Domenica
l’attualità
Ladri di idee, dal telefono all’iPod
La
di
DOMENICA 14 SETTEMBRE 2008
RICCARDO STAGLIANÒ
l’immagine
Repubblica
Le figurine della fantascienza d’antan PINO CORRIAS e AMBRA SOMASCHINI
Vita e pensieri di un insegnante elementare nel momento in cui il governo annuncia una riforma radicale del suo ruolo Con i ricordi di ex scolari eccellenti
il
mio
DISEGNO DI ELLEKAPPA
Maestro
JENNER MELETTI
I
RONCADELLE (Brescia)
l Maestro sembra grande e grosso, sulla piccola seggiola del minuscolo banco della classe B, prima elementare. «Ha visto come sono piccoli? Quest’anno ricomincio da loro, dai bimbi della prima. E come sempre sono emozionato. Li prendi che ancora piangono e vogliono la mamma — l’anno scorso una bimba piangeva perché aveva paura dei miei baffi — e li lasci che sono quasi ragazzini. Cinque anni assieme, ogni giorno. Per insegnare loro, come si diceva quando ho cominciato a fare il maestro, a “leggere, scrivere e far di conto”. Adesso tutto è cambiato, si lavora assieme ad altri colleghi che insegnano l’inglese, l’educazione alla convivenza, l’insiemistica… Ma l’obiettivo resta sempre quello: fare crescere bene i bambini, perché poi possano camminare da soli e siano in grado di fare delle scelte». (segue nelle pagine successive) con i contributi di MAURO CORONA, MARCO LODOLI, MARGHERITA OGGERO E SIMONA VINCI
ELLEKAPPA
cultura
oma, primi anni Sessanta, quartiere Garbatella, scuola Cesare Battisti. Monumentale, con due entrate distinte per maschi e femmine. Dentro, interminabili corridoi dai soffitti altissimi e le aule grandi con i banchi di legno neri disposti per file e la cattedra. Dietro la cattedra, la mia maestra unica. Credo si chiamasse Olga Marini, ma non ci giurerei. Nei miei appannati ricordi è molto anziana (magari in realtà avrà avuto quarant’anni) capelli grigi, grassotta, vestita di scuro, sguardo placido, buona ma senza esagerare. Un quarto d’ora prima della fine dell’orario ci faceva mettere con le braccia incrociate sul banco e la testa poggiata sopra, il tutto abbinato al gioco del silenzio. Il flash più vivido è legato al momento della ricreazione. Era un rito solenne il modo in cui la maestra tirava fuori dalla borsa l’involucro con la sua merenda, un panino all’olio (per me un vero status symbol, infatti pensavo fosse ricchissima) che scartava lentamente con aria beata, poi si alzava dalla cattedra e con un andamento da chioccia, lento, circospetto e con la testa che andava a piccoli scatti avanti e indietro, usciva nel corridoio, si appoggiava al termosifone e parlottava con le altre maestre mangiando senza fretta il suo meraviglioso panino.
Dylan Thomas, poeta da pub
R
NADIA FUSINI, GIAN PAOLO SERINO e DYLAN THOMAS
spettacoli
Tutti pazzi per Shakespeare ENRICO FRANCESCHINI
i sapori
Sua Maestà il Porcino LICIA GRANELLO e LUCA VILLORESI
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la copertina Maestri
Sguardi bonari o arcigni fissati per sempre in una fotografia scattata nel cortile di una scuola. Mentre le elementari, tra le polemiche, si preparano al ritorno dell’insegnante unico, ecco il racconto di come vivono i docenti e di cosa
hanno lasciato nella memoria di quattro scrittori italiani
“Lei mi ha trasmesso l’amore per la lettura” MARGHERITA OGGERO
ra esigente severa preparatissima. Le eravamo affezionate, su un sottofondo di rispetto e timore dei voti e giudizi. Quando pensavamo o parlavamo di lei, la emme di maestra era sempre in stampatello maiuscolo. Quello che mi ha insegnato Renata Rinetti non l’ho più dimenticato: grammatica, aritmetica di base, monti fiumi laghi, re di Roma, giù giù sino a C. Battisti e alla vittoria mutilata. Le sono debitrice di una passione e di un incubo. La passione per la lettura: se eravamo state quiete e attente, estraeva dalla borsa un libro e ce ne leggeva una quindicina di pagine Il primo fu una riduzione de I miserabili, e in classe si sarebbe sentita volare una mosca. L’incubo riguarda il Giudizio Universale, quando Iddio mi accuserà di aver taroccato il risultato di una divisione, nonostante il divieto. Ma qualche incubo fortifica lo spirito.
E
“Erano severi e malinconici pensavo fossero immortali” MARCO LODOLI a scuola elementare Ugo Bartolomei di via Asmara a Roma, tra il 1962 e il 1967, una vita fa: e infatti quando provo a resuscitare nella memoria quel tempo trovo pochi frammenti che fatico a collegare. Ma la maestra Greco, prima e seconda, e il maestro Castelli, dalla terza alla quinta, me li ricordo bene, sono le prime persone che mi hanno insegnato a non piangere (non so perché, ma avevo la lacrima facilissima, tutto mi turbava), a tenere in ordine le mie cose, ad ascoltare, a fare fino in fondo il mio dovere. Era un mondo silenzioso, completamente diverso da quello dei bambini di oggi, smaniosi e strepitanti. La maestra Greco dettava e io scrivevo, cercando di non commettere il minimo errore perché non dovevo deluderla. Il maestro Castelli spiegava a lungo la matematica, e io stavo attento, incolonnavo, risolvevo tutti i problemi. Mi chiamavano Lodoli, erano severi, esigenti, malinconici: sapevano ogni cosa, tutti i fiumi d’Italia, tutte le capitali, tutta la storia romana, e io pensavo che fossero immortali.
L
Il mondo alla lavagna JENNER MELETTI (segue dalla copertina)
«R
icominciarecon una prima è sempre una nuova avventura. Per me sarà l’ultima, visto che la pensione si avvicina. Ma spero di portare anche questi bimbi in quinta. Come sempre, non organizzerò feste di saluto: mi fanno stare troppo male. Cinque anni assieme, quando finiscono, ti portano via un pezzo di vita». Renato Facchetti, 57 anni, ricorda bene quella mattina del 10 settembre 1973. «Il mio primo giorno da maestro di ruolo, una quinta classe a Travagliato, paese di campagna. Capelli un po’ lunghi e jeans, perché ero un cattolico del dissenso con la Lettera a una professoressa di don Milani sempre nella cartella. Ma avevo an-
che la giacca, perché un maestro doveva presentarsi bene. Entro, parlo con gli alunni e dopo mezz’ora arriva l’attimo di panico. “E adesso cosa faccio?”. Avevo il diploma delle magistrali, stavo terminando la laurea in pedagogia (ho finito dopo un paio di anni) ma nessuno mi aveva insegnato a insegnare. Per fortuna avevo ricevuto buoni consigli da mia madre, maestra anche lei, come mio padre. “Bambini, ho detto, adesso facciamo un bel tema”. E così ho superato il panico e ho cominciato la mia carriera. L’anno prima avevo fatto il doposcuola in un altro paese, a Navate. Una pluriclasse dalla prima alla quinta, li aiutavo a fare i compiti. Prendevo la corriera, 14.000 lire di abbonamento al mese e mi davano un compenso di 12.000 lire. Ma serviva a fare punti per il concorso a ruolo». Una famiglia di maestri, con una differenza. «Mio padre Severino, che ha 86 anni, era per tutti il Signor Maestro e vie-
ne chiamato ancora così. Mia madre Maria è la Signora Maestra. Io sono il maestro e basta, e tanti ragazzi da qualche anno mi chiamano solo per nome, Renato. Adesso che i presidi si chiamano dirigenti anche noi siamo chiamati professori. Io invece ci tengo, ad essere chiamato maestro. È un mestiere difficile, oggi anche ingrato, ma secondo me educare i bambini, vederli crescere e diventare curiosi, è la cosa più bella del mondo». I primi anni nei paesi di campagna, dove le autorità erano il sindaco, il maresciallo, il parroco, il farmacista… «C’era anche il maestro, fra queste autorità. Ma per noi insegnanti c’era il prestigio, non il potere. Ti guardavano con rispetto perché trasmettevi il sapere. In fondo, nei primi anni, tutto era più semplice. Insegnavi l’italiano e la matematica, la storia e la geografia. I figli dei contadini imparavano a leggere e scrivere, poi andavano a lavorare in campagna. Le cose hanno
cominciato a cambiare nelle scuole dove la maggioranza dei bambini erano figli di operai che lavoravano alla Om della Fiat e o nelle acciaierie Sant’Eustachio, Montini, Idra… Per i loro figli volevano un futuro diverso, non in fonderia. Cercavano nella scuola il riscatto sociale. Alcuni di noi — più di trent’anni fa giovani maestri — ci siamo messi a discutere e a confrontarci su come rispondere a questa richiesta. Prima di allora ognuno era “padrone” della propria classe, una volta fatto il giuramento davanti al direttore. Padrone anche di sbagliare. Mi sono trovato a fare una supplenza negli ultimi tre mesi di una classe quinta. Alla fine non ho fatto altro che sommare i voti, fare la media, e così quattro alunni risultavano insufficienti e bocciati. La direttrice mi ha chiamato e mi ha detto: “Lo sai che se non li mandi alle medie questi quattro vanno subito a lavorare?”. Ho riscritto i giudizi, non ho bocciato nessuno. Racconto que-
sto perché oggi si rivuole il maestro unico. Io lo sono stato per più di vent’anni. Ho fatto errori provocati dal trovarmi, io ragazzino, all’improvviso padrone del destino degli altri. Sono cresciuto e sono soddisfatto dei miei anni di scuola. Se alla fine dell’anno vedi che i tre o quattro bambini che avevano difficoltà sono alla pari degli altri, puoi dire di avere lavorato bene. Ma il maestro che lavora da solo oggi non è più in grado di insegnare a bambini che non sono più quelli di un tempo. Fra i venti alunni che entrano in prima — l’ho scoperto nella riunione con i genitori — più della metà già usano il computer. Tre o quattro — li ho visti al primo incontro — già avevano il telefonino in mano. La società oggi vive troppo in fretta, i genitori vivono nell’ansia e la trasmettono ai figli. “Allora, a Natale sapranno già leggere e scrivere?”. “Quando comincia l’inglese?”. A questa complessità non puoi rispondere con il maestro unico.
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“Con le tirate d’orecchie insegnava la pazienza” MAURO CORONA
l mio maestro era un bravo e severo maestro, di quelli di una volta. Nato nel 1914, si chiamava Osvaldo Martinelli Fozza. Mi ha guidato per quattro anni, dalla quarta all’ottava classe. A quei tempi si faceva fin o all’ottava, e lui, che era di Erto, voleva seguire i canajs (ragazzi) il più possibile. Era severo, esigente e giusto. A scuola non ammetteva pagliacciate né sbadigli né casini. Se c’erano usava la bacchetta o tirava le orecchie, senza parlare. Con lui, né vandalismi né bidelli, faceva tenere l’aula pulita come un tagliere da polenta. Devo molto a Osvaldo Fozza. Più che leggere, scrivere, che quello lo insegnano tutti, mi faceva imparare la pazienza, la costanza, la tenacia, la forza morale, la precisione, la brevità dove serviva, la fiducia in me stesso. Prima che da Calvino, ho appreso da lui alcune “lezioni americane”. Di pari passo esigeva il lavoro manuale. Ci faceva far scultura, intarsio, argilla, cesti, gerle e mosaico. Diceva, e aveva visto lontano, che non si deve perdere l’uso delle mani. Prima di tutte ste robe, la mattina un’ora di ginnastica all’aperto, nel cortile, tutti i giorni, anche d’inverno con la neve. Non c’era uno in sovrappeso tra di noi. Scriveva poesie, spesso premiate, in dialetto e in italiano. Ha fatto un libro-documento molto importante: Il mio Vajont. Di lui son rimaste molte cose belle. A me un grato ricordo.
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“La Vanda che con i libri Q placò le mie ire infantili” SIMONA VINCI
uello della prima elementare fu il mio annus horribilis. Cominciò un giorno di settembre che pareva felice e si rivelò subito per quel che era, un inferno: unica di tutta la classe a saper già leggere e scrivere, venni scaraventata dal primo all’ultimo banco perché la prima fila affacciata alla lavagna serviva ad altri più che a me. Ferita, mi vendicai stringendo un’alleanza d’acciaio con due teppisti in erba insieme ai quali per tutto l’anno tiranneggiai gli altri compagni e sfogai l’ira prendendo a calci, quando potevo, la malcapitata che aveva osato umiliarmi con l’ultima fila. La maestra in questione era un’obesa con un parruccone cotonato al posto dei capelli e un espressione bovina che costringeva a darsi i pizzichi sulle braccia per non cadere addormentati sul banco. Un anno orribile, e
interminabile, in cui fui bollata come caratteriale e bisognosa di urgenti cure psicologiche, ma che grazie al cielo finì. Il primo giorno della seconda elementare, il sipario si spalancò su un miracolo: in cattedra, al posto dell’obesa c’era una visione angelica. Si chiamava Vanda Salmi, aveva gli occhi celesti e i capelli rosso tiziano, e si rivelò subito ironica e saggia. Capace di sedare ogni lite e tirar fuori il meglio anche dalle teste di coccio. Fu la mia salvezza. E quella di tanti altri bambini. Sfruttò la mia passione per la lettura insegnandomi a indirizzare le mie ire così: leggendo e scrivendo. Se non avessi incontrato “la Vanda”, amante dell’opera lirica, avida lettrice, viaggiatrice, maestra felice di essere maestra, non so come sarei finita, date le premesse di quel primo orribile anno.
Renato Facchetti in cattedra dal 1973: “È un mestiere difficile, oggi anche ingrato e poco prestigioso. Ma educare i bambini, vederli diventare curiosi, è la cosa più bella del mondo” Ma anche l’organizzazione attuale non va bene: per 60 bambini di prima, in tre classi, ci sono sette maestri, e si programma tutto: non si decide cosa fare quella mattina, ma in quella mezz’ora e nella mezz’ora che segue. I bambini non sono computer». Mille ricordi, in una vita da Maestro. «Ai maestri maschi non si dava la prima classe. Ci voleva la maestra-mamma. Io con i piccoli ho cominciato a Ronco di Gusseno, 12 bambini in tutto e li ho portati in quinta. Forse sono stati i miei anni più belli. Ho fatto fare un tema contro la caccia e il giorno dopo è arrivato il parroco (in paese c’era più confidenza con il prete che con il maestro) che mi dice: “È meglio non affrontare certi temi”. I papà erano tutti cacciatori. Ho dato un tema sulla produzione della grappa e tutti hanno scritto: “Non sappiamo cosa sia, questa grappa”. Il solito parroco mi ha spiegato che in tutte le cascine c’erano le di-
stillerie nascoste. Ma poi ci siamo capiti. A fine anno ho ricevuto in regalo alcune bottiglie di grappa, di quella fatta in casa. E anche una cintura in similpelle, l’unico regalo di una carriera. I tempi erano già cambiati. A mia madre avevano regalato una bicicletta, una collana preziosa… Ma io quella cintura l’ho sempre portata con orgoglio». Maestro da 35 anni, stipendio di 1700 euro al mese. «Ma solo perché ho gli assegni familiari per due figlie. L’altra settimana è arrivato a casa mia Vincenzo, un mio ex alunno. Mi ha piastrellato un pezzo di bagno. Cinquanta euro di materiale, 700 di manodopera. Un giorno di lavoro. “Lo sai che io, per guadagnare tanto, ci metto due settimane?”. Gino che ripara le caldaie mi ha preso 120 euro per mezz’ora di lavoro. Come insegnanti si vive vicino alla soglia di povertà. Da due anni dovrei cambiare la cucina e i soldi non ci sono. La casa a
schiera me la sono comprata con un mutuo da 900.000 lire al mese quando lo stipendio era di un milione e tre. Per fortuna, fra maestri e professori, abbiamo reinventato il mutuo soccorso. I vestiti passano dalla figlia di uno alla figlia dell’altro, la bici pure, l’auto si compra usata… Soprattutto da queste parti, se non hai soldi, non vali niente. I nuovi maestri prendono 1.100 euro al mese e qui a Roncadelle ne chiedono 600 per un bilocale. E come una ciliegina arrivano le accuse dei ministri che ci trattano come fannulloni al quadrato: perché siamo dipendenti pubblici e perché siamo insegnanti, tanto inutili che se ne possono lasciare a casa a decine di migliaia…». I lamenti si fermano presto. «Io mi chiedo: se non ci fosse la scuola, che ne sarebbe di questi bambini? Già il primo giorno di scuola insegniamo loro ad alzare la manina, prima di parlare. Solo così possono farsi ascoltare dagli altri.
Nessuno ascolta i bambini di oggi. Già alle elementari — abbiamo fatto un’inchiesta — stanno tre o quattro ore al giorno davanti alla tv e a cena si mettono l’iPod all’orecchio perché tanto i genitori che lavorano tutto il giorno hanno solo quella mezz’ora per parlare dei fatti loro. Almeno in classe il bambino deve trovare la serenità e la possibilità di confrontarsi con gli altri. Ma tutto diventa più difficile. Abbiamo dovuto mettere cancelli e telecamere, perché alcune maestre sono state aggredite e picchiate da qualche genitore. La causa? Una nota sul diario. Il prestigio del maestro, per tanti genitori, è archeologia. Del resto — ragionano — uno pagato come il senegalese che lavora in acciaieria deve davvero valere poco. I cancelli servono anche a impedire i “furti” dei bambini, da parte di genitori separati che vogliono portare a casa il figlio affidato all’altro coniuge. Ma in tutto questo ma-
rasma, io sono convinto di fare un lavoro utile. I ragazzi, dopo la quinta, passano l’età della stupidera e nemmeno ti salutano. Ma poi, più grandi, vengono a trovarti per raccontare i loro problemi o i loro successi. Ti mettono in imbarazzo perché chiedono: “Si ricorda di me?”. E sono spilungoni di due metri. I professori delle medie, dicono, si possono dimenticare. Il maestro no. Le soddisfazioni non servono a comprare l’auto nuova, ma fanno bene al cuore». Una figlia di 12 anni alle medie, l’altra di 16 alle superiori. «Proprio la più grande, che mi ha sempre detto: “Papà, perché non hai fatto l’idraulico, che saremmo ricchi”, si è iscritta al liceo psicopedagogico, le vecchie magistrali». Renato Facchetti dice a tutti che la figlia sbaglia e lui non è contento perché i maestri non hanno futuro. Ma basta guardarlo in faccia per capire che anche i maestri dicono le bugie.
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l’attualità
Oggi la Apple ammette che il primo abbozzo dell’iPod fu di Kane Kramer, un signore inglese che nel 1979 non trovò i soldi per registrare la sua invenzione È solo l’ultimo caso in cui una scoperta si rivela di dubbia paternità. La storia sembra un succedersi di intuizioni
Idee altrui
scippate: dal telefono alla teoria dell’evoluzione GLI OGGETTI
radio
telefono
lampadina
JOSEPH WILSON SWAN Fisico, chimico ed elettrotecnico inglese, sin dal 1845 inventa la lampadina elettrica a incandescenza Ne realizza una nel 1860, ben diciott’anni prima di Thomas Edison
NIKOLA TESLA Fisico, inventore e ingegnere serbo, è naturalizzato statunitense nel 1891 Geniale studioso dell’elettromagnetismo, nel 1893 effettua una dimostrazione di comunicazione senza fili
ANTONIO MEUCCI Meucci costruisce un prototipo di telefono nel 1854. Per la sua invenzione ottiene nel 1871 un brevetto annuale, che deve rinnovare ogni dodici mesi al prezzo di dieci dollari. Riesce a rinnovarlo solo fino al 1873
THOMAS ALVA EDISON Nel 1878, mentre Joseph Swan dimostra il funzionamento della lampadina a incandescenza, Thomas Alva Edison riesce a costruirne un modello sufficientemente durevole e ottiene il brevetto
GUGLIELMO MARCONI L’8 dicembre 1895 mette a punto un macchinario per la comunicazione a distanza senza fili. I giudici, nonostante un brevetto di Tesla del 1897, riconoscono a lui la paternità della radio
ALEXANDER GRAHAM BELL Inventore e scienziato scozzese, copia il prototipo di telefono di Meucci e lo brevetta nel 1876. L’italiano gli intenta una causa che però si conclude nel 1887 con la vittoria di Bell
Ladri di brevetti e di successi RICCARDO STAGLIANÒ e invenzioni sono figlie uniche sino a prova contraria. Metti in giro la voce che sono nate e subito spuntano fratelli e fratellastri. A volte si capisce che la creatura ha in verità un papà diverso. Altre volte che si tratta di gemelli e stabilire il primato è complicato e delicato. Meucci contro Bell per il telefono. Tesla versus Marconi a causa della radio. In ultimo il signor nessuno Kane Kramer di fronte a mister Apple, alias Steve Jobs, sulla paternità dell’iPod. Succede in continuazione in quel bordello thailandese che è la tecnologia. Ci vorrebbe la prova del dna, se non fosse che anche la scoperta della doppia elica potrebbe provenire dai lombi di Rosalind Franklin, una biologa inglese che per prima ha mappato le molecole con la diffrazione a raggi X, invece che da quelli dei suoi ufficiali genitori americani James Watson e Francis Crick. Non c’è scampo. Dietro a un’idea geniale si nasconde spesso un dimenticato venale. Con la sua
L
aveva detto che no, qualcuno era arrivato prima. Jackson non ci aveva creduto e bang bang. È pieno di storie così, piccole e grandi, tragiche e comiche. Le storie dei lati b cui nessuno presta attenzione. Dei talentuosi Paperino surclassati dai Gastone che, con un centesimo della fatica,
incappano nello stesso risultato. Il campionario dei contenziosi è antico come il mondo. Thomas Alva Edison, il Leonardo da Vinci yankee del Diciannovesimo secolo, molto citato per la quantità delle invenzioni e mai abbastanza per la qualità delle sue battute («Il
genio è un per cento ispirazione, 99 per cento traspirazione») ne sa qualcosa. Se la lampadina a incandescenza risulta nel suo medagliere non è perché è arrivato prima di tutti a decifrare i misteri dei filamenti che si illuminano. Il fisico inglese Sir Joseph Wilson Swan aveva realizzato
il miracolo nel 1860, ovvero diciotto anni prima del brevetto vittorioso. Ma fu l’americano a ottenere il successo commerciale. E la storia, quella della scienza inclusa, la scrivono i vincitori. O quelli che hanno soldi per far valere i loro diritti. Chiedete allo spiantato Antonio Meucci che nel 1871 aveva denaro solo per un brevetto breve del suo telefono. Cosicché quando Alexander Graham Bell glielo copia e lo registra cinque anni dopo, i giudici si schierano dalla sua parte. Dura lex sed lex. Oppure dell’assai meno noto Giovanni Rappazzo, figlio del proprietario dell’Eden Cinema Concerto di Messina che nel 1914 inventa il cinema sonoro ma, non riuscendo a commercializzarlo, perde i diritti di utilizzazione a tutto vantaggio della Fox. Perché le invenzioni hanno un ciclo di vita con varie fasi, spiega Bruce Sterling su Newsweek. «La prima è quella del punto interrogativo. Il regno fertile della scienza, della libera ricerca intellettuale, dell’impollinazione incrociata che mischia tecnologia, intrattenimento e giochi», sostiene lo scrittore di fantascienza.
Wilson Swan realizzò la lampadina diciotto anni prima di Edison
La triste storia del tergicristallo a intermittenza
bella squadriglia di avvocati. A volte il Davide non pensa neppure ai soldi ma pretende da Golia l’onore delle armi. Certe battaglie diventano epiche, la ragione di vita di uomini umiliati e offesi. Qualcuno vince, come di recente il sessantasettenne John North che ha ottenuto diciassette milioni di sterline dall’Electrolux che gli aveva rubato il brevetto di un certo aspirapolvere. Altri perdono la testa, capitani Achab dietro a inafferabili Moby Dick, come il camionista di Chicago Joe Jackson che due anni fa ha scaricato la pistola contro un avvocato e due suoi collaboratori: «Non ho dubbi che ha rubato e venduto il mio progetto», aveva scarabocchiato in un foglio che ne documentava l’ossessione, riferendosi a una toilette per camion del cui possibile brevetto aveva appunto parlato al legale. Lui gli
«Le invenzioni in questa fase non fanno soldi. Ancora nessuno sa a cosa serviranno. Non sono più utili di un neonato. E il loro tasso di mortalità infantile è alto». Non è detto che arrivino mai alla fase cash cow, a diventare mucche da soldi. Per mungere le quali il talento dell’inventore può non servire. Ci vuole un industriale. O un inventore con gli “spiriti animali” del capitalismo. La penna a sfera viene brevettata nel ’43 dall’ungherese Laszlo Biro ma è il barone francese Bich a renderla un marchio globale. Assai peggio va a Eugene Polley. Il ragazzo di bottega della Zenith nel ’55 si presenta ai suoi capi con il prototipo del primo telecomando senza fili che emana raggi di luce cui il televisore obbedisce. Gli danno mille dollari, una pacca sulla spalla e hanno anche la faccia tosta di tirargli le orecchie perché
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IPOD Il padre è Kane Kramer, autodidatta inglese, oggi cinquantenne, che nel 1979 sviluppa per primo un lettore audio digitale ma non ha i soldi per brevettare l’invenzione (a sinistra, un disegno del progetto). Alla Apple l’idea piace: l’iPod viene lanciato dall’azienda americana nel 2001. Benché abbia riconosciuto di recente la paternità dell’invenzione a Kramer, la Apple non lo ha indennizzato
fonografo
telecomando
penna a sfera
LASZLO JOZSEF BIRO Inventore ungherese. Verso la fine degli anni Trenta crea la penna a sfera insieme al fratello Georg ispirandosi, si dice, ai giochi di biglie dei bambini. Emigrato in Argentina, brevetta la sua invenzione nel 1943
E.D. LEON SCOTT DE MARTINVILLE L’inventore parigino registra nel 1860, su un apparecchio formato da un corno e uno stilo che incide le onde su un foglio, dieci secondi di voce umana (alcune battute della canzone Au clair de la lune)
EUGENE POLLEY Nel 1895 mette a punto per conto della Zenith il Flashmatic, il primo telecomando senza fili Quest’ultimo emana raggi luminosi che interagiscono col televisore, ma in presenza di troppa luce non funziona
MARCEL BICH I costi di produzione della penna a sfera sono piuttosto elevati. Il barone francese Marcel Bich acquista il brevetto, e, abbattuti i costi del novanta per cento, ne avvia la fabbricazione su scala mondiale
THOMAS ALVA EDISON Nel 1877 realizza un ripetitore telegrafico in grado di incidere punti e linee del codice morse su un disco e di riprodurre il suono registrato. Il 19 febbraio 1878 ottiene il brevetto per la sua invenzione
ROBERT ADLER Inventore austriaco naturalizzato statunitense, negli anni Sessanta crea, sempre per la Zenith, il primo telecomando a ultrasuoni. Grazie alla sua invenzione diventa presidente e direttore di ricerca dell’azienda
qualche cliente si è lamentato: se c’è troppa luce nella stanza il gingillo fa le bizze. L’anno dopo l’austriaco Robert Adler introduce gli ultrasuoni. Lui giganteggia nella Hall of famedei grandi dell’elettronica, l’altro è a malapena una nota a pie’ di pagina della sua biografia. Eppure, in tanti anni, mai una parola velenosa contro il rivale. C’è chi la prende peggio, molto peggio. Bob Kearns, antieroe finalmente vendicato da Flash of Genius, un film che uscirà nelle sale statunitensi a ottobre, è stato tra gli inconsolabili. Inventò il tergicristalli a intermittenza nel ’62. Il giorno del suo matrimonio aveva perso un occhio per colpa di un tappo di champagne imbizzarrito. Da lì aveva cominciato a fissarsi sul perché gli occhi sbattono. Ed aveva ricreato ingegneristicamente il meccanismo, per quelle grandi pupille che sono i parabrezza. La Ford fu la prima a montarli sulle sue auto, senza riconoscergli il merito. Il resto della sua vita si avvitò su quell’affronto. Intentò ventisei cause, rifiutò un risarcimento di almeno cinquanta milioni, perse moglie e amici:
Perché ha rubato i miei brevetti, la mia invenzione della radio, la mia notorietà. Non che nessuno dei due la meritasse: l’invenzione non è cosa che un uomo può possedere». Ma di certo non l’italiano, che era arrivato dopo, scopiazzando i suoi appunti, secondo la concitata rico-
struzione dello scienziato jugoslavo. Siamo in tempi di revisionismo, non si salva nessuno. Si è scoperto, alla fine di agosto, che i tasti “Pagina su” e “Pagina giù”, presenti già nelle tastiere del primo pc Ibm del 1981, in realtà dovevano ancora essere inventati. Così almeno nella
motivazione dello US Patent Number 7.415.666 concesso alla Microsoft, nell’incredulità generale. E ora si attende che qualcuno alzi la mano per dire «in verità è roba mia». Anche a Darwin spetterebbe l’argento nella corsa a spiegare l’evoluzione. Liberamente tratta dagli studi
dell’esploratore e naturalista gallese Alfred Wallace. È quanto sostiene The Darwin Conspiracy: Origins of a Scientific Crimeappena uscito in Gran Bretagna a firma di Roy Davies. Questo ex caporedattore della Bbc ha lavorato per dodici anni al libro, scoprendo tra l’altro la lettera che Wallace, febbricitante di malaria, nel 1858 scrisse dall’arcipelago Malay a Darwin. Entrambi presentarono poi i loro scritti alla Società Linneiana di Londra, riscuotendo più sbadigli che hurrà. Ma uno è l’epitome della continuità tra la scimmia e l’uomo, l’altro è stato inghiottito nel buco nero degli specialisti. A confronto la saga del signor Kramer è poca cosa. Fu lui, si apprende oggi, a sviluppare per primo nel ’79 un lettore di audio digitale. A guardare i disegni che fece allora la somiglianza con l’iPod è imbarazzante. All’epoca però non trovò i soldi per brevettare l’invenzione. Che la Apple ha di fatto riconosciuto. Senza per ciò metter mano al portafogli, neppure considerando che di quelle scatoline ne vende ormai cento al minuto. Per fare i simpatici gliene hanno regalata
Quando la follia prende a viaggiare sulle onde radio
“L’insoddisfazione è la prima condizione del progresso”
esigeva scuse pubbliche. È morto prima di ottenerle. Nei dintorni della follia ci riporta anche la tenzone per il Guinness della radio, raccontata in un libro uscito da pochi mesi in America, The Invention of Everything Else di Samantha Hunt. Nelle prime pagine si segue Nikola Tesla nella sua caduta agli inferi. Asserragliato nella sua stanza all’hotel New Yorker, sorbisce un brodino con le orecchie sempre drizzate a cogliere passi che non si dirigono mai verso la sua stanza. Ha un pensiero dominante: «Chiudo gli occhi e mi concentro sul mandare un messaggio a Marconi. Il messaggio è: “Marconi sei un ladro”. Mi concentro sino al punto in cui posso mentalmente avere accesso alle onde radio. E quando le onde invisibili procedono dalla mia testa attacco loro qualche parolina come asino o verme.
una: «Si è rotto dopo otto mesi», ha rivelato il cinquantaduenne autodidatta. Che non può pretendere niente perché il suo brevetto è scaduto nel 1988. Una pallottola spuntata. Quel che resta è la voglia di inventare. L’ultima sua creatura è Monicall, un apparecchio digitale che registra le conversazioni e può spedire il file audio via e-mail. Sarà come avere sempre un testimone con sé, ha spiegato. Autobiografia inconscia, pare di capire. Viene utile ancora una volta l’arguzia di Edison: «L’incapacità di stare con le mani in mano significa insoddisfazione. E l’insoddisfazione è la prima condizione del progresso. Mostratemi un uomo completamente soddisfatto e io vi mostrerò la faccia del fallimento». Beati i numeri due, non si stancheranno mai di provare.
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l’immagine Ricordi
La Luna sembrava un satellite lontano e dei pianeti si conosceva appena il nome, ma l’immaginazione di Jules Verne e dei suoi emuli colmava ogni lacuna Ora una mostra al Museo della figurina di Modena ripercorre quella fantascienza primitiva nelle illustrazioni
a cavallo tra l’Ottocento e la prima metà del secolo scorso
Quando il nostro futuro era tutto da inventare PINO CORRIAS mmagini di un futuro archeologico. Niente a che vedere con il nostro presente da Ventunesimo secolo declinato, con colori da playstation, in infiniti futuri quotidiani lungo gli schermi della vita liquida che pulsa con perfezione digitale su ogni superficie collegata via etere alla nostra memoria sovraccarica. Né con gli abissi numerici che ci sfiorano e si dilatano come un paesaggio e un buco nero. O con le smagliature della Rete che possono inghiottirci da un momento all’altro verso uno Spazio interno sconosciuto. O con le mappe di nuova genetica capace di replicare cellule moribonde, vie d’uscita verso la giovinezza e incubi ancestrali, di umani doppi e tripli, generati per clonazione, androidi immortali e mortalmente nemici. Nati dentro universi paralleli che interferiscono con i nostri cattivi sogni. Il fantafuturo del passato era un giocattolo. Con gli ingranaggi colorati delle navi volanti e delle macchine del tempo che giravano su ruote a raggi. Biciclette & nuvole. Per uomini ancora d’inchiostro e di Ottocento che assemblavano il futuro, appena inventato dalla Rivoluzione industriale, in un presente prossimo venturo ancora carico di promesse e di avventure mondane, eleganti e meccaniche. Circumnavigando in monocolo e champagne le mappe inesplorate della Terra e quelle della Luna. Immaginando il Capitano Nemo su rotte d’altre latitudini, sognando sogni elicoidali tra le lenzuola di una vita quotidiana appena imbrattata dalle invenzioni di macchine nascenti, fatte di vapore, scintille elettriche, petrolio, elio aerostatico. Macchine imperfette, ma già da allora in perpetua pulsazione accanto alle nostre ombre, come custodi di angeli futuri, o demoni. Mai sospettando prima con quanta velocità e ferocia avrebbero trasformato tutte le nostre avventure conosciute. Conducendole molto lontano da noi: lungo gli assi del Tempo e dello Spazio. E poi nei territori dei misteri ultimi, dentro di noi: in quello specchio che si dilata verso notti senza fine. Prima della grande accelerazione elettrica e per almeno mille anni — dall’Alto Medioevo fino ai telai meccanici di Friedrich Engels — gli uomini nascevano e morivano nello stesso identico mondo: un prato, un villaggio, un tramonto. Sapendo già in anticipo che il futuro, oltre alla malasorte del destino disegnato da un dio vendicativo e ai malanni del cuore, non avrebbe avuto intrecci narrativi troppo distanti dalla polvere dell’inizio. Madame Bovary, come la dolce Laura di Petrarca, sospirava rimpianti davanti alla luna piena. E nessun principe Bolkonskij, guardandola nel cielo nero, avrebbe mai immaginato di trasformare le sue ellissi satellitari, buone per cavalcare lungo le rive della Moscova verso la prossima battaglia terrestre, in una rotta alla scoperta d’altri pianeti. Ci pensò Jules Verne a calcolare la parabola positivista per spedire i primi uomini dai boulevard di Parigi verso i suoi pallidi crateri per gusto d’avventura e ottimismo scientifico e sfida alle leggi della fisica, dentro a un proiettile del tutto simile ai futuri laminati di Apollo 11. Solo che poi H. G. Wells, nel suo La guerra dei mondi, anno 1897, raccontò che era possibile anche la rotta contraria. Quella che dal rosso del pianeta Marte guiderà le navicelle cilindriche degli alieni, armate di furori e raggi della morte per l’invasione spaziale, capaci di piegare il mondo, anzi raderlo al suolo e trasformare gli uomini in cibo. Suggerendo, per la prima volta, uno spavento peggiore di quello di essere soli nell’Universo: non esserlo affatto. O almeno mai più, in futuro. La fantascienza nasce (anche) da quegli spaventi. E dai laboratori scientifici dove il dottor Jekyll sperimenta dentro di sé il Bene e il Male della conoscenza. E dal perpetuo rumore che fa vibrare i capannoni industriali, dove il lavoro salariato, imprigionando il tempo negli ingranaggi della catena di montaggio, si trasforma in un progresso che sembrava perpetuo, ma anche in una perpetua premonizio-
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Il “fantafuturo” del passato era un giocattolo con gli ingranaggi colorati di navi volanti e macchine del tempo. Per uomini che assemblavano il domani nato dalla Rivoluzione industriale ne. Inseparabili, l’incanto e la paura, come la vite e il suo bullone. Capaci, avvitandosi, di costruire ponteggi per futuri mai prima immaginati, dove gli uomini sono in grado di volare, esplorare, costruire, trasformare, sopravvivere e soprattutto uccidere, in modi del tutto nuovi, come si stava già sperimentando lungo le trincee di due Guerre mondiali scavate tra i reticolati del «secolo dei campi» e le fosse comuni dei genocidi. Avvincente futuro verso le frontiere della conoscenza. Ma anche cupo d’ombre. Che si propagano come un riverbero nel Mondo nuovo di Aldous Huxley popolato di uomini fatti in serie come le Ford T, nuove creature terrestri a quattro ruote che escono a ciclo continuo dai nastri meccanici e dai frastuoni di Detroit. Uomini dotati della medesima duttilità dei veicoli con il motore a scoppio, identica obbedienza alle sollecitazioni di un freno e di uno sterzo. Uomini in fila, lungo i rettilinei del tempo, come nel bianco e nero di Metropolis di Fritz Lang. Ispezionati dall’occhio onnisciente del Big Brother di 1984, parabola di George Orwell ambientata nel futuro totalitario di un mondo (che oggi ci appare clamorosamente familiare) infinitamente memorizzato dalle videocamere di sorveglianza, addestrate a riconoscere con allarme la disordinata interferenza di un sentimento. E di una emozione. Il fondale di questa nuova fantascienza — che procede dal disordine naturale all’ordine artificiale — registra i bagliori della nuova società di massa in accelerazione perpetua verso la modernità e i suoi colori di plastiche smaglianti diventati d’improvviso necessari e replicabili e disponibili a tutti. Specie durante l’eccitazione collettiva degli anni Cinquanta e Sessanta, moltiplicata dalla proliferazione dei nuovi oggetti meccanici di vita quotidiana. Dal frigorifero al tritarifiuti. Dal televisore al telecomando. Dal volo di linea al lettino elettrico dello psichiatra. Tutti prefigurando, nel loro marketing incorporato, l’infinita comodità del futuro. Dove i piccoli robot di Isaac Asimov e le astronavi di Arthur Clarke — nati «dopo l’orribile bagliore diffuso dalla Bomba» — avrebbero attraversato ogni spazio quotidiano, trasformandolo nel migliore futuro disponibile. O almeno sembrava a un bel po’ di generazioni umane che videro, da allora, «avverarsi l’impensabile». Non ancora il teletrasporto, ma i viaggi spaziali sì e quelli ancora più istantanei delle dirette televisive. E poi il calcolo infinito dei processori. Le città di cristallo. I miracoli della medicina. Le illuminazioni delle nuove scienze. Ma tutto in un equilibrio così precario, così carico di instabilità emotiva per la velocità crescente dei mutamenti, da produrre più inquietudini che appagamento, più adrenalina d’ansia che stupori. Come in quei racconti che Richard Matheson scrive per la serie televisiva americana Ai confini della realtà, negli anni congelati dalla Guerra fredda, dalla paranoia del nemico, che rende multipli gli agguati nascosti nel doppio fondo della vita quotidiana, proprio dietro la luce inoffensiva dei neon: dai minuscoli marziani che invadono la cucina, al gremlin che compare sull’ala dell’aeroplano per
ridere in faccia al passeggero, terrorizzato dietro l’oblò. Con protagonisti così spaesati dentro la nuova vita, da attraversarla come fosse un cornicione che da un momento all’altro può spezzarsi. Come accade al tizio che la mattina di un giorno qualunque, mentre si rade davanti allo specchio, si taglia la guancia. E sul bianco del sapone non compare il fiore rosso del sangue, ma il nero di una goccia di olio sintetico. Olio da macchina. Olio da robot. Precipitandolo nel terrore del suo stesso volto, adesso sconosciuto, riflesso dallo specchio, mentre la moglie in veranda mangia corn flakes e i bambini giocano e il solito sole splende tra le siepi rosa del giardino. Borges immaginava che gli infiniti mondi fossero fatti di parole. La cibernetica ha trasformato le parole in byte. I byte hanno realizzato l’ovunque planetario della Rete. La Rete è diventata il nostro sistema nervoso, i nostri occhi, la nostra memoria. Occhi e memoria hanno acquisito estensioni biotecnologiche. La fantascienza di Philip K. Dick, l’autore di Blade Runner e di Ubik, ha intuito che gli uomini, i mondi e le macchine finiranno per coincidere, sovrapponendo i propri misteri. Nutriti di oggetti diventiamo oggetti. Nutriti di immagini diventiamo immagini. Le frontiere non sono più fuori di noi. Da prigionieri, ci crediamo liberi. Viviamo la copia di altre vite, frutto di innesti di memorie artificiali, eccessivi accumuli di stimoli, inganni di altri inganni. Misteriosi poteri ci sovrastano. Misteriose procedure riprogrammano i nostri desideri le nostre aspirazioni. Il potere distribuisce cibo e sonno. Distribuisce illusioni. Distribuisce spavento. E nasconde informazioni. Su quelli che Dick chiama «gli universi che cadono in pezzi». Cioè noi e il nostro caos. Quello stesso caos che valicano in diagonale gli hacker in fuga di Williams Gibson, l’inventore del cyberspazio, dove galleggiano costellazioni di dati e flussi di luce digitale. Dove tutte le apparenze sono diventate reali e viceversa. Uomini e macchine si sono infine sovrapposti, ibridati. E lo «shock da futuro» di cui scrisse Alvin Toffler all’alba della rivoluzione dei self media si è finalmente placato in una quotidianità sedata dalla chimica e dal rimpianto. Mentre il pianeta respira veleni e rimpicciolisce soffocato dai polimeri, viaggi dentro di noi ci attendono. Il futuro non è mai stato così inquietante da immaginare. E così attraenti le sue vie di fuga. Troppo presente ci sommerge. I colori pastello d’antica fantascienza sono tutti finiti. I palloni aerostatici esplosi. Il colpo d’occhio del primo cyberpunk di Neuromante racconta l’essenziale: «Il cielo sopra il porto aveva il colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto». Senza più spostarci abitiamo mondi unificati dal ronzio delle macchine che lasciamo accese tutte le notti dentro i nostri involucri di penombra e divani. Siamo al sicuro? Dormono anche loro o ci sorvegliano? E se dormono, sognano pecore elettriche, oppure interruttori per gli uomini futuri?
MONDO NUOVO La copertina della rivista americana Wonder Stories disegnata da Frank R. Paul (1932); a sinistra, Les Exilés de la Terre illustrato da George Roux (1889); sopra, Un quartier embrouillé da Le Vingtième Siècle di Albert Robida (1890)
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APOCALISSE
WONDER STORIES
METROPOLIS
Da sinistra, una figurina spagnola di inizio Novecento della serie Un viaje á la luna; l’album di figurine Il mondo del futuro (1959) con i disegni di A. Martin
Sopra, una copertina del mensile americano Wonder Stories, dedicato alla fantascienza, del febbraio 1933; a destra, un numero di Air Wonder Stories datato novembre 1929
L’illustrazione qui sopra è una copertina del mensile americano Everyday Science and Mechanics (dicembre 1931) Il disegno è di Frank R. Paul
La nostalgia dell’avvenire AMBRA SOMASCHINI a rivista parigina Le Pêle-Mêle nel 1901 pubblicava i disegni di un bal sous-marin, un ballo sottomarino datato 2000, romantiche coppie con le teste coperte da scafandri che accennano passi di valzer nel mare profondo tra merluzzi, alghe e pesci mediterranei. La caccia su Venere si faceva con strani fucili a canna contro mostri che assomigliavano più a coccodrilli che a dinosauri, i missili avevano il muso lungo e appuntito, i dischi volanti erano piatti e panciuti nel mezzo. È la fantascienza di ieri in una collezione messa insieme da appassionati e gallerie private (Riccardo Valla, Franco Dominianni, Little Nemo Art Gallery di Torino e Archivio Pallottino di Bologna) in mostra dal 19 settembre all’8 dicembre nel Museo della Figurina di Modena, curatori Paola Basile e Maria Giovanna Battistini. Si chiama Nostalgia di futuro: l’invenzione del domani in un secolo di illustrazioni. Nostalgia perché il domani ormai non si immagina più, è incorporato nell’oggi. Stampe, disegni, fumetti, figurine appunto, da fine Ottocento agli anni Settanta del Novecento. C’è la letteratura fantastica a cavallo tra i due secoli (gli abitanti della Luna sono caricature degli umani e le macchine volanti hanno eliche-ali di origine mitologica), c’è la science-fiction pubblicata dalle riviste americane dei Trenta e Quaranta — Topolino ad esempio — ci sono gli album dei Cinquanta e le trade cards dei serial tv, da Il Pianeta delle scimmie a Captain Scarlet, da Doctor Who a Perry Rhodan. «Una tradizione pop che affonda le radici nel romanzo più colto, quello futuristico e interplanetario — spiega Riccardo Valla, che ha collaborato alla mostra —, narrazioni in edizioni di lusso illustrate da artisti di grande talento». I «talenti» sono Grandville, che lavorava per l’editore Hetzel, disegnava metamorfosi di figure in parte animali e in parte umane, illustrava le opere di Giulio Verne (secondo Valla «si ispirava ai quadri di Hieronymus Bosch»); e Albert Robida, che esplorava l’incubo di una guerra totale mentre ne Le Vingtième siècle illustrava la vita quotidiana di una famiglia nel 1952. Ma le origini della fantascienza sono molto più lontane. Luciano di Samosata scrisse ad Atene Storie vere, un viaggio al di là delle colonne d’Ercole. Nel Seicento Cyrano de Bergerac in L’autre monde ou Les ètats et empires de la lune immaginava viaggi in altri pianeti e incontri «ravvicinati». Giordano Bruno descriveva altre realtà in De l’infinito, universo e mondi. E anche Il Paradiso Perduto di Milton, in fondo, può sembrare un viaggio interplanetario...
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Morì annegato nell’alcol a trentanove anni. Prima fece in tempo a cambiare per sempre la poesia, divenire una star che faceva il tutto esaurito durante le sue letture pubbliche e perdersi tra le luci, il denaro e la fama di New York. Una nuova biografia con lettere e versi inediti racconta
CULTURA*
la sua vita spericolata e tragica. E Mick Jagger ne farà un film
onsideratotra i più grandi poeti del Novecento Dylan Thomas ha subìto, soprattutto in Italia, uno strano destino editoriale. Sempre ai margini: più citato che letto, più commentato che studiato. E dire che ha segnato come pochi proprio l’immaginario pop del secolo scorso. Da Robert Zimmerman, che dal poeta gallese nato a Swansea nel 1914, ha tratto il nome d’arte di Bob Dylan al nostro fumetto da esportazione Dylan Dog di Tiziano Sclavi, sono moltissimi i tributi che raccontano la magia di quello che è stato l’ultimo poeta maledetto. A raccontare la sua vita è ora Paul Ferris in una biografia che, con poesie e manoscritti inediti (alcuni pubblicati in queste pagine), dopo dieci anni di studi viene pubblicata nella sua ultima versione anche in Italia. Negli Stati Uniti e in Inghilterra il libro ha appassionato migliaia di lettori e sono già stati acquistati i diritti cinematografici per trarne un film: sarà diretto da Mick Jagger, da sempre appassionato fan del poeGIAN PAOLO SERINO ta e ispirato dai suoi versi in molte canzoni dei Rolling Stones. Perché Dylan Thomas è stato anche il vero e unico antesignano delle rockstar: con una vita all’insegna degli eccessi più sfrenati e dei comportamenti apparentemente più incomprensibili ha sacrificato se stesso per la propria arte. I quindici capitoli della biografia Dylan Thomas (Mattioli 1885, 350 pagine, 22 euro, in uscita il 16 settembre) raccontano come sia stato un uomo profondamente tormentato, spesso eccessivo, il più delle volte l’unico e peggior nemico di se stesso: la poesia era la sua vera realtà mentre la sua irrealtà era il suo stile di vita. È il ritratto di
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Un destino da rockstar
IL LIBRO La copertina del libro Dylan Thomas Essere un poeta e vivere di astuzia e di birra di Paul Ferris pubblicato da Mattioli 1885
un uomo insicuro, da sempre indeciso tra la tentazione di una vita “normale” («Darei tutto per essere un impiegato di banca con un lavoro sicuro») e il destino ineluttabile di poeta bohémien, di artista che si è ostinato lottando contro tutti per riuscire a fare poesia, pur di «costruire una fortezza da un mucchio di fiori». Forse anche per questo si scontrava sempre contro quella borghesia che odiava, contro quella «gente benestante, astemia e magra, che si dispera per automobili rimaste senza benzina e gioca con ferocia a bridge». Frequentò gli ambienti accademici — inglesi prima e americani poi — assiduamente ma quasi sempre per bisogno di denaro. Per i suoi reading, attesi come oggi si aspettano i concerti rock, veniva pagato lautamente e il fattore economico, per un artista sempre sommerso dai debiti, non era cosa di poco conto; e poi soddisfacevano la sua continua necessità di avere un pubblico. Pubblico che Thomas, a seconda dell’umore alcolico, divertiva o insultava. Nel pieno di un reading improvvisamente era capace di mettersi a carponi come un cane e di emettere ululati finché qualcuno non lo accarezzava sulla testa. Quando i critici si permettevano di commentare le sue poesie in pubblico si gettava per terra e iniziava a contorcersi come un indemoniato. Nella biografia di Ferris molti di questi comportamenti vengono attribuiti allo stato di ebbrezza nel quale il poeta gallese spesso si trovava. Ma per Thomas «bere è sempre stato soltanto il mezzo necessario per correggere lo squilibrio tra il disordine esterno e l’ordine interno a me». Quello che è certo, comunque, è che Thomas beveva in modo distruttivo. La sua stessa morte, sopraggiunta a New York nel 1953 a soli trentanove anni, è sempre stata attribuita a un avvelenamento alcolico delle cellule cerebrali. Ferris, invece, dopo approfondite ricerche, per la prima volta dimostra come il giallo sulla morte sia da attribuire a un errore medico: un’eccessiva dose di morfina che colpì a morte un fisico già indebolito dall’abuso di alcol e da problemi polmonari. Particolari che forse non cambiano il suo destino di poeta maledetto e dei suoi versi che da troppo tempo tacciono in un’epoca in cui sembra trionfare la ferocia del bridge.
Dylan Thomas
“Sono un poeta in un pub”
DYLAN THOMAS
ensoche i poeti siano trattati abbastanza bene: nessuno li colpisce con un frustino, possono camminare per strada senza pericolo. L’unico problema è che un cattivo poeta è trattato alla stregua di uno bravo. Penso che Spender dovrebbe essere preso a calci nei suoi quartieri generali una volta alla settimana, regolarmente e ufficialmente. E Day-Lewis dovrebbe essere fischiato in pubblico e colpito sui testicoli con un martello morbido. Dopo tutto, c’è qualcosa di comico nell’essere un poeta. Dovremmo essere trattati con maggior impertinenza. Vorrei ricevere del denaro non come poeta ma come uomo, che ha sete & fame; un poeta non vuole carne & bevande, gli basta della carta. Dio aiuta chi non ha lo stomaco, ma solo vocali e consonanti. Cosa mai può succedere in caso di uno sciopero dei poeti? Mi piacerebbe stare in piedi a fare il picchetto nella stanza dove scarabocchia (George) Barker e colpirlo con il manganello per ogni mezza rima. «Se non ci pagate tre sterline e dieci alla settimana non scriveremo più altre dannate poesie». Questo sì che farà abbaiare i cani. Dovremmo arrivare a un accordo con i critici: almeno il cinquanta per cento di quellochericevonoperogniarticoloscrittosudinoi. Senti lo schiamazzo del Signor Leavis! E pure DayLewis, che va a caccia di topi a London Mercury! Le scimmie in sciopero! Incrociamo le braccia e fermiamo la produzione a Bloomsbury! (un Grigson in bancarotta offre il venticinque per cento) (A Henry Treece, 23 marzo 1938)
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*** Sono terribilmente indaffarato con una nuova poesia, e ho appena preso in prestito questa macchina da scrivere per battere l’interminabile Canary, che Dio gli faccia cambiare le penne, e aiuto
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Lei si muoveva come il silenzio in un bagno di luce, Come la nebbia nei limpidi raggi di luna; Una musica che faceva innamorare la vista Eppure eludeva l’orecchio Un sogno e uno spirito vestito In movenze soffici come il sonno; L’epitome di tutte le cose felici, La somma di tutti coloro che piangono La sua immagine era come la mente di un poeta, Cercata con tutte le sensazioni Sembrava della sostanza del vento Una forma di lirico pensiero;
in casa, rassettando e rompendo cose, e penso che se non sarò cauto e fortunato i ragazzi del Governo mi spediranno a fabbricare le munizioni. Vorrei trovare un vero lavoro ed evitarlo. Timbrare il cartellino, girare una vite, azionare una rotella, fare qualcosa con un ingranaggio, pranzare in mensa, ogni bossolo significa un soldato tedesco in meno, siano benedetti tutti i sergenti alti e bassi, siano benedetti tutti, siano maledetti tutti, le serate nel circolo ricreativo della fabbrica, biliardo e cioccolata, poi le cimici nella camera ammobiliata e poi timbrare il cartellino e girare e azionare e picchiare con il martello per aiutare a uccidere un altro sconosciuto; oh povero me, preferirei in qualunque momento essere un poeta e vivere di astuzia e birra... (A Clement Davenport il 4 aprile 1941, durante la guerra)
*** Grazie per Un poeta in un pub. Che titoli che inventate voi ragazzi! Ho trentatré anni, non trentuno. Parlando di mio padre, non credo di aver usato le parole «era il migliore lettore di Shakespeare dei suoi giorni»... Non mi sorprenderei — ha proprio ragione — se la gente mi paragonasse a un moderno Villon. Ma l’assenza di sorpresa non sarebbe causata dal fatto che ritengo di rappresentare, in un qualche modo, una specie di moderno Villon, ma perché sono abituato ad ascoltare balle. Pressappoco, sono tanto un moderno Villon — per inciso, non so leggere il francese — quanto una moderna Joanna Southcott, un moderno Raleigh, un Artemus Ward o un Lutero. All’asilo della signora Hole non ero né con Dan Jones, né con Fred Janes (n, non m), che ho conosciuto in seguito. [...] Dire che spesso riempio forse un centinaio di fogli per la costruzione di una poesia è vero. Ma ho soltanto detto che spesso riempio più di cento fogli con bozze, revisioni, riscritture, vaneggiamen-
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Un essere tra le cose terrestri Trascendentemente dimenticato; Diretta lontano nel tempo su ali lucenti Al ruscello di un rabdomante I ritmi del cuore in estasi Ondeggiavano al suo dolce controllo; Sotto la sua custodia la vita era tutta arte, E il corpo tutto anima Debolmente scintillante nell’aria rosea Sembrava aumentare e calare come la marea Come i ricordi pericolosamente leggiadri, E pallidi di tanto tempo fa
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Ingannare l’America fu il suo ultimo show NADIA FUSINI
IL DISEGNO L’immagine grande è un ritratto di Dylan Thomas di Guido Scarabottolo per il catalogo delle Fenici Tascabili Guanda arrivate al titolo numero duecento; nell’altra pagina il poeta con la moglie Caitlin e la figlia Aeronwy all’inizio degli anni Cinquanta
ti, ghirigori & lavoro di estrema concentrazione per costruire un solo verso. E non dico che sia qualcosa di cui essere orgogliosi o di cui vergognarsi. Non ritengo un certo verso migliore perché ci sono volute settimane, e mezze risme, per completarlo. È solo che lavoro con estrema lentezza, estrema fatica, isolato. [...] Infine, in qualità di “Profilo”, il suo ammirevole articolo avrebbe dovuto, ritengo, aver preso, per quanto brevemente, in considerazione altri aspetti di questo guazzabuglio di personaggio, oscillante e precario; aspetti, lo ammetto, di cui lei, al massimo, potrebbe avere una limitata conoscenza diretta: la mia malinconia di base; attacchi di cupa depressione e profonda riflessione; orrendi malumori; coma vegetali, silenzi e sparizioni protratti; terrore della morte, dell’altezza, dei colpi apoplettici, dei topi; timidezza e goffaggine; ripetitivi, banalizzanti, pomposi periodi di noia e zoticaggine che sfiorano il fondo; mal d’anima, dubbi di coscienza, giramenti di testa; la mia ignoranza onnicomprensiva; i miei meschini valori borghesi tuttora solo parzialmente soppressi e dimenticati; tutta la mia straziante stravaganza; tutta la mia indolenza; tutte le mie storie! Allego l’articolo, con molte grazie. Che tipo sembro, in questa lettera! Grazie a Dio non devo incontrare me stesso in società, non sono costretto ad ascoltare le mie storie, né, fatta eccezione di quando — malvolentieri — mi rado, non sono mai costretto a guardare riflesso nello specchio quel pallone rosso e gonfio montato su una mongolfiera di corpo, quel provinciale scalcinato fino all’anima, quello scribacchino, quel nasello ubriacone che adesso si consacra, per sempre Vostro. (Al giornalista C. Gordon Glover che gli aveva inviato la bozza di un articolo su di lui prima di proporlo al periodico Band Wagon, il 25 maggio 1948) Traduzione di Francesca Pratesi (© 2008 Mattioli 1885)
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l poeta è la più impoetica delle creatura», commenta John Keats in quella dichiarazione di poetica che sono le sue Lettere sulla poesia. Dylan Thomas conferma tale diagnosi. Anzi, compie il definitivo passo “novecentesco” verso una mutazione mediatica della figura del poeta. Con lui, dopo di lui, il poeta impoeticamente crede di poter giocare con il fascino del Denaro, e la potenza del Mercato. Il pensiero dominante per l’airone di Swansea sono i soldi: come ingraziarsi quella «puttana corruttrice dell’umanità tutta», la dea Denaro, col suo corpo giallo, fiammeggiante, prezioso. Per questo il Rimbaud di Cwmdonkin Drive va negli Stati Uniti. Fantastica l’America come una donna dalla bellezza di meretrice che lo adesca, e lui non può resisterle. «Vuoi andare in America solo per vanità, per pigrizia, per infedeltà»: gli ribatte la moglie Caitlin, inaccessibile, lei, al «glamorous trash». «È tutta merda — cerca di insegnargli — anche se luccica». Ma la merda-denaro ha un invincibile fascino su Dylan: se non altro perché più ne ha, di oro, più può sperperarlo. Inoltre, ha fede nel potere metamorfico del diosuccesso. E in un certo senso ha ragione, il miracolo accade: l’alcolismo necroforo diventa aura dionisiaca per le folle che accorrono alle sue letture pubbliche, dove l’evidente malattia trasfigura in mito, la dissipazione tramuta in divina sovrabbondanza. Dylan, da parte sua, si accorge della disposizione arcaica, romantica di quelle folle; capisce che l’America è un paese kitsch. Ma è per l’appunto vanitoso, ha ragione Caitlin. «La gente viene a vedere me», spiegò. E vedono «un uomo basso, grasso, che fa il buffone…». E siccome «non ascoltano quello che leggo, non importa che abbia senso o no». Del resto, l’aveva saputo fin dall’inizio: non è con il fantasma del significato che ha a che fare la speciale comunicazione che avviene in poesia. Su questo punto almeno è d’accordo con T. S. Eliot, un poeta tanto diverso da lui: il significato è lì per soddisfare l’abitudine del lettore ad aspettarsi che le parole significhino qualcosa. Mentre in poesia le parole hanno corpo, sono materia fatta di accenti, di ritmo. Per questo con devozione da artigiano umile e attento, ossessivamente attento, lavora a un’estetica del suono. «Uso ogni trucco, vecchio o nuovo, artifici come la paranomasia, la catacresi, l’assonanza, l’allitterazione…» pur di arrivare alla gioia, al vero e proprio godimento poetico, che sta nella musica delle parole. Nel corpo della parola. Quando tu lettore leggi la mia poesia, insegnò, bevi il mio vino, mangi il mio pane. È a una comunione che ti invito. Valeva tanto più l’ascoltatore. Che lo sapesse o meno, chi partecipava alle sue letture condivideva una specie di blasfema eucarestia. L’intonazione incantatoria del bardo somigliava molto a quella dei predicatori gallesi. Dylan è un poeta religioso. «Sono andato in America a vomitare poesie su un pubblico entusiasta, che la settimana prima aveva con lo stesso entusiasmo applaudito conferenze sullo sviluppo ferroviario», scrisse. Non aveva illusioni, come è chiaro. E insieme, ci credeva. E illudeva chi ascoltava. La somiglianza fisica con il Rimbaud del ritratto di gruppo di Fantin Latour aiutava. E fu così che proprio morendo di overdose alcolica l’impoetica creatura assunse a mito, a leggenda. L’America adorò Dylan Thomas. Cuori infranti, donne disperate, ammiratori in lacrime assediarono il Saint Vincent Hospital di New York. Al suo letto di morte, come per Rodolfo Valentino, per James Dean, l’America pianse. Dylan, scrisse un amico, «era altrettanto importante di Marlon Brando per gli americani».
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Si chinò alle lacrime di disperazione ricordate, Si commosse profondamente alla gioia non sbocciata Ah, bellezza — passionale dagli anni! Oh, corpo — saggio e bianco! Sparì come una nuvola nella sera, Uno splendore radioso di un tramonto Sparì. La vita per un attimo regalò un sogno all’oscurità
LA DANSEUSE (LA BALLERINA) Scritta da bambino
(© 2008 Mattioli 1885)
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SPETTACOLI
Quando Patrick Stewart lasciò la Royal Company per diventare il capitano Picard di “Star Trek” inaugurò una serie di trasmigrazioni tra palcoscenico e grande e piccolo schermo che diedero nuova fama al drammaturgo. Ma ora che David Tennant, star
di una serie tv di fantascienza, ha deciso di fare la stessa cosa il pubblico è in delirio
e lo spettacolo “sold out” da mesi. Così il Regno Unito trasforma il suo cantore in icona
ENRICO FRANCESCHINI STRATFORDUPON-AVON ssere o non essere? Questo è il problema». Cioè se sia meglio vivere o morire, resistere o togliersi la vita. Eppure quando David Tennant, l’attore reso celebre dal personaggio televisivo del Dottor Who, pronuncia la battuta più noto dell’Amleto sul palcoscenico del Courtyard Theatre, nella città natale di Shakespeare, nella messa in scena della Royal Shakespeare Company, il problema è anche un altro: se uno come lui faccia bene ad affrontare il rischio degli oltraggi del pubblico e dei dardi della critica, o se non gli converrebbe piuttosto continuare a prendere le armi nei viaggi intergalattici di una ben collaudata serie tivù. L’uragano di applausi che chiude puntualmente ogni rappresentazione scioglie però quasi subito il dilemma, e i critici sembrano del medesimo parere: questo Amleto in eskimo, maglione a collo alto e berrettino da marinaio, interpretato da una stella dell’intrattenimento di massa, piace molto e piace a molti, tanto che dall’inizio dell’estate sta registrando sold out, tutto esaurito, come un concerto di Madonna, promettendo di andare avanti così fino a metà novembre, per poi trasferire la moderna versione del dramma shakespeariano a Londra. Dove i biglietti, messi in vendita due giorni fa, sono andati esauriti in sei ore per essere poi rivenduti dai bagarini a 500 sterline (600 euro) l’uno. Per il Dottor Who, bisogna dire, il rischio di un disastroso fallimento era relativo. In primo luogo perché Tennant, pur dovendo la fama internazionale e lo status di star alla televisione (e al cinema, con il quarto film di Harry Potter), come molti attori britannici proviene dal teatro classico: iniziò la sua carriera con la classica gavetta shakespeariana nei piccoli teatri di Edimburgo, e nel 2000 interpretò Romeo in Romeo e Giulietta, sempre con la Royal Shakespeare Company, anche allora a Stratford. In secondo luogo perché gli inglesi, sebbene abbiano comprensibilmente elevato Shakespeare al livello di simbolo ed eroe nazionale, non esitano a tirarlo giù dal piedistallo, a mescolarlo alla vita di tutti i giorni, a farne un prodotto della cultura popolare. Il Bardo, in effetti, oggi è dappertutto, senza che nessuno se ne scandalizzi, anzi: a teatro e al cinema, in tivù e alla radio, in libreria e nelle botteghe di souvenir, nei coffee shop e nelle boutique. Il fenomeno non è nuovo, dura da anni, decenni, qualcuno dice da anche di più: in fin dei conti sono tre secoli che la cittadina di ventiduemila abitanti sul fiume Avon, duecento chilometri a nord della capitale, dove William Shakespeare venne alla luce (quando gli abitanti erano tremila) e dove giace sepolto, è una meta di pellegrinaggi. La sua casa natale, su Henley Street, è stata restaurata e ricostruita così tante volte che probabilmente il drammaturgo non la riconoscerebbe neanche, ma milioni di turisti la visitano ancora incantati; così come vanno a vedere con un brivido d’emozione la sua tomba nella cappella della Holy Trinity Church, domandandosi chi fosse veramente l’uomo sepolto sotto la lapide con l’ iscrizione misteriosa: «Buon amico, per amore di Gesù trattieniti/ dall’estrarre le ceneri qui racchiuse/ sia benedetto colui che risparmia queste pietre/ e maledetto colui che rimuove le mie ossa». Stratford, grazie a Shakespeare, è la seconda maggiore attrattiva turistica del Regno Unito, dopo la capitale, e questo passi. Ma il lato più curioso è che questo boom non declini, non affievolisca, casomai continui a crescere e a moltiplicarsi, mettendo il naso letteralmente ovunque. La settimana scorsa, per esempio, il ministero della Cultura britannico ha annunciato l’organizzazione di un Festival mondiale di Shakespeare in coincidenza con le Olimpiadi di Londra del 2012 (il festival inizierà il 23 aprile 2012, anniversario della nascita del commediografo), dislocato in tre città, Londra, Stratford e
«E
Tuttipazzi per Shakespeare Amleto e il Dottor Who il Bardo diventa global Newcastle, per sottolineare l’idea che il più grande autore teatrale di tutti i tempi è ormai da tempo diventato una “figura globale”, effettivamente “olimpica”: sicché fra quattro anni vedremo il suo caratteristico profilo stampato anche sui cinque cerchi dei Giochi, dei quali dovrebbe diventare, insieme ai Beatles, al Big Ben, a Buckingham Palace e alla famiglia reale, l’icona. Morale: siamo, e sempre di più saremo, tutti pazzi per Shakespeare. Il Bardo è un classico, anzi “il” classico, che non invecchia mai e non passa mai di moda. A decretarlo basterebbero i suoi trentotto testi teatrali e i suoi 154 sonetti: è considerato l’autore più venduto della storia della letteratura mondiale, alcuni calcolano che abbia venduto più copie lui della Bibbia. Ma anche chi non l’ha mai letto, anche chi non ha mai visto una sua commedia o una sua tragedia, crede di conoscerlo, sa chi è, cos’è, cosa rappresenta. Shakespeare in effetti è l’Inghilterra, Shakespeare è la lingua inglese ossia la vera lingua globale planetaria, così come nel 2012 Shakespeare sarà le Olimpiadi di Londra. Del resto si può ben dire che Shakespeare è qualsiasi cosa,
l’amore, il tradimento, la guerra, la morte, l’amicizia, la commedia, la tragedia, perché nel suo mondo, c’è tutto; e — si è tentati di aggiungere — il contrario di tutto: come ha notato uno dei tanti suoi biografi, in Shakespeare un lettore attento può trovare sostegno per quasi qualsiasi posizione voglia prendere. Lo riconosceva lui per primo, con una battuta ripetuta spesso a sproposito: «Il diavolo può citare le Sacre Scritture per i propri fini». Paradossalmente, di questo formidabile e immortale tuttologo non sappiamo quasi niente, a parte dove e quando è nato, dove e quando è morto, e le opere che ci ha lasciato. Ma siccome ci ha lasciato solo quelle, e non una sola lettera, non un solo documento, non un solo manoscritto, anche la paternità di queste è stata a lungo e continua a essere oggetto di dibattito, controversie e dubbi. Possibile, è stato ripetuto fino alla noia, che il figlio di un modesto guantaio di provincia, nell’Inghilterra del Sedicesimo secolo, potesse diventare il drammaturgo e poeta più grande del suo tempo, e di ogni tempo? I sostenitori della tesi secondo cui commedie e drammi attribuiti a Shakespeare furono in realtà scritti da al-
tri (tra i quali Bacone, celebre filosofo e scrittore; Christopher Marlowe, altro affermato autore teatrale dell’epoca; addirittura la regina Elisabetta I), sono numerosi. E il mistero sull’identità di William Shakespeare rimane in fondo così fitto che qualcuno ha avuto la bella idea di scriverci sopra un romanzo giallo: W., thriller di Jennifer Lee Carrell (in Italia è uscito qualche mese fa per Rizzoli), che miscelando abilmente verità storica e fantasia creativa tenta di indagare e risolvere l’enigma. Fuor di finzione, uno specialista di saggi best seller, Bill Bryson, ha ricucito insieme in Il mondo è un teatro, ultima ed ennesima biografia shakespeariana (pubblicata recentemente in Italia da Guanda), tutto quello che si sa o meglio si suppone sul Bardo: i genitori, piccoli proprietari terrieri; la moglie, più vecchia di lui, sposata quando William aveva appena diciotto anni; l’istruzione scolastica; i figli; e poi il trasferimento a Londra, l’apprendistato di attore e scrittore, il successo, l’apparente simpatia per il cattolicesimo, a cui forse si convertì. Siamo certi che nacque, visse e morì un signor William Shakespeare, ma non siamo nem-
meno sicuri — nota Bryson — di quale sia la grafia corretta del suo nome; e a quanto pare non ne era sicuro nemmeno lui, poiché nelle firme che ci sono rimaste non è mai scritto allo stesso modo: Willm Skaksp, William Shakespe, Wm Shakspe, William Shakspere, William Shakspeare, dunque in tutti i modi possibili, tranne William Shakespeare, quello che viene universalmentre associato al suo nome. In compenso gli studiosi si sono ossessivamente concentrati sulle sue opere, contando ogni parola, registrando ogni inezia. Ci hanno informato che i suoi drammi contengono 139.198 virgole, 26.794 due punti e 15.785 punti interrogativi; che nei lavori teatrali si parla 401 volte di orecchie; che l’espressione dunghill(mucchio di letame) viene usata dieci volte, dullard (babbeo) due volte, bloddy (maledetto) 226; che i suoi personaggi menzionano l’amore 2.259 volte, ma l’odio soltanto 183; e che in tutto ha vergato 884.647 parole e 118.406 versi. Sappiamo anche che Shakespeare copiava: un’analisi delle parti I, II e III dell’Enrico IVrivela che, su 6.043 versi, 1.771 furono scritti da autori precedenti, 2.373 da lui ma sulle fondamenta posate dai
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LAURENCE OLIVIER
KENNETH BRANAGH
DAVID TENNANT
PATRICK STEWART
IAN MCKELLEN
JUDI DENCH
ANTHONY HOPKINS
EMMA THOMPSON
È stato il maestro di tutti gli attori shakespeariani contemporanei Esemplare rimane la sua interpretazione di Amleto nel film da lui diretto nel 1948, che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista
È l’attore che, raccogliendo l’eredità di Olivier, più di tutti negli ultimi anni ha portato in scena i lavori del Bardo Al cinema è stato Benedetto in Molto rumore per nulla (1993) e Amleto nell’omonimo film da lui diretto (1996)
Il Dottor Who dell’omonima serie televisiva è uno dei più celebri attori del momento Spesso impegnato in tournée con la Royal Shakespeare Company, ha impersonato fra gli altri Amleto e Romeo
Ha alle spalle una carriera teatrale cinquantennale, con numerose interpretazioni shakespeariane È noto al grande pubblico come il capitano Picard nella serie tv Star Trek e il professor Xavier degli X-Men al cinema
Conosciuto al grande pubblico per il ruolo del mago Gandalf nel Signore degli Anelli e del mutante cattivo Magneto degli X-Men Al cinema è Amleto nel film di Giles (1972) e Riccardo III nel film di Loncraine (1995)
Celebre attrice della Royal Shakespeare Company, da metà degli anni Novanta è nota anche per le interpretazioni cinematografiche della regina Vittoria nel film La mia regina (1997) e di Elisabetta in Shakespeare in Love (1998)
Premio Oscar per l’interpretazione di Hannibal Lecter nel film Il silenzio degli innocenti (1991), il celebre attore hollywoodiano è stato in principio un attore teatrale Al cinema ha impersonato Tito nel Titus di Julie Taymor (1999)
Attrice cinematografica, interpreta importanti ruoli in alcuni film tratti da Shakespeare È la principessa Caterina nell’Enrico V di Kenneth Branagh (1989) e Beatrice in Molto rumore per nulla (1993), diretto dallo stesso regista
IL MONDO È TEATRO Nelle foto in alto, da sinistra a destra: Laurence Olivier, David Tennant, Patrick Stewart, Ian McKellen, Judi Dench e, sotto, Anthony Hopkins A centro pagina, da sinistra, cast di stelle per Molto rumor per nulla, film del 1993: Michael Keaton, Keanu Reeves, Robert Sean Leonard, Kate Beckinsale, Emma Thompson, Kenneth Branagh e Denzel Washington A destra, ancora la Thompson
suoi predecessori e solo 1.899 erano interamente farina del suo sacco; così com’è noto che fra le sue fonti spiccano Plauto, Chaucer, Greene, e anche svariati autori italiani, come Boccaccio, Ariosto, Baldassar Castiglione, Torquato Tasso. «Shakespeare aveva debiti in ogni direzione, ed era in grado di utilizzare qualunque cosa trovasse», osserva Ralph Waldo Emerson in uno dei più noti saggi su di lui: anche questo, in fondo, un segno di modernità.
L’incendio del Globe, il grande teatro all’aperto sulle rive del Tamigi dove andarono in scena la maggior parte delle sue opere, contribuì a coprire di mistero e segretezza la sua vita. Ricostruito un’infinità di volte, ora quel teatro si riempie di nuovo ogni estate presentando tutto il repertorio shakespeariano: la stagione attuale si conclude a metà ottobre, e ad ogni rappresentazione vengono messi in vendita almeno settecento biglietti ad appena cinque sterline l’uno, circa sei euro,
Durante le Olimpiadi di Londra del 2012
si aprirà un grande festival shakespeariano
nello spirito del teatro popolare del Sedicesimo secolo, quando Shakespeare sedeva tra il pubblico e a Londra infuriava la peste. Le prime edizioni dei suoi testi teatrali vengono vendute all’asta per milioni di sterline, accanite discussioni sull’autenticità di questo o quel ritratto che lo rappresenta continuano a infuriare tra i critici e gli storici, mentre il Dottor Who calca il palcoscenico di Stratford-uponAvon nei panni di un Amleto in maglione, ma non meno convincente di quello
tradizionale. «Morire, dormire, sognare forse», declama David Tennant nel ruolo del giovane principe di Danimarca, tormentato dal fantasma del padre. E il pubblico alla fine si spella le mani dagli applausi, come avveniva cinquecento anni or sono, come avverrà tra altri cinquecento. Perché avevamo, abbiamo e avremo sempre bisogno del Bardo, per ricordarci che «il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti sono attori». Non soltanto il Dottor Who.
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i sapori
Robusto, allegro, inebriante, permaloso se maltrattato, il sovrano del bosco è un dono straordinario della natura I segreti per ottenere i suoi favori, dalla raccolta alla conservazione, sono semplici ma fondamentali Adesso è il suo momento, perché è questa la stagione
Tesori nascosti
in cui viene maggiormente festeggiato attraverso l’Italia
CLASSICI
Crudi
Secchi
È una lotta golosa tra ovuli e porcini la preparazione a crudo che glorifica i funghi piccoli, sodi, sanissimi, non del tutto schiusi, affettati finemente In progressione, sale, poco limone, extravergine delicato, pepe bianco
Sempre disponibili i boleti sani e maturi, fatti seccare al sole dopo averli affettati. I migliori, grandi, privi di sbriciolature e parassiti, hanno gusto concentrato e intenso. Un’ora di ammollo in acqua tiepida prima di utilizzarli
Porcino il L
Le feste Da Castelpagano (Benevento) a Oriolo Romano (Viterbo), da Quassolo (Torino) ad Albareto (Parma), la seconda metà di settembre è un sontuoso florilegio di sagre, feste, degustazioni, mostre-mercato dedicate al re dei funghi. Non esiste campagna, vallata, zona boschiva esclusa dalla celebrazione a suon di risotti, fritti, zuppe, grigliate Posto d’onore per i tanti eventi che punteggiano l’intera Val di Taro, dove si raccolgono i porcini protetti dall’Igp
unga vita al Re. Se l’ovolo è la Mata Hari del mondo vegetale — lungo, sinuoso, seducente, mortalmente pericoloso nella variante phalloides — il porcino vanta una fisionomia allegra e robusta, da signorotto di campagna, che mette allegria allo sguardo. Ma l’aspetto non inganni: profumo e sapore posso raggiungere vette inebrianti, se solo sappiamo raccogliere rispettando luoghi e tempi di madre natura, e non lo mortifichiamo con preparazioni sbrigative o pasticciate. Re Porcino, infatti, è un poco permaloso. Già in questa prima tranche della stagione fungaiola — finalmente ravvivata dalle prime piogge consistenti — i menù propongono sughi senz’anima e scaloppine acquose che gridano vendetta davanti al dio dei miceti. Se tu mi tratti male, io non ti concedo le mie grazie, minacciano i boleti. Peggio ancora, quando per porcini si spacciano i porcinelli, copie smagrite nel profilo e nel gusto. Al contrario, un porcino dal gambo sodo e dal cappello intatto può far andare in brodo di giuggiole il più restio dei commensali, con un solo oplà sulla griglia e un nonnulla d’extravergine. Mai come nel caso dei funghi — e del loro re — tutto comincia dalla terra. Oltre che permaloso, il porcino è tremendamente selettivo: non può nascere ovunque. Querce e castagne, faggi e betulle sono i suoi alberi preferiti, ma non disdegna tigli e abeti. Quando trova il luogo adatto, si fa in quattro: edulis, reticulatus, aereus, pinacola. Dettagli di diametro e colore li differenziano senza intaccare le qualità tipiche della specie: colori che spaziano elegantemente dal bianco candido al marrone scuro, fine ma intenso aroma di bosco, consistenza carnosa, cedevole solo a un soffio dalla croccantezza. Bisogna volergli bene fin dal primo momento, quando fa capolino dietro un intrico di foglie: tagliarlo alla base con un coltellino affilato, magari passando un dito sulla parte spugnosa per far rilasciare le spore, è come attivare una nursery porcina, in vista della prossima estate. Vade retro sacchetto di plastica — che lo soffo-
Lunga vita al Re LICIA GRANELLO ca —, via libera ai cesti di vimini. Altro orrore, l’ammollo in acqua, che ne intride irrimediabimente le fibre. Spazzolino e panno umido sono più che sufficienti, esattamente come per i cugini tartufi. Anche la conservazione in frigorifero è poco più che un male necessario: per ripararlo dal freddo, quanto meno bisogna avvolgerlo nel sacchetto del pane e riporlo nel cassettone di frutta&verdura. Naturalmente, essendo creatura viva e naturalissima, ogni ora di ritardo nel cucinarlo gli sottrae un pezzetto di fragranza. Il dilemma inquieta doppiamente i fortunati che — grazie alla loro abilità o alla generosità di amici cercatori — si ritrovano con un surplus di porcini: scorpacciata, freezer o essiccamento? Per evitare appesantimenti indesiderati — la proteina d’elezione dei funghi, micosina, è poco e mal assimilata dall’organismo, senza dimenticare i metalli pesanti (cercate i porcini in aree incontaminate!) — meglio pensare a uno stoccaggio adeguato. Come per tutti i cibi ricchi d’acqua, il congelamento a crudo riesce disastroso: molto meglio insacchettarli da cotti, dopo averli spadellati con poco olio, aglio e vino bianco. Per essiccarli, invece, basta affettare ed esporre al sole — evitando l’umidità notturna — e poi chiuderli in scatole o sacchetti ben chiusi. Se il porcino vi attrae in modo irresistibile solo al momento di mangiarlo, la montagna vi è ostile e considerate il camminare un esercizio inutilmente faticoso, nei prossimi fine settimana regalatevi una gita fra Trentino ed Emilia Romagna, dove Re Porcino verrà festeggiato a suon di risotti e trifolature. In caso di termometro in picchiata, una bella fetta di polenta e un bicchiere di rosso serio vi riconcilieranno con i primi spasmi d’autunno.
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Con piccioni E se si è in vena di prelibatezze bisogna incamminarsi verso Can Gaig, nel quartiere Horta, e ordinare un risotto con piccioni e porcini Da MI MANDA PEPE CARVALHO di Manuel Vázquez Montalbán
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Lariano (Roma)
Vattaro (Tn)
itinerari Il romano Angelo Troiani gestisce con i fratelli Massimo e Giuseppe il Convivio Troiani, dove si coniugano tradizione e creatività Tra i piatti più armoniosi, i fiori di zucca con insalata di porcini e guanciale croccante
Avellino
Cinque contrade dall’architettura rurale conservata e protetta, appoggiate ai piedi del Doss del Bue La storia contadina è segnata dai caradori, i carrettieri che si spostavano fra Trento e Feltre vendendo legna, frutti e funghi
Nella cittadina dei Colli Albani famosa per il legname e per lo squisito pane artigianale, i porcini locali vanno in passerella fino a domenica prossima, protagonisti della diciottesima sagra dedicata e di una corposa mostra mercato
Fondata dagli Hirpini a metà strada fra Tirreno e Adriatico, nel cuore della Campania, eccelle nella produzione di tartufi e di funghi, porcini in primis La raccolta comincia a inizio estate, accompagnata da sagre in tutta l’Irpinia
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
ALPENROSE Via Doss del Bue 16 Tel. 0461-848590 Camera doppia da 78 euro, colazione inclusa
A CASA DI ANGELA B&B Via Dante Alighieri 65 Tel. 06-9648131 Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa
TENUTA MONTE LAURA Via dei due Principati 85, località Celzi di Fiorino Tel. 0825-762500 Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
BOIVIN Via Garibaldi 9, Levico Terme Tel. 0461-701670 Chiuso lunedì, menù da 30 euro
IL TORDO MATTO Piazza San Martino 8, Zagarolo Tel. 06-95200050 Chiuso martedì, menù da 50 euro
LA MASCHERA Rampa San Modestino 1 Tel. 0825-37603 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 25 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
FAMIGLIA COOPERATIVA ALTA VALSUGANA Via Marconi 28/A, Caldonazzo Tel. 0461-723145
BOTTACCHIARI FUNGHI Via Roma 356 Tel. 06-96498821
FUNGHI DEL PARTENIO Via Nazionale, Monteforte Irpino Tel. 0825-753003
Trifolati
Grigliati
Fritti
Ricetta adatta ai funghi più maturi, affettati verticalmente e cotti per 10’ In Francia e nord Italia si spadellano con burro e aglio mentre al centrosud si usa l’olio Prezzemolo all’inizio o appena prima di servire
Il trionfo delle cappelle medie e grandi, mature al punto giusto. Si ungono con extravergine aromatizzato con aglio e prezzemolo Braci o fuoco grigliano prima la parte superiore, poi la spugnosa Nel piatto, olio e prezzemolo
Stomaco e fegato a dura prova per una preparazione irresistibile, protagonisti i porcini piccoli dimezzati (e/o medi affettati) Infarinati o impanati in uovo e pangrattato, si cuociono in extravergine
CREATIVI
CREATIVI
Il solo fungo nazionalpopolare LUCA VILLORESI lcuni pensano che sia solo un ingrediente del risotto. Ma il porcino è molto più di un cibo. È un totem, adorato in tutta la penisola. La sola, indiscutibile bandiera dell’unità nazionale micologica, l’unico simbolo che attraversa tutta la storia e la geografia del fungo italiano, da una regione all’altra. E da un’epoca all’altra. Perché, sia chiaro, i funghi non sono sempre stati gli stessi. Quelli di una volta, ad esempio, parlavano solo in dialetto. Negli anni Cinquanta ogni provincia, ogni paese, ogni contrada si tramandavano, oralmente, sul campo, un loro tradizionale, ristretto campionario di funghi mangerecci. Un’iniziazione familiare, legata alle culture locali. Lo stesso fungo era chiamato in modi diversi, da una zona all’altra; e la stessa specie, consumata in una zona, poteva essere considerata velenosa in un’altra. In questa babele c’era un solo esperanto riconosciuto dalla Sicilia al Veneto: il porcino. I funghi “buoni” di una volta erano cinque, dieci, al massimo una ventina di specie, attese al varco di un calendario che andava dalle spugnole ai chiodini, dal disgelo alle brine. Tutti gli altri — mortali, indigesti o semplicemente sconosciuti — facevano la parte dei “cattivi”: i funghi «matti», indifferenziati, se non per qualche particolarità che i bambini dovevano tenere ben presenti: evitare di sniffare il tabacco del diavolo, o di assaggiare la muscaria bianca e rossa piazzata in un bicchiere d’acqua sul davanzale della cucina, per narcotizzare le mosche. Imparare l’abbecedario, comunque, era facile. Tanto più che, alla fine, il precetto fondamentale era uno solo: mirare al porcino. E poi santificare il porcino. Perché nel ciclo chiuso dove chi li raccoglieva era anche chi li mangiava, la «carne dei poveri» era una materia prima che bisognava riconoscere, ma anche saper pulire, cucinare, essiccare, mettere sott’olio per l’inverno. A quei tempi nessuno immaginava che la «brisa» sarebbe diventata un porcino. Anzi, di più: un boletus edulis. L’oggetto di una nuova passione nazionalpopolare. L’unica, saltuaria eccezione era, per l’appunto, il porcino. Ma, fino agli anni Settanta, champignon coltivati a
A
Insalata Marcello e Gianluca Leoni, chef del Sole di Trebbo, Bologna, ingolosiscono i clienti con piccoli bocconi di porcini: mantecato di patate, due insalatine di pollo, pomodori confit, yogurt ai porcini e menta, tartufo nero
Tortino Camminatore e cuoco valente, Filippo Chiappini Dattilo (Antica osteria del Teatro, Piacenza) assembla profumi e sapori d’autunno con i volatili Viustino, allevati in modo naturale, e i carnosi porcini del val di Nure
parte, trovare in commercio dei funghi era praticamente impossibile. L’unico mercato italiano dove si vendevano almeno una decina di specie diverse era quello di Trento. Non a caso. A Trento, nell’Ottocento, con le opere dell’abate Giacomo Bresadola, era nata la micologia italiana. E dalla scuola di Trento, guidata dall’ingegner Bruno Cetto, scoccherà la scintilla della rivoluzione culturale dei funghi italiani. Cetto dirige — è il 1966 — il primo corso per ispettori micologici nei mercati italiani. E pubblica, nel 1970, il primo volume di Funghi dal vero. Fino ad allora il testo base per chi voleva allargare il suo orizzonte in materia restava il Funghi mangerecci e velenosidi Bresadola, pubblicato nel 1899 e illustrato da 120 disegni, anche belli, ma non sempre somiglianti all’originale. Cetto correda le sue schede con le foto di 382 specie (tre successivi volumi ne aggiungeranno altre 1300); dando l’avvio a un boom di pubblicazioni (manuali, dispense, trattati), corsi, gite didattiche. La micologia diventa un’onda che sale; travolgendo i boschi italiani. In Italia, si scoprirà nel corso di quella rivoluzione culturale, ci sono centinaia di funghi commestibili. E almeno una quarantina — una vaginata al burro, una mazza di tamburo panata, un misto di colombine — possono trasformarsi in piatti eccellenti. Nessuno, però, può superare il porcino; tranne l’ovolo, che rimane tuttavia confinato nei consumi d’élite, circondato, per di più, dalla fama sinistra dell’ammazzaimperatori. Così, anche quando l’ampliamento delle conoscenze spinge all’ampliamento del mercato, la parola d’ordine rimane quella: mirate al porcino. Un fungo versatile, che in cucina si presta a varie preparazioni, ma che — anche questo ha la sua importanza — rientra meglio di altri in uno standard che può essere immesso facilmente sui mercati. All’inizio i flussi erano regionali. Poi sono diventati nazionali, in particolare dalla Calabria verso Roma e Milano. Poi il traffico è diventato internazionale, con i Tir frigoriferi che partivano dalla Svezia e oggi dall’Est europeo. Odori e sapori non sono gli stessi. Ma il boleto, il porcino globalizzato, è ancora lì, un totem, al centro della scena.
Sfera Toma d’alpeggio ricoperta da porcini e sedano rapa arrostiti, conditi con timo e santoreggia, nel sasso che rotola sulla salsa di vino rosso e zafferano, dello svizzero-milanese Pietro Leeman. Accanto, brodo di porcini
Paccheri Il campano Rocco Iannone (Pappacarbone, Cava de’ Tirreni) manteca i paccheri nel liquido di scaltritura dei fasolari, aggiunti ai porcini neri Per insaporire: basilico, maggiorana, cubetti di pomodoro e pepe rosa
Consistenze Matias Perdomo e Simon Press ai fornelli del Pont de ferr, Milano. Porcini crudi e saltati con erbe diverse — i gambi col rosmarino, le cappelle col timo —, scorze di pompelmo, dadini di pera, amaranto e caviale di zafferano
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le tendenze
PROVOCAZIONI L’abito di crespo e pizzo nero di Yves Saint Laurent fa parte della provocante “Collection 40” del 1971 © Jeanloup Sieff
Grandi ritorni ARABESCHI Una lampada arabescata come un moderno pizzo Anche il design per la casa segue le tendenze della moda. Ecco il modello in vendita da Coin
ROMANTICO Ha un’impronta romantica l’ombrello creato da Laura Biagiotti Sulla seta impermeabilizzata stampe di antichi pizzi
FETISH Stivali davvero fetish quelli della collezione invernale di Sergio Rossi Ideali per donne dominatrici, si calzano anche con un semplice tubino nero
LACE STYLE Il romanticismo del pizzo mescolato all’aggressività dei colori forti Una versione molto moderna quella che Giuseppe Zanotti dà del “lace style”
VESTIRE IL PROFUMO
GAMBE IN VISTA
È avvolta in una rete di pizzo la nuova fragranza di Diesel. Il marchio creato da Renzo Rosso, ha “vestito” fashion la boccetta di profumo
Stivaletti alla caviglia firmati Roberto Cavalli Con l’inverno le gambe tornano in vista e le ragazze alterneranno scarpe con tacchi a spillo a stivali
un tessuto dai tanti caratteri. Può essere austero o glamour, curiale o super erotico. E ancora: espressione di massima innocenza e, all’opposto, simbolo di grande seduzione. I guardaroba femminili stanno per essere inondati da fiumi di pizzo. Nero o colorato, in pesante macramè o sottile quanto un velo. Chi, tra gli stilisti, ha fatto del pizzo la sua bandiera è Miuccia Prada. Pensando a una donna raffinata, molto austera ma decisamente perversa, ha creato una collezione che sta spopolando su tutte le riviste femminili, accompagnata da numerose altre interpretazioni firmate da stilisti italiani e stranieri. I pizzi imperversano ma quelli di Prada sono speciali, hanno quotazioni alte e sono prodotti, in esclusiva, da maestri svizzeri. La lavorazione è artigianale, fatta su antichi macchinari che permettono di ottenere pochi metri di tessuto al giorno. Il pizzo fa tendenza e contamina anche gli accessori (borse e scarpe) e si insinua persino nel design per la casa con lampade arabescate finemente. Ma che cos’ha di così fascinoso il pizzo che da anni era il re incontrastato della lingerie? «Il pizzo accompagna idealmente la donna lungo tutto l’arco della sua vita — spiega Miuccia Prada — dall’età infantile con il battesimo all’età adulta con il matrimonio, diventando simbolo della vita stessa. Il pizzo esalta la sensualità ma, nonostante le maliziose trasparenze, può risultare casto. E io, per l’inverno che è in arrivo, ne ho fatto un simbolo dello stile Prada». Ma perché proprio adesso torna di moda il pizzo, tessuto che alterna periodi di oblio a momenti di gloria? «Forse siamo arrivati al punto in cui la mo-
da richiede abiti che sono una sintesi tra malizia e preziosità — spiega la stilista Alberta Ferretti — oggi le donne non vogliono una sensualità esibita, ma più ragionata. E il pizzo si presta perfettamente a questo gioco». Di pizzo sono gli abiti per sere ad alta seduzione, i nuovi packaging per i profumi (come l’ultimo creato da Diesel), i decori degli ombrelli (vedi quelli di Laura Biagiotti) e degli stivali di vario genere (tra gli altri, Sergio Rossi, Zanotti, Roberto Cavalli). Ma di pizzo, in tutte le versioni, sono piene le collezioni. Da Armani a Balmain, da John Richmond a Alexander mcQueen, da Chanel a Burberry, da Alessandro dell’Acqua a Viktor & Rolf, da Chloè a Normaluisa. E ancora: da La Perla a Luisa Beccaria, da Dsqyared a Vivienne Westwood i tributi al “lace”, come lo chiamano gli inglesi, e al “dentelle”, per dirla alla francese, sono infiniti. Anche Stella McCartney ha reso omaggio al pizzo, mescolato però allo chiffon «che fa molto donna». John Richmond ha preferito esaltare il «carattere forte e aggressivo del pizzo, proprio come il rock, la musica che amo e a cui mi ispiro sempre nelle mie collezioni». E Giuseppe Zanotti, il designer di calzature, aggiunge: «Il pizzo può avere un’anima audace, quasi gotica. Le mie scarpe-couture sono una sintesi tra il romanticismo del pizzo e l’aggressività punk della rete verde fluorescente sulla quale è adagiato». Angelo Marani, che il pizzo lo usa da sempre, sostiene: «Se ben dosato, sa esaltare la femminilità come nessun altro tessuto». E per non cantare fuori dal coro, anche Brunello Cucinelli, il re del cachemire, ha aggiunto piccoli dettagli di pizzo ai suoi preziosi capolavori in maglia.
È
Austero e perverso per donne maliziose LAURA ASNAGHI
DARK LADY
MACRAMÉ
Per le signore che amano lo stile “dark lady”, Riccardo Tisci, lo stilista italiano che disegna Givenchy, ha mescolato pizzi e voile trasparenti per abiti dalle silhouette ben definite
A dare il via alla passione per il pizzo è stata Miuccia Prada La sua collezione invernale è al cento per cento pizzo macramé, dalle gonne alle camicie, dalle borse alle scarpe
Nero o colorato, impalpabile o pesante, è uscito dalla riserva della lingerie e sta per inondare i guardaroba femminili, ma trova spazio anche nei settori degli accessori e dell’arredamento. Perché, dicono gli stilisti, esalta la femminilità come nessun altro tessuto
CACHEMIRE
CHIFFON
Immaginifico e super creativo, Alexander Mcqueen ha creato abiti per donne regali con pizzi di cachemire che riproducono pavoni, il simbolo della vanità
Come esaltare la sensualità utilizzando chiffon e pizzi neri doppiati con tessuto color carne. Questa è una delle caratteristiche dello stile di Alessandro Dell’Acqua
Repubblica Nazionale
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 14 SETTEMBRE 2008
l’incontro
La musica è la sua vita. Ha inciso decine di dischi, si è esibito migliaia di volte, ha collaborato con i nomi più celebri della canzone italiana “Facendo tutto, seguendo tutto, come un falegname”, dice. Ma non ha mai scalato le classifiche, non è diventato un’icona. Adesso, annuncia, “cantare non mi basta più” Prepara un musical ed è impegnato come testimonial nella lotta contro la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica
Artigiani
Ron
a quarant’anni la musica è la sua vita. Ha inciso decine di dischi, tenuto migliaia di concerti, collaborato con i nomi più celebri della canzone italiana, da Lucio Dalla a Ornella Vanoni, da Francesco De Gregori a Jovanotti. Eppure non è mai diventato un’icona, non ha mai scalato le classifiche, non ha riempito, da star, le pagine dei rotocalchi. Lui ama definirsi «un falegname» della musica, e l’immagine corrisponde: nel suo studio di registrazione, un laboratorio attrezzato e perfetto, cura ogni cosa da sé, parole, musica, arrangiamenti e suono di batteria. È un professionista appassionato che insegue la perfezione e che può tenere, da solo, un concerto di due ore, cantando e suonando il pianoforte o la chitarra. A orecchio, perché la musica la compone, la ama, la lavora, ma non la conosce. Rosalino Cellamare, in arte Ron, di Garlasco in provincia di Pavia, «proprio quella Garlasco, fracassata dalla cronaca e dai media» dove tuttora vive, conserva a 54 anni un aspetto da eterno ragazzo. Arriva all’appuntamento in anticipo. «Sono sempre stato timido», avverte fra qualche silenzio. Ma poi parla di tutto, della sua musica, del suo impegno di testimonial a favore della lotta alla Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una rara malattia neurodegenerativa che paralizza i muscoli volontari di chi ne è colpito (cinquemila solo in Italia), dalle gambe, agli occhi alla parola. Racconta di quando si ammalò il suo amico medico, Mario Melazzini, che ora presiede l’associazione, e del suo essere cattolico, osservante, fervente, almeno da quindici anni, da quando un doloroso evento di famiglia lo avvicinò alla fede. Al collo indossa una croce d’argento e mostra con naturalez-
mi misi a fare l’attore, sei film in tutto fra cui L’Agnese va a moriredi Giuliano Montaldo e In nome del Papa Re di Luigi Magni, dove interpretavo il ruolo di Gaetano Tognetti, quello che fa saltare la caserma. Poi non mi hanno più chiamato, probabilmente non ero un bravo attore». Lavoro, successi, eppure Ron non è mai diventato un divo. I suoi dischi, ad eccezione di Vorrei incontrarti tra cent’anni, mito che vinse Sanremo nel 1996, non hanno mai scalato le classifiche. «La musica è venuta prima di tutto. Non mi sono mai esposto per apparire, sono sempre stato timido e, anche quando andavo spesso in televisione, non mi sentivo a mio agio. Ho collaborato con De Gregori, con Ornella Vanoni, con Jovanotti, con Lucio Dalla e con molti altri. E canto volentieri anche canzoni non mie. Ma accetto quando mi piacciono, altrimenti le rifiuto, è successo tante volte. Negli ultimi anni ho acquisito una nuova consapevolezza. Dopo la malattia di Mario, quando nel 2005 ho voluto fare un disco per la Sla con i
Credo che la gente abbia una voglia pazza di concerti, ma anche di un linguaggio nuovo, fatto di note e di parole. E a me piace raccontare le mie storie
FOTO GRAZIA NERI
D
ROMA
za l’anello che porta all’anulare sinistro. Un Cristo con la corona di spine. «L’ho comprato ad Assisi, ce l’ho sempre con me, da due anni. Vivo la religione da cattolico osservante ma, come ogni persona, a volte trasgredisco… Per fortuna c’è il perdono». Ammette però che a volte certe disposizioni della Chiesa gli fanno rabbia: «Per esempio se penso alle cellule staminali, indispensabili alla ricerca per contrastare la Sla». Ron è un fiume di ricordi, di aneddoti, di parole e di progetti. Il suo ultimo disco, Quando sarò capace d’amare, una canzone di Giorgio Gaber, è uscito tre mesi fa. «Ma per ora non ho motivi per pensare a qualcosa di simile. Adesso cantare non mi basta più. Per il prossimo gennaio sto preparando uno spettacolo; reciterò e canterò in tanti piccoli meravigliosi teatri, in tutta Italia. Poi, fra un anno, un anno e mezzo, manderò in scena un musical tratto dal libroLe voci del mondodi Robert Schneider: già sei anni fa mi ispirò l’omonimo disco che per fortuna (sorride) rimase, come molte altre mie cose, ignorato». Una vita per la musica, senza clamori e senza eccessi. «Ho cominciato a sedici anni e mezzo. Ricordo che da bambino, a otto o nove anni nella mia Garlasco, andavo a cantare a squarciagola nei campi di girasoli. Mi immaginavo che fossero facce, persone che stavano lì per ascoltare me. Erano gli anni Sessanta e c’erano parecchi concorsi per le voci nuove. Io partecipavo spesso, finché nel ‘70 mi chiamarono dalla Rca per un provino. Andai con mio padre, e trovai un uomo seduto su una sedia a rotelle, con una gamba ingessata. Era Lucio Dalla, aveva avuto un incidente d’auto. La canzone era la sua Occhi di ragazza e fu bocciata. Me ne trovarono subito un’altra, era Pa’ diglielo a ma’, e andai a Sanremo in coppia con Nada, arrivammo settimi. Lucio Dalla e Sanremo mi cambiarono la vita, per sempre. L’anno dopo scrissi con Lucio Piazza Grande. All’epoca io facevo solo la musica, i testi erano di Sergio Bardotti, di Lucio Dalla, di Gianfranco Baldazzi. Sempre nel ‘71, sulla mia musica, Dalla scrisse Il gigante e la bambina e decise di darla a me. Era una canzone difficile, che parlava di uno stupro, anche se in forma poetica. E venne censurata. Io la cantai per la prima volta a Un disco per l’estate, con una strofa corretta ad hoc. Con Il gigante e la bambina diventai, ufficialmente, un autore di musica. Mentre i testi, quelli cominciai a scriverli più tardi, nel 1981». All’epoca Ron è ancora Rosalino Cellamare (il nome lo cambierà solo nel ‘79) e quegli anni non scorrono certo lisci. È il periodo dei cantautori impegnati, della politica, dei temi sociali ad ogni costo e i musicisti più commerciali vengono messi da parte. «Successe anche a Gianni Morandi e a Claudio Baglioni, figuriamoci a me. Io soffrivo, ma non riuscivo a scrivere quel tipo di cose. Per me la musica è stata sempre un po’ sacra, non l’ho mai voluta mischiare con altro… Allora
duetti di tanti cantanti, quasi tutti hanno accettato, e questo mi ha dato forza, mi ha fatto sentire bene». Perché, secondo Ron, le sue canzoni non sono mai diventate successi travolgenti? «Io non ho mai venduto molti dischi e il motivo vero non me lo sono mai spiegato. L’Italia è un Paese che non ha una vera cultura musicale, che non considera la musica e non tutela chi la fa. O forse dipende dal fatto che non mi so vendere al meglio. Eppure, in questi quarant’anni, ho tenuto migliaia di concerti nei teatri e nelle piazze, e sempre molto affollati. E ho scritto un centinaio di canzoni, tante, considerando che sono pigro. E ho inciso ventiquattro tra dischi e album. Ho uno studio d’incisione a Garlasco, accanto a casa mia, dove lavorano sia mio fratello che mia sorella e che è a disposizione di chi viene. E sono venuti un po’ tutti. Da Baglioni a Dalla, da Bersani a Jovanotti. Lui è una persona molto generosa: nel 2002 ha scritto per me una canzone bellissima, Sei volata via. Pur sapendo che avrebbe avuto sicuramente successo, me la volle cedere». Ron non sembra sfiorato da invidie e pagelle ai suoi colleghi non ne vuole dare. «Morandi è sempre stato il mio idolo, anche se non apprezza le imitazioni che faccio di lui». Mentre l’amicizia vera c’è con Biagio Antonacci, a cui ha insegnato i rudimenti del mestiere. «Era l’’87, Biagio faceva il carabiniere a Garlasco e mi seguiva sempre con la camionetta. Un giorno mi mandò un mazzo di rose e disse a mia madre che avrebbe voluto incontrarmi, voleva fare il cantante. Io lo aiutai e produssi il suo primo disco. Da allora non è mai cambiato e ho con lui un bellissimo rapporto. Non come tanti altri…». Delusioni? «Ci sono persone che ti usano e poi neanche ti salutano. Succede soprattutto con i più giovani, sono spesso presuntuosi, e pensare che non hanno fatto nemmeno la gavetta. Invece sono molto contento per Giusi Ferrero, che conosco da dieci anni. L’ha scoperta il produttore del suono del mio studio, faceva la cassiera in un supermercato. Canta con una grazia, una delicatezza...». Di dischi suoi però, per ora, Ron non ne vuole sapere. «A farne uno impiego un anno. Io sono un artigiano, un falegname, faccio tutto, e seguo tutto. E, a parte il tempo, quando è finito devo fare una fatica bestiale per far sapere che esiste. Molte radio non trasmettono più un certo tipo di cantanti, preferiscono gli americani. Il fatto è che è finito un certo mondo della tv, della radio. Adesso non si mandano in onda i professionisti, ma solo ciò che è trendy. E dunque pezzi nuovi mai, a meno che non siano di Tiziano Ferro o di Jovanotti che, appunto, fanno tendenza. Io, di sicuro, tendenza non la faccio. Sono molto arrabbiato con i nostri politici, con tutti. Si vantano spesso di amare la musica, ma non fanno nulla per difenderla. Eppure basterebbe una legge come quella che c’è in Francia, dove nelle tv e radio pubbliche deve andare in onda il settanta per cento di musica nazio-
nale e solo il trenta per cento di quella straniera». Ron vuole parlare della Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia che non si cura e che toglie ogni vita ai muscoli volontari. «Non si sa perché colpisca e quando. Ne soffrono l’ex calciatore del Milan Stefano Borgonovo e almeno cinquemila persone in Italia. L’ho scoperta cinque anni fa, quando si ammalò il mio amico Mario Melazzini, un oncologo neanche cinquantenne. Ora Mario è presidente dell’Associazione Aisla e io sono il testimonial. Il 18 settembre prossimo ci sarà a Roma la prima giornata nazionale contro la Sla e domenica 21 l’Aisla sarà presente in almeno quaranta piazze italiane». Ron guarda al futuro, senza sgomitare. Proprio come ha sempre vissuto. «Credo che la gente abbia una voglia pazza di concerti, ma anche di un linguaggio nuovo, fatto di musica e parole. E a me piace parlare, raccontare le mie storie. Vedo il mio futuro su un palco, da solo, con la mia musica e i miei argomenti. Voglio fare quello che sento, non quello che fa successo. Adesso ho ancora qualche concerto in calendario, il prossimo il 18 settembre sera a Chianciano, al festival dell’Udc, e non sono certo dell’Udc… Anzi io sono sempre stato di sinistra, non socialista però, anche se ero molto amico dei figli di Craxi, di Bobo e di Stefania. Ma ora sono deluso e confuso, così vado a fare concerti per chi mi chiama, a meno che non trovi un partito che si occupi della musica con un po’ più di rispetto. Dopo Chianciano sarò in Sicilia, per altri concerti. Poi mi fermo. Devo preparare il mio spettacolo, ho poco tempo. Poi verrà il meraviglioso musical Le voci del mondo. Il disco lo feci sei anni fa ma, poiché non venne promosso, non lo conosce nessuno. Così ora lo ritiro fuori...». Progetti sempre più lontani dal business: «Un’epoca è finita e quella che c’è non mi piace».
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SILVANA MAZZOCCHI
Repubblica Nazionale