CRISTO SOMMO SACERDOTE DEGNO DI FEDE E MISERICORDIOSO NELLA LETTERA AGLI EBREI DON
GIANCARLO BIGUZZI
- PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA DI ROMA -
Modena – “Centro Famiglia Nazaret” – 06-03-2010
LA CONDIZIONE DEL CRISTO COME SACERDOTE (Ebrei 1-2) 1. INTRODUZIONE L’autore della “Epistola agli Ebrei” ha voluto farsi carico, stranamente, di una grande impresa teologica, ossia quella di affermare che il Cristo è “sacerdote”. Come risaputo, in nessun altro testo del Nuovo Testamento (NT) ciò è detto in modo esplicito. Non sappiamo perché se ne sia fatto carico, e questa è una delle lacune che metteremo in luce. In ogni caso, ha voluto affermare che nel Cristo non c’è solamente la dimensione profetica (cioè la sua parola, il suo insegnamento: in una parola, il suo Vangelo); né c’è soltanto la dimensione regale (passando attraverso la Passione, Gesù è arrivato alla risurrezione e, nella risurrezione, è diventato re della vita degli uomini e re dell’intero cosmo). Dunque non ci sono solamente la dimensione profetica e la dimensione regale, bensì – argomenta l’autore – c’è anche la dimensione sacerdotale. Abbiamo accennato ad una lacuna (il non sapere perché l’autore si sia fatto carico di questa impresa) e adesso ne riveliamo anche altre. Infatti accade che i testi del NT quali le lettere siano quasi sempre scritti occasionali e non sistematici. Non sono dei veri e propri trattati come quelli che scriviamo noi moderni, in cui mettiamo tutto in ordine, in gerarchia, cercando di prevedere tutti i risvolti. Dunque si tratta di testi che sono in parte lacunosi; e forse questo è un bene, perché così parlano maggiormente alla vita, proprio perché provengono dalla vita e rispondono a problemi concreti. Quali sono le lacune più evidenti e che si avvertono maggiormente in questo documento? 1. Innanzi tutto parla la Lettera agli Ebrei solamente del sacerdozio di Cristo. Dunque non parla del sacerdozio ministeriale, ossia non tratta del presbitero nella Chiesa. Inoltre non parla neanche del sacerdozio comune. Infatti ogni persona battezzata – come ricordano la Prima lettera di Pietro (2,9) e l’Apocalisse (1,6; 5,10; 20,6) – è sacerdote. E tale sacerdozio è comune a tutti i battezzati, i quali devono far salire dalla vita e dalla storia la lode e l’omaggio a Dio. Dunque mancano queste due tipologie di sacerdozio, che sono ovviamente collegate al sacerdozio di Cristo. Pertanto c’è il centro, però manca la periferia. 2. In secondo luogo manca una grande premessa. Ovvero: l’epistola parte da un certo punto e da questo punto va avanti con un procedimento abbastanza sistematico; ma, soprattutto per la nostra sensibilità, è necessario premettere qualcosa che nell’epistola manca, affinché l’intero discorso della lettera sia più eloquente. Tale lacuna riguarda il senso del peccato. Ossia: Gesù è sacerdote ed offre il suo sacrificio per il perdono dei peccati, per unificare le coscienze degli uomini. Questo è l’aspetto negativo del sacerdozio di Cristo, a cui seguirà quello positivo. Purtroppo la nostra generazione, il nostro tempo ha perso il senso del dramma del peccato ed adopera altre parole per accennare al male che è presente nel mondo. La parola “peccato” si è consunta, consumata e quindi non parla più tanto. Cercheremo di illustrare questa premessa che manca nell’epistola. 3. La terza lacuna è data dal fatto che l’autore è poco esplicito riguardo a sé stesso: non sappiamo chi abbia scritto questa lettera. Prima del Concilio vaticano II si recitava: “Dalla lettera di san Paolo Apostolo agli Ebrei”; invece oggi si dice semplicemente: “Dalla lettera agli Ebrei”. Si sente bene che anche i libri ufficiali della nostra lettura comunitaria hanno accantonato l’ipotesi che Paolo sia l’autore dello scritto. Ci sono dei punti di contatto con il Corpus paolinum, ed anche noi 2
evocheremo dei testi del Paolo autentico. Ma non si sa chi abbia scritto la lettera agli Ebrei. Tanto che il grande teologo Origene di Alessandria d’Egitto (185-254) sentenzia: “Chi ha scritto la lettera solo Dio lo sa”. Non soltanto l’autore dice poco di sé, ma rivela poco pure dei destinatari, ossia del motivo per cui si fa carico di intraprendere l’impresa di trattare del sacerdozio di Gesù, discorso che nessuno prima di lui ha fatto. Quindi non sappiamo bene né a quale problema né a quali persone l’autore tenti di dare risposte. E ciò sarebbe molto interessante da sapere, poiché la risposta che si trova in un documento come questo è una metà del dialogo; ma a noi manca la prima metà. È come quando si ascolta una telefonata fatta da un’altra persona: si sente soltanto metà del dialogo e si capisce solamente in parte. Allo stesso modo, di questa lettera noi comprendiamo e non comprendiamo. In questa prima relazione seguiremo il testo della lettera, che all’inizio cerca di dire quali sono le basi su cui fondare il discorso del sacerdozio di Cristo. Resta ancora in parte estraneo il discorso del sacerdozio di Cristo; ma qui l’autore pone le basi. La seconda relazione verterà sul sacerdozio di Cristo, che è un sacerdozio diverso e alternativo a quello del giudaismo, di cui è pieno tutto l’Antico Testamento (AT): dalle leggi, alle persone, ai riti, ai vasi sacri, ai diversi tipi di sacrifici. Quello di Gesù è un sacerdozio diverso ed alternativo. La terza relazione verterà sul sacrificio del Cristo, ossia: con quale strumento Gesù ha purificato e purifica le nostre coscienze? Con il suo sacrificio, il quale anch’esso si differenzia da quelli del giudaismo.
2. LA PREMESSA MANCANTE: LA SITUAZIONE DI PECCATO DELL’UOMO Cominciamo a parlare della premessa mancante, ossia quella che riguarda il senso del peccato, che – lo ripetiamo – oggi noi abbiamo in misura molto limitata. Ritrovandoci nel dramma del peccato, riusciremo a seguire maggiormente il discorso dell’autore e capiremo perché è importante che Gesù sia sacerdote, che abbia un sacerdozio nuovo e che offra un sacrificio nuovo. Ovviamente dovremo trascurare altri temi; ma si tratta di una lettera di grande profondità e ricchezza e pertanto non è possibile affrontarla tutta in tre sole relazioni. Per ricreare almeno in parte il senso e il dramma del peccato, riprendiamo alcuni testi biblici. In realtà sarebbe sufficiente leggere le notizie su un qualsiasi quotidiano, per sentirsi dentro ad un dramma di peccato, di male, di criminalità. Questa è la situazione nella quale noi siamo immersi. Adesso diciamo tutto ciò con dei testi biblici. Si intravvede il dramma del peccato già leggendo il testo di Genesi 1-11. Questi racconti molto strani e arcaici ancora non riguardano Israele, che comincia in Gen 12, con la chiamata di Abramo, padre dell’intero popolo. In Gen 1-11 si narra come l’umanità, da quando Dio l’ha creata, abbia camminato a grandi passi nel dramma delle disobbedienza, della ribellione, del peccato, del fratricidio, dell’imperialismo politico. Il primo peccato è quello di Adamo, ossia la ribellione contro Dio (Gen 3); il secondo peccato è quello di Caino, che uccide il fratello (Gen 4,1-16). Quelli che diamo sono solamente titoli velocissimi; ma ognuno di noi dovrebbe amplificarli e vibrare al solo sentirli. C’è poi il canto arrogante di Lamec, per cui chi gli ha fatto un graffio è stato ucciso. Lamec canta di contraccambiare la violenza ricevuta «settantasette volte» tanto. Qui la violenza diventa addirittura “canto”, ossia un oggetto da celebrare in poesia (Gen 4,23-24). Ci sono i «figli di Elohim», una misteriosa espressione per indicare alcuni esseri che avevano un rapporto particolare con Elohim (ossia con Dio) e che, vedendo le figlie degli uomini, che erano graziose e carine, varcarono i confini imposti dalle leggi del cosmo, si unirono con esse e così 3
commisero un peccato tale da richiedere la purificazione del cosmo con il diluvio. Così il cosmo venne purificato. Dunque è narrato il peccato dei «figli di Elohim» con le figlie degli uomini (Gen 6,1ss). C’è poi l’ingiuria di Cam, uno dei tre figli di Noè, nei riguardi del padre, ubriaco e nudo (Gen 9,20ss). C’è il peccato dell’imperialismo: Babilonia unifica gli stati e i popoli sotto un unico scettro e vuole imporre la sua lingua, il suo impero, il suo dominio. È la “superpotenza” per eccellenza di cui parla la Bibbia, con tutte le violenze e con tutti i soprusi messi in atto al fine di annullare le altre culture, le altre lingue, le altre civiltà, riportandole sotto un unico comando. È questo l’imperialismo politico (Gen 11,1-9). Questa è una serie di peccati mostrati nei primissimi capitoli della Bibbia. Sono testi che aiutano a capire quanto gli uomini abbiano bisogno di un sacerdote e di un sacrificio che li purifichi. Scrive Paolo: «Che dunque? Siamo noi (Ebrei che abbiamo la Legge) superiori (agli altri popoli)? No! Infatti abbiamo già formulato l’accusa che, Giudei e Greci (i non Giudei, i pagani), tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto» (Rm 3,9ss). Poi, con una lunga serie di citazioni spigolate qua e là, Paolo conclude che sono tutti gli uomini e che è tutto l’uomo (con tutti gli organi con cui riesce ad agire) ad essere immersi nel peccato. Paolo riprende vari passi dell’AT: «Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, non c’è chi comprenda, non c’è nessuno che cerchi Dio!». Chiaramente sta esagerando; ma così Paolo continua citando testi biblici: «Tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno» (Rm 3,10-13; citazione di Sal 14,1-3). Dunque tutti gli uomini; adesso prosegue con tutto l’uomo, in tutti i suoi organi: «La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro lingua (citazione da Sal 5,10), veleno di serpenti è sotto le loro labbra, (Sal 140,4) la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza (Sal 10,7). I loro piedi corrono a versare il sangue; rovina e sciagura è sul loro cammino e la via della pace non l’hanno conosciuta (Is 59,7-8). Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi (Sal 36,2)» (Rm 3,13-18). Dunque tutto gli uomini e tutto l’uomo sono nel peccato. Sempre ai Romani, Paolo scrive: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato» (Rm 5,12). Infine proponiamo un’ultima citazione: «Tutto il mondo sta in potere del Maligno» (1 Gv 5,19). È in tale situazione (che non descrive) che l’autore della lettera agli Ebrei inserisce il discorso sul sacerdozio.
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3. IL CRISTO “PONTE” TRA DIO E GLI UOMINI Adesso parliamo del sacerdozio; ma non di quello che la lettera descrive, bensì della terminologia per parlare del sacerdozio.
3.1. Il Cristo “pontefice” Iniziamo proprio col termine “sacerdozio”, che proviene dal latino “sacer”, che significa “sacro”. Cercando di capire l’origine della parola, si vede che il sacerdote è “colui che si occupa del sacro”. Non è un termine molto felice, almeno per ciò che noi dobbiamo dire: se è “colui che si occupa del sacro”, allora fuori dall’edificio in cui si occupa del sacro si trova il “profano”. Si tratta di termini che nella civiltà latina potevano andare bene, mentre per il nostro discorso “sacerdote” non è una parola molto adatta. Ma questa è quella che abbiamo. Un altro termine che prendiamo dalla lettera agli Ebrei, oltre a “iereus” (“sacerdote” in greco), è “archiereus”, ossia “sommo sacerdote”. Entrambi i vocaboli “iereus” e “archiereus” hanno a che fare con ciò che è “sacro”, poiché “iereus” significa proprio questo. Ad esempio, il termine “gerarchia” deriva dal greco “iereus” e significa “potere sacro”. Comunque “archiereus” è il titolo del Cristo che l’autore della Lettera agli Ebrei usa per ben 31 volte in 13 capitoli. Tuttavia anche i termini di “iereus” e di “archiereus” non aiutano tanto a capire cosa significhi l’incarico che il sacerdote esercita. Invece la parola più giusta è un termine latino, che è fuori uso, ossia: “pontifex” (“pontefice”). Oggi tale vocabolo si usa pressoché esclusivamente per il Papa di Roma. Tuttavia questa è la parola che maggiormente aiuta a capire quali siano la natura e il compito di colui che, con una parola più povera, chiamiamo “sacerdote” e che il nostro autore, con una parola altrettanto povera, chiama “archiereus”. Dunque il termine migliore per noi è: “pontifex”. Lo scrittore latino Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) fu discepolo dell’iniziatore della scienza etimologica presso i Romani, ossia Elio Stilone, il primo filologo latino (154-74 a.C.). Varrone fornisce la seguente etimologia del vocabolo “pontifex”: “colui che costruisce ponti”. Ciò perché, quando si erigeva un ponte (che era una vittoria sulle forze della natura, le quali impedivano la comunicazione tra due sponde distanti), accadeva che, terminati i lavori di costruzione del ponte, si facevano dei riti molto lunghi e complessi, proprio per celebrare la vittoria sulla natura. E colui che faceva il ponte guidava anche questi riti. Pertanto era anche una persona che si occupava del sacro. Nella modernità tale etimologia è stata criticata; tuttavia nel XX secolo si è ritornati a sostenere che il termine “pontifex” deriva proprio da “pontem facere”, ossia “fare un ponte”. Tale etimologia aiuta a seguire il nostro autore laddove indica quali siano le premesse, le condizioni per qualcuno affinché sappia essere sacerdote, ossia quella di essere come un ponte. Dunque il sacerdote deve fare il ponte, ovviamente tra Dio e gli uomini.
3.2. Il Cristo è vicino a Dio più degli angeli L’autore della Lettera agli Ebrei impiega ben due capitoli, che affrontiamo in questa prima relazione, per illustrare come si può e chi può (ri)congiungere l’umanità a Dio e Dio all’umanità, poiché c’è stata la grande frattura del peccato, che rende impossibile alle piccole forze umane, nonostante il volontarismo generoso, il ricongiungimento con Dio. Ebbene, l’autore comincia a dire che Gesù ha tutti i requisiti e tutte le caratteristiche per essere questo ponte, questo “pontefice” che ricongiunge Dio all’umanità. E comincia in modo molto strano, ossia facendo una catena di una decina di citazioni bibliche, con le quali dimostra una prima cosa: Gesù è vicino a Dio. 5
«[5]Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? [6]Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio. [7]Mentre degli angeli dice: Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco, [8]e al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli e: Lo scettro del tuo regno è scettro di equità; [9]hai amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di esultanza, a preferenza dei tuoi compagni» (1,5-9). È un inizio davvero inaspettato e viene proprio da domandarsi come mai cominci così. Ma è proprio questo il suo scopo: dimostrare che Gesù è nelle condizioni di fare il ponte tra Dio e gli uomini, in quanto è particolarmente vicino a Dio, tanto da esserlo più degli angeli. Dunque Gesù è vicino a Dio più degli uomini e più degli angeli. In tal modo l’autore mette in un altro ordine le prove che porta, innanzi tutto perché Gesù è Figlio e, nei suoi confronti, Dio è Padre. Ricorda la figlialità di Gesù e la paternità di Dio nei confronti del proprio Figlio. Dunque c’è vicinanza, c’è un rapporto figliale, c’è un affetto figliale. Poi evidenzia l’opera creatrice di Gesù: «Lui ha posto i fondamenti del cielo e della terra». Ciò lo avvicina a Dio, poiché è Dio ad essere Creatore e Gesù è “con-creatore” di Dio: «[10]E ancora: In principio tu, Signore, hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani» (1,10). Poi dice la sua eternità: «Gesù non avrà fine. Mentre cielo e terra (che Gesù ha contribuiti a costituire) si avvolgeranno e si ripiegheranno come si fa con un mantello, Gesù è eterno». Così scrive: «[11]Essi periranno, ma tu rimani; tutti si logoreranno come un vestito. [12]Come un mantello li avvolgerai, come un vestito anch’essi saranno cambiati; ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni non avranno fine» (vv. 11-12). Prosegue sempre con delle citazioni bibliche, parlando della regalità di Gesù: è Dio e Dio lo insedia come suo Figlio e come Dio anche lui. Lo insedia su un trono (simbolo della regalità), che è eterno; gli dà uno scettro per governare e lui governa con giustizia. Inoltre è stato consacrato con l’unzione divina per essere re e messia, così come si faceva nell’antichità. E Dio gli ha detto: «Siedi alla mia destra», facendolo sedere alla sua destra, sul suo trono. Infatti scrive: «[13]E a quale degli angeli poi ha mai detto: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici a sgabello i tuoi piedi?» (1,13). Per tutti questi motivi Gesù è vicino a Dio e lo è più che gli angeli, i quali non ricevono nessuna di queste cose da Dio. Al contrario, gli angeli ricevono il comando di adorare Gesù. Allora essi sono inferiori rispetto a lui; e sono inferiori soprattutto come vicinanza a Dio. Essi sono semplici ministri: ministri di Dio e ministri degli esseri umani che Gesù salva: «Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la salvezza?» (1,14). Per tutte queste ragioni Gesù è più vicino a Dio che non gli angeli. Forse questo potrà sembrare 6
un argomento arido; ma bisogna attendere il proseguimento del discorso. Più degli angeli Gesù è vicino a Dio, intimo a Dio, legato da affetto e legato da condivisione del potere cosmico e regale. Dunque è più vicino a Dio che non gli angeli. Questi dieci versetti di citazioni servono proprio ad affermare questi due concetti: il Figlio è intimo, è vicino a Dio; il Figlio è infinitamente più degli angeli, è più vicino a Dio degli angeli.
3.3. Il Cristo è vicino agli uomini più degli angeli Poi l’autore abbandona questa prima parte della sua argomentazione e continua con una seconda parte, che è la seguente: Gesù non soltanto è più vicino a Dio che non gli angeli, ma anche è più vicino agli uomini che non gli angeli. Qualcuno potrebbe sostenere che la sua incarnazione lo ha fatto uomo, quindi piccolo e pertanto inferiore agli angeli, che gli uomini sentono superiori a loro. Invece l’autore sentenzia che non è così. La sua incarnazione non ha allontanato Gesù da Dio e, soprattutto, la sua incarnazione lo ha avvicinato agli uomini. Allora cita nuovamente un salmo, il Sal 8, nel quale si celebra la grandezza dell’uomo. Però in questo salmo si trova anche una piccola riserva, nella quale cova l’obiezione appena ricordata. Leggiamola: «Che cos’è mai l’uomo perché tu di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Dunque lo hai fatto poco meno di un Dio» (Sal 8,5-6a). Così l’autore cita questi versetti: «Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi e il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Di poco lo hai fatto inferiore agli angeli» (Eb 2,6-7). Ecco il punto: un uomo è più piccolo degli angeli. Poi il salmo continua: «Di gloria e di onore lo hai coronato (…). Tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal 8,6b-7). Ecco dunque l’obiezione: un uomo è più piccolo degli angeli; ma segue la risposta che «Dio lo ha coronato di gloria e di onore e ha messo sotto i suoi piedi ogni cosa, ogni realtà». Dunque il salmo, che in sé celebra la grandezza dell’uomo, tuttavia parla anche dell’inferiorità dell’uomo rispetto agli angeli. Però per l’autore della lettera agli Ebrei tale inferiorità non è permanente; non è che Dio ha fatto l’uomo Gesù inferiore agli angeli. Infatti le parole «di poco» (dunque una questione di quantità) per l’autore acquistano un altro senso: «per poco (tempo)», ossia: «per il poco tempo dell’incarnazione della passione e morte lo ha fatto inferiore»; poi, nella risurrezione, lo ha glorificato, lo ha coronato di gloria e di potenza. Dunque c’è un abbassamento. Questo salmo viene applicato dall’autore a Gesù: non è qualsiasi uomo, bensì è l’uomo che è Gesù. Conferma che c’è stato questo abbassamento; però tale abbassamento del Figlio sotto gli angeli è venuto dall’iniziativa di Dio. Dio ha scelto questa via: abbassare suo Figlio, «per poco tempo» oppure «di poco», al di sotto degli angeli. Perché Dio ha voluto che suo Figlio si abbassasse sotto gli angeli, seppure per poco tempo? Per renderlo perfetto. Ma come è possibile rendere perfetto qualcuno rendendolo più piccolo? La risposta dell’autore è che lo ha reso perfetto nella vicinanza agli uomini, poiché in quel breve tempo dell’abbassamento Gesù ha sperimentato la sofferenza umana e ha sperimentato la sofferenza nel punto più acuto, che è la morte. Gesù ha condiviso con gli uomini la morte. La morte era lo strumento del diavolo per dominare l’umanità, lasciandola ogni giorno sotto la minaccia della morte e così terrorizzandola; ebbene, da questa ferita di cui l’umanità soffre, Gesù, in quell’abbassamento, è diventato perfetto. È entrato nella morte, ha attraversato la morte. E tale abbassamento non è stato una degradazione, ossia non è accaduto che da un livello alto è passato ad essere sotto gli angeli; bensì tale 7
abbassamento al di sotto degli angeli è stato un momento di perfezione: perfetto nella vicinanza agli uomini (2,8-10). Il Figlio ha accettato tale abbassamento, in quanto «non si è vergognato di chiamare gli esseri umani suoi fratelli» (cf. 2,11), bensì ha solidarizzato con essi, condividendo con loro «il sangue e la carne» (2,14). È un linguaggio diverso dal nostro, ma tuttavia ben comprensibile: la sofferenza nella carne. Gesù ha condiviso «carne e sangue» sino al morire, proprio al fine di debellare la morte. Dunque il Figlio è più vicino a Dio che non gli angeli; e, nonostante l’essere stato abbassato sotto gli angeli per breve tempo, il Figlio in quell’abbassamento è diventato perfetto nella vicinanza agli uomini. Ed è qui che, se l’autore avesse scritto in latino e non in greco, avrebbe scritto che il Figlio è diventato pontifex, ovvero è diventato capace di fare da ponte tra Dio e gli uomini. Infatti è vicino a Dio e dunque ha un grosso pilastro saldamente piantato su questa riva; poi egli fa da ponte poggiando l’altro capo del ponte sull’altra sponda, che è l’umanità. Dio e l’uomo, che erano separati da una grande frattura, oramai sono ricongiunti in comunione da questo grande pontefice. L’autore più avanti scriverà: «Ed è così che lui è sempre vivo, per intercedere a nostro favore, essendosi conquistato un sacerdozio che non tramonta» (cf. 7,24). È qui la premessa per sostenere che Gesù è sacerdote, in quanto è vicino ad entrambe le due parti che erano separate. Il Figlio è potuto divenire ponte tra Dio e l’umanità per due motivi: 1. perché è vicino ed intimo a Dio da sempre; 2. perché nel tempo si è fatto vicino agli esseri umani, passando attraverso la sofferenza e la morte, triste eredità degli umani. Per il peccato di Adamo, per l’universale e quotidiana schiavitù al peccato, gli esseri umani sono nella necessità di ritrovare la perduta comunione con Dio. Tuttavia, ciò che sarebbe veramente angoscioso sarebbe l’impossibilità di una congiunzione, di un ponte tra Dio e gli uomini. Ma questa sciagurata ipotesi è stata distrutta da Gesù. Gesù è il ponte col quale gli uomini possono ricongiungersi con Dio e mettersi in comunione con Lui.
4. IL CRISTO «DEGNO DI FEDE E MISERICORDIOSO» Resta un altro punto da svolgere: sono i due aggettivi coi quali l’autore qualifica il pontifex. Sono due caratteristiche di questo pontefice che è Gesù. Infatti si legge: «È per tutti questi motivi che Gesù è potuto diventare sommo sacerdote (archiereus: è la prima volta che nella lettera è usato questo termine), che è pistòs e eleémon» (cf. 2,17-18). Gesù è un pontefice che è “pistòs”, che è un aggettivo greco che ha tre possibili traduzioni: 1. “credente”: ad esempio, Gesù esorta Tommaso a «non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27); ma non è il senso che ha qui; 2. “fedele”: riguardo a qualcosa del passato a cui si rimane fedeli, mentre qui con ogni probabilità ci si riferisce ad una qualità del presente; 3. la traduzione migliore qui è “degno di fede”. Sono tre significati possibili e quello che meglio si adatta è “degno di fede”. Tra parentesi, notiamo che qui si vede bene come sia tanto difficile quanto interessante riuscire a tradurre bene dalla lingua originale. Gesù è proprio «degno di fede» perché è vicino a Dio e Dio si fida di lui; e proprio perché è vicino agli uomini, essi si fidano di lui. Dunque è un pontefice al quale le due sponde danno credito, è fidato, di lui tutti si fidano. L’autore prosegue, poi, scrivendo che anche Mosè fu «degno di fede» nella conduzione del popolo dalla terra d’Egitto alla Terra promessa. Però Mosè era degno di fede «nel popolo»; e poi come servo per Dio. Mosè era sì «servo tra i servi», dunque con un incarico particolare; ma comunque era un servo. Invece Gesù è molto di più (3,1-6). Nell’arco della lettera l’autore propone numerosi confronti tra la realtà di Gesù e l’AT: prima lo fa con gli angeli, poi con Abramo, ecc. Qui lo fa con Mosè, che era sì una grande figura dell’AT; però era «degno di fede» nel popolo di Dio, che qui è chiamato «casa di Dio». Ed era «degno di 8
fede» come servo, in mezzo ad altri servi. Invece Gesù è diverso: Gesù è «degno di fede» come «figlio»; e non lo è «nella casa», bensì «sopra la casa»: «Cristo lo fu [«degno di fede»] come figlio, posto sopra la sua casa» (3,6). In fondo, il Figlio sta col padrone della casa sopra tutti. Ebbene, Gesù è degno di fede nel popolo più di Mosè e sopra il popolo. Ma soprattutto è «degno di fede» per Colui che lo ha costituito. Dunque è «degno di fede» sia per gli uomini che per Dio. La seconda prerogativa è quella di essere “eleémon”. La radice di questo vocabolo è in comune col termine “eleison” (ad esempio, nella formula: “Kyrie, eleison”, che viene tradotta con: “Signore, abbi pietà”). Il termine “eleémon” è un participio che indica: “colui che è capace di pietà”, ovvero è capace di compassione, è capace di capire le miserie, i limiti, le disperazioni, gli avvenimenti degli uomini. Ciò perché anche lui vi è passato: Gesù è passato attraverso le dolorose esperienze quotidiane degli uomini. Pertanto è capace di capire gli uomini: è “eleémon”. Dunque Gesù non è soltanto «degno di fede» (ossia: ci si può fidare), ma entra anche facilmente in consonanza con gli uomini, sa come sono fatti e cosa sperimentano ogni giorno. Gesù è proprio capace di compatire le infermità umane, perché «egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (4,15). L’autore aggiunge che il Figlio è capace di compatire, poiché «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche (probabilmente non per sé, ma per gli uomini), con forti grida e lacrime» (5,7). Forse nel nostro dolore noi siamo arrivati alle lacrime, ma probabilmente non alle grida; Gesù è passato attraverso queste esperienze. E continua: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8). Dunque il Figlio di Dio «imparò l’obbedienza» (!) e la imparò «da ciò che patì» (!!!).
5. CONCLUSIONE Per terminare, facciamo nostra un’esclamazione dell’autore. Infatti l’autore stesso si meraviglia delle cose che ha scoperte e che propone agli ascoltatori; egli è meravigliato della grandezza del sacerdozio che abbiamo. Infatti, poiché abbiamo un pontefice, un “ponte” che è gradito a Dio e che per Lui è «degno di fede»; poiché questo “ponte” è pure vicino e solidale con gli uomini; ebbene, per tutti questi motivi non fa meraviglia che l’autore esprima la sua meraviglia e la sua soddisfazione invitando ad abbandonarsi con fiducia a questo sacerdote: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (4,15). E continua: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (4,16).
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IL SACERDOZIO DI GESÙ DIVERSO E ALTERNATIVO (Ebrei 7) 1. INTRODUZIONE Poiché vicino a Dio più degli angeli ed anche vicino agli uomini più degli angeli, Gesù è nella condizione per essere il “ponte”, per essere gradito e fidato per entrambe le sponde. Dunque ha tutte le premesse per essere sacerdote. Questa argomentazione non è assolutamente ingenua, bensì è una considerazione che affronta il problema dal verso giusto, poiché qui sta il punto centrale. Infatti ci può essere un mediatore che non sia gradito ad una parte e allora la mediazione non si fa. La virtù del mediatore è proprio quella di sapere parlare ad entrambe le parti. Dunque si tratta di un’argomentazione profonda e persuasiva. Tuttavia è pure di un’argomentazione esposta a difficoltà, ad obiezioni, ad una resistenza istintiva. Ciò perché si proveniva da una lunghissima tradizione cultuale-liturgica e pertanto nell’animo di tutti c’erano delle riserve e degli attaccamenti biblico-teologici-liturgici. Quindi si trattava di un’affermazione nuova e piacevole, che tuttavia cozzava contro la roccia della tradizione. Una prima difficoltà era il fatto che Gesù non veniva dalla tribù sacerdotale, ossia quella di Levi, che nell’intera Bibbia era trattata in maniera diversa rispetto alle altre undici tribù di Israele. Ad esempio, in Numeri 18,20-24 si legge che la Terra promessa viene divisa tra tutte le tribù, tranne quella di Levi, la quale deve essere mantenuta dalle altre undici tribù, in quanto essa deve dedicarsi al culto. Gesù non apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi; e questa era una difficoltà, poiché Gesù era un “laico” e tale caratteristica non lo proclamava sacerdote. In secondo luogo, c’erano tantissime abitudini, quali ad esempio: la preghiera nel tempio, il sacerdote del tempio, il suono del corno del venerdì sera che inaugurava il culto del giorno del sabato, i vestiti, i vasi sacri, i riti, i luoghi nel tempio per gli animali, per il sangue, per le carcasse degli animali, ecc. Dunque si trattava di una costruzione, di una istituzione enorme. Ed è contro questa enorme istituzione che cozzava l’affermazione dell’autore. Veniva da domandarsi perché non andasse bene il sacerdozio che già esisteva, i riti che si celebravano, i canti, i suoni, le processioni, i riti che già c’erano. Perché questo non poteva più andare bene? Perché non poteva bastare? E cosa farsene, allora, di tutto ciò? Probabilmente nell’animo dei destinatari di questa lettera erano presenti questi problemi, sebbene non lo si sappia con certezza, appunto perché – come già abbiamo accennato – conosciamo pochissimo sui destinatari dello scritto. Comunque sono obiezioni che si possono sollevare, anche perché ogni obiezione risolta aiuta a capire maggiormente la soluzione che si propone. Ebbene, davanti alle difficoltà e alle obiezioni che potevano sorgere per accettare l’affermazione che Gesù è il sacerdote migliore che ci sia (perché può fare da mediatore anche meglio degli angeli, in quanto superiore agli angeli stessi), l’autore della Lettera agli Ebrei risponde compiendo alcuni passi nel suo ragionamento. Il primo passo è il seguente: le Scritture parlano di un sacerdozio alternativo. E tale sacerdozio alternativo è dalle Scritture chiamato: «Secondo l’ordine di Melchìsedek». Il secondo passo del ragionamento è che tale sacerdozio alternativo, chiamato: «secondo l’ordine di Melchìsedek», viene applicato al Messia. 10
Il terzo passo: se si parla di un sacerdozio alternativo «secondo l’ordine di Melchìsedek», che sarebbe il sacerdozio applicato al Messia, allora bisogna andare a vedere tutti i testi che parlano di Melchìsedek e che parlano di questo sacerdozio alternativo, che sarebbe quello del Messia. Adesso anche noi compiamo questi tre passi, seguendo il nostro autore.
2. IL SACERDOZIO «SECONDO L’ORDINE DI MELCHÌSEDEK» NELLE SCRITTURE 2.1. Il sacerdozio «secondo l’ordine di Melchìsedek»: Salmo 110,4 Dunque andiamo alla ricerca nelle Scritture di un sacerdozio alternativo non più secondo la linea di Aronne della tribù di Levi, bensì secondo l’ordine di Melchìsedek. Il testo da cui l’autore parte per il suo discorso è il Salmo 110, in cui si legge: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek» (Sal 110,4; traduzione del relatore). Da notare che non dice: «secondo Melchìsedek»; bensì: «secondo l’ordine di Melchìsedek». In greco “ordine” è “tàxis”, che – appunto – significa “ordine”, ma anche “ordinamento”, “disposizione delle schiere” (quando l’esercito si schiera con le ali, la cavalleria, ecc.; è lo schieramento sul campo di battaglia); ed ancora: “corpo d’armata, “falange”, “reggimento”; infine: “costituzione politica”. Il verbo “tàsso”, da cui deriva “tàxis”, significa: “ordino”, “schiero”, “dispongo”, “stabilisco”, “designo”, “costituisco”. Quindi qui non è questione di una “persona secondo Melchìsedek”, il quale si sarebbe costruito un altarino, avrebbe compiuto qualche gesto e recitato qualche benedizione. Invece è: «Secondo l’ordine di Melchìsedek», dunque secondo l’ordinamento sacerdotale di cui Melchìsedek era il capo o, comunque, faceva parte. Dunque «secondo la tàxis (ovvero: secondo l’ordinamento) di Melchìsedek». Pertanto dietro a questa espressione («Secondo l’ordine di Melchìsedek») bisogna vedere non tanto una singola persona, bensì un intero complesso, che comprende sacerdozio (dunque “sacerdoti”, al plurale), legislazione, regole, rubriche, un tempio o templi, altari, vasi sacri, suppellettili sacre, sacrifici, riti preghiere, canti, processioni, che sono «secondo la tàxis di Melchisedek», ossia secondo il complesso ordinamento cultuale e religioso di cui questo misterioso Melchìsedek faceva parte. Dunque ci sono l’ordinamento sacerdotale giudaico secondo Aronne e secondo Levi e questo ordinamento cultuale e sacerdotale alternativo secondo Melchìsedek. L’autore comincia a ragionare e si domanda: «Se la perfezione del culto (ossia: dei sacrifici, degli inni, dei canti, delle processioni, ecc.) era già stata raggiunta per mezzo del sacerdozio levitico e aronnitico (ovvero: nel sacerdozio del giudaismo), che bisogno c’era che sorgessero un altro sacerdote e un’altra tàxis sacerdotale, ossia il sacerdozio secondo la tàxis di Melchìsedek e non, invece, secondo la tàxis di Aronne?» (cf. 7,11) E prosegue: «Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della Legge», ossia: regole, vestiti, templi, calendari diversi (7,12). Dunque, se c’era tutto un ordinamento sacerdotale – quello del giudaismo, della tribù di Levi, della classe sacerdotale di Aronne –, allora perché parlare di tutt’un altro ordinamento complesso e complicato secondo un’altra tàxis, quella di Melchìsedek? Quindi il primo passo è un sacerdozio alternativo. E l’autore sembra suggerire che lo ricorda la Scrittura, che non è colpa sua, che non lo inventa lui (!). Il Salmo 110 è stato letto e pregato innumerevoli volte dal popolo di Israele; allora perché non ne è stato dedotto, appunto, che esiste un sacerdozio alternativo «secondo l’ordinamento di Melchìsedek»? Vi è poi un secondo passo che l’autore compie. 0Leggendo con maggiore attenzione il Salmo 110, si scopre che c’è una persona che parla e 11
un’altra persona a cui il discorso è rivolto. Infatti si trova il discorso diretto: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek». Chi è che pronuncia queste parole e che è in grado di riconoscere in questo «Tu» qualcuno degno della dignità sacerdotale secondo Melchìsedek? Chi è che promette e chi è che riceve questa nomina sacerdotale «secondo l’ordine di Melchìsedek»? Ebbene, in quello stesso versetto subito prima si legge: «Il Signore ha detto al mio signore» (v. 1). Dunque qui c’è un «Signore», il quale «ha detto al mio signore». Il primo «Signore» è il Signore Dio universale, mentre il secondo «signore» è «il mio signore». Ricordiamo che il termine greco per “signore” è “kyrios”. Allora chi è il “Kyrios”? Un Ebreo che conosceva bene l’AT sapeva perfettamente che il “Kyrios” è Dio. È Dio a pronunciare la frase: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek». Il termine “Kyrios” era una maniera greca per evitare di dire il nome divino, in quanto gli Ebrei – appunto – non lo pronunciavano. Mentre in ebraico si sostituiva il nome divino con “Adonai”, in greco si usava “Kyrios”. Allora: «Dio ha detto al mio kyrios». Per gli uomini di quel tempo l’autore di questo salmo era Davide, il quale dunque scrive che Dio ha detto al suo (di Davide) signore che è «sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek». Ma chi è il signore di Davide? È il Messia, il “figlio di Davide”. Tuttavia nei vangeli si legge la domanda se davvero il Messia sia “figlio di Davide”. Certamente lo è, in quanto proviene dalla linea davidica. Però non è solamente “figlio di Davide”, ma è ben di più: è il suo signore. È un’obiezione di cui si legge in Mc 12,35 e con la quale Gesù mette in difficoltà i suoi contradditori. Gesù nota che essi dicono che il Messia è “figlio di Davide”; però Davide stesso lo definisce «suo signore», dunque è molto di più. Allora il primo Signore (cioè Dio) ha detto ad un secondo Signore (sempre con la maiuscola, poiché è il Messia), ossia Dio ha detto al Messia: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek». Così per l’autore della lettera agli Ebrei il gioco è fatto. C’è un sacerdozio alternativo; di esso parla il Salmo 110; la frase con cui si riconosce tale sacerdozio è pronunciata da Dio, le cui parole sono rivolte al Messia. Allora la conclusione ineccepibile è che: 1. il Messia è sacerdote; 2. è sacerdote non secondo l’ordine di Aronne; 3. è sacerdote secondo questo misterioso sacerdozio alternativo, che è quello di Melchìsedek e della sua tàxis. Infine ecco il terzo passo nel ragionamento dell’autore. Se è vero che c’è un sacerdozio alternativo secondo l’ordine di Melchìsedek; se tale sacerdozio è il sacerdozio di cui è sacerdote lo stesso Messia; allora bisogna cercare di capire maggiormente cosa comporti questo alternativo sacerdozio che è secondo Melchìsedek. Cosa significa? Quali caratteristiche ha? Quante ne ha? Ed eventualmente è possibile il confronto col sacerdozio di Aronne? È proprio ciò che l’autore fa in tutta la lettera, in modo originalissimo e documentato. Infatti è sì vero che c’è il Salmo 110; ma è pure vero che non c’è una grande quantità di testi su Melchìsedek, bensì ce n’è un altro soltanto: sono solamente due in tutta la Bibbia. È proprio perché i testi sono soltanto due (ossia Salmo 110,4 e Gen 14,18-20) che l’autore si rimbocca le maniche e a questi due testi fa dire tutto ciò che è possibile (ed anche ciò che è impossibile!). Così convince sé stesso, e convince probabilmente anche i suoi ascoltatori, che davvero Gesù è sacerdote: è sacerdote secondo il sacerdozio di Melchìsedek, che è completamente diverso dal sacerdozio di Aronne. E tale sacerdozio è grandemente superiore, più perfetto, più efficace, rispetto al sacerdozio di Aronne. Alla fine del confronto, il sacerdozio di Aronne ne esce distrutto, colpevolizzato, mentre il sacerdozio di Melchìsedek ne esce esaltato, tanto è vero che – come abbiamo già preannunciato – l’autore se ne stupisce e propone la sua esclamazione di meraviglia e di ammirazione.
2.2. Melchìsedek e Abramo: Genesi 14,18-20 12
Adesso leggiamo il secondo dei due testi in cui l’AT menziona Melchìsedek e, soprattutto, il sacerdozio «secondo l’ordine di Melchìsedek». Questo testo si trova nel libro della Genesi: «[17]Quando Abram fu di ritorno, dopo la sconfitta di Chedorlaomer e dei re che erano con lui, il re di Sòdoma gli uscì incontro nella Valle di Save, cioè la Valle del re. [18]Intanto Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo [19]e benedisse Abram con queste parole: ‘Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, [20]e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici’. Ed egli (Abram) gli diede la decima di tutto» (Gen 14,17-20). È accaduto che Abramo ha subito una razzia ed allora si è organizzato per rincorrere i razziatori e per riprendersi ciò che è suo. Quando ritorna vincitore sui cinque re che avevano razziato persone, bestiame e oggetti della sua fattoria (ricordiamo che Abramo è un grande latifondista), riportando a casa tutto ciò che è suo, incontra prima il re di Sòdoma e poi Melchìsedek, re di Salem. Questo è l’episodio, così riassunto in Eb 7,1: «Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’avere sconfitto i re e lo benedisse». Poi l’autore narra che, nell’incontro, avvenne uno scambio: «A lui Abramo diede la decima di ogni cosa» (7,2a). Forse grato per la riconquista dei suoi beni, Abramo sente il bisogno di compiere un gesto religioso. Riconosce che tutto ciò che ha ritrovato, lo ha ritrovato grazie all’assistenza e alla provvidenza di Dio. Dunque vuole restituire a Dio con gratitudine un decimo delle sostanze recuperate. Così paga la decima a Dio, che gli ha permesso di vincere, e dà questa decima a Melchìsedek, il quale ringrazia con qualche parola di cortesia e lo benedice. Questo è l’episodio. Dopo aver rievocato questo episodio dell’incontro di Abramo con Melchìsedek, del pagamento della decima da parte del patriarca e della benedizione datagli dal re di Salem, l’autore fa una serie di commenti esegetico-rabbinici. «Anzitutto il suo nome significa: “re di giustizia”; poi è anche re di Salem, cioè “re di pace”» (7,2b): innanzi tutto l’autore fa un lavoro di cesello sul nome. Infatti “Mal-chì-sedek” in ebraico sono più parole: “mal-chì” significa: “Il mio re”; mentre “sedék” è la giustizia. Dunque “Melchìsedek” è: “il re di giustizia”. E l’autore della Lettera agli Ebrei ne conclude che non è mica un personaggio qualsiasi. Colui che Abramo incontra è un re; ed inoltre è un “re di giustizia”. Poi sottolinea che era «re di Salem», vocabolo che è vicino a “shalom” (“pace”). Questo è un altro titolo di gloria per Melchìsedek, il quale dunque non solo è “re di giustizia”, ma è anche “re di pace”. È il titolo che viene dato a Gesù nei prefazi: “Re di giustizia e di pace”; e proviene proprio da qui. Questo Melchìsedek è “re di giustizia e di pace”. Inoltre lo definisce: «sacerdote del Dio Altissimo» (7,1), come a dire che non è un sacerdote degli abominevoli idoli, condannati dalla prima all’ultima pagina della Bibbia e nell’intero giudaismo, il quale, fra le cose grandiose che ha donate all’umanità, ha donato anche il monoteismo. Qui è presente l’idea del Dio Altissimo, del Dio unico. Dunque sono elencati titoli politici (“re”), etici (“re di giustizia e di pace”); ed inoltre l’essere sacerdote del Dio Altissimo. Stiamo parlando del sacerdozio: Melchìsedek è sacerdote del Dio unico e del Dio Altissimo, più alto del quale non si riesce ad immaginarne un altro. Seguono le deduzioni “impossibili” da parte dell’autore, deduzioni che noi fatichiamo ad accettare e che ci fanno sorridere. Ma l’autore le tira fuori perché si tratta di un argomento che, per i suoi ascoltatori, vale tanto. Uno studioso tedesco così formula la regola esegetica seguita dal nostro autore: quello che non c’è nella Torah (dunque ciò che non si trova nei cinque libri del Pentateuco), semplicemente non esiste. Probabilmente è questa la regola che sottosta al procedimento seguito dall’autore, che invita a leggere bene il racconto dell’incontro tra Abramo e Melchìsedek. Di quest’ultimo vengono dette 13
poche cose; e, per la regola appena formulata, quelle che non sono scritte non esistono, non ci sono. Da qui ricava l’impossibile, ossia: «Egli, senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio rimane sacerdote per sempre» (7,3). L’autore ragiona così: «Leggete il racconto. C’è il nome del padre di Melchìsedek? No; allora costui non è esistito. C’è il nome della madre? No; allora costei non è esistita. C’è la genealogia dei figli di Melchìsedek? No; allora non ne ha avuti. Allora Melchìsedek è senza padre, è senza madre, è senza genealogia. C’è il giorno in cui è nato? No; allora non è mai nato. C’è il giorno in cui è morto? No; allora non è mai morto. Pertanto Melchìsedek è senza padre, è senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni, né fine di vita. Dunque è eterno». Così ragiona l’autore, per noi stranissimamente; ma si tratta di un metodo rabbinico che poteva valere per quei tempi. Le affermazioni sono queste: Melchìsedek aveva un sacerdozio eterno, ossia che non si riceveva dal padre come nel giudaismo, nel quale si diventava sacerdote proprio poiché figlio di sacerdote. Tutto questo è finito; e qui si vede che si tratta di una lettera anche innovatrice. «Senza principio di giorni né fine di vita»: è eterno. Questo è proprio ciò che si adatta a Gesù, il quale è Figlio, è eterno. Infatti l’autore scrive che, proprio per il fatto di essere tutte queste cose (senza padre, senza madre, senza figli, senza nascita e senza morte), è simile al Figlio di Dio; oppure il Figlio di Dio è simile a lui. Cosicché Melchìsedek rimane «sacerdote in eterno», come recita il salmo: «Tu sei sacerdote in eterno». Si tratta di un’acquisizione notevole, poiché non soltanto è sacerdote di giustizia e di pace; ma è «sacerdote in eterno».
3. IL CONFRONTO TRA IL SACERDOZIO DEL CRISTO E IL SACERDOZIO DEL GIUDAISMO A questo punto l’autore compie un ulteriore passo ed invita a guardare bene nel racconto di Abramo che incontra Melchìsedek, poiché lì avviene qualcosa che mostra inequivocabilmente che Melchìsedek è più grande di Abramo. Probabilmente un Ebreo non sarebbe stato d’accordo, in quanto Abramo è il patriarca; ma l’autore risponderebbe che è così non perché lo sostiene lui, ma perché lo si legge nelle Scritture. Infatti l’autore scrive: «Considerate quanto sia grande costui (Melchìsedek), al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino» (7,4). Ecco la seconda osservazione sul racconto: Melchìsedek benedisse colui che era depositario delle promesse. Infatti Dio aveva fatto le promesse ad Abramo: gli avrebbe dato un figlio, dal quale sarebbe nata un popolo numeroso «come le stelle del cielo e la sabbia del mare» (cf. Gen 22,17). Sono le promesse di Dio ad Abramo. Ebbene, Abramo, che è il patriarca e il depositario delle promesse, paga la decima a Melchìsedek e da questi riceve la benedizione. E l’autore della lettera agli Ebrei ragiona: «Ora, senza alcun dubbio, è l’inferiore che è benedetto dal superiore» (7,7). Dunque Melchìsedek è più grande di Abramo. Così Melchìsedek è sacerdote di giustizia, di pace, del Dio Altissimo, in eterno, ed è anche superiore al grande patriarca Abramo. È superiore a colui che era depositario delle promesse di Dio per tutto il popolo di Israele. Ma l’autore continua, poiché Abramo stava per generare il figlio Isacco grazie alla promessa di Dio. Dunque in Abramo c’era anche suo figlio, il quale doveva ancora nascere; e in questo figlio c’erano tutti i figli di Israele, compreso Levi e la sua discendenza sacerdotale. L’espressione usata dall’autore è che Levi «si trovava ancora nei lombi del suo antenato» Abramo (7,10). Ciò perché «nei lombi di Abramo» c’era tutto Israele, dunque anche la tribù di Levi e di Aronne. Pertanto, in ciò che Abramo ha fatto e ha ricevuto, c’è quello che il sacerdozio levitico-abramitico, in qualche modo, in Abramo ha fatto e ha ricevuto. Allora ecco una seconda superiorità: non soltanto Melchìsedek era superiore ad Abramo (in quanto il superiore benedice l’inferiore); ma nei lombi di Abramo (ossia: nella potenza genitale di Abramo) anche tutti i sacerdoti del giudaismo hanno pagato la decima a Melchìsedek. Dunque il sacerdozio di Melchìsedek è più grande del sacerdozio 14
giudaico. Sono “giochi di prestigio” che l’autore, con grande abilità, riesce a fare. Così alla fine dimostra che il sacerdozio di Melchìsedek è grandissimo, mentre il sacerdozio del giudaismo si è dimostrato inferiore, poiché in Abramo (nei lombi di Abramo, ossia nella potenza genitale del patriarca, che avrebbe generato un figlio e da questi un popolo) il sacerdozio giudaico ha pagato la decima a Melchìsedek e pertanto ha riconosciuto che Melchìsedek è più grande. Poi l’autore torna al Salmo 110, dal quale pure ricava tanti significati. Si serve di questo salmo per affermare che «il sacerdozio del giudaismo è fatto in un certo modo, ma Gesù è di più». Per alcune volte fa tale comparazione e sempre il sacerdozio di Melchìsedek, che è il sacerdozio di Gesù, risulta superiore. L’autore sostiene che, a partire da Sal 110,4, si possono ricavare le seguenti considerazioni. 1. Nel giudaismo si diventa sacerdoti secondo regole carnali: il padre genera un figlio il quale, per legge carnale, diventa a sua volta sacerdote. Invece Gesù è diventato sacerdote per potenza indefettibile: infatti è sacerdote «in eterno», e non perché un padre genera un figlio. Questo è un primo tipo di superiorità (7,15-18). 2. Nel giudaismo si diventa sacerdoti senza giuramento. Invece qui c’è un giuramento, poiché «il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordinamento di Melchìsedek». Pertanto, quando Dio prende la parola e dice al Messia: «Tu sei sacerdote in eterno», fa un giuramento, del quale Dio non si pentirà mai («e non si pente»). Mentre nel giudaismo si è sacerdoti senza giuramento e ciò vale poco, invece Gesù è sacerdote per giuramento di Dio stesso; e Dio non si pentirà mai di quel giuramento (7,20-22). 3. Nel giudaismo si diventava sacerdoti in gran numero, poiché il padre, dopo alcuni decenni di onorato servizio, moriva e dunque era necessario un altro sacerdote; ma anche questo sacerdote prima o poi moriva. Per tale motivo, nel tempo sono stati necessari tanti sacerdoti. Nel giudaismo c’erano sacerdoti in gran numero, poiché «la morte impediva di durare». Invece Gesù è sacerdote per sempre: «possiede un sacerdozio che non tramonta», ovvero un sacerdozio eterno (7,23-25). 4. Nel giudaismo ogni giorno i sacerdoti dovevano ripetere i sacrifici: al mattino si sacrificava un agnello; al pomeriggio un altro agnello; ecc. Dunque tutti i giorni e tutte le feste era necessario ripetere tanti sacrifici. Invece Gesù ha un sacerdozio “efàpax”, che in greco significa: “una volta per sempre”. Dunque il sacrificio di Gesù è stato una volta sola per sempre (7,27). 5. I sacerdoti del giudaismo sono «uomini soggetti a debolezza» umana, mentre Gesù è «reso perfetto per sempre» (7,28). 6. L’autore chiama nuovamente in causa il Sal 110: i sacerdoti del giudaismo devono ancora stare in piedi a lavorare, mentre Gesù ha già finito il suo lavoro ed è seduto, poiché Dio gli ha detto: «Siedi alla mia destra». Dunque Gesù si è seduto e ha finito il suo lavoro. Si tratta di ragionamenti per noi stranissimi, ma che l’autore porta perché vuole vincere (8,1). 7. Infine Gesù è assiso alla destra di Dio nella maestà dei cieli, sempre vivo a intercedere a favore dei fedeli; invece i sacerdoti del giudaismo sono sulla terra, occupati in quello che è l’ombra del vero tempio e del vero sacrificio. Infatti a Mosè, quando doveva costruire la tenda dove avrebbe abitato Dio in mezzo alle tende degli uomini, fu mostrato il modellino celeste. E così Mosè costruì un esempio, un’ombra della realtà del vero tempio (Es 25,40). Invece Gesù è andato lassù; non si è occupato dell’ombra, della “mala copia”, bensì è entrato nel vero tempio celeste (8,5). In tal modo l’autore ha ricavato da Gen 14,18-20 e dal Salmo 110,4 tutto ciò che era possibile ricavare – ed anche qualcosa di più – per sostenere che il sacerdozio secondo l’ordine di Melchìsedek è infinitamente più grande del sacerdozio del giudaismo. Ma cosa fare del sacerdozio del giudaismo? Per l’autore questo non è un problema; l’importante è capire bene che Gesù è sacerdote, che è sacerdote di un sacerdozio alternativo e che si tratta di un sacerdozio efficace una volta per tutte; dunque non richiede di ripetere i sacrifici, come vedremo nella terza relazione. Inoltre è un sacerdozio eterno e che non viene tramandato dal padre al figlio. Così l’autore della Lettera agli Ebrei arriva alla sua solita esclamazione. Infatti scrive: «Questo 15
era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno (qui non è esatto: il sommo sacerdote offriva una volta all’anno), prima per i propri peccati (infatti Gesù non ha peccati da espiare, in quanto «santo, innocente, senza macchia») e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte (“efàpax”), offrendo sé stesso» (7,26-27). È così che, facendo ricorso ai due unici testi dell’AT nei quali vengono ricordati Melchìsedek e il suo sacerdozio, l’autore riesce nella non facile impresa di esplicitare la dimensione sacerdotale della cristologia.
IL SACRIFICIO DEL CRISTO (Ebrei 10) 1. INTRODUZIONE Riepiloghiamo le affermazioni delle precedenti relazioni. La Lettera agli Ebrei è un documento con alcune lacune, le quali, in qualche misura, rendono difficile la comprensione dello scritto e dei suoi destinatari. Tuttavia si fa carico di una grande impresa teologica: mettere in luce nella cristologia – oltre alla dimensione profetica e a quella regale – la dimensione sacerdotale. Prima di evocare il titolo sacerdotale (cosa che fa solamente alla fine di Eb 2), l’autore pone le basi per poter provvedere la sua affermazione di argomenti che la rendano ragionevole e la impongano. Queste basi sono: Gesù è intimo, è vicino a Dio, ha con Lui un rapporto filiale e da Lui è costituito sul suo stesso trono “re del cosmo”. Ciò rivela che Gesù è intimo e vicino a Dio. Questa è la prima premessa. La seconda premessa è che, in quanto uomo, Gesù è, di fatto, inferiore agli angeli. Tuttavia tale abbassamento al di sotto degli angeli non è una degradazione del Figlio, bensì è un momento in cui il Figlio viene perfezionato. Ovviamente non viene certamente perfezionato nella divinità, bensì viene perfezionato nel suo rapporto con gli uomini, poiché, come gli uomini, Gesù è passato attraverso la sofferenza, anzi addirittura attraverso la morte. Con tutto ciò è stato reso perfetto e, essendo vicino a Dio più degli angeli ed anche vicino agli uomini più degli angeli, Gesù è in grado di fare da mediatore, da “pontefice”. Fungendo da ponte, Gesù congiunge i due estremi Dio-uomini e permette di superare l’abisso del peccato e della finitezza umana nei confronti della santità e della grandezza di Dio. Questo è il riassunto della prima relazione. Nella seconda relazione abbiamo visto che, avendo raggiunto per Gesù il titolo di “sommo sacerdote”, l’autore deve rispondere alla domanda sul motivo per cui sia superato il sacerdozio del giudaismo, che aveva tanti sacerdoti da tanti secoli e che aveva il tempio che era uno splendore, tanto che Giuseppe Flavio descrive Gerusalemme annotando che da lontano si vede una macchia bianca, formata dai bianchi marmi del tempio, che impressionano anche a distanza. Dunque: perché tutte queste strutture adesso non devono più servire o, comunque, non sono più sufficienti? A tale domanda, l’autore risponde che bisogna leggere le Scritture, nelle quali si trova che c’è un altro sacerdozio, definito «secondo l’ordine di Melchìsedek». Inoltre tale sacerdozio è applicato al Messia proprio perché la frase di Sal 110,4: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchìsedek», è detta dal Signore Dio al Signore che è il Messia. Ricordiamo che il cristianesimo si distingue dal giudaismo perché non ha un solo Kyrios, bensì ne ha due. Questo è un elemento di grande distinzione tra giudaismo e cristianesimo. Dunque: «Il Signore ha detto al mio Signore (ossia: «Dio ha detto al Messia»): Tu sei sacerdote in eterno», però non secondo l’ordine di Aronne, bensì «secondo l’ordine di Melchìsedek». Così l’autore va a cercare tutti i testi che parlano del sacerdozio «secondo l’ordine di Melchìsedek», al fine di vedere bene di cosa si tratti, ovvero se sia davvero il sacerdozio dato da Dio al Messia. 16
L’autore trova solamente due testi, dai quali sa ricavare tantissime conseguenze. Ossia: che è un sacerdozio di pace e di giustizia; che è un sacerdozio eterno in quanto senza genealogia né ascendente né discendente; che è un sacerdozio fatto sotto giuramento; che è un sacerdozio efficace. L’autore scrive tutto ciò del sacerdozio che deve essere riconosciuto, in base alle Scritture, al Messia. Avendo un sacerdozio così santo e immacolato, i credenti devono avvicinarsi a questo trono di grazia. Adesso entriamo nel vivo della terza relazione. Se Gesù ha tutte le premesse per essere un ponte tra Dio e gli uomini; se ha un sacerdozio alternativo, che non è secondo la tàxis (ossia l’ordinamento complicato e complesso) di Aronne, ma è secondo un altro ordinamento (probabilmente anch’esso molto articolato), ovvero secondo quello di Melchìsedek; ebbene, in pratica, quali sono gli strumenti salvifici, gli strumenti di purificazione e di santificazione? Quali sono gli strumenti che ha a disposizione questo sacerdozio alternativo, che va riconosciuto al Cristo, cioè a Gesù?
2. I SACRIFICI DI SANGUE DEL GIUDAISMO Traiamo spunto da ciò che afferma la lettera riguardo ad un altro passo biblico. Infatti prende come esempio ciò che fece Mosè, quando scese dalla montagna con la Legge, ossia con la volontà di Dio: Mosè fece un sacrificio, per stringere l’alleanza tra Dio e il suo popolo. L’autore scrive che fu un’alleanza stretta nel sangue. Diversamente dalla nostra cultura, le culture antiche possedevano una riflessione profonda sul sangue, tanto che – ad esempio – due uomini si praticavano un taglio e mischiavano il proprio sangue, a significare che erano fratelli, in quanto avevano lo stesso sangue. Ogni patto si stringeva col sangue. E il sacrificio che stringeva due persone oppure due clan, due popoli, due tribù in alleanza era un sacrificio stretto col sangue degli animali, che rappresentavano gli esseri umani. Ed è proprio ciò che Mosè fa: «Dopo che tutti i comandamenti furono promulgati a tutto il popolo da Mosè (la legge che Mosè ha portata dal monte), secondo la legge, questi, preso il sangue dei vitelli e dei capri (ecco il sacrificio) con acqua, lana scarlatta e issopo, asperse il libro stesso e tutto il popolo» (9,19). Dunque Mosè prende un rametto di issopo, lo intinge nel sangue e asperge il libro, che rappresenta la volontà di Dio; e poi, sempre con lo stesso sangue, asperge anche il popolo. Da quel momento Dio (rappresentato dal libro) e il popolo sono stretti in alleanza mediante «il sangue dei vitelli e dei capri», come scrive l’autore rifacendosi a Es 24,6-8. Mosè «asperse il libro stesso e tutto il popolo, dicendo: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio ha stabilito per voi» (9,20). L’alleanza si stringe nel sangue. Qui a noi vengono alla mente le parole dell’Eucaristia: “Questo è il sangue della nuova ed eterna alleanza”. Si vede bene che anche la nostra alleanza, che è “nuova ed eterna”, è sigillata nel sangue. Per l’alleanza stretta da Mosè si tratta di sangue di vitelli e capri. Dopo aver ricordato che ogni alleanza è stretta nel sangue, l’autore sottopone a critica anche il sangue della prima alleanza, cioè l’alleanza di Mosè. Lo ha già fatto per quanto riguarda il sacerdozio; adesso compie la stessa operazione riguardo al sangue dell’alleanza sinaitica. 1. Innanzi tutto, a partire da 10,1, indica come siano inefficaci i luoghi, i riti, il tempio, le suppellettili del tempio dell’alleanza antica. Quindi anche il sangue dei capri e dei vitelli è debole, non è veramente efficace. Ricorda che i sacerdoti del giudaismo ogni giorno, sia al mattino che al pomeriggio, uccidevano un agnello; dunque due agnelli al giorno venivano sacrificati dai sacerdoti del tempio a beneficio proprio e del popolo. Inoltre, una volta all’anno, nel giorno del Kippur, al mattino il sommo sacerdote entrava nel tempio e sacrificava del sangue, sempre per i proprio peccati; e al pomeriggio 17
il sommo sacerdote offriva dell’altro sangue nel tempio a nome di tutto il popolo. Operiamo una piccola digressione per illustrare dove entrava il sommo sacerdote ad offrire i sacrifici. Il tempio di Gerusalemme era una costruzione complessa. Era costituito da un’area molto vasta, ma non tutto era tempio, in quanto era presente una suddivisione in cortili concentrici. Il cortile più esterno, in cui potevano entrare tutte le persone, era il cosiddetto “cortile dei gentili”. Vi erano poi il cortile in cui potevano entrare solamente uomini e donne ebrei; poi il cortile solo per gli uomini ebrei; poi il cortile per i soli sacerdoti, nel quale si trovava l’altare; infine c’era il tempio vero e proprio, in muratura. Nel tempio c’era un vestibolo, che non aveva particolari funzioni; poi c’era una seconda stanza, che era detta: “il Santo”. Nel Santo entravano due volte al giorno i semplici sacerdoti, sia per l’incenso, sia per l’offerta di un agnello, al mattino e alla sera. Invece una volta all’anno, nel giorno del Kippur (“il giorno dell’espiazione”) il sommo sacerdote entrava due volte nella stanza più interna, ossia il cosiddetto “Santo dei santi”: al mattino offriva il sacrificio per i propri peccati, mentre al pomeriggio lo offriva per i peccati del popolo. L’autore scrive che i sacerdoti ogni giorno offrivano sì sacrifici, ma erano sacrifici non efficaci, poiché non avevano la forza purificatrice del cuore, per purificare il cuore e la coscienza. Ciò perché venivano ripetuti ogni giorno (oppure ogni anno, nel caso del Kippur): se si dovevano ripetere, evidentemente non raggiungevano lo scopo. Invece, se fossero stati efficaci, si sarebbe cessato di offrirli, essendo ottenuta la purificazione una volta per tutte ed avendo liberato la coscienza dal peccato. Ma se tali sacrifici erano ripetuti tutti i giorni (e tutti gli anni nella festa del Kippur), significa che non purificavano. Ecco un limite dei sacerdoti e dei sacrifici del giudaismo (10,1-2). 2. Peggio ancora: non solo erano inefficaci, ma erano pure deprimenti. Infatti, se si offriva un sacrificio per i peccati e poi, il giorno dopo o l’anno successivo, era nuovamente necessario offrire lo stesso sacrificio per i peccati, questi sacrifici risultavano deprimenti in quanto facevano l’anamnesi dei propri peccati, costringendo a ricordare di essere peccatori. Abbiamo usato il termine “anamnesi”, in quanto riecheggia la terminologia di S. Freud (1856-1939). Dunque i sacrifici erano deprimenti, poiché facevano riandare la propria vita alla constatazione dei propri fallimenti, delle proprie trasgressioni, della propria ostilità nei confronti della legge di Dio (10,3). Dunque sono inefficaci (poiché bisogna ripeterli, quindi evidentemente non ottengono lo scopo) e sono deprimenti (in quanto ricordano a chi li offre che è un miserabile, un peccatore, che non riesce ad uscire dai propri peccati): ecco i limiti che l’autore mette in luce nei sacrifici del giudaismo.
3. IL SACRIFICIO DI SANGUE DEL CRISTO Con due argomentazioni l’autore illustra il sacrificio di Gesù, che sostituisce in maniera eccellente i sacrifici del giudaismo.
3.1. Il Cristo ha offerto il proprio sangue La prima argomentazione è giustamente famosa: Gesù non ha offerto il sangue di tori e di capre, ma ha offerto il suo sangue. Riprendiamo l’esempio di due uomini che sanciscono l’alleanza mischiando il loro sangue e sentendosi così fratelli e alleati: questo è già meglio rispetto allo stringere un’alleanza uccidendo un animale, che non ha nessuna colpa, né consapevolezza del suo sacrificio. Quindi la prima affermazione è che Gesù non ha offerto il sangue di tori e di capri, ma il suo proprio sangue. La critica dell’autore potrebbe essere questa: il sangue è materiale, mentre il fine da raggiungere (il perdono dei peccati) è spirituale. Inoltre le vittime dei sacrifici, ossia gli animali, sono irrazionali e inconsapevoli, non sanno perché devono morire, sebbene il loro sangue – dal punto di vista storico-religioso – abbia sigillato il rapporto di alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Però gli 18
animali non sanno nulla. Dunque il limite di questo sacrificio è che, invece, il peccato dell’uomo è voluto e consapevole. Così l’autore sentenzia: «È impossibile che il sangue di tori e capri elimini i peccati» (10,4). Questa è la prima affermazione per cui il sacrificio di Gesù, che è lo strumento salvifico del nuovo sacerdozio, si rivela superiore. Quello offerto nel sacerdozio nuovo non è un sacrificio di animali inconsapevoli, bensì è sangue umano offerto consapevolmente. Pertanto è uno strumento più adeguato per risolvere il male spirituale, che coinvolge la volontà umana, la dedizione umana, la partecipazione diretta dell’uomo e del suo sangue.
3.2. Il Cristo ha offerto il proprio sangue per un fine giusto Ancora più importante è la seconda affermazione formulata per affermare che il sacerdozio di Gesù e il suo sacrificio sono più grandi del sacerdozio e dei sacrifici del giudaismo. È ancora più importante, ma non è altrettanto conosciuta. Gesù ha offerto il suo sangue, ma anche ciò non basta, poiché non è garantito che sia lo strumento giusto per purificare il cuore e la coscienza. Infatti una persona può offrire, può sacrificare il proprio sangue e la propria vita per un secondo fine oppure per una causa sbagliata. La storia ha visto diversi esempi: c’è stato chi ha offerto la propria vita e ha versato il suo sangue per un fine sbagliato oppure per una causa sbagliata. Allora l’autore è esigente con sé stesso e vuole andare fino in fondo. Lascia aperta la possibilità che anche di Gesù ciò possa essere detto: Gesù ha sì offerto il suo sangue (che è molto migliore di quello degli animali); ma l’ha offerto per una causa giusta? Ha offerto il suo sangue per un fine giusto e non per un secondo fine? L’autore è esigente con sé stesso e risponde anche a questa domanda: offrendo il suo sangue, con quale intenzione, con quale disposizione d’animo Gesù lo ha fatto? Per approfondire tale affermazione, richiamiamo un testo paolino. Infatti, pur se non scritta da Paolo, la Lettera agli Ebrei non è lontana dalla teologia e dalla sensibilità dell’Apostolo. In 1 Cor 13, la prima strofa del celebre elogio della carità è tutta costruita su delle ipotesi. Si tratta di ipotesi di presunta grandezza; è una grandezza pretesa, ma non reale. Ad esempio: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba e come cembalo che strepita» (1 Cor 13,1). C’è un’ipotesi di grandezza: «Se una persona avesse la grandezza di parlare tutte le lingue degli uomini e addirittura persino quella degli angeli…». Questa è l’ipotesi di pretesa grandezza, a cui Paolo contrappone un’altra ipotesi, ossia: «Non avere la carità», con la quale Paolo stronca quelle ipotesi di pretesa grandezza: «Chi non ha l’agàpe, non è nulla». Paolo elenca sei ipotesi di pretesa grandezza, che vengono sempre concluse con la frase: «Ma se non ho l’agàpe…». La terza di queste ipotesi recita: «Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato» (13,3; precedente traduzione CEI). Dunque si può dare via tutto ciò che si possiede e, addirittura, si può dare il proprio corpo per essere bruciato; ma anche non avere la carità, secondo l’ipotesi di Paolo. Ovviamente chi riceve, ad esempio, l’azione dell’essere sfamato riconosce di avere ricevuto aiuto; però per chi fa quel gesto senza avere l’agàpe ciò non serve a nulla, sentenzia Paolo in modo forse anche paradossale. Allora si vede come il dare via tutti i propri averi e persino il dare il proprio corpo affinché sia bruciato (dunque dare il proprio sangue) per uno scopo sbagliato (ossia mancando lo scopo giusto, che è necessario) sia un gesto inutile, che non serve a nulla per chi lo fa. Una curiosità: nella nuova traduzione CEI del 2008 il v. 3 è tradotto in modo diverso: «Se io dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto». La traduzione diversa dipende dal fatto che nei manoscritti biblici (ricordiamo che fino al XV secolo, ossia fino all’invenzione della stampa, la Bibbia veniva copiata a mano), mentre li si ricopiava, potevano essere introdotti dei cambiamenti. Dunque in alcuni manoscritti c’è il verbo “cauphésomai”, mentre in altri manoscritti si trova il verbo “cauchésomai”. Cambia una consonante e nel primo 19
caso la traduzione è: «Per essere bruciato», mentre nel secondo caso è: «Per vantarmene». Dopo varie considerazioni sui diversi manoscritti, la CEI la prima volta ha accettato “cauphésomai” («Per essere bruciato»), mentre nell’ultima traduzione ha, invece, accettato “cauchésomai” («Per vantarmene»), a mio parere sbagliando. Infatti, proprio poiché sono ipotesi di pretesa grandezza, sembrano cose molto positive, che sono criticate da Paolo in un secondo momento. Se invece si pone la critica prima (il fatto di fare qualcosa per vantarsi non è certo positivo), il discorso non funziona più. Dunque è più probabile che Paolo abbia scritto: «Per essere bruciato»: «Se io dessi i miei averi a bocconi a chi ne ha bisogno, e se io dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’agàpe», tutto ciò non conta nulla. Sono gesti eroici e ammirevoli, ma che agli occhi di Dio non valgono nulla, poiché c’è un secondo fine, poiché lo scopo non è quello giusto. Si può pensare, ad esempio, ad un kamikaze, il quale dà sì la propria vita; però la dà per una causa oppure con dei modi e delle conseguenze che non si possono condividere. Eppure egli dà il proprio sangue. Quindi anche per Gesù deve valere questa regola: Gesù dà il proprio sangue, ma ciò non basta e bisogna arrivare ancora più a fondo per poter affermare che il suo sacrificio è veramente il sacrificio che era necessario. Non basta dire che ha messo via il sangue dei capri e degli agnelli, ma pure che ha dato il proprio sangue. Ma ciò non è ancora sufficiente: bisogna fare il passo ulteriore del giusto fine.
3.3. Un corpo per obbedire alla volontà del Padre Qual è la soluzione di questa ulteriore domanda (ossia che non basta neppure che Gesù abbia sostituito il sangue di capri e vitelli col suo proprio sangue)? Cosa manca ancora? L’autore ricava la risposta da un altro testo biblico, come sempre. Se ne deduce che i suoi interlocutori, ossia coloro a cui rivolge questo messaggio così innovatore per tutto il NT, dovevano essere persone che maneggiavano agevolmente la Bibbia e per le quali la Bibbia era convincente in modo dirimente. Di questo bisogna sempre tenere conto quando si cerca di intuire chi fossero i destinatari dello scritto. Dunque anche qui l’autore richiama un testo biblico, ovvero il Salmo 39, nel quale si legge che il salmista si rivolge a Dio con le seguenti parole: «Sacrifici e offerte non li hai voluti, olocausti e sacrifici per il peccato non ti sono piaciuti» (cf. Sal 39,7). Proviamo ad approfondire queste parole. Il termine greco per «sacrifici» è “susìa” ed è vicino al termine “symos”, ossia “l’animo, il respiro”. Quindi si riferisce all’atto di uccidere un animale, togliendogli il respiro. Poi c’è il termine «offerta», che in greco è “prosphorà”, che significa: “portare verso (l’altare)”, ossia portare un animale all’altare, caricarvelo sopra e dare fuoco alla pira di legna, così che si brucia. Dunque: «Sacrifici e offerte non hai voluti», ossia Dio non ha voluto animali uccisi. Poi si parla di «olocausti». Quale differenza c’è tra «sacrifici e offerte» e, dall’altra parte, «olocausti»? Abbiamo già detto che il vocabolo “susìa” deriva dal togliere il respiro all’animale sacrificato. Però, poi, gli animali sacrificati si trattavano nel seguente modo: una parte dell’animale sacrificato era mangiata dai sacerdoti (come già ricordato, costoro non avevano una terra: il loro sostentamento derivava da una porzione di ogni animale offerto); una parte era consumata dall’offerente, ovvero da colui che aveva speso abbondante denaro per comprare il bue o la pecora da sacrificare al tempio di Gerusalemme (quindi almeno una parte la mangiavano lui e i suoi parenti); una terza parte era posta sull’altare di pietra con la legna predisposta e veniva bruciata, e questa parte era quella che saliva come «soave odore» (ad esempio: Es 29,18.25; Lv 8,21.28; Nm 15,7; 29,2; ecc.) in offerta a Dio. Questi erano i sacrifici e le offerte. L’olocausto era ancora di più, poiché – come dicono i due termini greci che compongono il vocabolo – l’animale sacrificato era “bruciato” (“causto”) per “intero” (“holos”). L’olocausto era 20
un sacrificio nel quale l’intero animale era posto sull’altare di pietra con legna ed era interamente bruciato in onore di Dio. Allora il salmo recita: «Non hai voluto sacrifici parziali (ossia di una parte delle carni degli animali offerti) e neanche il sacrificio totale dell’olocausto ti è piaciuto». Dunque è un salmo che è critico nei confronti del complesso armamentario sacrificale del giudaismo. Nella versione greca dei LXX il salmista prosegue scrivendo che, poiché Dio non ha voluto né un tipo di sacrificio, né quell’altro, per stimolarlo nella direzione giusta gli ha «dato un corpo». Come risponde il salmista a questo fatto? Poiché Dio non vuole nessun tipo di sacrificio animale e gli ha dato un corpo, allora il salmista risponde: «Ecco, io vengo. Così è scritto nel libro a mio riguardo. Vengo – dice il salmista a Dio – a fare la tua volontà» (cf. 39,9). Poiché Dio gli ha dato un corpo, allora il salmista viene a fare la volontà di Dio. Per l’autore della Lettera agli Ebrei questa frase in negativo ed in positivo va applicata al sacrificio di Gesù e qui c’è la risposta finale al fatto che Gesù non soltanto abolisce il sangue dei capri e dei vitelli; non soltanto adopera il suo sangue; ma anche lo adopera per il fine giusto, e non per una causa sbagliata. Allora, prendendo le parole del salmo, l’autore scrive che Gesù ha fatto ciò: non ha offerto sacrifici parziali oppure offerte; e neanche ha offerto qualcosa di più, che sono i sacrifici tipo gli olocausti; ma ha ricevuto un corpo (ecco nuovamente l’incarnazione) e ha detto: «Io vengo – ossia mi inserisco nella storia umana, che è una fiumana di ingiustizie, di peccati, di fatti impresentabili – per fare la tua volontà». Dunque Gesù non ha offerto sangue di capri e di vitelli, che sono uno strumento inadeguato; invece ha offerto il suo proprio sangue, uno strumento ben più opportuno. Ma non ha offerto il suo sangue come colui che dà il suo corpo per essere bruciato (come il kamikaze, che lo fa per una causa sbagliata): Gesù lo ha fatto secondo le parole del salmo «per fare la volontà del Padre». Ciò è ancora più importante del sacrificio del proprio sangue. Tutti fanno dei sacrifici, tuttavia spesso c’è un secondo fine, che viene nascosto agli altri. Per cui, praticamente, moltissimi dei nostri sacrifici passano tra le maglie del vaglio e cadono, proprio a causa dei secondi fini. Invece Gesù ha offerto il suo sangue non per un secondo fine oppure per un fine sbagliato, bensì per un fine giusto. Ossia per realizzare ciò che si legge nel Salmo 39: «Per fare la volontà del Padre». Prima di ulteriori approfondimenti, sottolineiamo che tutto ciò è stato rivoluzionario nella storia delle religioni. Infatti oggi, per trovare un sacrificio animale, bisogna andare nella profonda Africa, dove si può vedere un animale preso, ucciso ed offerto agli spiriti o alle divinità dei culti animistici. Invece il cristianesimo ha tolto terreno a tutte le pratiche di immolazione animale in onore della divinità. Si tratta di una rivoluzione enorme, poiché così sono scomparsi dall’Europa tutti i sacrifici animali, in quanto non purificano: il sacrificio del sangue di Gesù invece sì. Ma ormai deve essere chiaro da tutto questo ragionamento che il vero sacrificio non è neanche quello di dare la propria vita, bensì più profondo ancora è il sacrificio della propria volontà in obbedienza a Dio. Oggi il termine “obbedienza” non è molto amato, ma qui è presente. In altre parole, il vero sacrificio – quello che purifica davvero le coscienze, quello che purifica davvero l’uomo nella profondità – è il sacrificio della propria volontà. Ciò perché, se davvero si fa con consapevole adesione al sacrificio di Gesù, il sacrificio della propria volontà annulla in ogni credente e nel popolo cristiano la rivolta a Dio, ossia il peccato, che è il punto dal quale siamo partiti. E ristabilisce l’obbedienza a Dio nostro Padre amorevole (il Quale, quando dà un comando, lo dà per il bene dell’uomo) e la comunione degli uomini con Lui. Pertanto si vede bene come il sacrificio di Gesù, che è quello a cui si partecipa andando a Messa, non abbia solamente una concentrazione cristologica. Infatti non è un sacrificio che il credente fa, bensì il credente si unisce al sacrificio di Gesù; allo stesso modo, a Messa il credente si unisce alla preghiera di Gesù. Dunque c’è una concentrazione anche antropologica in questo sacrificio nuovo, poiché fino in fondo bisogna raggiungere la purezza delle intenzioni e il proprio dono a Dio. Non basta pagare per le spese di un animale da sacrificare e non basta neppure dare la 21
propria vita: bisogna darla con l’intenzione giusta, lo scopo giusto, la motivazione giusta. Nel nostro caso l’obbedienza filiale di Gesù annulla la disobbedienza di Adamo; e qui si va nuovamente nel pensiero di Paolo. Nella disobbedienza di Adamo l’intera umanità è stata coinvolta (Rm 5,19); ma nell’obbedienza di Gesù il cristiano, se si unisce ad essa, ritorna nell’obbedienza alla volontà di Dio, alla fedeltà all’alleanza con Dio. Per questo l’autore può esclamare: «Ecco, io vengo a fare la tua volontà», poiché «mediante quella volontà noi siamo santificati (…) una volta per sempre» (10,10). Dunque mediante la volontà di Dio, che Gesù ha compiuta nel donare il suo sangue, i cristiani una volta per sempre (non tutti i giorni, non tutti gli anni, ripetizioni che denunciano la “carnosità” del sacrificio) sono stati santificati. Qui ci si può collegare a Paolo: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori (la disobbedienza di Adamo ha reso tutti gli uomini ribelli, tutti disobbedienti a Dio, peccatori), così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti (…). Dove abbondò il peccato (la disobbedienza), sovrabbondò la grazia» per l’obbedienza di Gesù (Rm 5,1920).
4. CONCLUSIONE 1. L’autore della lettera agli Ebrei ha meditato sul rapporto tra l’umanità e Dio, e viceversa. E ha capito che Gesù è la risposta a tutte le incompiutezze e le inefficacie del giudaismo. Così ha trovato – e adesso lo comunica ai suoi lettori – l’efàpax, “una volta per tutte”. Con un atto di obbedienza, Gesù ha aperto agli uomini la porta per ritornare, una volta per sempre, obbedienti al Padre. Certamente gli uomini perdono per strada questa obbedienza. Però Gesù la dona loro gratuita nel battesimo, li riconcilia con Dio; e se gli uomini poi perdono tale obbedienza, possono recuperarla, poiché ci sono diversi sacramenti del perdono. 2. Inoltre, al fine di meditare sul sacerdozio sia ministeriale sia comune dei cristiani, è importante l’altra osservazione cui abbiamo accennato nella prima relazione. Ossia che Gesù ha potuto essere sacerdote con efficacia ed utilità in quanto era gradito ad entrambe le parti. Dunque anche ogni cristiano, nel proprio sacerdozio personale oppure di popolo, deve essere vicino a Dio, ascoltatore totale e leale della sua Parola; ma deve anche essere solidale con gli uomini, partecipe di carne e sangue dei propri fratelli. Dunque è una riflessione per cui, dal sacerdozio di Cristo, si deve avere una ricaduta nel sacerdozio dei cristiani, sia in quello ministeriale sia in quello comune. 3. Infine, per introdurre il discorso del sacerdozio, passando da quello di Cristo a quello ministeriale dei sacerdoti e a quello comune di tutti i battezzati, segnaliamo che esso si inscrive in questa struttura profetico-ministeriale della religione ebraico-cristiana. La Lettera agli Ebrei inizia proprio così: «Dio, che in antico ha parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti» (cf. 1,1). Dunque Dio non ha parlato direttamente agli uomini; talvolta lo ha fatto, ma la via che ha presa normalmente è quella di alcuni uomini che devono parlare ai loro fratelli uomini per incarico di Dio: i profeti. Allora: «Dio, che in antico ha parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti, in questi giorni, che sono gli ultimi, Dio ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio». Sia i profeti che Gesù sono uno strumento di mediazione (i profeti sono una mediazione minore, mentre Gesù è una mediazione piena, come visto). Però sta di fatto che Dio si serve di mediatori. E la religione ebraico-cristiana è costellata di mediatori della divinità. Dio ispira un uomo o una donna affinché, a nome suo, parli per Lui. Il profeta è colui che parla a nome di Dio, non colui che predice il futuro. Dunque c’è una struttura profetica della nostra fede; e, se si vuole, anche una struttura ministeriale: Dio si serve di persone come suoi ministri: «Anche Mosè nella casa fu degno di fede, ma come servo, come ministro» (cf. 3,5). Dunque la nostra fede ha una struttura ministeriale-profetica. Questa profezia e questo servizio ministeriale hanno avuto il proprio culmine in Gesù: lui è il vero profeta, lui è il vero ministro di Dio. 22
Però poi ciò si è nuovamente distribuito in mezzo al popolo cristiano. L’incarnazione di Gesù non ha cancellato la struttura profetica: nel NT si parla di profeti neotestamentari, soprattutto nel libro dell’Apocalisse (10,7; 11,3; 11,18; 18,20; 22,9), ma anche nell’epistolario paolino (ad esempio: 1 Cor 12,28.29; 14,29.32). Quindi anche dopo Gesù è rimasta la struttura profetica (stavolta nel popolo cristiano), così come è rimasta la struttura sacerdotale. Certamente il sacerdozio non è del cristiano come non è del cristiano la profezia, ma sono il sacerdozio e la profezia di Gesù, dei quali il cristiano è stato incaricato. Quindi i sacerdoti del popolo cristiano rendono visibile il sacerdozio di Gesù, di cui abbiamo parlato. Lo rendono visibile, ad esempio, pronunciando le sue stesse parole nella consacrazione; facendo ciò che Gesù farebbe se oggi fosse tra noi. Invece il sacerdozio comune, che tutti i battezzati hanno, consiste nel vivere da sacerdoti in ogni ambiente, dal più sacro al più profano: dovunque i cristiani devono essere “sacerdoti”. Ciò che ogni battezzato vive deve trasformarsi tra le sue mani e passando dal suo spirito (nel quale, come Gesù, egli fa la volontà di Dio). Tutto ciò che capita tra le mani di ogni battezzato nella sua vita deve salire a Dio. Ecco il ponte: attraverso Gesù – come si recita nella Messa: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” – ogni battezzato deve far salire a Dio tutto ciò che gli capita, oramai come preghiera, come lode, come ringraziamento, come supplica. Il battezzato deve far salire tutto – come sacerdote – a Dio nella propria preghiera. Sia il sacerdozio ministeriale (quello dei presbiteri) che il sacerdozio comune (quello dei battezzati) partecipano, esprimono, rendono attuale oggi il sacerdozio grande e insuperabile di Gesù.
5. DOMANDE DAL PUBBLICO 1^ DOMANDA: Più volte è stato ripetuto dal relatore che il sacerdozio è una mediazione fra i due poli di una comunicazione totale tra l’umanità e la divinità. Pongo la seguente domanda: quando un fedele qualsiasi oppure un ministro riesce ad incarnare questa realtà? Infatti la mediazione di Cristo è stata perfetta in quanto egli era Dio e uomo. Dunque Gesù aveva entrambi questi elementi nella sua realtà e nella sua essenza. Invece un sacerdote umano – sia un ministro sia un laico – quando non propende da una sola parte e quindi viene a compromesso ed è completamente umano? E quando, invece, sconfina in un ruolo che non gli compete, ossia quello divino? La domanda chiede: quando il sacerdozio – sia quello ministeriale sia quello comune – non sbanda a destra o a sinistra, in un eccesso oppure nell’altro? Innanzi tutto sottolineiamo che c’è una varietà di vocazioni. E non bisogna meravigliarsi se qualcuno si sente più portato ad una forma espressiva del proprio sacerdozio in una parte e un’altra persona in un’altra parte. Nella Chiesa c’è sempre stata una grande varietà di vocazioni e una grande varietà di modi per dare la propria vita per il Vangelo, per Dio e per gli uomini. Tutte le vocazioni devono avere cittadinanza nella Chiesa. Anche perché chi cerca una vocazione che sia in perfetto equilibrio, alla fine impiegherà tutto il tempo ad evitare gli errori e non farà mai ciò che deve fare! Inoltre c’è pure la voce dello Spirito Santo che porta da una parte oppure da un’altra. Così i cristiani compongono un popolo variegato. Certamente ognuno non deve andare per la sua strada, né bisogna mettersi l’uno contro l’altro. È ciò che Paolo scrive in 1 Cor 12,4-11: c’è una grande varietà di carismi, ma tutti provengono dallo stesso Dio, dallo stesso Spirito. L’importante è che il braccio non disprezzi il piede perché è in basso e che il piede non invidi la mano che è più in alto. Ognuno ha il proprio compito ed ognuno è prezioso: la mano è preziosa, così come lo è il piede (1 Cor 12,12-27). 23
Quindi la varietà dei carismi, dei doni, degli incarichi, dei servizi è un fatto positivo, poiché sono tutti distribuiti dallo Spirito e a noi non tocca proibire a nessuno una vocazione. Ovviamente la Chiesa riflette a lungo prima di approvare un nuovo ordine religioso. Però riconosce la varietà delle vocazioni. Invece bisogna domandarsi se il perfetto ministro, che cammina sulla fune come un funambolo, sia veramente l’ideale. Ognuno ascolti davvero la voce dello Spirito. Pertanto è positiva la varietà delle vocazioni e non la rivalità, non la gelosia, non l’esclusivismo. Purtroppo nella Chiesa ci sono sempre state le rivalità e le gelosie tra ordini religiosi; e oggi ci sono tra i diversi movimenti. Queste sono scorie, non sono volute dallo Spirito Santo, che invece vuole la diversità di vocazioni. Infine: come fa un ministro ad avere il giusto equilibrio, che è necessario, in tutte queste vocazioni? L’equilibrio è necessario in qualsiasi vocazione per evitare che si sbandi da una parte oppure dall’altra. Per essere nel giusto equilibrio rispetto ad ogni direzione in cui ci si muove, è necessario mettersi alla scuola quotidiana di Colui che è Sacerdote: bisogna contemplare la figura del Cristo, vicino a Dio e solidale e compartecipe con gli uomini. Bisogna ogni giorno meditare ciò, per imparare come seguire la volontà del Padre. 2^ DOMANDA: Una domanda circa i luoghi di culto, quali la sinagoga e il tempio. La sinagoga esiste tuttora, mentre il tempio non esiste più. Perché quest’ultima realtà non è più stata ricostruita? Innanzi tutto ricordiamo che la storia del tempio è complessa. All’inizio c’erano diversi templi, ma poi la casa regnante di Gerusalemme, soprattutto coi re Davide e Salomone, ha costruito il tempio come cappella palatina, dunque del palazzo del re. In seguito, essendo a Gerusalemme la sede del re, questo tempio si è imposto. Poi le varie riforme religiose hanno cancellato gli altri templi: non soltanto quelli idolatrici, ma anche quelli jahvistici, cosicché alla fine è rimasto solamente il tempio di Gerusalemme, che ha padroneggiato la storia di Israele per diversi secoli. Fu distrutto una prima volta dai Babilonesi (586 a.C.). Al ritorno dall’esilio babilonese il Secondo Tempio fu costruito più povero e più malandato (dal 536 al 515 a.C.) e fu poi restaurato con splendore dal re Erode il Grande. Nel frattempo erano sorte le sinagoghe, poiché era gravoso andare al tempio. In teoria bisognava recarvisi tre volte all’anno. Ma anche la famiglia di Gesù, che viene presentata come una famiglia devota e pia, ci andava una volta all’anno, ossia per la Pasqua. Era gravoso andare a Gerusalemme a compiere i sacrifici prescritti dalla legge; tuttavia soltanto lì si poteva compierli. Pertanto era sorta – soprattutto nel tempo dell’esilio – la sinagoga, la quale ospitava solamente una parte del culto, ossia l’ascolto delle letture e il loro commento. Fu lì che nacque la Bibbia. Infatti è nelle sinagoghe dell’esilio che sono stati raccolti i libri dei profeti. È lì che, in gran parte, è nata la Bibbia nella forma che abbiamo oggi. Infatti, proprio perché non c’era il tempio, ci si attaccava alla parola dei profeti, che era parola di Dio. Tutto questo è sopravvissuto alla distruzione del Secondo Tempio da parte dei Romani dell’imperatore Tito nel 70 d.C. Il tempio non fu più ricostruito, poiché i Romani sparsero il sale sulle rovine di Gerusalemme, come facevano nelle città conquistate, in modo che non vi crescesse più l’erba. Poi nel 132-135 d.C. i Giudei ebbero un altro sussulto di ribellione con Simone Bar Kokhba; a questo punto Adriano (che era un imperatore pacifico e antimilitarista, tanto che fece una guerra sola, appunto quella contro i Giudei) decise di stroncare tutto ciò che poteva, tanto da cambiare il nome della città da “Gerusalemme” ad “Elia Capitolina” (dal nome di Adriano: “Elio”; e “Capitolina” dal tempio dedicato a “Giove Capitolino”). Inoltre cambiò il nome della terra da “Giudea” a “Palestina” (ossia: “Terra dei Filistei”), nome che perdura a tutt’oggi. Infine bisogna ricordare che gli Ebrei sono tornati in quella terra nel 1948, dunque da poco più di sessanta anni; e questo ritorno non è certo stato pacifico. Quanto al diritto internazionale, lo Stato di Israele è una deroga a tale diritto, poiché prima c’era un’altra popolazione, con un proprio stato. Ogni tanto qualche gruppo di Ebrei annuncia che comincerà la ricostruzione del tempio; ma ciò 24
non accade mai. Dunque il tempio è morto così. Però già nel I secolo d.C. i rabbini che erano riusciti a resistere alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. ad opera dei Romani si riunirono in un concilio e affermarono che, nonostante che il tempio non ci fosse più, essi volevano ancora essere devoti verso Dio. Ma come fare senza il tempio? Stabilirono una lista di corrispondenze. Ad esempio, il sacrificio di un agnello poteva essere sostituito dalla recita di 150 salmi; il sacrificio di un bue valeva tre volte tanto; ecc. Essi stabilirono tutte queste corrispondenze, per cui al posto dei sacrifici animali, anche loro offrivano il sacrificio della labbra. È così che il tempio è morto. Inoltre ormai gli Ebrei stessi sanno di avere perso la purità. Ad esempio, diversi tra loro si chiamano: “Cohen”, che significa: “sacerdote”; ma si sono contaminati nella storia, non c’è più il sacerdozio puro, che non può essere più ripreso. Quindi è assai probabile che il tempio non risorgerà più, sebbene, ovviamente, sia impossibile affermarlo con certezza. Invece la sinagoga è continuata, proliferando in tutta l’area mediterranea. Inoltre è sopravvissuta presso i cristiani, poiché la chiesa è un edificio che non è “casa di Dio”, bensì è “casa del popolo” cristiano: è “domus populi” e non “domus dei”. Nel tempio di Gerusalemme abitava soltanto Dio e i fedeli stavano fuori; invece i cristiani entrano nelle chiese, che sono casa del popolo cristiano. Ciò sull’esempio non del tempio, bensì della sinagoga. Ed infatti i cristiani fanno nelle chiese le stesse cose che si fanno nella sinagoghe: leggono le letture, ne ascoltano i commenti; poi vi inseriscono anche la parte eucaristica. Però i cristiani hanno copiato dalla sinagoga, che pertanto è sopravvissuta sia nel giudaismo che nell’edificio della chiesa cristiana. 3^ DOMANDA: Pongo una domanda a nome di Mosè (!): nel Pentateuco è presente una lunghissima e minuziosissima descrizione di come devono essere costruiti il tempio, il tabernacolo, ecc. Inoltre l’intero libro del Levitico descrive come si deve celebrare il culto, ecc. Se tutto ciò non serviva a niente, perché Mosè ha dovuto fare tanta fatica? Nei testi del Pentateuco si riflette lo scrupolo minimistico, atomistico del Giudeo affinché tutto sia puro secondo le regole. L’etica e la devozione giudaica sono segnate da queste cose. Invece l’etica religiosa e devozionale del cristiano è segnata dall’interiorità. Ad esempio, a riguardo dell’episodio di Caino che uccide il fratello, in 1 Gv 3,12 si legge che il sacrificio di Abele fu più gradito a Dio in quanto le sue disposizioni interiori erano migliori di quelle di Caino. Ma tutto ciò non è presente nel racconto di Gen 4, bensì è l’interpretazione dell’autore cristiano “dall’interno”: le disposizioni interiori di Caino erano peggiori di quelle di Abele. Invece nella letteratura ebraica si trova che il sacrificio di Caino non fu gradito in quanto non rispettava le regole, mentre quello di Abele fu gradito, poiché rispettava le regole. Tale interpretazione rivela lo scrupolo del Giudeo, che vuole onorare Dio fino alla perfezione nei dettagli delle regole. Ciò a noi piace poco; ma è un problema nostro. I Giudei si sentono obbedienti a Dio se agiscono così. Allora ecco tutte le regole minuziose. Un altro esempio è la descrizione del nuovo tempio e del nuovo tabernacolo nel libro del profeta Ezechiele: quali dimensioni precise, quante colonne, quanti fiori, ecc. È lo scrupolo del Giudeo. Invece noi abbiamo un altro scrupolo, ossia quello delle disposizioni interiori: bisogna prepararsi alla confessione, bisogna prepararsi alla comunione, ecc. Dunque quella legislazione così minuziosa – e per noi così noiosa – rispecchia la sensibilità ebraica. 4^ DOMANDA: Quando l’autore scrive che il tempio di Gerusalemme è solamente una copia di quello celeste, dà un giudizio molto severo di quello che è il culto di Israele, quasi che fosse una sorta di idolatria, poiché copia del tempio vero (dunque una imitazione di ciò che non deve essere 25
raffigurato)? Qualche autore sostiene che, a causa di questo, il giudizio dell’autore della lettera agli Ebrei sul culto di Israele sarebbe molto più duro, in quanto è proibito fare qualsiasi immagine di ciò che è in cielo. Le grandi istituzioni del giudaismo (in particolare il tempio, ma anche la circoncisione e tutte le grandi istituzioni che hanno fatto ed ancora fanno la storia del giudaismo) sono state sottoposte dagli autori del NT ad una critica dura. Tale critica è ancora più esplicita col vocabolario di ciò che è “fatto con le mani”. I termini tecnici sono “kheiropoietos” (“fatto con le mani” dell’uomo) e “akheiropoiteos” (“non fatto con le mani” dell’uomo). In greco“kheir” significa “mano”, mentre “poieo” significa “faccio”; dunque: “fatto con le mani”. Questo aggettivo è raro ed è stato inventato dai Giudei, i quali, prima di Cristo, accusavano che gli idoli non sono dio, bensì c’è un artista che ha preso del materiale e ha modellato l’idolo. Quella statua è stata fatta da mani di uomo, quindi non bisogna adorarla. Il termine “kheiropoietos”, che significa appunto: “fatto con le mani (dell’uomo)”, era la critica del giudaismo prima dell’epoca cristiana verso gli idoli pagani. Il NT ha preso questa stessa terminologia e l’ha applicata alla circoncisione. La circoncisione è un taglio dolorosissimo e rischioso (per le possibili infezioni) praticato da mani di uomo. Invece la vera circoncisione è quella di cui parla il libro del Deuteronomio (10,16), per cui bisogna circoncidere il cuore e non la carne. È una circoncisione “akheiropoietos”, cioè “non fatta da mani” di uomo. Dunque non sono importanti le regole esteriori, bensì il cuore. Sempre con questo stesso aggettivo gli autori del NT hanno criticato il tempio di Gerusalemme. Dio non ha voluto il tempio di Gerusalemme, tanto che, ad esempio, permise a Mosè di erigere la tenda in diversi luoghi ed era un culto giusto. Dopo è venuto Salomone, che ha preteso di chiudere in quattro mura l’incommensurabile, l’incontenibile. Ma Dio non sta in quattro mura! Ciò che Salomone ha fatto è opera degli uomini, è “kheiropoietos”. Pertanto le stesse critiche che i Giudei prima di Cristo rivolgevano ai templi e alle statue del paganesimo, il cristianesimo le ha rivolte al tempio e alle istituzioni del giudaismo. In fondo si tratta di una critica all’idolatria. Certamente nel NT si trovano dei testi polemici. Ma, specularmente, nei testi del giudaismo di quel tempo si trovano ugualmente testi polemici. Sono tempi di polemica, che si riflette nel vocabolario e nei libri. In particolare i vangeli secondo Matteo e secondo Giovanni sono polemici. Però non sono antisemiti: non è una questione di razza, bensì è una questione di fede, di credere e di non credere. E quindi c’è pure la polemica contro chi non crede in Gesù. 5^ DOMANDA: Mi sarei aspettato che, in questo anno sacerdotale, si parlasse, oltre che del sacerdozio ministeriale, anche del sacerdozio comune dei fedeli. Spero che ce ne siano degli altri, ma l’unico documento che ho letto è l’omelia della Messa crismale che il card. D. Tettamanzi di Milano ha fatto proprio sul sacerdozio comune dei fedeli. È un documento bellissimo, e mi domando: perché sembra che i sacerdoti abbiano paura a parlare di questo sacerdozio comune dei battezzati? Il motivo ha dei precedenti storici: chi è che ha “sbattuto in faccia” alla Chiesa cattolica il tema del sacerdozio comune? È stato Martin Lutero (1483-1546), il quale sosteneva che non ci dovessero essere più i conventi, né i monasteri, né i sacerdoti ministeriali, né la gerarchia, in quanto ognuno è sacerdote. Lutero ha preso questo tema dal NT e lo ha sbattuto sotto gli occhi delle gerarchie ecclesiastiche del tempo. In principio la reazione alle tesi di Lutero è stata anche sul piano teologico, col Concilio di Trento, ecc. Poi, praticamente, entrambe le fazioni sono scadute in una polemica umiliante: ognuna ha fatto del male, sia alla parte opposta sia a sé stessa. Ma è sbagliatissimo scendere a certi livelli. 26
Ad esempio, la reazione cattolica è stata quella di gettare tutto ciò che Lutero aveva adoperato, dunque la Scrittura, tanto che era proibito tradurre in lingua volgare la Bibbia e tanto che esisteva una lista dei testi biblici che si potevano oppure non si potevano leggere. E il motivo era proprio che Lutero adoperava la Bibbia contro il mondo cattolico e contro il papato; così è accaduto anche per il sacerdozio comune dei battezzati. Allora perché oggi i sacerdoti parlano molto del sacerdozio ministeriale e poco del sacerdozio comune? Proprio per lo stesso motivo per cui per secoli hanno parlato del sacerdozio ministeriale e dei sacramenti: l’Eucaristia, la Cresima, il matrimonio, la processione del Corpus Domini, gli oli sacri, gli incensi, ecc. Appunto perché erano elementi che Lutero negava e che i cattolici volevano invece riaffermare. Ovviamente sono tutte cose giuste, però spesso l’intenzione era polemica ed ecco allora la necessità della purificazione dei fini e delle cause, cui abbiamo accennato prima. Ebbene, noi cattolici non sappiamo più leggere la Bibbia, perché per secoli l’abbiamo tenuta chiusa a chiave nei cassetti; stiamo ricominciando adesso. Noi abbiamo disimparato a leggere la Bibbia per essere polemici con Lutero. Allo stesso modo, abbiamo disimparato a parlare del sacerdozio comune, sempre per opposizione a Lutero.
INDICE
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LA CONDIZIONE DEL CRISTO COME SACERDOTE (Ebrei 1-2)
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1. INTRODUZIONE 2. LA PREMESSA MANCANTE: LA SITUAZIONE DI PECCATO DELL’UOMO 3. IL CRISTO “PONTE” TRA DIO E GLI UOMINI 3.1. Il Cristo “pontefice” 3.2. Il Cristo è vicino a Dio più degli angeli 3.3. Il Cristo è vicino agli uomini più degli angeli 4. IL CRISTO «DEGNO DI FEDE E MISERICORDIOSO» 5. CONCLUSIONE
pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag.
IL SACERDOZIO DI GESÙ: DIVERSO E ALTERNATIVO (Ebrei 7)
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1. INTRODUZIONE 2. IL SACERDOZIO «SECONDO L’ORDINE DI MELCHÌSEDEK» NELLE SCRITTURE 2.1. Il sacerdozio «secondo l’ordine di Melchìsedek»: Salmo 110,4 2.2. Melchìsedek e Abramo: Genesi 14,18-20 3. IL CONFRONTO TRA IL SACERDOZIO DEL CRISTO E IL SACERDOZIO DEL GIUDAISMO
pag. 10
2 3 5 5 5 7 8 9
pag. 11 pag. 11 pag. 12 pag. 14
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IL SACRIFICIO DEL CRISTO (Ebrei 10)
pag. 16
1. INTRODUZIONE 2. I SACRIFICI DI SANGUE DEL GIUDAISMO 3. IL SACRIFICIO DI SANGUE DEL CRISTO 3.1. Il Cristo ha offerto il proprio sangue 3.2. Il Cristo ha offerto il proprio sangue per un fine giusto 3.3. Un corpo per obbedire alla volontà del Padre 4. CONCLUSIONE 5. DOMANDE DAL PUBBLICO
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