DISPENSA N. 2 PSICHIATRIA I PSICHIATRIA II
REDATTO A CURA DEL DOTT. LUIGI ACANFORA SUPERVISORE SCIENTIFICO PROF. MASSIMO DI GIANNANTONIO
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INDICE
1.
CHE COS’È LA PSICHIATRIA………………………………………………………………………….. .5
2.
LE CAUSE DELLE MALATTIE PSICHIATRICHE…………………………………………………….. .5
3.
IL RUOLO DEGLI OPERATORI PSICOSOCIALI……………………………………………………… .6
4.
COME FUNZIONA IL CERVELLO: ANALISI E FUNZIONI……………………………………………7
5.
LE PRINCIPALI MALATTIE MENTALI: CENNI DI PSICOPATOLOGIA…………………………… .8
6.
LE DISFUNZIONI PATOLOGICHE ORGANICHE: IL RITARDO MENTALE……………………… 14
7.
CENNI DI PSICOFARMACOLOGIA…………………………………………………………………… 15
8.
NUOVE VIE DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA……………………………………………………17
9.
RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA…………………………..18
10.
CRITERI GENERALI PER LA SCELTA DEI SOGGETTI DA AVVIARE AD UN PROGRAMMA DI REISERIMENTO LAVORATIVO……………………………………………………………………19
11.
COME SI FA UN PROGETTO DI INTERVENTO……………………………………………………. .21
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1. CHE COS’È LA PSICHIATRIA Il termine psichiatria, dal greco psukè e iatria, indicherebbe alla lettera una medicina della “mente”. Psiche, infatti, ha il significato di mente, nel nostro senso moderno (la parte superiore delle attività del cervello, il pensiero, il sentimento, la personalità), ma anche di “anima”, non nel senso religioso, ma nel senso di parte del modo di essere e di sentire che è inalienabilmente propria della specificità di ogni individuo umano. Un termine disusato, “freniatria”, indicherebbe più direttamente e riduttivamente in senso biologico una medicina del “cervello”. Ancora oggi capita di vedere persone, anche di sufficiente cultura, confondere la psichiatria con la neurologia e nell’uso comune si parla di malattie di “nervi” o di “crisi di nervi” o di “esaurimento nervoso”. In realtà la psichiatria ha più anime che spesso si sono scontrate e spesso hanno convissuto: un’anima medica ed una umanistica. Sicuramente l’attenzione al “sistema nervoso” e al “cervello” è antichissima, come è antichissima l’idea, insita nel noto aforisma di Greisinger: “le malattie della mente sono malattie del cervello”. Basterà pensare che già l’antico greco Areteo di Cappadocia aveva intuito la natura di malattia della depressione ed il suo rapporto con la mania. La medicina si è sempre occupata di cercare cause biologiche alle cosiddette malattie mentali; si pensi ad esempio che il nome ”isteria” deriva dal nome greco dell’utero, che gli antichi credevano si muovesse irregolarmente nelle donne “nervose” e il nome melanconia, che indica una grave depressione, deriva dal nome greco della bile, che gli antichi credevano secreta in eccesso. Oggi si hanno teorie maggiormente scientifiche e si sa che l’alterazione della produzione di certi neuromediatori chimici nel cervello ha una funzione di rilievo nelle più gravi malattie mentali. Per esse, come vedremo, esistono anche dei farmaci che contribuiscono alla loro cura correggendo in parte tali difetti. Parallelamente la scienza umana ha sempre centrato la sua attenzione anche sulle cause psicologiche e sociali delle malattie mentali. Anticamente erano chiamati in cause sia fattori di ordine religioso e morale che alterazioni nell’igiene di vita, come ad esempio abitudini alimentari sbagliate. Questi elementi rimangono nella medicina di altri popoli non europei. Da sempre è stata data importanza alla reazione dell’uomo di fronte ad eventi stressanti e frustranti e al rapporto di certe personalità predisposte e sensibili (si parla di particolari “temperamenti”) con l’esistenza e le sue difficoltà e domande esistenziali. Oggi si sa che le esperienze dei primi anni di vita, gli stress dell’esistenza, l’ambiente sociale hanno tutti importanza almeno concausale nello scatenarsi delle malattie mentali. 2. LE CAUSE DELLE MALATTIE PSICHIATRICHE Anche le teorie scientifiche moderne tengono conto di queste due anime, seppure talora alcuni psichiatri tendano a pensare che l’ordine di cause di cui si occupano (siano esse biologiche o psicologiche) sia il più importante quando, non l’unico (si parla di riduttivismo o di causalismo lineare). In realtà quasi nessun fenomeno della natura ha una causalità lineare: più cause si rinforzano e si modificano l’un l’altra (causalismo circolare). Facciamo, per meglio comprendere, l’esempio specifico: nella schizofrenia sono state osservate delle modificazioni biologiche: aumento della secrezione di dopamina, dilatazione dei ventricoli celebrali. Del pari si conoscono una serie di concause psicologiche: alterazioni delle dinamiche affettive e delle esperienze della prima infanzia, eventi scatenanti della vita, situazioni sociali. Tuttavia non tutti i soggetti che hanno una dilatazione dei ventricoli celebrali sviluppano la schizofrenia; inoltre la schizofrenia non si manifesta alla nascita. Del resto molte persone che hanno vissuto spaventevoli traumi psichici non diventano schizofrenici. Oggi, la più accreditata visione d’insieme poggia su una teoria detta della “vulnerabilità”. Ciò che esiste già alla nascita è una predisposizione ad ammalarsi; un certo alterato metabolismo del cervello che mostra i suoi limiti solo di fronte a situazioni di forte stress. Perché la persona si 5
ammali bisogna, tuttavia, che si sovrappongano anche concause di ordine ambientale. A proposito della circolarità delle cause, va ricordato, inoltre, che alcuni comportamenti psicologici patologici possono anche rappresentare tentativi maladattativi di superare i limiti imposti dai limiti biologici congeniti. Ciò accade ad esempio quando la persona, anche solo nevrotica, continua a mettere in atto meccanismi di difesa maladattativi nonostante ne conosca l’inefficacia. Ad esempio il sig. X sa benissimo che rimanere fortemente legato a sua madre a quarant’anni non l’aiuta a superare la sua depressione sentendosi più forte e sicuro ma non riesce egualmente a separarsene. Ma il sig. X, proprio a causa della sua depressione, non ce la farebbe a tollerare il necessario distacco. La circolarità delle cause produce spesso circoli viziosi o “perversi”. Noi non possiamo sapere se nella depressione del sig. X sia nato prima un metabolismo della serotonina che tende a produrne troppo poca o una madre a sua volta ansiosa e castrante (come nel gioco dell’uovo e della gallina). Non possiamo neanche sapere se la madre è a sua volta ansiosa e castrante perché quella alterazione del metabolismo della serotonina è genetica in quella famiglia o perché l’ambiente familiare e sociale ha in qualche misura “insegnato” a quella famiglia un certo stile di relazione. Meglio sospendere il giudizio quando non si può stabilire una causalità lineare (epochè). Allo stato attuale delle conoscenze appare chiaro, ed è stato evidenziato anche da studi sperimentali, che il modo migliore di affrontare la depressione del sig. X è quello di utilizzare INSIEME una terapia con farmaci antidepressivi ed una psicoterapia. Agendo sui due agenti si hanno maggiori possibilità di spostare il punto di regolazione del sistema omeostatico: di trasformare il “circolo vizioso”, per usare un’espresssione di Watzlawick, in un “circolo virtuoso”. Il farmaco antidepressivo, agendo sul metabolismo della serotonina, farà sentire X più forte e sicuro; nella psicoterapia comprenderà le cause psicologiche del suo comportamento potendo meglio riuscire a separarsi da sua madre o, quanto meno, ad accettare la sua impossibilità di separarsene valorizzando altri aspetti della sua vita ed evitando comunque di essere totalmente schiacciato dalla madre. L’esempio che abbiamo fatto riguarda una depressione nevrotica; nelle gravi malattie psichiatriche tuttavia, queste due cose, i farmaci e la psicoterapia, non bastano: è qui che abbisogna anche il vostro aiuto. 3 IL RUOLO DEGLI OPERATORI PSICOSOCIALI Nelle più gravi malattie psichiatriche, la schizofrenia, i ritardi mentali ed i più gravi disturbi dell’umore, ed inoltre nella riabilitazione di persone mentalmente sane che hanno gravi malattie fisiche, psicofarmaci e psicoterapie da soli non bastano e ciò per una serie di motivi; vediamone alcuni essenziali: 1) Mancanza di abilità primarie: una persona che, ad esempio, ha una grave alterazione del pensiero in senso delirante o addirittura un grave disturbo del linguaggio non potrebbe né accettare una psicoterapia né, salvo alcuni casi, giovarsene. 2) Modifica diretta delle abilità: una persona incapace di gestirsi, di lavorare, di stare in relazione con gli altri può avere bisogno di un intervento diretto su queste abilità parallelamente ad altre attività terapeutiche. 3) Modifica diretta delle situazioni stressanti: ad esempio una persona incapace di avere relazioni sociali può avere bisogno di partecipare ad attività di gruppo; oppure ad uno schizofrenico, figlio di un alcolista violento e di una madre depressa, può giovare il frequentare in day-hospital un Centro dove incontrare altre persone che lo valorizzano e lo ascoltano, e così via. Gli operatori psicosociali non sono psicoterapeuti né psicologi ed hanno le seguenti funzioni: 1) insegnamento diretto di abilità 2) osservazione del paziente e collaborazione con l’equipe per creare programmi individualizzati 3) sostegno, ascolto, aiuto personale, incoraggiamento del paziente 4) collaborazione con l’equipe alla gestione di problematiche psicosociali ed ambientali. 6
L’equipe deve avere al suo interno altre figure professionali: - lo psichiatra (psicofarmacologo e psicoterapeuta) - lo psicologo (psicodiagnosta e psicoterapeuta) - l’assistente sociale - in alcuni casi anche: il medico internista e l’infermiere professionale Altre figure professionali possono essere: - mediatori d’azienda e pubblic relations man - epidemologi ed esperti di elaborazione dati. L’operatore psicosociale ha importanti funzioni specifiche, non deve fare di tutto un po’ quello che attiene agli altri ruoli. La gestione moderna del paziente psichiatrico, avvalendosi di programmi residenziali e domiciliari volti alla riabilitazione psicosociale e al reinserimento, ove possibile sociale e lavorativo della persona, promovendone al massimo l’autonomia personale, quando possibile perfino abitativa, non può prescindere dall’ausilio fondamentale di operatori psicosociali. Queste figure, in passato spesso dalla professionalità del tutto improvvisata, devono essere sempre più formate ad hoc per questo difficile compito. 4. COME FUNZIONA IL CERVELLO: ANALISI E FUNZIONI E’ uso comune paragonare il cervello al computer, ma questa metafora non è esatta. E’ infatti il computer che è stato creato dall’uomo a somiglianza di alcuni aspetti del suo cervello. Cosa fa il cervello umano? Analizza continuamente stimoli dall’esterno e dall’interno del corpo (inputs) e produce risposte (outputs). Gli stimoli possono essere sensoriali, ma anche emotivi, sociali, ecc. E così le risposte, che possono essere motorie ma anche comportamentali, emotive, ecc. Dall’esterno noi riceviamo stimoli ambientali di natura fisica ed emotiva; dall’interno riceviamo stimoli di natura fisico-chimica (ormoni, neuromediatori, ecc.). Anche le emozioni ed i comportamenti possono essere considerati come un insieme di stimoli, analisi e risposte, ed anche comportamenti ed emozioni funzionano in maniera fisico-chimica; ma non si può ridurre solo a questo la complessità del pensiero umano. Ad esempio, una persona innamorata può fare per il suo partner delle cose che vanno contro l’immediato vantaggio biologico, come innamorarsi ed amare un partner meno ubbidiente, potente o adeguato per la riproduzione: Che dire poi di attività come l’arte, la politica, l’erotismo o la religione? Esiste una parte del cervello, molto ampia, che è sviluppata quasi solo nell’uomo: questa è costituita dalla corteccia frontale e parte della temporale che manca in altri animali o é poco sviluppata. E’ quella che svolge funzioni cosiddette “superiori”. Non si tratta di funzioni “pure”, l’uomo ha un cervello che si distingue soprattutto per la ricchezza delle “associazioni”. Procediamo con ordine: se mettiamo una mano sul fuoco, sentiamo dolore e subito la ritraiamo: questo è un arco riflesso: lo stimolo doloroso arriva al midollo spinale per le vie nervose sensitive e torna alle placche muscolari per le vie motorie. In questa azione non c’è bisogno del cervello, perfino organismi unicellulari hanno i riflessi. L’uomo impara che cosa dà dolore e cosa piacere. Sceglie di non avvicinarsi al fuoco sulla base di ricordi ed apprendimenti (condizionamenti). Già per questa attività c’è bisogno della funzione degli strati più interni del cervello. Questi strati più interni (ippocampo, amigdala, ecc.), che costituiscono il sistema libico, provvedono anche ad alcune funzioni biologiche fondamentali, (quali la regolazione ormonale dei ritmi biologici: asse ipotalamo-ipofisi-surrene-gonadi), e dagli istinti primari (fame, sonno, appetiti sessuali, aggressività, difesa, ansia, ecc.). Questa parte più interna del cervello è sviluppata anche in animali molto inferiori all’uomo nella scala evolutiva; è anzi, in questi, particolarmente sviluppata. (Ad esempio le strutture olfattive 7
sono più sviluppate in altri animali, detti “macroosmatici”, che scelgono il partner sessuale sulla base dell’odore, a differenza dell’uomo. L’uomo d’altra parte cerca di riparare in qualche modo ad alcune cose che ha perso nel corso dell’evoluzione; nel caso suddetto ad esempio, con l’uso di profumi). Nessun uomo canta un canto d’amore come un uccello, ma mette lo stereo in macchina per uscire con la ragazza. La parte più interna del cervello, che provvede a drives motivazionali biologici essenziali è già presente nei rettili ,tant’è che viene anche chiamata cervello rettiliano (McLean). Nell’uomo, la maggior parte della massa cerebrale è occupata da aree con funzioni associative. La parte superiore del cervello, tipicamente umana, è depositaria di funzioni superiori (come il pensiero, la moralità, ecc.). Si è spesso cercato di trovare le aree del cervello che provvedono a specifiche funzioni, tuttavia questo è possibile solo per funzioni motorie e sensoriali essenziali. I frenologi (Gall) all’inizio del secolo volevano trovare aree specifiche nel cervello per funzioni come l’amore o la creatività artistica ma rimasero delusi. Vennero poi le teorie “di massa”, in cui si pensava che tutte le cellule cerebrali (neuroni) svolgessero le stesse funzioni (cioè partecipassero a tutte le funzioni). Oggi, superate le teorie di massa, si sa, anche con l’ausilio di tecniche scientifiche moderne, (come “l’Emissione di Positroni”), che le funzioni superiori non dipendono dall’attività di specifiche aree del cervello superiore, ma dall’attività di circuiti complessi e tuttavia specializzati. Facciamo un esempio: io preferisco i vestiti rossi ai bianchi. Il mio cervello rettiliano ha la motivazione, sulla base del mio carattere,( forse congenita o forse influenzata da precoci esperienze infantili), a scegliere un colore aggressivo; le mie aree associative hanno “imparato” a ricordare esperienze e insegnamenti piacevoli relativi al rosso e danno un segnale positivo quando dalle vie sensoriali, che vanno dal nervo ottico alla corteccia occipitale e di qui alle aree associative temporali, arriva l’informazione che il mio occhio sta osservando un vestito rosso; anche l’attuale moda mi spinge a prediligere il rosso; i miei lobi frontali non considerano disdicevole vestire in rosso; se fossi in lutto, la parte superiore del mio cervello, tipicamente umana, mi costringerebbe a non mettere il vestito rosso. Grosso modo, quindi per riassumere, possiamo dire che il cervello è diviso in tre sezioni. le aree più interne elaborano stimoli biologici essenziali e provvedono a funzioni istintive ed automatiche; le aree circostanti provvedono ad elaborare stimoli sensoriali più complessi e li correlano ai pensieri, ai ricordi, ecc e all’attività delle aree superiori; le aree superiori provvedono a funzioni superiore (il pensiero umano). Tutte queste aree sono ampiamente correlate tra loro e adattano la loro funzione all’ambiente esterno con continui meccanismi di feed-back. I primi ad intuire questa struttura a tre sezioni del cervello umano furono gli scienziati sovietici cinquant’anni fa (Leont’ev, Luria, ecc). Oggi le cose si sono fatte ancora più complesse ma questa descrizione semplificata, seppur valida, può essere sufficiente ai nostri fini esplicativi. Ricordiamo: le azioni umane sono sempre complesse e non riducibili a meccanismi stimolorisposta semplici. Noi non conosciamo ancora (e forse non la conosceremo mai) la vera natura della MENTE umana, che non è del tutto sovrapponibile al cervello. Ogni uomo è e rimane sempre diverso da ogni altro. In generale possiamo dire che strutture e modalità di funzionamento sono comuni a tutti gli individui ma i contenuti del pensiero e dei sentimenti sono sempre soggettivi e dipendono da differenze individuali (esperienze, personalità, ecc), sia nelle persone cosiddette sane che nelle persone sofferenti di psicosi. 5. LE PRINCIPALI MALATTIE MENTALI: CENNI DI PSICOPATOLOGIA Le varie teorizzazioni hanno prodotto proprie nosografie, cioè proprie classificazioni delle malattie. Tuttavia per potere meglio comunicare tra loro psicologi e psichiatri di tutto il mondo, sebbene spesso non soddisfatti dei criteri di definizioni utilizzati, hanno concordato di definire 8
un certo numero di sindromi psichiatriche in classificazioni internazionali che vengono tuttavia, periodicamente riviste. La classificazione europea attualmente in uso è l’ICD10; quella più diffusa internazionalmente è l’americana DSM IV. Quest’ultima considera le seguenti categorie: 1. disturbi infantili 2. delirium, demenza ed altri disturbi cognitivi 3. disturbi mentali dovuti ad una condizione medica generale 4. disturbi correlati ad uso di sostanze 5. schizofrenia ed altri disturbi psicotici 6. disturbi dell’umore 7. disturbi d’ansia 8. disturbi somatoformi 9. disturbi fittizi 10. disturbi dissociativi 11. disturbi sessuali o dell’identità di genere 12. disturbi dell’alimentazione 13. disturbi del sonno 14. disturbi del controllo degli impulsi 15. disturbi dell’adattamento 16. disturbi di personalità Una diagnosi differenziale è un compito non sempre facile ed è affidato ai medici specialisti in psichiatria ed agli psicologi. Per quanto riguarda gli operatori psicosociali vi sono alcune osservazioni generali da fare: Nei DISTURBI PSICOTICI e nei DISTURBI DELL’UMORE è spesso alterato il senso di realtà della persona fino al delirio. Ricordate che interpretare un delirio o contrastarlo è generalmente poco utile. Tuttavia è utile che l’operatore porti il soggetto il più possibile a compiere attività realistiche e provi continuamente a farsi “ambasciatore” della realtà. Ricordate che la realtà non è ciò che voi pensate sia vero. Nei DISTURBI DELL’UMORE E NEI DISTURBI DI PERSONALITA’ è alterata l’autostima e il senso di identità personale.Lavorate sempre in considerazione di questo fatto. Nei DISTURBI A GENESI INFANTILE prevale l’alterazione cognitiva (ritardo mentale, ecc.): ricordate che anche una persona con grave deficit intellettivo ha coscienza di ciò e ne soffre; non va trattata come fosse un bambino né maltrattata; ricordate inoltre che spesso gli insufficienti mentali hanno vissuti psicotici fino a veri deliri. La psicopatologia generale di scuola tedesca si è occupata si è occupata delle singole alterazioni, che possono essere presenti in diverse malattie. E’opportuno non fare confusione tra questi diversi fenomeni; da questo punto di vista si distinguono: - alterazioni formali del pensiero - alterazioni contenutistiche del pensiero (idee prevalenti, deliri, ecc). - alterazioni del linguaggio - alterazioni dell’umore e dell’affettività - alterazioni della memoria - alterazioni dell’attenzione - alterazioni della volontà - alterazioni dell’istintualità (sonno, cibo, sesso). 9
Queste, come dicevamo possono trovarsi in diverse malattie. Ad esempio: un insufficiente mentale ha un pensiero formalmente alterato, ma anche uno schizofrenico a sintomatologia negativa; uno schizofrenico ha deliri (disturbi contenutistici del pensiero) ma può averne anche un depresso (delirio di rovina) e un ossessivo (idee prevalenti). Una distinzione semplice ma efficace è quella che prevede: 1) disturbi primariamente intellettivi: oligofrenie (cioè ritardi mentali a genesi dall’infanzia) e demenze (senili) 2) nevrosi o disturbi di personalità (la persona ha problemi intrapsichici ed interpersonali ma non ha grossolane alterazioni cognitive ed ha un giudizio di realtà sostanzialmente intatto) 3) psicosi: la persona ha deliri e allucinazioni ed ha un alterato giudizio di realtà. Gli operatori psicosociali dovranno cimentarsi per lo più con soggetti schizofrenici, con gravi disturbi dell’umore e con ritardi mentali. Sul ritardo mentale si legga il capitolo successivo. Qui descriveremo brevemente la schizofrenia e i disturbi dell’umore. SCHIZOFRENIA: Fin dalle origini della psichiatria moderna è risaputo che diverse malattie (catatonia, vesania di Kalbaum, dementia praecox e paranoia) erano espressioni di una stessa sindrome che Kraepelin chiamò “dementia praecox”. Bleuler la definì, nel 1911, schizofrenia, poiché non si tratta di una demenza (perdita di capacità intellettive) ma di un disturbo del pensiero caratterizzato soprattutto dalla “Dissociazione” (Spaltung), in greco: Schizo=dividere, Frenos=mente). Per dissociazione si intende, in senso generico, la separazione o l’isolamento o la discordanza delle funzioni psichiche con conseguente frammentazione dello psichismo; in senso più ristretto, la dissociazione del pensiero, cioè la perdita dei legami associativi tra le idee. Descrivere tutti i vari sintomi e caratteristiche del modo di essere, pensare e agire dello schizofrenico esula dai nostri compiti ed è cosa difficile perfino per i medici non specialisti in psichiatria o psicologi che non abbiano una specifica formazione clinica. In generale diremo che gli aspetti principali sono dati da: - deliri - allucinazioni - altri disturbi del pensiero - Inoltre un particolare comportamento improntato da : tendenza paranoide tendenza autistica ambivalenza anaffettività DELIRIO: Per delirio si intende una persistente ed immutabile convinzione di qualcosa che appare alla maggior parte degli altri come irreale. I deliri possono essere di vario tipo (riferimento, genealogico, somatico, mistico, messianico, inventorio, di gelosia, erotico, ecc) ma hanno tutti la caratteristica di essere legati ad un accentramento dei pensieri e dell’interpretazione degli eventi su di sé (autoriferimento) e dalla presenza di vissuti di persecuzione (paranoidi). Nel disturbo delirante (paranoia), il delirio si dice “strutturato”; c’è uno o più specifici deliri su temi fissi in una persona che su altre aree funziona correttamente. Il delirio è un disturbo del “contenuto del pensiero”. Nella paranoia non ci sono disturbi “formali” del pensiero (quali un modo sgrammaticato o particolare di parlare, con associazioni bizzarre e fantasiose, significati privati che solo la persona comprende, paralogie, neologismi, ecc.).
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Ad esempio: un paranoico potrà dirci con tutta serietà che i marziani vogliono ucciderlo ma è in grado di parlare con noi anche di calcio con competenza; uno schizofrenico disorganizzato potrà dirci, ad esempio, che: “i cavoli che piantava mio nonno erano blu come l’astronave da cui scendono i fiori…”. Quest’ultimi sii chiamano deliri “bizzarri” o “incongrui”. ALLUCINAZIONI: Le allucinazioni consistono in percezioni in assenza di oggetto. Le allucinazioni degli schizofrenici sono per lo più uditive. Si tratta di VOCI che dialogano con loro, oppure impongono di fare delle cose, oppure fanno commenti o insulti. Altre volte si tratta solo di fastidiose frasi senza senso o di stimoli elementari (urla, fischi, ecc.). ALTRI DISTURBI DEL PENSIERO: Gli schizofrenici hanno sovente la sensazione di essere privi di confini con l’altro. Il pensiero può essere influenzato o rubato così come possono credere di comunicare con il pensiero. Il senso di identità può essere talmente alterato da portare ad identificarsi con gli altri e con le cose, fino a parlare in terza persona o a sostituire la comunicazione verbale con azioni che ritengono significative. TENDENZA PARANOIDE: Vedi sopra il concetto di “autoriferimento”. AUTISMO: Rappresenta una tendenza delle persone a richiudersi in un proprio mondo psichico privato e a non interagire con gli altri. AMBIVALENZA: I termini conflittuali dell’amare e odiare; del desiderare un legame e al contempo danneggiare il partner o allontanarsene; del darsi all’altro e del non lasciarsi avvicinare; del volere e temere al contempo una stessa cosa, aspetti comuni a tutti gli uomini e, più o meno consapevolmente alterati nelle persone nevrotiche, raggiungono nello schizofrenico i gradi estremi. ANAFFETTIVITA’ La capacità di provare sentimenti e di legarsi ad altri, di compartecipare alle emozioni degli altri, è fortemente alterata. Del pari anche per quanto riguarda la sua stessa persona lo schizofrenico vive emozioni intense ma mutevoli e non è capace di provare un vero piacere nelle cose ( “anedonia”).
FORME CLINICHE DELLA SCHIZOFRENIA: Il DSM IV distingue le seguenti forme della schizofrenia: 1) TIPO PARANOIDE:
A) Preoccupazione relativa ad uno o più deliri o frequenti allucinazioni uditive B) Nessuno dei seguenti sintomi è rilevante(cioè non ci sono o sono scarsi-ndr): eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, affettività appiattita o inadeguata. 2) TIPO DISORGANIZZATO: Un tipo di schizofrenia in cui risultano soddisfatti i seguenti criteri: A) Sono IN PRIMO PIANO tutti i seguenti: Eloquio disorganizzato Comportamento disorganizzato Affettività appiattita o inadeguata B) Non risultano soddisfatti i criteri per il tipo catatonico. 11
3) TIPO CATATONICO: Prevalgono arresto motorio fino all’immobilità stuporosa oppure eccessivo movimento con crisi pantoclastiche, ecolalia ed ecoprassia (ovvero ripetizione di parole e movimenti degli altri “a pappagallo”), negativismo, mutacismo, ecc. 4) TIPO INDIFFERENZIATO: Sono rispettati i criteri A) ma non i B) di paranoide o disorganizzato 5) TIPO RESIDUO: A) Assenza di sintomi eclatanti B) Persistenza del disturbo in forma attenuata, come ad esempio qualche convinzione strana, esperienze percettive inusuali, ecc. Esistono altre forme minori della schizofrenia distinte per la compresenza di disturbi dell’umore (forme schizoaffettive) o per particolarità del decorso (disturbo psicotico breve), ecc. sui quali non ci dilunghiamo in questa sede. Ricorderemo solo la PARANOIA, che oggi è chiamata DISTURBO DELIRANTE. Si tratta di deliri strutturati su cose sufficientemente credibili (tipo: “il mio datore di lavoro mi perseguita perché è innamorato di me o mi invidia, ecc”) in presenza di un funzionamento psicologico, cognitivo e sociale grossomodo normale. Queste persone non hanno a che fare con i programmi riabilitativi, anzi spesso non accettano né ricevono neppure una diagnosi o terapia; tuttavia i loro rapporti interumani sono spesso assai alterati in conseguenza del delirio e coesistono spesso gravi disturbi della personalità. Alcune persone paranoiche (NON CONFONDERE PARANOIDE, TIPO DI SCHIZOFRENIA, CON PARANOICO) hanno grandi capacità e successo in funzioni di potere. Tuttavia fanno il vuoto nelle relazioni in torno a sé e inducono grandi sofferenze in chi gli è vicino affettivamente. (Non infrequenti i deliri condivisi). DISTURBI DELL’UMORE: Vari termini come: CICLOTIMIA, PSICOSI MANIACO-DEPRESSIVA, SINDROME BIPOLARE hanno indicato, nella storia della psichiatria, l’alternarsi di fasi maniacali e depressive nella stessa persona. Che mania e depressione potessero essere correlate come fase di una stessa malattia era già noto persino agli antichi medici greci, come Areteo di Cappadocia. Depressione e mania sono state spesso definite “PSICOSI” perché, come nella schizofrenia, possono essere, nei casi più gravi, contraddistinte anche da delirio, per esempio “deliri di colpa” nella depressione; “deliri di grandezza” e “paranoici” nella mania. La depressione può essere una malattia molto invalidante perché interferisce gravemente sulle possibilità della persona di vivere la sua vita di relazione e sociale e può condurla fino al suicidio. Anche la mania, nonostante il paziente sembra sentirsi fin troppo bene, lo conduce spesso a comportamenti inadeguati, ad esempio spese incongrue, delle quali subirà le conseguenze. La nosografia moderna distingue vari tipi di disturbo: - episodi ipomaniacali - episodi maniacali - episodi depressivi - due diversi tipi di disturbo bipolari distinti per la tipologia e la durata degli episodi. La depressione è generalmente il file-rouge che unifica l’esperienza ciclotimia; altre volte episodi depressivi intervengono ad interrompere il fluire di una personalità prevalentemente ipomaniacale. Altre volte ancora sono episodi maniacali che intervengono su un substrato abitualmente depressivo.
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SEGNI E SINTOMI DI MANIA SONO: Aumentata energia e attività, iperattività motoria, velocità dell’ideazione fino alla “fuga delle idee” e velocità nel parlare Umore eccessivamente “alto” o euforico Estrema irritabilità e distraibilità Disturbi del sonno Irrealistica stima delle proprie capacità e della propria potenza Giudizio di realtà alterato (talora fino a deliri megalomanici e/o paranoici) Comportamenti anomali (scelte avventate nel lavoro e nelle relazioni, “affari” economici controproducenti, spese incontrollate, attività pericolose, ecc.) Aumentata attività sessuale Abuso di droghe, in particolare cocaina, alcol, e benzodiazepine Comportamenti provocatori, intrusivi o aggressivi SEGNI E SINTOMI DI DEPRESSIONE SONO: Continua tristezza, ansia o umore depresso Sentimenti di disperazione e pessimismo Sentimenti di colpa, di fallimento, di impossibilità di essere aiutati, di mancanza di futuro Perdita di piacere e di interesse per comuni attività compreso il sesso Perdita di energie, senso di fatica, sensazione di “sentirsi giù” Difficoltà a concentrarsi, ricordare, prendere delle decisioni Apatia e/o irritabilità Disturbi del sonno Perdita di appetito, perdita o aumento di peso Sintomi ipocondriaci e/o patofobici Idee suicidiarie fino ai tentativi di suicidio e al suicidio vero e proprio Oggi disponiamo di terapie farmacologiche che sono un valido aiuto nell’attenuare le disabilità relative a tali patologie. Come tutte le cosiddette malattie mentali, queste sindromi sono provocate da un insieme di concause biologiche e psicologiche e provocano disagi sia fisici che psichici. La più corretta terapia è sempre una associazione di cure farmacologiche, psicoterapeutiche e psicoriabilitative.I farmaci antidepressivi intervengono sui sintomi della depressione. Gli stabilizzanti dell’umore sono usati nella mania e per prevenire le ricadute. I neurolettici sono utilizzati per combattere i deliri. PROGNOSI: Un tempo, quando non si disponeva dei moderni protocolli terapeutici era dato di osservare depressioni gravi anche di durata decennale e non si riusciva ad interrompere il subentrare dei cicli tipici della malattia. Oggi, i sintomi dei singoli episodi possono essere se non del tutto evitati, almeno molto attenuati; inoltre la durata degli episodi è ridotta e, l’alternanza delle fasi, stabilizzata. E’ necessario istituire una valida terapia fin dai primi episodi, in particolare: quando vi siano le evidenze di una vera bipolarità e non solo di singoli episodi, si rende necessario il ricorso agli stabilizzanti dell’umore. E’ necessario fare le opportune diagnosi differenziali: con forme minori (depressione nevrotica o cosiddetta reattiva, c.d. “distimia”), o propriamente psicotiche (disturbi schizofrenici), o perfino mediche (alterazioni dell’umore provocate da malattie fisiche).
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6. LE DISFUNZIONI PATOLOGICHE ORGANICHE: IL RITARDO MENTALE Abbiamo visto come le psicosi, costituite dalle malattie del gruppo della schizofrenia e sindromi correlate e dai più gravi disturbi dell’umore, così come i disturbi di personalità ricevono un etiologia mista, in parte organica (vulnerabilità) ed in parte ambientale e psicogena. Altre malattie hanno una più chiara origine organica; esse sono: - LE OLIGROFENIE ED I RITARDI MENTALI - LE DEMENZE - LE EPILESSIE Tuttavia in alcune epilessie non si trovano cause di lesione cerebrale specifica (criptogenetitiche) e alcuni ritardi nell’apprendimento infantile sono dovuti più a cause ambientali e psicogene che non organiche. Le demenze sono patologie senili e non riguardano le attività relative a questo corso. Le epilessie sono una patologia di pertinenza neurologica; oggi sono il più delle volte ben controllate da specifici farmaci. Tuttavia, specie nelle forme a carico dei lobi temporali del cervello, possono coesistere disturbi dell’apprendimento o psicotici simili a forme paranoidi di schizofrenia. Il problema più importante, ed ha ampia parte nell’attività degli operatori psicosociali, è legato ai ritardi mentali. Per ritardo mentale si intende (DSM IV): a) funzionamento intellettivo significativamente inferiore alla media; QI minore di 70 ottenuto con un test di QI somministrato individualmente. b) concomitanti deficit o compromissioni nel funzionamento adattivo attuale (cioè la capacità del soggetto di adeguarsi agli standard propri della sua età e del suo ambiente culturale) in almeno due delle seguenti aree: comunicazione cura della propria persona vita in famiglia capacità sociali-interpersonali uso delle risorse della comunità autodeterminazione capacità di funzionamento scolastico lavoro tempo libero salute sicurezza c) esordio prima dei diciotto anni di età Si distinguono i seguenti gradi: - Lieve (spesso non da cause organiche): QI 50-70; Età mentale 8-12 anni; Soggetti educabili e secolarizzabili. - Medio: QI 25-50; Età mentale 3-7 anni; Soggetti addestrabili, non scolarizzabili, autonomia discreta. - Grave: QI 0-25; Età mentale 0-2 anni; dipendenti, scarsa autonomia, grave compromissione del linguaggio 14
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Gravissimo: Soggetti che possono al massimo essere addestrati all’uso delle gambe, delle mani, delle mascelle.
Le CAUSE sono le seguenti: - Disturbi Metabolici - Disturbi Genetici - Malformazioni Cerebrali - Lesione Cerebrale - Causa Ignota Possono essere, inoltre: prenatali, perinatali, postnatali. Innumerevoli e di interesse medico-specialistico sono le singole malattie che appartengono ai vari gruppi; ai nostri fini basterà ricordare questi ordini generali di cause. Programmi di riabilitazione e di addestramento ai social skills, compresi i nostri programmi di reinserimento lavorativo sono possibili, ed anzi ottimali per i ritardi lievi e per alcuni soggetti con ritardo medio. Sono comunque utili programmi riabilitativi anche per i casi più gravi. E’ bene che funzioni come il linguaggio e i tentativi di apprendimento siano gestiti con la collaborazione di personale ulteriormente specializzato (ad esempio logopedisti, neuropsicologi, ecc.). Non esistono cure farmacologiche per il ritardo mentale. 7. CENNI DI PSICOFARMACOLOGIA E’ oggi in uso considerare le malattie mentali come un deficit o un eccesso di certi neuromediatori nel cervello, sulla base del fatto che talune sostanze che aumentano o diminuiscono l’attività di questi neuromediatori migliorano i sintomi di queste malattie e in seguito a studi sui metaboliti dei neuromediatori nel sangue e nel liquor di persone affette e in reperti autoptici cerebrali. La serotonina mancherebbe nelle persone depresse come l’insulina nelle persone diabetiche. Questa semplificazione è antiscientifica ed inesatta. In realtà, come abbiamo visto, le cause delle malattie mentali sono complesse e multifattoriali e non va confuso inoltre, il meccanismo (patogenesi) di una malattia, con la sua causa (etiologia). Se io mi arrabbio e sono nervoso, l’acido gamminobutirrico (GABA) nella parte centrale del mio cervello diminuisce la sua funzione inibitoria; se prendo una benzodiazepina (ad esempio il valium) il GABA viene potenziato ed io mi calmo. Non sarebbe esatto scientificamente affermare che la mia rabbia è una malattia legata ad un deficit gabaminergico; potrebbe essere in parte così se io tendessi ad arrabbiarmi troppo facilmente, ma sarebbe anche il caso di capire il perché; di capire cosa mi fa arrabbiare. Aiutiamoci a comprendere meglio questa differenza tra etiologia e patogenesi con un esempio medico: se ho l’influenza avrò la febbre perché si altera il meccanismo delle prostaglandine; se prendo l’aspirina la febbre si abbassa perché questo farmaco modifica il metabolismo delle prostaglandine (meccanismo patogenetico). Non è esatto dire che l’influenza è una malattia delle prostaglandine; sappiamo infatti che il metabolismo delle PG si altera nell’influenza perché dentro le cellule è entrato il virus dell’influenza (l’agente etiologico=etiologia). OGGI, NOI NON CONOSCIAMO LA PRECISA ETIOLOGIA DELLE MALATTIE MENTALI. Del concetto di vulnerabilità e della causalità multifattoriale e circolare delle malattie mentali abbiamo già detto e pertanto rimandiamo al paragrafo sulle cause delle malattie mentali.
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Gli psicofarmaci agiscono sui sintomi del disagio e sulle cause primarie, cioè sulla vulnerabilità; sugli altri aspetti concausali devono intervenire le psicoterapie ed i programmi riabilitativi. Noi possediamo solo poche categorie di farmaci attivi sui fattori biologici predisponenti le malattie mentali e tesi ad attenuare i sintomi; essi sono: - NEUROLETTICI - BENZODIAZEPINE - ANTIDEPRESSIVI - STABILIZZANTI DELL’UMORE I NEUROLETTICI sono farmaci di importanza fondamentale. E’ solo grazie all’esistenza di questi farmaci che oggi è possibile fare programmi psicoterapeutici e di riabilitazione psicosociale per i pazienti schizofrenici. Esistono solo da quarant’anni ed, in molti casi, hanno permesso, se non una guarigione (che nel senso di totale restituito ad integrum è possibile), un buon controllo della sintomatologia schizofrenica e la possibilità di una vita dignitosa al di fuori delle istituzioni totali. La funzione di questi farmaci non è di sedare i comportamenti aggressivi o riprovevoli del paziente schizofrenico se non in casi acuti; casi in cui la sedazione e perfino la contenzione del paziente vengono fatte nel suo preminente interesse, cioè non solo per evitare conseguenze di comportamenti dannosi ma anche per aiutare lo psicotico a reggere le terribili angosce di cui soffre. La funzione principale della terapia neurolettica è quella di attenuare i deliri e le allucinazioni. I farmaci della nuova generazione non hanno più inoltre alcuni effetti collaterali spiacevoli, inevitabili nei precedenti. Vanno somministrati da psichiatri e dosati con grandi attenzione, alle minime dosi sufficienti per permettere il massimo contatto con la realtà e rafforzati dall’azione congiunta dei programmi psicosociali di riabilitazione. Essi sono utili nei deliri associati alla mania e, in taluni casi, alla depressione grave. LE BENZODIAZEPINE hanno due funzioni essenziali: sono ansiolitici e aiutano la regolarità del sonno. Prima dell’avvento della nuova generazione di antidepressivi erano andati molto di moda, come farmaci di uso comune (per la “felicità”). Tale uso improprio è pericolossissimo; sono farmaci che inducono assuefazione e tossicodipendenza e vanno anch’essi usati da psichiatri e, cum grano salis, dai medici di medicina generale per brevi periodi e con indicazioni specifiche. GLI ANTIDEPRESSIVI: farmaci come il Prozac vengono oggi contrabbandati come “pillole della felicità”: è una follia. Non inducono (esclusa l’amineptina) assuefazione e tossicodipendenza ma hanno molti effetti collaterali. Vanno usati negli effettivi casi di depressione, per periodi di tempo e a dosi congrue. Ne andrebbe limitato l’uso da parte di medici non specialisti. Sono farmaci generalmente molto efficaci per contrastare i sintomi della depressione. Alcuni Autori di scuola organicista ritengono che nelle vere depressioni croniche vi sia un metabolismo congenitamente alterato di neuromediatori aminergici nel cervello; in quei casi tali farmaci si dovrebbero usare anche per tutta la vita. Consideriamo folle ed eticamente biasimevole il presupposto di alcuni autori di somministrare tali farmaci a ragazzi in età scolare che mostrino problemi di adattamento. La depressione è una malattia seria; non va confusa con ogni causa della vita che produca tristezza e difficoltà che va, quando possibile, affrontata in altro modo. GLI STABILIZZANTI DELL’ UMORE: nei penosi e gravi casi di sindromi bipolari, in cui devastanti fasi maniacali si alternano a terribili depressioni, trovano indicazione gli stabilizzanti dell’umore che attenuano i disagi dovuti alla mania, abbreviano la durata delle fasi e prevengono le ricadute depressive. Il litio è un farmaco molto efficace ma di impiego delicato per via dei suoi effetti collaterali; oggi si stanno utilizzando a questo scopo anche dei farmaci antiepilettici. SI RICORDI: Un farmaco è sempre una sostanza tossica che può essere utile in senso terapeutico facendo un rapporto costi-benefici quando ve ne sia l’effettiva necessità. Tuttavia senza gli
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attuali psicofarmaci non potremmo neanche immaginare i nostri moderni programmi psicosociali. 8. NUOVE VIE DELL’ASSISTENZA PSICHIATRICA Le modificazioni legislative in atto in Italia fin dagli anni ’70 hanno portato ad un radicale cambiamento di prospettive per il malato mentale (DEISTITUZIONALIZZAZIONE). Superata l’idea della pericolosità e della necessità di custodire il malato (CUSTODIALISMO), oggi si tende a limitare al massimo (solo in situazioni acute e di difficile gestione) L’ISTITUZIONALIZZAZIONE. La presa in carico del paziente psichiatrico è sempre più volta al maggiore reinserimento possibile nella società civile e/o quantomeno a garantire una vita in strutture protette meno alienanti (case-famiglia, ecc.). I reparti psichiatrici ospedalieri, divisi per territorio e dotati di quindici posti letto, vengo occupati dai pazienti solo nelle fasi acute della malattia. Sono strutture di tipo medico, con infermieri professionali, psichiatri e psicologi. I Dipartimenti di Salute Mentale erogano inoltre prestazioni ambulatoriali (terapie psicofarmacologiche e psicoterapie) e servizi di assistenza sociale. Per il malato cronico, quando possibile, si sta sempre più tentando di utilizzare strutture abitative intermedie; in particolare: - il day-hospital - le case alloggio - gli appartamenti Il day-hospital consiste nella possibilità offerta all’ammalato di continuare ad abitare nella sua abituale casa e di recarsi quotidianamente al Centro per effettuare terapia ed attività riabilitative. Le case-famiglia o case-alloggio sono comunità abitate da gruppi di ammalati (15 pazienti al massimo). Rispetto alle vecchie strutture manicomiali è garantita una maggiore libertà ed autonomia alle persone ed una maggiore partecipazione alla gestione della vita quotidiana, come fare la spesa, ecc., che è già di per sé una modalità terapeutica. Persone particolarmente adeguate, ad esempio in una buona fase di remissione e di controllo dei sintomi e dotate di buona autonomia personale, possono essere avviate in appartamenti gestiti in proprio (da 1 a 3 pazienti), nei quali viene comunque garantita l’assistenza da parte del personale (sia in day-hospital che a domicilio) ed aiuti economici dallo Stato. In tutte queste strutture si svolge l’importantissima attività degli operatori psicosociali, anche detti impropriamente operatori “laici”, per distinguerli da medici e psicologi, laureati. In queste strutture l’operatore non solo gestisce i programmi di riabilitazione insieme a psicologi, psichiatri e assistenti sociali, ma vive quotidianamente con i pazienti e presta attenzione a tutte le loro esigenze, dalla cura dell’igiene personale ai problemi di pensione e di rapporto con i familiari (case-management). E’ sempre essenziale la collaborazione in equipe con gli specialisti. FUNZIONE DEL LAVORO: Il lavoro ha sempre fatto parte dei tentativi di cura della malattia mentale; due sono stati i criteri che hanno sempre guidato questi tentativi: - Il lavoro e’ di per sé terapeutico. - Bisogna restituire al malato un senso più preciso del tempo della giornata, con doveri e diritti, con un ruolo da svolgere e con le gratificazioni che ne conseguono. Tutte e due queste logiche si sono dimostrate, seppur non infondate nei loro presupposti, insufficienti ed incongrue per una serie di motivi, di cui ne elencheremo solo tre fondamentali: 1. l’ affaccendamento inoperoso 2. il lavoro non è terapeutico in sé 3. lo stato di malattia ha dei vantaggi “secondari” 17
1. L’affaccendamento inoperoso: nei vecchi manicomi, come nelle caserme, si viene presi da una sorta di angoscia nel vedere persone, che già per la natura della loro situazione sono inerti ed annoiati, stare fermi a ciondolare, a camminare avanti ed indietro, a stare seduti a girarsi i pollici. In quel caso, ed è solo un meccanismo difensivo contro tale angoscia, si è tentati di fare qualcosa, qualunque cosa pur di non stare fermi: spostare un mobile da un punto all’altro della stanza e poi riportarlo dov’era, lucidare le scarpe in maniera ossessiva perché debbono essere nerissime, spazzare il viale fino all’ultima foglia secca che cade dagli alberi, ecc. Queste attività sono improduttive e servono solo a riempire il tempo. Questo cosiddetto “affaccendamento inoperoso” ovviamente non solo non è terapeutico, ma controproducente. 2. Il lavoro non è terapeutico in sé: fuori da prospettive produttive le uniche funzioni “terapeutiche” che potrebbe avere il lavoro sono: Distrarre la persona dai suoi pensieri ossessivi, deliri, idee negative, ecc. Aumentare specifiche abilità in senso riabilitativo. La prima affermazione è solo parzialmente vera: senza un drive motivazionale forte, che produca piacere nel fare, si ottiene solo (al massimo) l’esecuzione meccanica di ordini… La seconda affermazione è un’arma a doppio taglio: nelle istituzioni spesso non si fanno programmi individuali calibrati per il paziente: una persona diplomata, colta, si ammala e, nel giro di pochi mesi, si ritrova a dover imparare a intrecciare cestini di vimini; questa attività non solo non è riabilitativa ma addirittura frustrante e regressiva. 3.I vantaggi dello stato di malattia: se io sono malato ricevo una pensione, devo prendere delle cure, devo vivere dentro l’istituto; perché dovrei lavorare? Inoltre io sono malato e quindi non ce la faccio a lavorare. Quali attività ergoterapiche sono davvero terapeutiche? 1. Attività calibrate sul singolo paziente che realmente ne potenziano le abilità. 2. Attività gratificanti: il lavoro, in tutte le persone, è finalizzato al piacere di produrre risultati ed al compenso. Per questi motivi oggi si tende a fare programmi indirizzati ad inserire il paziente nel lavoro produttivo vero e proprio, fuori dalle strutture protette. Questo è lo spirito che anima i progetti Horizon. PERCHE’ IL LAVORO PRODUTTIVO E’ TERAPEUTICO? perché la persona interagisce con altri “normali”. perché la persona acquisisce un’identità diversa da quella di “malato”. perché la persona può provare piacere nel lavorare (vede dei risultati, ha una retribuzione, ecc.) COOPERATIVE TRA MALATI, JOB-FINDING CLUB, CENTRI DI ORIENTAMENTO, ECC. Strutture del genere avranno una diffusione sempre più importante in futuro; non hanno solo finalità terapeutiche, ma vere e proprie finalità di lavoro produttivo; organizzazione ed invio a corsi; mediazione con le aziende e con il mercato del lavoro; gestione dei finanziamenti e dei progetti specifici; ecc. 9. RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA
Esistono due atteggiamenti fondamentali in riabilitazione, nei riguardi delle famiglie: la psicoeducazione ed il trattamento integrato. La psicoeducazione consiste nell’insegnare alle famiglie la natura delle malattie e a comprendere meglio i comportamenti e le necessità del congiunto ammalato; la terapia integrata parte dal concetto di origine psicodinamica e sistemica che la famiglia stessa è parte di un sistema complessivamente disfunzionale e va curata nel suo 18
insieme. Comunque la collaborazione e l’informazione dei familiari è essenziale. Ci sono casi di famiglie che scaricano il congiunto malato e si appropriano anche della sua pensione; all’opposto famiglie oppressive e disfunzionali fanno manovre che ostacolano la terapia; la famiglia va conosciuta, responsabilizzata, informata e coinvolta sempre in attività terapeutiche, almeno di tipo psicoeducazionale. Va inoltre ricordato che il familiare di una persona ammalata spesso soffre già lui stesso; è molto difficile, ad esempio, essere il partner di una persona che soffre di una grave ciclotimia; possono essere utili supporti psicoterapeutici e gruppi anche per i familiari, non solo nell’interesse del congiunto che ha una franca diagnosi, ma anche nell’interesse dell’equilibrio psichico ed esistenziale del familiare stesso. Queste attività devono essere svolte da psicoterapeuti, psicologi o psichiatri. 10. CRITERI GENERALI PER LA SCELTA DEI SOGGETTI DA AVVIARE A UN PROGRAMMA DI REINSERIMENTO LAVORATIVO Definire criteri generali per la selezione dei soggetti sulla base di abilità specifiche è un’operazione problematica per due motivi: anzitutto ci occupiamo di fenomeni come la capacità di adattamento sociale e di performance che hanno una distribuzione continua e quindi ogni definizione di punti di cut-off non può che risultare arbitraria. In secondo luogo abbiamo a che fare con fattori che hanno una loro evolutività e quindi non vanno reificati ed assolutizzati i risultati delle valutazioni, che devono essere considerati sempre nella loro natura di osservazioni di status attuale. Tuttavia sarà comunque necessaria una minima definizione operativa, soprattutto al fine di meglio indirizzare le persone ai vari livelli (subprogrammi) di intervento; infatti, la filosofia del nostro intervento è orientata nel senso della massima individualizzazione dell’intervento stesso, al fine di ottimizzare i risultati, sulle reali capacità ed esigenze dell’individuo. CONDIZIONE FISICA: Le limitazioni imposte da assenza o grave deterioramento funzionale della motilità di arti o di funzioni sensoriali sono per lo più intuitive e non necessitano di standardizzazioni. Circa le necessità che derivano dallo stato di malattia somatica, tuttavia, è necessario comunque tenere in considerazione alcuni criteri generali ed alcune situazioni particolari. Tra i criteri generali vogliamo ricordare che soggetti che hanno cagioni fisiche di invalidità superiore al 50% generalmente (anche se esiste una notevole variabilità individuale) mostrano una affaticabilità (“esauribilità”) ai livelli bassi della distribuzione normale; pertanto orari lavorativi superiori alle sei ore continuative sono generalmente sconsigliati a meno di prestazioni di notevole sedentarietà purché concedano ampi intervalli di recupero. Per quanto riguarda condizioni particolari, ricorderemo che la maggior parte delle condizioni di disabilità fisica pregiudicano la possibilità di lunghi periodi di stazionamento in posizione eretta. Ciò ovviamente è particolarmente importante per quanto riguarda patologie primariamente muscolari o neurologiche e quelle, ad esempio le cardiopatie, che pregiudicano le capacità respiratorie. L’affaticabilità ha anche una componente psicogena su cui è possibile intervenire. Per quanto riguarda le condizioni di natura psicologica di adattabilità allo stress lavorativo (responsabilità, rapporti con colleghi e superiori, ecc.), esse risentono sia del vissuto della condizione di disabilità, sia possono risentire di condizioni di comorbidità psichiatrica; è per questo motivo che anche per i disabili fisici sarebbe sempre importante affiancare i programmi di riabilitazione ad attività psicodiagnostiche, psicoterapeutiche ed, eventualmente, anche psicofarmacologiche. PERFORMANCE INTELLETTIVA: Il criterio generale assoluto di maggiore importanza per la individuazione dei soggetti adeguati e la personalizzazione dei programmi è senza dubbio quello della performance intellettiva. Il termine “intelligenza”, criterio la cui carenza è spesso utilizzata in senso dispregiativo, può trarre in inganno; anche le performance intellettive, che non hanno a che vedere direttamente con 19
la capacità e possibilità di esprimersi (“fare, “amare” e “lavorare”, scriveva Sigmund Freud) dell’individuo, ma con capacità generali, per l’appunto, di performance e sociali possono avere una loro evolutività. Pertanto test come la WAIS o le Matrici Progressive di Raven (SPM 38), come raccomandato dagli stessi Autori, vanno intesi come strumenti di valutazione attuale delle capacità di performance e non come test di “intelligenza”. Comunque il Q.I. rimane, a nostro avviso, l’unico criterio valido per destinare soggetti a vari livelli differenziati dell’intervento e ciò anche per proteggere la persona dal vissuto di frustrazione. Circa la relazione tra capacità psicosociali e lavorative, alcuni criteri di minima sono descritti nell’ICD-10 nel capitolo sul “ritardo mentale” (F70-F79). Soggetti con Q.I. tra 50 e 69 (età mentale dell’adulto tra 9 e 12 anni) rientrano nel criterio del cosiddetto”ritardo mentale lieve”. Nonostante non si possa fare una previsione assoluta, l’ICD –10 considera che la maggior parte degli adulti con questo livello di performance saranno capaci di lavorare. Per questi soggetti i lavori che richiedono una certa competenza cognitiva (segreteria, utilizzo di computer, ecc.) non sono, in linea di principio, preclusi anche se una tale valutazione va fatta caso per caso. Lavori che non richiedano un uso di capacità decisionali e cognitive avanzate (ad esempio lavori ripetitivi, artigianato, lavori tecnici con non molte routine differenziate) sono possibili per le persone con ritardo mentale di media gravità (Q.I. tra 35 e 49) se supportate costantemente. Questi soggetti noi li avvieremo ad un programma riabilitativo di livello “inferiore”, ad esempio: si promuoverà lo sviluppo di capacità sociocognitive semplici a partire da requisiti elementari come saper svolgere una commissione in un ufficio postale, saper scrivere una lista di indirizzi, saper rispondere adeguatamente al telefono, ecc. (Tale spirito pratico anima gli intenti delle esperienze all’interno del progetto ADA in America e delle più importanti esperienze italiane, ad esempio Breda ed altri, 1991). Soggetti con QI inferiore a 20 vanno invece, purtroppo, esclusi da questo tipo di programmi perché le loro gravi limitazioni nella continenza emotiva, nella cura di sé, nella comunicazione e nella mobilità (ICD-10) rendono necessario un costante sostegno anche solo per provvedere alle ordinarie necessità personali quotidiane. Per la valutazione del ritardo mentale, come specificato nell’ICD-10, non si possono predisporre criteri diagnostici dettagliati e validi in ogni contesto. Alla WAIS, che è piuttosto culture-bound, avevamo preferito inizialmente il test di Raven ( SPM38) per la sua natura culture-free ed eminentemente prestazionale; tuttavia con ogni probabilità la nostra scelta per la seconda parte del lavoro diagnostico cadrà sulla scala di Vineland, essendo essa raccomandata nell’uso dallo stesso ICD-10, nosografia europea, per la sua capacità di valutare, in maniera adeguata al contesto culturale europeo ed americano, soprattutto due parametri essenziali: il livello delle abilità cognitive e il livello di competenza sociale (social skills). Il Mini Mental Status, da noi utilizzato nella prima valutazione, è uno strumento poco sensibile e a noi è servito solo come primo orientamento nel corso del primo colloquio, a cagione della sua rapidità di esecuzione e del basso livello di stress che esso impone. Questi strumenti diagnostici devono essere applicati da psicologi abilitati o da psichiatri. Operatori socioassistenziali tuttavia possono essere istruiti alla somministrazione (non alla interpretazione) dei test per ragioni di organizzazione del lavoro in equipe. I test psicologici sono proprietà letteraria riservata in Italia delle Organizzazioni Speciali di Firenze-Roma; la vendita è possibile solo a medici e psicologi. L’uso di copie non autorizzate dei test e la somministrazione da parte di personale non autorizzato è illegale.
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11. COME SI FA UN PROGETTO DI INTERVENTO La tabella che segue illustra i criteri usati del nostro progetto: bisogna sempre procedere per i piccoli passi; mai fare scelte avventate; valutare sempre i programmi passo per passo ed eventualmente correggerli. I primi ad avere buone abilità cognitive (coping, problem-solving) devono essere proprio gli operatori. Identificazione e raggiungimento della popolazione target; studio epidemiologico
Corso di formazione per gli operatori
Invito agli interessati a partecipare al progetto
Valutazione breve (viene raggiunto un campione vasto); valutazione situazione medica; colloquio; Mini Mental State, questionario. Test IBQ, STAI, CDQ, ecc.
test di performance
Invio al programma formativo (superiore)
Invio al programma riabilitativo
Valutazione secondaria comprendente anche test attitudinali specifici
Differenti livelli professionali dei corsi
Mediazione all’assunzione
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