lontano ... attraverso nubi dense di terriccio e polvere ... prima lentamente poi ha preso vigore e velocità ... all’improvviso non l’ho più visto ... chissà dov’è ora ... sicuramente in salvo ... lontano dalla memoria di quella folle invasione, da quel furore insensato, da questa distruzione ... da questo dolore ... l’orrore di quei giorni ha dissolto persino i profumi del vespro quando il glicine di Octavia s’impregnava dell’umidità del tramonto e stordiva con l’aroma penetrante ed acuto dei suoi petali ... vedi io invece ... sono qui ... in questo luogo sconosciuto, desolato, immerso ormai da tempo immemorabile nell’ombra greve, umida e maleodorante ... Intorno è silenzio di morte ... anche l’eco delle grida volgari del barbaro si è ormai persa nel silenzio ... cosa sarà di me ... quando Demos lo scalpellino più famoso di Capua mi staccò dalla madre pietra, non ha voluto ascoltare i richiami accorati della mia vanità ... liscia ... per favore ... leviga ti prego ... arrotondami ... ma le mie parole erano solo un bisbiglio che gli solleticava il naso e le orecchie ... ti prego ascoltami ... imploravo, ma i colpi di scalpello erano duri dritti e decisi ... Demos sa sempre quello che fa ... è il miglior scalpellino di Capua e le sue idee sono precise, chiare ... forti come il suo braccio e la squadratura perfetta ... ma io avrei voluto una forma leggera, tondeggiante, armonica ed elegante ... Certo, se guardo al passato ... non posso che compiacermi ... sono stata felice nella notte dei tempi, quando nella terza ora del mattino l’ampio mantello scuro di Attico mi sfiorava velocemente ... quando nel buio il bisbiglio della giovane Clodia, la figlia di Licinia, sorella di Octavia, lo guidava verso di lei ... ed io nella notte vegliavo immobile tra l’ampio vestibolo ed il peristilio ... in attesa del suo ritorno ... temendo il suono dei passi della sospettosa Lucrezia ... 103
Petra narrat Bei tempi quelli ... io pietra centrale della parete portante della nobile dimora di Attico Duilio, testimone della vita e della morte, sono stata umiliata, offesa ... rinnegata ... eppure il destino stesso di quella stirpe patrizia è stato scolpito nel mio ventre ... Io sono la memoria della vita e della morte che il barbaro ha divelto, massacrato, lanciato lontano ... maledetta sia la sua discendenza ... orribili creature senza patria né onore ... Glauco Duilio, il nobile padre di Attico, si rivolterà nella tomba dinanzi a tanta desolazione ... ma cos’è questo strano rumore ... ma chi arriva? Chi viene con tanto frastuono ... Dèi dell’Olimpo ... una nuova orda scomposta sta per travolgerci ... non resisterò a tanto ... voci ... grida ... voci di comando ... cosa sarà mai ... chi saranno mai ... che strano abbigliamento ... tutti uguali ... ma non sembrano malintenzionati ... forse sono schiavi ... meglio non illudersi ... se soltanto fossi rotonda, basterebbe un soffio per rotolare giù per il dirupo e trovare infine riposo nel luogo più buio ... laggiù nel Volturno ... ma così quadrata e pesante ... cosa sarà di me? ... Giove potentissimo, aiutami ... fai in modo che non si avvedano di me ... ma cosa ... cosa fate ... lasciatemi ... di grazia ... non fatemi strisciare così ... insomma, un po’ di rispetto ... che muscoli questi due! ... mi sollevano come una piuma e adesso cosa fanno ... madre Giunone ... mi caricano su di un carretto traballante ... ehi piano... dove mi portate???, che percorso è mai questo???, ma guarda ... quello non è il basamento del vestibulum della domus di Dezio Prisco???, e questo tronchetto che mi si avvicina pericolosamente ogni qualvolta questo carretto plebeo salta sui fossi ... sì sì lo riconosco ... era destinato alla villa di Medora la vedova del console Apuleio ... seminascosta nei boschi rigogliosi oltre porta ... abbiamo avuto la stessa madre ... tutti scelti, staccati e levigati da Demos ... destinati alle nobili dimore capuane ... ed oggi abbiamo lo stesso destino ... ma quale???. Ehi piano! ... finirà che voleremo giù dal carretto ed io che non rotolo rimarrò qui, immobile, ancora per chissà quanti secoli, in questa contrada sconosciuta ... che destino orribile ... quale maledizione mi perseguita ... cosa ho fatto per essere umiliata così??? Ah ... sembra che ci fermiamo ... bene ... tra poco almeno saprò in quale anfratto vivrò l’eternità che mi attende ... eppure sono levigata da un artista ... il mio colore, diceva Demos, somiglia alla fusione dell’acqua con l’aria ... un col104
Petra narrat ore perlaceo con sfumature di morbido grigio ... non a caso fui scelta ... ed ora? cosa sarà di me? Questa strana gente non sarà in grado di distinguere un volgare sasso da una pietra del mio rango ... sento scorrere le ore lentamente dalla luminosità del mattino al rosso del tramonto uno due tre ... e poi mille notti silenziose ... no ... qualcosa sembra muoversi laggiù ... sono di nuovo quei due schiavi vestiti con uno straccio attorno ai fianchi e scalzi ... ehi piano!, dove mi portano?, guarda che meraviglia questa strada ... ma dove siamo?, chissà che luogo è questo ... sembra tutto così odoroso di nuovo ed allo stesso tempo di antico ... Dèi dell’Olimpo ... cosa mi sta succedendo ... sento uno strano calore ... all’improvviso mi sembra di essere tornata a casa ... ho detto: di nuovo?, ma io conosco queste pietre ... ma guarda ... incredibile ... sembra che il tempo sia tornato indietro velocemente e tutto stia ricominciando ... sono troppo vecchia ... evidentemente la solitudine mi ha fatto un brutto scherzo ... comincio a sognare ... la nostalgia ahimé, mi ha logorato più del tempo impietoso e la pioggia ... sento che mi sto consumando irrimediabilmente ... eppure c’è troppo movimento qui intorno e questi palazzi attorno ai quali brulicano mille schiavi come api operaie, sono reali e stanno prendendo forma ... le antiche dolci forme della mia città ... forse il tempo di morte che ho vissuto mi ha regalato una splendida illusione ed io porterò con me a consolazione l’immagine di una nuova Capua ... ma lasciatemi stare ... sto bene qui ... questi due schiavi sono incredibili e noiosi ... andate via ... lasciatemi stare infine ... sto bene qui ... questi due miserabili mi stanno trasportando un’altra volta ... ma ... guarda che meraviglia questo palazzo nascente e poi i colori ... ma cosa fanno ... mi sollevano ... mi trasportano ... questo arco è meraviglioso ... ma questo è un portale ... ed io sono proprio qui ... alla base di questa magnifica architettura ... su di me poggia l’intero arco di pietra ... dèi dell’Olimpo ... Giove grandissimo non vi siete dimenticati di me ... certo il tempo è trascorso e la sofferenza impossibile persino da raccontare ... ma non dovevo disperare ... prima o poi mi avrebbero cercato ... era inevitabile ... come avrebbero mai potuto creare un’opera d’arte senza di me?
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Piazzetta Quadrapane. Rilievo con decorazione floreale
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Gennaro Oliviero
Il selfie della Venere di Capua
Di ritorno recentemente da Parigi, dove sono andato a salutare - ancora una volta - la Venere di Milo al Louvre, mi sono allungato (si fa per dire: vi abito di fronte) al Museo Archeologico di Napoli per rivedere (ormai è un’amica ...) la Venere di Capua. La prima volta che la vidi (quanti anni fa?) la guida mi spiegò che le braccia alzate stanno ad indicare, probabilmente, che doveva esserci in origine uno scudo di Marte (come l’elmo sul quale poggia il piede sinistro), usato dalla dea per specchiarsi. È una Venere seminuda, scultura marmorea romana databile intorno al II secolo d.C., copia di un originale bronzeo del IV secolo a.C. che a me - lo confesso, nonostante la mia francofilia - è sembrata sempre più bella della sorella del Louvre, quella di Milo. Non conosco le vicende che l’hanno portata da Capua a Napoli, ma penso che il suo occultamento, durato tanti secoli, abbia impedito che diventasse vanto e pregio di qualche aristocratica famiglia di Capua e dintorni. Una tale eventuale destinazione non mi sarebbe sembrata ‘disdicevole’: il fascino della bellissima Capua che oggi ammiriamo (e che ho avuto modo di apprezzare nel corso delle tante iniziative culturali che caratterizzano quella città da qualche anno) dipende anche dai reperti archeologici e dalle pietre che si ammirano nelle sue strade, che la rendono un museo a cielo aperto. Orbene, cosa è successo nel corso di quella visita all’Archeologico di Napoli? Con mio stupore (e credo anche di quello degli altri visitatori presenti) una ragazza ha tentato, con spericolate acrobazie (salendo in groppa all’aitante giovane che l’accompagnava e con svariate contorsioni) di farsi un selfie con la indifesa Venere. Conseguenza della moda attuale? suggestione del selfie di un ragazzo napoletano con Benedetto XVI di qualche tempo fa? o di quello di Papa Francesco dell’anno scorso? Non so, e non so neppure se il tentativo maldestro di quella giovane sia riuscito. Sta di fatto che quella sera, di rientro dalla visita, 107
Petra narrat mi sono recato a cena a casa di amici ai quali ho raccontato l’accaduto che è stato oggetto di vivace discussione tra i denigratori del gesto e i sostenitori della modernità dell’iniziativa (modernità sta qui per moda? giudichi il lettore). Non finisce qui; di ritorno a casa - tardissimo, la qual cosa è ormai inconsueta per me - vado a letto, ma stento più del solito ad addormentarmi. Il mio pensiero non riusciva a staccarsi da quell’episodio, forse non tanto per la rilevanza in sé dell’accaduto, ma per il chiacchiericcio che aveva suscitato nella serata conviviale. E come spesso accade (fenomeno della memoria involontaria di proustiana memoria?) mi vengono alla mente letture recenti, tra cui quella del libro di Théophile Gautier che racconta di una visita al Museo Archeologico di Napoli e agli scavi di Pompei; si tratta di Arria Marcella. Ricordo di Pompei, pubblicato nel 1852, che riprende un tema di moda della narrativa dell’epoca (ancora la moda?), ispirandosi alla novella Gradiva di Wilhelm Jensen e ai Racconti di Hoffmann. Quello di Gautier l’ho riletto l’anno scorso, per “prepararmi” alla visita di Jean-Yves Tadiè a Napoli (il decano degli studiosi di Marcel Proust) che abbiamo accompagnato in visita agli scavi di Pompei. Arria Marcella era una fanciulla di epoca romana vista in immagine da un visitatore del museo di Napoli e incontrata in carne ed ossa a Pompei, nel corso di una visita del protagonista della novella (fantastica) di Gautier. A quel punto finalmente mi addormento e comincia il mio sogno. Il sogno del selfie Mi ritrovo al cospetto della ragazza acrobatica del mattino, la quale, specchiandosi nello scudo di Marte della Venere di Capua (da dove è sbucato? chi l’ha ricollocato tra le braccia della Venere? era nei depositi del museo che conservano migliaia di reperti?), è riuscita a farsi un selfie con la Venere. Ma arriva un custode, redarguisce la ragazza per il gesto temerario - si era aggrappata alle braccia della statua, probabilmente fragili perché in passato staccate e poi restaurate - il ragazzo interviene con insolenza, il custode reagisce, ne nasce un tafferuglio, arriva il responsabile della vigilanza che minaccia di chiamare la polizia. A questo punto i due giovani maldestri si danno alla fuga e, nella concitazione, il telefonino cade dalla tasca all’insaputa della ragazza. Lo raccolgo e guardo il selfie: miracolo! l’immagine riflessa nello scudo della Venere è nitidissima, ma la 108
Petra narrat ragazza non vi figura. Si vede solo quella della Venere, ma questa volta sorridente. Per lo scampato pericolo? per sdrammatizzare l’accaduto? per il compiacimento del ritorno alla ... posterità? Mistero! Un ritratto di Dorian Gray alla rovescia? Ancora più bella e trionfante nel ritrovato sorriso dopo l’occultamento di secoli nell’anfiteatro campano. Quante domande, quanti enigmi da scoprire! Allora trasferisco il selfie sul mio cellulare e consegno al custode quello della ... fuggitiva (magari si chiamasse Albertine! l’assolverei per il misfatto, come fece Proust quando fuggì l’amato Agostinelli che nel romanzo diventa Albertine ...). A questo punto vedo arrivare trafelato, di gran corsa, un distinto signore, in abiti di altri tempi, che mi chiede: dove sono? dove sono? - Cosa? - gli chiedo. Le braccia della Venere - mi risponde. Dopo alcune concitate battute il nuovo arrivato si presenta: “Sono Augusto Brunelli, il restauratore delle braccia e di alcune parti del viso della Venere”. Aggiunge poi che il restauro l’ha fatto nel ... 1820. Allora capisco tutto (o niente?). Perchè sia in abiti ottocenteschi, almeno questo, mi è ora chiaro. Gli spiego che c’è stato un falso allarme e che qualcuno del museo, parzialmente informato dell’accaduto, l’ha convocato (a vuoto) per un nuovo restauro. Mi guarda con un’aria sollevata e mi dice: cosa è successo al viso della statua? Quel sorriso, quel sorriso, non lo ricordavo! E allora eccomi a raccontare l’accaduto, lo scampato sfregio dell’opera, ecc. Vedo spuntare sul viso di Brunelli un sorriso di compiacimento ed esclama: “È un segnale, è un segnale!”. È il sorriso della Bellezza, che ha il potere di riportare alla forma originale tutto ciò che è diventato nel tempo corrotto o vetusto. Bisogna farla uscire, in processione! - aggiunge - Portarla nelle strade di questa Napoli un tempo tanto bella e ora stravolta da scempi e brutture. Ma c’è San Gennaro che va in processione, non basta? - gli dico. No, proprio quello no! - mi risponde. Come può simboleggiare la Bellezza quella faccia gialluta? (Così viene apostrofato il Santo dalle sue parenti quando il miracolo della liquefazione del sangue tarda a verificarsi ). E poi doveva essere brutto da vivo; lo vediamo dalle sue immagini disegnate nelle catacombe di Capodimonte. Non era proprio un bel giovane. No, no, no! - continua Brunelli. Il suo tono alterato mi sconsiglia di replicare. Trovo una via di uscita e gli dico: “Guardi questo selfie: le piace?”. Osserva con attenzione l’immagine del telefo109
Petra narrat nino, lo prende in mano con circospezione e aggiunge: “Non è male, fatela circolare; io sono stanco, mi ritiro. Ma portatela anche a Capua, vi raccomando!”. Fa un inchino, gira i tacchi, si allontana e prima di scomparire grida: A Capua, a Capua, a Capua! Che faccio ora? Assurdo chiedere in prestito la Venere per portarla in processione a Capua. Ma no, mi sbaglio! Brunelli, dicendo fatela circolare, si riferiva all’immagine del selfie. Allora è tutto più semplice: basterà stampare qualche centinaia di locandine dopo aver ricevuto dall’amica Jolanda Capriglione - Assessore alla Cultura della città di Capua - l’assicurazione che potranno essere distribuite in quella bella città d’arte. Detto fatto! Un’email immediata di conferma mi arriva da Jolanda dopo qualche ora. Le pietre di Capua (prosecuzione del sogno) Parto in auto al mattino in compagnia dell’amico Antonio, che dovrà aiutarmi nell’impresa. Mezz’ora e siamo a Capua. Da dove cominciare? Cerco il palazzo nobiliare dove presentammo pochi mesi fa la rivista che dirigo, Quaderni proustiani, alla presenza del Console generale di Francia a Napoli, M. Christian Thimonier. Non lo trovo subito; mi rileggo il foglietto sul quale ho annotato le notizie fornite da internet: “L’anfiteatro Campano o anfiteatro Capuano, di epoca romana (I-II secolo d.C.); parte consistente delle sue pietre furono utilizzate dai capuani in epoca normanna per erigere il Castello delle Pietre di Capua ed alcuni dei suoi busti ornamentali, utilizzati come chiavi di volta per le arcate del teatro, furono posti sulla facciata del Palazzo del Comune”. Ecco due punti privilegiati per l’affissione delle locandine: detto (anzi, pensato) e fatto subito, sotto gli sguardi incuriositi dei passanti. Chiedo di Palazzo Lanza, quello che prima cercavo, dove ci fu la presentazione della rivista. Zac! Anche lì subito affisse due locandine. Mi indicano il Vicolo del Mitreo non lontano da Capua: ancora un’operazione compiuta, proprio all’ingresso del monumento ipogeo (bellissimo! merita una apposita visita). E il Museo Campano di Capua? non merita la nostra attenzione? Non è possibile! Ci rechiamo lì e tappezziamo la porta d’ingresso interamente con la bella immagine della Venere (ora sorridente, per lo scampato pericolo). Ci fermiamo, esausti per la galoppata mattutina, e mi chiedo: a che serve tutto questo? Qual era il senso occulto del110
Petra narrat l’invito del restauratore Brunelli, quel “Fatela circolare!” ripetuto più volte? Mi sento smarrito e confuso e allora interviene Antonio (il mio accompagnatore) che mi chiede: che altro ha detto Brunelli? Ha parlato del sorriso della Bellezza, quello sorto misteriosamente sul volto della Venere come è apparsa nel selfie, che ha il potere di riportare alla forma originale tutto ciò che nel tempo è diventato corrotto o vetusto - gli rispondo, compiacendomi di aver ricordato quella frase che avevo dimenticato. È tutto chiaro - mi dico. Qui ci vuole Jolanda Capriglione; le telefono, cerco di spiegarle (non so se ci riesco; non le sto parlando mica del sorriso della Gioconda, che tutti conoscono). Arriva sorridente (lei lo è sempre, fortunatamente) e accetta di accompagnarci in giro, nella città antica: stradine, vicoletti, slarghi, incroci. E case, palazzi, facciate, muri, monumenti: dovunque il tempo o l’incuria hanno lasciato tracce, attacchiamo il selfie della Venere di Capua Sorridente ovunque. Miracolo! miracolo! Che ne fate del re Mida che trasformava tutto in oro! Manco il tempo di collocare la locandina e zac! tutto riacquista l’aspetto originario. Antonio non crede ai suoi occhi e mi dice: sembra il set di un film storico, tipo Spartacus. Gli spiego che ha azzeccato: la rivolta di Spartaco iniziò proprio da queste parti. Non è vero, Jolanda? Conferma compiacente. Tutta la mattinata in giro, a fare gli attacchini. Antonio esausto chiede di restare in auto per riposarsi, ma io vado avanti. Zac! zac! zac! Vado alla Basilica Benedettina, al Duomo, al Convento dell’Annunziata, alla Chiesa di Santa Caterina, alla Chiesa della Santella (denominazione che mi incuriosisce, e ne chiedo a Jolanda che mi spiega l’origine del toponimo: sa tutto! veramente tutto! come sono invidioso!). Tutta Capua è ora davanti ai nostri occhi, splendida, perfettamente restaurata, unica al mondo! Che meraviglia! Cerco Antonio, mi giro e intravedo sul muro della stradina dove l’ho lasciato un busto marmoreo di antica fattura, una delle tante incredibili pietre di Capua incastonate un po’ ovunque, collocato su un muro fatiscente (ci vuole un selfie! mi dico). Intravedo in alto, alla sommità del muro (saranno tre, quattro metri) un altro reperto. Voglio vederlo da vicino! Mi arrampico alla meglio, ma non ci riesco; ci vorrebbero i trampoli viventi del finale della Recherche per arrivarci. Ritento, ritento, ci tento ancora fin quando, 111
Petra narrat con un gran tonfo, precipito in basso. Che botta! che dolore! cosa mi sono rotto! Niente fortunatamente; mi tasto la gamba dolente, voglio osservarla, ma non vedo nulla: buio! Buio profondo! Tasto qualcosa, tocco una cosa ... pelosa, sento un miao, miao. Capisco che sono sveglio, era un sogno, un bellissimo sogno (incidente finale a parte ...). Accendo la luce: accanto a me Sephora, la mia gatta che mi guarda timorosa. Penserà forse: - Sarà ammattito? si agitava tanto che ho rischiato di essere schiacciata. Sì, forse nella caduta (sognata) mi son girato di botto rischiando di schiacciare la fragilina (ma hanno sette spiriti i gatti; forse i miei quindici gatti - del Giardino di Babuk - ne hanno otto (di spiriti) perché Babuk e anche Ketty che riposa lì da qualche giorno ...). È stato un bel sogno! Lo racconterò all’amico Nino Daniele, Assessore alla cultura di Napoli, che forse mi dirà: facciamo anche un selfie del busto di San Gennaro? Almeno, sia pure in sogno, potremo vedere una Napoli ... recuperata. Longtemps, je me suis couché de bonne heure (A lungo, mi sono coricato di buonora): è l’incipit della Recherche. Devo ritornare alle abitudini di un tempo: andare a letto di buonora per continuare a sognare ...
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Via L. Abenavolo. Rilievo con decorazione floreale
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Via S. Tommaso. Parte di colonna scanalata romana
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Marco Palasciano
Per una via d’incontri straordinari
Poeta filosofo gentile e attento, eppure quante volte ti ho veduto - da dietro il velo che mi copre il volto - passare davanti alla mia figura immobile e mai notarmi, mai soffermarti. (Non che io me ne adonti, giuro; Calus m’è testimonio). Tiravi dritto, un tempo, fino in fondo alla via, dov’è più densa l’aura saturnina, là dove dimorava quel tuo sole amicale che poi fu supernova e buco nero. Ma adesso, cinque anni oltre la fine di quell’epoca, in questo luminoso mattino, è a un altro portone che busserai, più vicino all’incrocio con altra strada, allegra di studenti: quello di una casa in cui è ospite, tornato in questi giorni, per esami, dalla sua lontana isola, l’ultimo amico-eroe, il prescelto che, a incipit della tua vita nova, l’anno scorso ti battezzò nel mare: - [...] con le mie mani raccolgo quest’acqua che bagna il territorio che fu di Elea, patria di Parmenide, e su di te cinque volte versandola ti purifico da ogni colpa passata, se mai colpa vi è stata, e in questo stesso gesto ti battezzo nel nome della Verità Splendente [...]. Ora, qui in questa via multifatale, tu-nell’attesa che il portone sia apertogirando i vivi occhi intorno ti avvedrai finalmente della piccola stele funeraria, quasi edicola, poco distante da esso incastonata, che prima d’ora non hai mai inquadrata. E t’immaginerai, m’immagino, quei sacrileghi cristiani del Seicento o nonsaiquando che la espiantarono dal locus piú o meno amœnus o horridus in cui era rimasta a registrare il sole e le nuvole e gli uccelli e i vispistrelli e le stelle e la luna per un millennio piú svariati secoli, e caricatala su di un carro come pietra fra altre pietre la portarono qui, a far parte, da quel giorno di medioevo stricto o lato sensu in poi, di questo muro della Capua nuova. (No, non me ne offesi: la decontestualizzazione-ricontestualizzazione è la norma del mondo materiale). 115
Petra narrat Qui, entro la mia cornice con al sommo un timpano triangolare, eccomi, io, effigie di un vostro ignoto antenato, della sua anima in figura di corpo, togato, che l’artista scolpí in altorilievo, con un braccio involto in un lembo della toga, l’altra mano a reggere una patera per libagioni votive, come nelle Coefore di Eschilo, penserai. O forse una melagrana, cibo dei morti. E mi dirai, in cuor tuo, o nostro: - Animula vagula che la pietra incapsula, quale sarà il tuo nome? Vedo che le lettere latine incise nel campo sotto il timpano sono, per la più parte, state rese illeggibili dal tempo. L’unica, qui, parola che s’intende (e che all’amica archeologa che consulterò via facebook parrà un curioso anacronismo, dato che la tua stele è romana) è il nome di un dio etrusco degli inferi. E se io non fossi di pietra (ancorché - in questo testo, realistico per il resto - pietra pensante, per finzione poetica) ti risponderei, sorridendo d’atarassia sotto il velo (e qui accettando il gioco metonimico di presentarmi come l’anima del defunto, la quale dal momento di quella morte si sarà già, in realtà, reincarnata settantasette volte): - Non sai tu che l’identità dell’anima è un palinsesto di cera, su cui il nome è tante volte riscritto quante ricancellato? Quale nome di me tu vuoi sapere? E quale volto vorresti vedere? A questo serve il mio velo, qui (o forse me lo sto inventando ora, ma fa lo stesso): a svelare; sí: a svelare per mezzo del velare. - Bel paradosso. A svelare, ma cosa? - dirai allora tu, o forse il lettore. E io a te, o tu a lui: - Che il nostro vero volto non è un volto. Che ogni anima, appena sia spogliata della maschera transeunte (cioè del corpo e con esso della mente, la quale in fin dei conti altro non è che un’iperflorescenza d’algoritmi olografata nell’encefalo; non la mente ma l’anima percepisce il mondo, questo gioco virtuale, questo sogno coerente, questo teatro in cui gli attori hanno scordato d’esserlo; percezione mediata dalla mente, questo filtro, sordina, gabbiettina che dell’anima mette fra parentesi la facoltà onnisciente ...), ogni anima - dicevo - si svela infine identica ad ogni altra. Ma non come una tabula che è rasa. Anzi: contiene tutta la realtà. Incluse, a ricorsione, le altre anime; vedi rete di gemme di Indra. E chiaro è che, se eterno e illimitato è l’essere (che non ha causa alcuna dietro sé, né ha innanzi a sé alcun limite), e se l’anima è (ed è: sei tu!), essa è del pari eterna e illimitata. E cosí tutti gli altri enti compiutamente reali: qualia, amore assoluto, 116
Petra narrat metatempo ... a differenza degli enti del mondo fisico; il quale, a confronto col mondo metafisico, ha lo statuto ontologico di un’allucinazione, di una favola, di una partita a scacchi senza scacchiera ... -Oo - Perdona questo tono catechistico, specialistico, quasi criptico. Lo so, dovrei essere piú maieutico, piú affabulativo ... Ma era per far prima. Senti? L’amico atteso scende già le scale. Volevo solo dirti che non c’è differenza, infine, fra chi ti battezzi versandoti sul capo acqua di mare e chi versi vino o lacrime sulla tua tomba; ma, soprattutto, che ... Il portone si aprirà e dovremo chiudere. Irromperà la vita, luce al colmo, a obliterare. Léthe vince alétheia, come carta vince sasso. Pazienza. Tanto, quando forbice vincerà carta (o meglio filo), tutto saprete (o meglio: già sapete, ma non sapete di sapere). Ecco intanto - il futuro è ormai presente - riuniti voi due amici. Anzi quattro: ad attendere l’uno giú con l’altro ce n’erano ulteriori due, ma inessenziali all’economia del racconto. Perciò non se ne troverà specificazione se non nel tuo diario (ante diem tertium Idus Septembres ... vabbè: 11 settembre 2014; alle undici e rotti, ora solare). Oh, eccomi finalmente fotografato, cornice e tutto, dallo smartphone che ti fu donato dagli amici un paio di feste dell’Amicarium fa. La vostra passeggiata può iniziare. Piú tardi inizierai questo racconto.
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Chiesa di San Salvatore a Corte (sec. X). Frammento
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Lucio Romano
Antiche e nuove arene I blocchi di pietra calcarea ed elementi lapidei con i quali fu edificato il Castello delle pietre nell’odierna Capua, all’indomani della conquista della città da parte dei Normanni, nell’immaginario collettivo conservano le vestigia dell’Anfiteatro capuano da cui nel 73 a.C. Spartaco guidò la rivolta dei gladiatori. L’Anfiteatro, distrutto dai Vandali di Genserico (V secolo d.C.) e poi dai Saraceni (IX sec.), fu depredato dagli stessi Capuani successivamente al trasferimento della Civitas capuana dal sito d’epoca romana (oggi Santa Maria Capua Vetere) a Casilinum, l’attuale Capua. I Capuani lo utilizzarono come cava di marmo e di materiali da costruzione: le sue pietre furono utilizzate più tardi per la Chiesa dell’Annunziata, per il Duomo, il campanile, molti palazzi e la costruzione del Castello delle pietre, in primis di specifica destinazione militare, successivamente come residenza di alcune famiglie nobili, indi ospedale delle truppe spagnole nel ’700, arsenale nell’800. L’edificio, dallo zoccolo che attualmente giace sotto il livello stradale fino alla base del torrione, per la provenienza delle pietre di costruzione ci evoca quei munera gladiatoria nei quali schiavi, prigionieri di guerra, barbari vinti, erano condannati a combattersi a morte libertatem ipsa vita potiorem existimantes, nel delirio pubblico del popolo, a gloria dei magistrati (epoca repubblicana I sec. a.C.) e di molti imperatori (epoca imperiale) che se ne facevano ordinatori o finanziatori, per guadagnare il favore delle masse le cui aspirazioni Giovenale stigmatizza con la famosa espressione sentenziosa panem et circenses (Satura X 75) che venivano distribuiti loro gratuitamente onde demagogicamente incanalare nelle tifoserie la potenziale spinta delle masse urbane a rivolte per fame, miseria e perdita di potere politico delle assemblee dei comizi. Proprio a Capua “c’era una notissima scuola gladiatoria, composta da schiavi di grande statura e forza, che venivano addestrati per dare vita a spettacoli cruenti, dove solo chi vinceva aveva possibilità di sopravvivere” (Svetonio, De vita Caesarum. Dom. 4). 119
Petra narrat Ordunque, le pietre che costituiscono il Castello parlano di sacrifici umani ripugnanti e brutali, di uomini delle più varie provenienze fatti prigionieri, comprati, venduti, che dovevano scontrarsi, amici di pena ma nemici nell’arena, per salvarsi la vita, con le armi più varie, dalla spatha (Sanniti) alla sica (Traci), al pugnale (Secutores). La forza, il coraggio e la fierezza con cui si affrontavano per la libertà non erano intesi come valore del vinto ma motivo di lucro, consenso politico, maggior gloria per chi li teneva prigionieri. Allora queste pietre, come afferma Eva Cantarella, non sono solo testimonianze di storia ed elementi per valutarne il senso nella società classica, ma consentono anche, “svelando le antichissime radici di diritto e arbitrio, di vittorie e miserie, di aiutarci a chiarire alcuni aspetti del presente ... una prospettiva per giudicare con maggiore equilibrio le posizioni che ancora si contrappongono nella società contemporanea su temi quali, sovrano lo scontro di civiltà, il riconoscimento della specificità dell’altro”, contro le ideologizzazioni culturali, religiose e di potere che li determinano. I Galli, i Numidi, i Celti, i Germani, i Traci erano per i Romani gli hostes da combattere o i barbari da civilizzare? In effetti, i Romani avevano mutuato il termine bàrbaroi dalla cultura greca, nella quale aveva un’accezione sostanzialmente neutrale, indicando coloro che erano portatori di tradizioni e lingue diverse rispetto agli Hellenes, estranei a quella qualità greca in base alla quale i Greci si riconoscevano, ma lo significarono lentamente di una valenza semantica di inferiorità, di inciviltà. Quando, infatti, nel II sec. a.C. conquistarono i regni ellenistici e la stessa Grecia, i Romani si confrontarono con la raffinata e ramificata cultura ellenistica, ultimo esito della cultura greca dopo Alessandro Magno, e se da un canto (seppur in uno scontro di pensiero tra intellettuali filellenici raccolti intorno al Circolo degli Scipioni e conservatori come Catone) la accolsero da vincitrice, come scrive Orazio, Graecia capta ferum victorem vicit (Epistole II 1.156), innestando sul mos maiorum i valori di una lunga speculazione filosofica sulla vita, sull’uomo, sul rapporto con gli altri, da cui derivò l’ideale dell’humanitas o philanthropia, dall’altra proprio in nome di una superiorità che sentivano aver raggiunto addizionando alla loro forza militare e capacità amministrativo-giuridica l’eredità del pensiero greco, giustificarono la giusta sottomissione “al migliore” tra i popoli e 120
Petra narrat legittimarono la svolta imperialistica del bellum iustum. Allora lo xenos, lo straniero, l’estraneo, che presso i Greci era riconosciuto come hospes, fu configurato dai Romani come hostis, l’estraneo nemico, e la capacità di assimilare i popoli sottomessi contribuì a consolidare in misura decisiva le conquiste effettuate. Eppure, proprio Cesare in De bello Gallico (VII 77) pone in bocca al capo gallo Critognato, pur ritraendolo esemplarmente come barbaro, un discorso in cui vibrano anche le ragioni degli altri: “I Romani a che altro mirano se non a insediarsi nelle terre di coloro di cui sono venuti a conoscere la potenza ...? Guardate la Gallia che confina con noi: ridotta a provincia, con istituzioni e leggi mutate, è schiacciata da una perenne schiavitù”. La scultura marmorea conservata nel Museo Nazionale romano che raffigura un Gallo che uccide di mano propria la moglie e poi se stesso per non cadere in mano ai nemici, palpita dello stesso anelito all’identità e degli stessi valori del vincitore: forza e fierezza, in nome dei quali andava incontro alla morte nell’arena dell’anfiteatro, lì dove la forza e la fierezza del vincitore si facevano arroganza e arbitrio, del vinto dignità e sacrificio per la libertà. Spartacus era entrato nell’esercito romano con cui aveva combattuto in Macedonia col grado di milite ausiliario. Aveva disertato per i numerosi atti di razzismo che subiva all’interno della milizia. Catturato, fu destinato a fare il gladiatore. Fu venduto a Lentulo Batiato, il lanista che possedeva una scuola di gladiatori a Capua. Si ribellò, esasperato dalle inumane condizioni riservate da Lentulo a lui e agli altri gladiatori in suo possesso. Scappò dall’Anfiteatro capuano in cui era confinato con altri settanta gladiatori. Combattuto dalle legioni romane, dall’un capo all’altro dell’Italia alla guida di un enorme numero di schiavi, nei pressi delle sorgenti del fiume Sele, ad caput Sylaris fluminis, come scrive Paolo Orosio restò al centro della mischia e fu “massacrato di colpi” (Plutarco, Vita di Crasso 11), morendo sul campo di battaglia con fierezza eroica, secondo l’ammirata definizione di Sallustio (Historiae III 90; IV 41), mentre seimila suoi compagni, fatti prigionieri, furono crocifissi nudi lungo la via Appia da Capua a Roma. Cosa dicono ordunque le pietre della Torre delle pietre a Capua? Parlano del fanatismo delle masse guidate dagli interessi dei governanti, delle prevaricazioni di ogni ideologia etnocentrica, della deformazione e del tra121
Petra narrat visamento dell’alterità, di confini superati tra le terre e di sempre nuovi confini segnati tra genti e popoli. Quelle pietre, in sostanza, sono le prime di lunghe pagine di imperialismi giustificati e supportati da ideologie e stereotipi politici e culturali, in nome di una pretesa missione di civiltà, ma, in effetti, per avidità “se il nemico è facoltoso”, per ambizione di potere e “vanagloria se è povero” (Tacito, Agricola 30.1-4), o in nome di una missione palingenetica, pericolosamente latente in ogni secolo che si configura come conflitto di civiltà e si esprime come furore religioso, ma che in effetti nasce quando “i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti”, come scrive Luciano Canfora. Gli stessi Cristiani, che proponevano istanze di uguaglianza di tutti gli uomini, per questo vennero giudicati pericolosi, ribelli, seguaci di una setta nemica delle istituzioni statali, poiché si rifiutavano di fare sacrifici al genio dell’imperatore e per questo, per due secoli (II-III sec. d.C.) contarono persecuzioni e morti, in nome della libertà spirituale. Solo nel 326 Costantino vietò le venationes, che consistevano nel porre negli anfiteatri le fiere più varie e più feroci di fronte a gladiatori o a condannati inermi: questo è il caso del Cristiani, di quelli di cui ci è stato tramandato il nome e di quelli senza nome che riempirono di orrore e di gloria gli anfiteatri romani sicché ancora oggi in mezzo al Colosseo una grande Croce li ricorda come martiri. A Cartagine il 7 marzo del 203 furono esposte alle fiere per essere sbranate nell’Anfiteatro e poi finite con la spada la giovane Vibia Perpetua, nobildonna di 22 anni, madre di un bimbo di pochi mesi, con la sua schiava Felicita. Solo nel 404 l’imperatore Onorio proibì definitivamente in Occidente i munera gladiatoria. Ma quel grido antico ‘iugula’ ancora riecheggia da quelle pietre della Torre al visitatore attento. Ha attraversato epoche e continenti, dalle cavee dell’Anfiteatro capuano fino alle moderne arene ... in Bosnia, Afghanistan ... e poi in Siria, Congo, Libia, Somalia, Sudan, Nigeria, dove novelli Spartacus hanno lottato e lottano e muoiono, martiri per la civiltà, che è libertà, dignità, identità, diversità, rispetto dell’alterità, contro ogni monopolio di pretesa di verità, contro gli inganni feroci di ogni ideologia. E oggi quel grido è ancora più spietato, perché intenzionalmente spettacolarizzato su rete mondiale e, per la fattispecie, molto affine ai munera sine missione che 122
Petra narrat consistevano nella Roma imperiale “nel presentare” il condannato inerme.
Duomo. Facciata laterale. Frammento di altorilievo
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Chiesa di Gesù Gonfalone (sec. XIII). Frammento di colonna romana
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Alfonso Ruffo
Colonnetta e non colonna
Sono una pietra dura. Qualcuno potrebbe pensare troppo dura. Ma dura in che cosa, poi? Nella conformazione fisica, nel carattere, nella volontà? Mah, è difficile capirlo anche per me. Figuriamoci per gli altri. Comunque, dopo tanti anni di vita passati esposta al mondo delle intemperie (e le intemperie non finiscono mai) credo che questo sia il giudizio dominante o perlomeno riassuntivo su di me. Chiunque mi abbia in qualche modo conosciuto - i più, com’è giusto e naturale che sia, in modo perfettamente superficiale - alla fine ha sentenziato sulla mia durezza: a volte specificando di che tipo, più spesso lasciando spazio all’interpretazione altrui. Pietre dure si nasce o si diventa? Secondo me si nasce e si diventa. Bisogna essere predisposte, secondo la volontà del Creatore, e anche volerlo, lavorandoci sopra con sforzo quotidiano. La durezza, poi, serve a combattere l’usura da sfregamento che giorno dopo giorno rischia di ridurti in polvere. E quanti sfregamenti ho dovuto subire nel corso della breve-lunga vita che mi è stata riservata. Fossi stata un po’ meno resistente, un po’ più incline a favorire lo struscio di chi ti accarezza nella buona sorte, a quest’ora mi sarei sfarinata. Meglio restare ruvidi che farsi levigare poco a poco. Meglio l’acqua, il vento, il sole, che l’attenzione interessata della gente. Per sorte, mi è toccato di essere una colonnetta. Una di quelle pietre che deve sopportare qualche peso: a volte lieve, più spesso gravoso. Non so se mi sarebbe piaciuto essere una pietra da museo, da osservazione, da ammirare, essere fotografata e magari finire su un bel libro (lo so, c’è anche il caso che il libro fosse brutto ...). Comunque sia, da qualche parte si è deciso che io dovessi essere una colonnetta. Una di quelle pietre che si vedono poco, che s’intuisce debbano esistere, che magari in qualche circostanza si lodano pure, e che s’ingegnano a compiere il 125
Petra narrat proprio dovere senza fare tante storie e, soprattutto, senza illudersi di ricevere gratitudine da chi per tanto tempo hai sostenuto. Che sia senso di responsabilità o altro, non saprei dire. Il fatto è che chi nasce in un certo modo e gli è dato di occupare una certa posizione e si prepara a svolgere il compito assegnato con un certo decoro, non può sfuggire al destino con tanta facilità. Sì, è vero, assistiamo ogni giorno allo sfaldarsi di posizioni analoghe alle mie, allo smottamento di posizioni, a piccole e grandi frane che compromettono la stabilità dell’ambiente. Ma occorre distinguere perché si può cedere per consunzione propria (motivo per cui è meglio evitare i lisciamenti che alla lunga indeboliscono) o per decadimento del sistema. Comunque, il risultato non cambia e il capitombolo è assicurato. La disgrazia di noi colonnette (a proposito, colonnette e non colonne perché siamo consapevoli della marginalità della nostra posizione) è che tutti danno per scontato che tu debba resistere in eterno. Non importa quanti colpi abbia ricevuto dagli uomini, dal tempo o dalla sorte, ciò che ti circonda è convinto che qualsiasi cosa accada resterei imperterrita a mantenere quel tanto o quel poco di peso che ti è stato assegnato. Il peggio è quando ti capita di reggere elementi di poco o nullo valore che si mettono in bella mostra senza compiere nessuno sforzo e confidano sulla tua accondiscendenza per continuare a farlo per tutta la vita. Guai se un giorno vieni meno, guai se capita di sgretolarti (i motivi per farlo sarebbero tanti) e di togliere l’appoggio: non te lo perdoneranno mai perché nessuno rinuncia facilmente alle proprie comodità. Sarebbe utile e istruttivo che tutti per qualche giorno o mese o anno provassero a scendere dal piedistallo e si mettessero a fare la colonnetta con spirito di servizio. S’imparerebbero molte cose e scomparirebbero molte vanità. E il mondo si terrebbe meglio in piedi di quanto non sia possibile che accada oggi dove molti si adagiano sull’impegno di pochi. Io mi sto progressivamente stancando di fare la colonnetta. Sono fatto di pietra dura ed è difficile che qualcuno e/o qualcosa possa sfaldarmi. Ma se mi stanco, se decido che non ne vale più la pena, nessuno potrà impedirmi di staccarmi d’un pezzo da dove sono collocato per vedere l’effetto che fa ...
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Via S. Giovanni a Corte. Edicola funeraria
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Corso Gran Maestrato di S. Lazzaro. Testa in calcare (IV-III sec. a.C.)
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Michela Salzillo
Cronache di pietra Ogni mia pietra è un pezzo di specchio in cui si riflette il peso e la leggerezza del mondo, la sostanza del mio cemento ha la forma dei segreti di questa città. E’ su di me che fa ombra il sole quando si scopre dalla luna all’alba; è sulla mia faccia senza volto che si poggia la mano stanca degli anziani senza tetto che la disperazione fa invecchiare nell’inverno dell’ultima stagione. Sono il testimone dei baci a mezza bocca che gli innamorati in fuga dall’universo mi confessano inconsapevolmente. Quante teste ad occhi chiusi ho sostenuto. Quanti brividi ho rubato alle schiene che, su di me appoggiate, si sono desiderate alla ricerca di una sola identità in due. Sono il custode del sangue scivolato a morte dalla vena rotta di una sconosciuta che al buio chiedeva aiuto, non so quando sia accaduto. Ho solo lo sguardo e l’udito per osservare; in me non esiste il tempo che scandisce, sento solo il mondo che passa. Non sono un muro che separa, le pietre che mi abitano si fanno dipingere di parole il ventre. Sono uno di quelli che accoglie; in me sopravvivono fenditure che i poeti senza nome riempiono di versi all’imbrunire: “Ci baceremo nel tempo di un addio, amato bene, e lì resteremo fino alla fine del sempre”. Ho la fronte cucita col nome di Alice a cui qualcuno col volto bruciato dalla delusione, ha scritto: “... chissà se mi hai davvero vissuto, chissà se ogni tanto mi hai rischiato, chissà se mai mi hai amato”. Ho lo stomaco pieno d’impronte fantasma che la rabbia di un uomo mi ha graffiato dentro. La prima volta che l’ho incontrato è stato di testa: uno, due, tre colpi alle pietre della mia faccia di sinistra, quelle ancora libere dai racconti di ognuno, tranne il suo. Arrivò zoppicando; blue-jeans bucati come un punto a croce riuscito male e una maglietta fuori stagione: manica lunga di un rosso sbiadito che tirava convulsamente verso i polsi per coprirsi pure l’invisibile. Si sedette sulle mie gambe senza ossa e, afferrata la testa tra le mani, continuava a rotearla senza 129
Petra narrat fermarsi: io tra queste quattro mura non ci entro - ripeteva a voce bassa, come fosse una litania profana, recitata in assenza di santi. Abito la sponda di un anfratto disegnato apposta per far galleggiare l’odore di tabacco e il tintinnio di tazzine da caffè provenienti da un bar in miniatura. È una liturgia, per me, il movimento di lenzuola tirate, spiegate e stirate dalle braccia rugose di due donne in sandali francescani; entrambe indossano sempre gonne a tubo di colore scuro, lunghe fino alle ginocchia, bluse bianche puntellate da spilli e crune con cui si adornano il petto dalla mattina - devono essere anche sarte. Dopo l’ora di chiusura del negozio, che indicano ai passanti e a me, lasciando la serranda aperta a metà, si trattengono là dentro fino a che la luna si fa faro al centro delle stelle e il vicolo si zittisce. Continuando a stirare giacche e pantaloni come fosse un mantra propiziatorio o un rito di scaramanzia, recitano il rosario con la devozione di chi sa di essere ascoltato. Devono essere donne sole, senza più legami vincolanti. Se così non fosse, ad un certo punto della giornata dovrebbero avvertire l’urgenza affettiva di ritornare a casa, per soddisfare l’attesa di un figlio che attende un bacio dietro la porta, oppure l’insofferenza patriarcale di un marito che aspetta un pasto caldo da spartirsi in due sul rumore di silenzi fatti d’abitudine o di parole pregne di condivisione, a seconda del modo in cui si declina l’intimità di ciascuno. Questa città che, come si legge su una delle mie pietre, fu radice e culla del balestriere Ettore Fieramosca, è tutta costruita come fosse un labirinto aperto che obbliga tutti a passarsi accanto, un agglomerato di viuzze imbottite di folla frenetica. Quelli che passano per il mio indirizzo si toccano la pelle e le voci, ma non si incontrano mai. Si sentono e si maledicono nel volume alto delle loro stesse imprecazioni personali, ma nessuno si ascolta oltre una sosta di pochi minuti sul giudizio dell’aspetto altrui. Eccolo che torna anche oggi, è dalla reazione a catena che creano le teste delle persone al suo arrivo in strada che me ne accorgo. Solo le auto proseguono noncuranti. È in questi casi che ciascuno di loro esseri umani diventa gente senza un’individuale personalità: un gruppo coeso che anche se rimanesse muto riuscirebbe a pungere con la lama del preconcetto la sensibilità altrui. 130
Petra narrat Per loro Mario è un pazzo di quarant’anni che si aggira senza meta per le vie del proprio paese con alito da ebbro e il pericolo nelle mani che tiene sempre chiuse a pugno. Barcolla, ha una bottiglia di vino senza etichetta tra le dita, mi sta appoggiando la mano sugli occhi, è umida e sanguina leggermente dal centro del palmo: chissà su quale muro si sarà dannato prima di raggiungere me. Mi dà le spalle, beve l’ultimo sorso fermo sul fondo e poi fa roteare la bottiglia di vetro con un calcio, fino al gradino della lavanderia di fronte. Anna e Rosetta piegano e spiegano le lenzuola, stirano e pregano, quando arriva lui la loro voce si fa chiara e autorevole, quasi ad ordinare a Dio la protezione dell’anima del pazzo. Tra queste quattro mura non ci entro - ricomincia a ripetere, mentre mi guarda in faccia come se capisse che parlo e ascolto. “Non lo sanno loro che quando perdi tutto, quando la vita tradisce la tua dignità, cominci a sentire la voce del diavolo nella testa, entra da sola, senza il permesso di nessuno, è lui che mi fa tremare, è lui che morde la pelle del mio stesso corpo, è lui che mi abita il sangue quando inveisco contro qualcuno. Non lo sanno che quando un uomo incapace di farsi compagnia resta da solo, non può che diventare quello che sono io adesso. Un pazzo consapevole”. La sua disperazione trafigge l’anima di ogni mia pietra, se non fossi un muro mi piegherei in due dal dolore. Non sono un medico, quelli stanno dentro - mi dice l’altro muro che ha lo sguardo rivolto verso l’interno di questo posto che reggo - non so neppure se quest’uomo sia veramente un pazzo o se l’abbia imparato a credere a furia di sentirselo dire, ma penso che se ognuna di queste persone che passano, dal bar alla lavanderia, si fossero fermate ad ascoltarlo, forse adesso lui non dovrebbe sorpassare questo cancello, quello dell’unità operativa della salute mentale di Capua.
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Via dei Principi Normanni. Bassorilievo in travertino di età imperiale. I Vettii
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Annalisa Santagata
Perla del giorno, cuore di pietra
“Sarai polvere, sarai luna, sarai pioggia e vedrai col cuore tutto ciò che con gli occhi non hai visto mai”. Margherita lesse ad alta voce queste parole, una volta e un’altra volta ancora. Poi chiuse il libro che stringeva tra le mani e si alzò in piedi, voltandosi verso il fiume che scorreva alle sue spalle. Lo osservò fluttuare come se lo stesse vedendo per la prima volta, anche se sopra il ponte che nasceva dal Volturno Margherita era cresciuta. Ogni giorno, fin da bambina, quando la notte mandava a dormire il sole, lei si rifugiava lì, seduta ai piedi delle torri di Capua, con la testa china sulle pagine di un libro, illuminate solo dalla luce fioca di un lampione. L’odore. Era questo più di ogni altra cosa che le faceva decidere quale libro leggere. Perché non è vero che tutti i libri hanno quel tipico profumo di legno e vaniglia. Lei riusciva ad annusarne le essenze più profonde, quelle che si sprigionano appena il libro si schiude e le pagine si sfogliano. E quasi sembra diventino mille labbra che si muovono sussurrando: “Leggimi”. Le bastava chiudere gli occhi e prendere un respiro profondo. Diverso era il libro che apriva, diversa la sensazione. Per l’ultimo giorno della sua vita, Margherita aveva scelto un libro di poesie che profumava di incenso e magnolia, essenze che purificano lo spirito e liberano l’energia. Perché era questo l’odore che avrebbe voluto imprimere ai suoi sedici anni e poi all’eternità. Una mano, poi l’altra. Con un salto si ritrovò in piedi sopra il ponte di pietra che sovrastava il fiume. Guardò giù e vide riflessa dentro all’acqua l’ombra di un corpo troppo fragile per sostenere ancora la vita. Una vita che lei non voleva più. Ma io non potevo permetterle di saltare giù. «Non lo fare. Ti prego. Scendi e vieni qui accanto a me». Margherita si voltò ma non vide nessuno. Non mi vide. Eppure ero sempre stata lì, giorno dopo giorno, a vederla leggere e fiorire. Aveva l’abitudine di leggere ad alta voce e così 133
Petra narrat avevo impresso nella memoria tutti i suoi libri, imparato nuove parole, e capito che dal milleduecentoquaranta tante cose erano cambiate. Tante, tranne una: l’essere umano con le sue paure e i suoi fantasmi. «Chi è che parla?» urlò lei spaventata prima di capire che quella voce proveniva dalla torre alle sue spalle. «Devo essermi sbagliata. Le pietre non parlano» mormorò poi tra sé, mentre appoggiava le ginocchia sul ponte ed il cuore riprendeva il ritmo regolare dei suoi battiti. Fu allora che mi manifestai. «Non parlano a chi non ascolta, ragazza mia, ma tu leggi ed ami. Perciò puoi scorgere un’anima dentro tutte le cose che osservi». «E che ne sai tu delle anime e dell’amore? Sei solo un cumulo di marmo e di tufo senza volto e il tuo cuore, se è vero che esiste, è fatto di pietra». Mi rispose più indispettita che incredula. “Cuore di pietra”. Che strani gli uomini e l’uso inappropriato che fanno delle parole. Cuore di pietra, credono di lanciare un’offesa a chi considerano arido e vuoto, spietato e insensibile, privo di emozioni e sentimenti. Loro non sanno che proprio le pietre sono le custodi più fedeli della terra, quelle che racchiudono in sé il tempo e lo spazio. E non è forse di tempo e di spazio che è fatto l’amore? «Anche io ho un’anima, Margherita, e di volti ne avevo tanti, ma adesso abitano altri luoghi. Mi ergo silente su questo ponte mentre la vita scorre veloce ai miei piedi. Sono stata distrutta più volte ma sono ancora qui, proprio come lo sei tu. Perché le persone possono rubarci dei pezzi e farci sentire mille volte inutili, ma l’anima non potranno togliercela mai». «Io mi sento cosi sola, torre. Almeno voi siete in due» mi disse guardando l’altra torre che dormiva accanto a me. Poi scoppiò in lacrime e i suoi occhi verdi brillarono ancora di più. “Margherita” nel medioevo voleva dire perla. Perla del giorno. Ed indicava l’alba. In quel momento guardai quella piccola donna e pensai che non avrebbe potuto avere altro nome che quello. Margherita. Preziosa come una perla, fragile come un’alba. “Conosco bene la tua solitudine, perché è quella che appartiene al mondo. Perché mi sento sola esattamente come te, pur avendo chi mi completa. Solo è questo fiume che percorre il suo corso senza potersi fermare mai, eppure l’accarezza. Sola è questa luna che non 134
Petra narrat può baciare le stelle eppure riesce a vederle. Solo è questo cielo sereno fatto di albe e tramonti che non si incontreranno mai, eppure lui ama entrambi. E sola sei tu, Margherita, che hai una vita che luccica davanti a te, eppure non la vedi. Per questo la temi. Ma la verità è che tu non sei sola, perché avrai sempre i tuoi libri a farti compagnia e, se vuoi, potremo continuare a leggerli insieme. Tra quelle pagine potrai morire e rinascere tutte le volte che vorrai. Potrai amare e odiare, uccidere e peccare. Riuscirai ad essere una regina, una fata, una pianta e persino una pietra. E quando poi ti sentirai completa, potrai diventare chi veramente sei”. Fu in quel momento che Margherita scese dal ponte e si venne a sedere accanto a me. “Va bene, cuore di pietra, domani sceglierò un nuovo libro da leggerti, ma dovrà profumare di rosa e di mirto”. Furono queste le ultime parole che mi disse, poi si addormentò su di me. In una notte sincera fatta di stelle e di polvere rosa, dopo tanto tempo, la mia voce è tornata. Non è stata la prima volta e non sarà neanche l’ultima, ma non so quando incontrerò qualcun’altro in grado di ascoltarmi. Quella ragazza ci è riuscita. Ed io dovevo salvarla. L’ho fatto per lei, certo. Ma l’ho fatto anche per me. Per poter parlare ancora. Capua, Porta delle due Torri
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S. Angelo in Formis. Pavimento della Basilica
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Totta Totaro
M
Non parlava Era lì, ormai da un po’ Qualcuno passando la osservava, altri ormai si erano abituati alla sua silenziosa presenza. Le sue forme, le sue macchie e la sua pelle levigata lasciavano intravedere i solchi iniziali di un aspetto imponente. E adesso era lì, come appoggiata, delicatamente appoggiata lungo una strada Era lì distesa a sorridere del tempo a lei amico Le sue parole non avevano suono La sua vita da raccontare era tutta lì Visibile Imponente e ormai docile Il tempo l’aveva trasformata Ma lei era lì LEI c’era da sempre. Poi un messaggio e con lo scritto un’immagine Una foto apparentemente casuale come l’incontro imprevisto, ma voluto Cercato Potevo andarle incontro forse anche sceglierla Ma era lì sul monitor del mio computer 137
Petra narrat Nessuna invadenza Una leggerezza Quasi riuscissi a percepirne il profumo Quasi una danza Sembrava adagiata sulla sponda di un fiume dove disordinate innumerevoli, ma coerenti particelle, come sottili onde, la bagnavano. Eri lì Squadrata Composta Incastonata Consapevole dell’eternità che il tempo ti aveva assicurato, TU ... PIETRA PREZIOSA
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Corso Gran Priorato di Malta. Stemma gentilizio
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Chiesa di Sant’Angelo in Audoaldis. Base con epigrafe
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Autori Lello Agretti, poeta e pittore Carmine Antropoli (forse ...), chirurgo e sindaco di Capua Michela Angrisani, archeologa Nando Astarita, scrittore Francesco Bellofatto, giornalista Jolanda Capriglione, professoressa (SUN) e assessore alla cultura a Capua Maruzza Capuano, scrittrice Antimo Cesaro, professore (SUN) e deputato al Parlamento Barbara Cussino, dirigente del settore musei e biblioteche della provincia di Salerno Raffaele Cutillo, architetto cosmopolita Laura del Verme, archeologa Emilio Di Cioccio, giornalista Francesco Forlani, scrittore in voluto esilio Pio Forlani, Ammiraglio Vittorio Giorgi, avvocato e console onorario dell’Uzbekistan Flavio Ianniciello, scrittore Tony Laudadio, scrittore e attore Lidia Luberto, giornalista Marilena Lucente, scrittrice Pasquale Mercone Jr., neo-nato Angelo Morlando, ingegnere Luca Murolo, scrittore Francesca Nardi, giornalista Gennaro Oliviero, fondatore dell’Associazione Amici di Marcel Proust Marco Palasciano, libero pensatore Lucio Romano, senatore della Repubblica Alfonso Ruffo, giornalista Michela Salzillo, scrittrice Corso Appio. Antico Palazzo della Posta. Annalisa Santagata, scrittrice Statua di togato Totta Totaro, architetto
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Castello delle Pietre. Facciata. Rilievi con elementi decorativi
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Indice Prefazione Lello Agretti, Come pietra Carmine Antropoli (forse ...), Un medico vale molte pietre, pardon: vite Michela Angrisani, I tre togati Nando Astarita, Pietra d’amore Francesco Bellofatto, Perché mi imbratti? Jolanda Capriglione, Petra narrat Maruzza Capuano, Come una sciarpa al vento Antimo Cesaro, Sogno lapideo di una notte di mezza estate Barbara Cussino, La mia pietra di Capua Raffaele Cutillo, La città scorre sul mio sguardo pietrificato Laura del Verme, A testa in giù Emilio Di Cioccio, Tessa e Pato Francesco Forlani, I contendenti Pio Forlani, Il segreto del Mascherone. De Sade a Capua Vittorio Giorgi, La Pietra della Memoria, la Memoria della Pietra Flavio Ianniciello, Capua: una pietra racconta Tony Laudadio, La pietra di Prometeo Lidia Luberto, Laura e Federico Marilena Lucente, Gli occhi cavi di Mercurio Pasquale Mercone Jr., Just Arrived Angelo Morlando, Nella tasca di un ebreo di Cafarnao Luca Murolo, Quelle maledette porte Francesca Nardi, La testimone Gennaro Oliviero, Il selfie della Venere di Capua Marco Palasciano, Per una via d’incontri straordinari Lucio Romano, Antiche e nuove arene Alfonso Ruffo, Colonnetta e non colonna Michela Salzillo, Cronache di pietra Annalisa Santagata, Perla del giorno, cuore di pietra Totta Totaro, M Autori
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Finito di stampare nel mese di maggio 2015 presso la tipografia Depigraf Caserta
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