Gilda Bertan - Paolo Clemente
Dialogo sul suicidio
Cara Gilda, penso che la psicoterapia si caratterizzi rispetto ad altre professioni di aiuto soprattutto per la non direttività. Credo, inoltre, che l'atteggiamento non direttivo debba essere mantenuto anche quando ci troviamo di fronte ad una minaccia di suicidio. In quanto facilitatori di scelte individuali, gli psicoterapeuti sono le persone meno indicate per impedire questa scelta estrema. So che alcuni fanno sottoscrivere al cliente l'impegno a non suicidarsi almeno finché dura la terapia, ma ogni psicoterapeuta serio sa che non può nulla contro il suicidio. Può darsi che durante la psicoterapia il cliente cambi idea, ma non siamo noi ad avere il controllo sulle sue scelte. Meno che mai possiamo costringerlo a venire da noi: psicoterapia e costrizione non vanno d'accordo. Ricordo un'amica che mi aveva telefonato preoccupata per la depressione della figlia che studiava all'estero; le diedi il nome di un collega che parlava italiano ma le dissi anche che sarebbe toccato alla ragazza telefonargli perché questa era la prassi. La ragazza non fece mai quella telefonata e si tolse la vita dopo qualche mese. Altri professionisti sarebbero intervenuti anche senza il consenso della ragazza, noi non avevamo alternative. Ciao Paolo
Caro Paolo, il racconto che tu fai del caso di suicidio della figlia della tua amica ha avuto su di me un notevole impatto emotivo, tanto che mi ritrovo a scrivere… Lavoro da molti anni con bambini, adolescenti e giovani adulti con patologie serie, spesso gravi e mi sono quindi confrontata sovente con una richiesta dei genitori che non coincide con quella del figlio. Là dove la patologia o la situazione è, per qualche motivo, grave, credo che non sempre si possa applicare tout court la giusta e sana “regola” per cui “è dal paziente che deve arrivare la richiesta d’aiuto”. E' vero che non possiamo salvare il mondo intero, ma non sempre ci si può riparare, (come ho sentito spesso fare) rispetto ai casi di suicidio, dietro alla “pulsione di morte”, senza chiederci se potevamo fare qualcosa di più (certo non i miracoli!) Ho sentito spesso citare Bion e soprattutto la sua frase “senza memoria e senza desiderio” che non significa senza responsabilità e senza pensiero. Cardine della teoria di Bion è il rapporto contenuto/ contenitore . Prendi un fiume: quando tutto è tranquillo può evocarci immagini di tranquillità, di bellezza… Quando però tracima l’immagine è ben diversa….
Gilda Bertan e Paolo Clemente
DIALOGO SUL SUICIDIO ottobre - novembre 2006
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Ma non è certo l’acqua “cattiva” in sé, è il rapporto argini/portata d’acqua che non funziona…. e il fiume non può da solo aumentare i suoi argini... e le misure che si prendono in tal caso sono di straordinaria amministrazione… A volte, come ci insegna Bion, è l’apparato per pensare i pensieri che non funziona, che non è ancora ben costruito, o presenta qualche falla… A volte l’aiuto passa attraverso un'azione “vicariante” momentanea di alcune funzioni dell’io… Non sempre chi ha bisogno può esprimere “verbalmente” la sua richiesta; i ragazzi spesso la esprimono in altro modo. Nella mia pratica clinica ho trovato utile suggerire ai genitori di “contrattare” il primo approccio con uno psicoterapeuta. Tipo: “ lo so che ti rompe… ti chiedo di andarci almeno due volte… come dal dentista…. poi deciderai se vorrai continuare…” E qualche volta mi sono ritrovata a dire a ragazzi che stavano per tutto il tempo seduti davanti a me con le mani che tormentavano i lacci delle scarpe e la testa quasi incuneata tra le ginocchia, cose tipo: “ tu sei qui perché i tuoi genitori ti ci hanno portato…. anch’io sono qui con te perché i tuoi genitori ti ci hanno portato… che ne dici di far passare questo tempo in maniera un po’ più simpatica?...” Io non lo so, sai, se era la cosa giusta da fare… certamente se ne potevano fare di migliori…. ma ha funzionato…. A volte ho ascoltato musica con i ragazzi… ricordandomi che Bion dice anche che, con qualche paziente, bisognerebbe saper suonare il violino….. la funzione alfa non passa soltanto attraverso il verbale… Io non so se in questi casi sono stata direttiva; certo è che non mi sono sentita tale. Mi conforta il pensiero di Antonino Ferro quando dice: “il laboratorio psicoanalitico può andare a ‘raggiungere’ certi pazienti se il terapeuta ha il coraggio necessario per non avere paura della propria creatività e purché questo non sia sentito come un’infrazione di supposte ortodossie". Prendi queste “vignette” del mio lavoro non come un desiderio di “mostrarmi”, ma come un tentativo di ancorare il dibattito alla concretezza del lavoro quotidiano. Buona settimana a te Gilda
Cara Gilda, hai posto il problema dei limiti da porre alla non direttività. Secondo me questo limite è dato dall'età del paziente e, più in generale, dal carattere asimmetrico della relazione. Non a caso, Gilda, negli esempi che hai fattoti rivolgi al cliente col "tu”: è il segnale di una relazione asimmetrica dove la non direttività sarebbe certamente fuori luogo. Ma una relazione asimmetrica è compatibile con la psicoterapia? A mio avviso no. E qui entra in gioco la questione della scelta tra il termine "cliente" (infelice calco Gilda Bertan e Paolo Clemente
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- lo ammetto - dall'inglese "client") e il più tradizionale "paziente". Il motivo per cui preferisco il termine “cliente" è che esso sottolinea la simmetria della relazione col terapeuta, mentre il termine "paziente" mi fa pensare ad una relazione asimmetrica. Ecco la mia tesi: quello che facciamo con i bambini, i ragazzi come con tutte le persone con cui ci poniamo in una relazione asimmetrica è una qualche forma di "ortofrenia" (intesa non nel senso storico ma come correzione della personalità) ma certamente non una psicoterapia: loro sì che sono nostri "pazienti" e che possono essere costretti a subire il trattamento! Il termine "psicoterapia" va invece riservato alle relazioni simmetriche, cioè quelle in cui ci poniamo sullo stesso piano del cliente, il quale acquista liberamente il servizio che gli offriamo e non può esservi costretto da alcuno. Costrizione e psicoterapia, lo ribadisco, non vanno d'accordo. A presto, spero Paolo
Caro Paolo, Io non penso che ascoltare, contenere, trasformare sia fare niente... o sia fare ortofrenia. Penso che questo sia proprio il nostro lavoro e che ciò non comporti un atteggiamento di "direttività", caso mai di servizio. Penso che questo lavoro aiuti il pz. a "formare argini più robusti". Io credo molto a ciò che dice Bion sulla funzione alfa. Dicendola con un linguaggio più semplice (che prendo a prestito da Ferro), quando io terapeuta esercito questa funzione di contenimento/trasformazione, passo anche al pz. le "istruzioni per l'uso" (Ferro) perchè "impari" ad autocontenersi. Tutto ciò non con una funzione pedagogica, ma con una funzione "... materna", nel senso proprio di funzione alfa, come fa una mamma "sufficientemente buona". Questo non risolverà tutti i casi di suicidio (è anche meglio che non succeda, per carità!!), ma alcuni sì. Quanto agli adolescenti.... la tecnica, in questa età, è da inventare ogni volta, credimi. E la creatività al servizio della psicoterapia è ancora poco esplorata, ma io ci credo. Molto. In adolescenza il suicidio avviene quasi sempre per raptus. Quelli che sopravvivono, una volta ripresisi, sono contenti di essere ancora vivi. Voglio dire che se riusciamo a fermare qualche suicidio, facciamo quello che il pz. vuole, non il contrario. Con questo non voglio dire che chi decide di togliersi la vita lucidamente, non vada rispettato. Lucidamente, però. Se rinunciamo ai pazienti difficili torniamo indietro di almeno mezzo secolo, quando si diceva che le psicosi etc etc... non potevano essere trattate con la psicoterapia. Solo che la psicoterapia non può rimanere imbalsamata dentro a rigide
Gilda Bertan e Paolo Clemente
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norme (dietro alle quali spesso ci nascondiamo). Io la penso così. E ti ripasso la parola .A presto, con stima Gilda
Cara Gilda, a questo punto il discorso sul suicidio si biforca: da un lato persone che hanno consapevolmente scelto di andare dall'altra parte e con le quali, penso che siamo d'accordo, non cè nulla da fare; dall'altra adolescenti che devono ancora imparare a contenersi da soli e a pensare. Come sempre nelle cose psichiche, non c'è una distinzione netta, ma un confine incerto. Per i primi vale il teorema di Hillman: "Non si tratta di unamorte prematura, come vorrebbe la medicina, ma dell'ultima reazione di una vita in ritardo che non si è trasformata in precedenza. Avendo mancato nel passato le sue crisi di morte [e rinascita ndr.] , vorrebbe morire adesso, e tutto in una volta. [..] L'effetto della morte consiste nel portare a compimento, in un momento critico, una trasformazione radicale. Intervenire a questo punto con la prevenzione in nome della preservazione della vita frustrerebbe la trasformazione radicale". Per i secondi il discorso è diverso: potrebbe trattarsi di un raptus. Ma come riconoscere un raptus? Mi viene in mente quell'ambigua espressione della Legge Basaglia, quando si parla di generiche 'alterazioni' della psiche. Quando una persona è alterata? Chi può stabilirlo? Due medici, dice la legge, ma poi ci vuole anche l'imprimatur del sindaco per evitare che i tecnici possano agire senza controllo. Il solito problema: chi controlla i controllori? Se, come dici tu, un ragazzo tenta di suicidarsi perché gli ha preso un raptus, dobbiamo: a) stabilire che si tratta di un raptus e non di una decisione consapevole (che a quell'età non può essere presa?); b) impedirgli il suicidio oggi perché ci ringrazierà domani. Possiamo e dobbiamo essere creativi, certo, soprattutto se ci viene chiesto di intervenire in situazioni di costrizione, come quando un ragazzo ci viene portato dal genitore perché lo 'curiamo'. La psicoterapia può crescere in situazioni di costrizione? Mi vengono in mente quei fichi abbarbicati sulle mura di Urbino: non sono le condizioni ideali per la pianta, eppure vive. Questa è la sfida da raccogliere, per chi la sa raccogliere. Anche con i cosiddetti 'psicotici' si opera in situazioni di costrizione. Più che di pazienti difficili parlerei di pazienti coatti.
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Ecco, la mia tesi è che in tutti i casi di coercizione al trattamento non facciamo psicoterapia ma un'altra cosa che, non trovando una parola migliore, chiamerei 'ortofrenia'. E credo anche che sia necessaria una grandissima versatilità per fare sia la psicoterapia che l'ortofrenia, a seconda dei casi. Per quanto mi riguarda, preferisco lasciare il 'lavoro sporco' ad altri operatori e trattare solo clienti che sono venuti da me con le proprie gambe. Sia perché conosco i miei limiti, sia perché temo che abituandomi a lavorare in situazioni di costrizione potrei perdere la capacità di lavorare in situazioni di non costrizione. Insomma, preferisco la specializzazione alla versatilità. E' davvero stimolante interloquire con te. Alla prossima ciao Paolo
Caro Paolo, quando cerco di esporti il mio pensiero, in risposta alle tue osservazioni, mi si accavallano un'infinità di idee che vorrei comunicarti, cosa che praticamente è impossibile fare in una mail. Si accavalla ad esempio l'idea di psicoterapia in rapporto a ciò che tu definisci simmetria/asimmetria (io credo che la simmetria sia un discorso molto astratto applicabile solo alla geometria, ma non ai rapporti umani...) con qella della relazione terapeuta/ pz o cliente. Ancora: anche nell'adulto il suicidio può essere non una scelta, ma l'impossibilità a vivere a causa (ad esempio) di un'importante depressione. Poi l'annoso problema della psicoterapia (ma perchè ortofrenia a tutti i costi?) applicata ai pz psichiatrici o borderline. Insomma tante cose. Per me gli ingredienti della psicoterapia sono: l'ascolto, la capacità negativa del terapeuta (ovvero quel famoso atteggiamento senza memoria e senza desiderio, ovvero anche capacità di non fare e di non dire e di non interpretare) la funzione alfa (ovvero la capacità di operare trasformazioni nel campo... operazioni di bonifica....) Tutte queste cose si possono fare anche in situazioni critiche. E' chiaro che la psicoterapia dovrebbe partire da una scelta del paziente. A volte però l'individuo si trova in situazioni in cui non può scegliere. Certo che il lavoro psicoterapico vero e proprio forse ( ma non ne sono poi così sicura) inizia quando si concorda di intraprendere consensualmente un percorso insieme... Per forza non si tiene nessuno... tanto meno un adolescente. Se il trattamento va avanti è perchè al ragazzo la cosa... è... piaciuta! Io mi ero espressa in quei termini perchè si parlava del primo approccio, del primo passo verso il terapeuta. E lì a volte c'è bisogno di una spintarella. Gilda Bertan e Paolo Clemente
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A volte bisogna volere al ragazzo (ma potresti leggere uomo o donna) più bene di quanto lui sia in grado di volersene in quel momento. Riconoscere o no un raptus: mi sembrano problemi un po' artificiosi: la gente arriva: è lì, sul campo,sta male: devi fare o non fare qualcosa; non hai molto tempo per le burocrazie. Io non temo di sporcarmi le mani. Sarà perchè o lavorato a lungo in ambito istituzionale e ho giusto quegli anni in più (purtroppo) che mi hanno permesso di vivere con grande entusiasmo alcune svolte storiche sia in ambito manicomiale (Basaglia e dintorni) sia in ambito scolastico (smantellamento delle scuole speciali e inserimento degli h.) Se mi dai un indirizzo e se ti fa piacere, ti mando un mio libro “Il labirinto, Arianna e il filo”. E' sulle patologie gravi in età evolutiva, ma il mio pensiero c'è tutto. Molto è applicabile all'adulto. Resta chiaro che io non voglio insegnare niente a nessuno. Solo mi piace il confronto. Mi stimola sempre nuove idee. Perciò ti ringrazio di darmene l'opportunità. Per intanto ti saluto. Alla prossima Gilda
Cara Gilda, ci incontriamo senz'altro sull'ascolto e sulla "capacità negativa del terapeuta (ovvero quel famoso atteggiamento senza memoria e senza desiderio, ovvero anche capacità di non fare e di non dire e di non interpretare)" e ancora sulla capacità del terapeuta di 'agganciare' un adolescente che pure è stato inizialmente costretto dai suoi alla psicoterapia. Non sono d'accordo, invece, quando parli della 'depressione' come di un'entità, una malattia, un incidente della vita. Penso che ogni paziente sia affetto semplicemente da se stesso e dunque, se proprio di depressione vogliamo parlare, essa è un prodotto, cioè una costruzione della personalità intera e non qualcosa che abbia 'colpito' accidentalmente il paziente. Se vogliamo comprendere il senso della depressione, dobbiamo chiederci con Kelly se per caso non ci sia un'alternativa peggiore che il cliente sta scartando: insomma, la depressione potrebbe anche essere la soluzione meno peggiore al problema esistenziale di una persona. In fondo tutti quanti - ma per fortuna non tutti i giorni! - dobbiamo decidere cosa fare delle nostre e altrui vite. "La gente arriva: è lì, sul campo, sta male: devi fare o non fare qualcosa" scusami se citerò ancora ‘Il suicidio e l’anima’ di Hillman, ma dice le cose che penso in un modo inimitabile - "Il medico, perciò, deve curare. Al di sopra di ogni altra cosa egli deve fare qualcosa... Qualsiasi passività da parte sua diventa una Gilda Bertan e Paolo Clemente
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sorta di suicidio... ciò che ha valore non è quello che il medico fa, ma il fatto che egli faccia... Oggi soltanto il medico può guarire, e questo è il motivo del suo grande successo e del suo essere continuamente costretto a fare qualcosa...Il medico, oggi, contende da solo con la vita e con la morte... E' subentrato agli dei, e un segno della sua assunzione in un luogo divino è la sua fretta di aiutare, la sua mania per l'azione, il suo furor agendi". Hai ragione quando dici "io credo che la simmetria sia un discorso molto astratto applicabile solo alla geometria, ma non ai rapporti umani": mi rendo conto che pecco di 'esprit de géométrie' volendo sempre razionalizzare tutto, mentre la terapia è fatta anche di 'esprit de finesse' e di dionisiaco. Questo è un mio difetto, lo riconosco, ma forse è anche il mio stile. Non per nulla ho scelto Kelly e non Perls o Lacan... Non penso che la gente faccia scelte sbagliate ma soltanto scelte che a noi terapeuti non piacciono. La contraddizione, così come il problema o il sintomo, è sempre nell'occhio dell'osservatore: ecco perché mi faccio spiegare i problemi dai miei clienti anziché spiegarli io a loro. Ora ti saluto, non prima di averti dato il mio indirizzo, anche se averti qui a disposizione, tutta per me, è molto più eccitante che leggere un libro;-). Ciao Paolo
Caro Paolo, sono d'accordo con quasi tutto. Solo una cosa: anch'io non vado pazza per la nosografia, ma dobbiamo pur capirci quando parliamo di un qualche disagio. Ogni persona è unica, ma dal momento che riusciamo a comunicare, credo che qualcosa di comune tra gli esseri umani ci sia (Hillman come junghiano penso che sarebbe d'accordo...) Per questo motivo l'umanità cerca sempre di nominare gli eventi, disagi psichici compresi. Ed ora temo che ti scandalizzerai: io penso che la malattia mentale esista. Possiamo cambiare il suo nome, ma la sostanza non cambia. Come non è chiamando con nomi strani ed edulcorati gli handicap che li togliamo a chi ce li ha. Penso che tanto più abbiamo chiara la configurazione di certi "quadri clinici" e tanto più riusciamo ad essere di aiuto. Se riusciamo a intuire una brutta depressione in tempo e cercare comunque, anche solo con la nostra silenziosa presenza, di far sì che non tutti gli spiragli verso il futuro si chiudano, può essere che evitiamo un suicidio. Se insisto su qs punto è perchè ho (ahimè!) una qualche esperienza in proposito.... So di essere brutale, specie con uno come te che (non so se pecchi di geometrismo) ma sicuramente mi sembri un affascinante romantico, anche poetico a volte... Ma come fa l'uomo ad essere affetto soltanto da sé stesso e come fai a dirlo proprio tu che conosci bene la moltitudine che ogni uomo ospita, tanto da avere un alter ego in Jean Mais? Certo ognuno è unico, ma non è una
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monade. Quel malessere, che tu lo voglia chiamare depressione o no, certamente, inesorabilmente è suo. Ma non è certo una sua produzione autarchica . Dire che uno è depresso, sarà pure mettergli un'etichetta, ma non è certo mettergli la depressione dentro. E' risconoscere che la sua mente, o la sua anima (come direbbe Hillman) soffre, in maniera unica, irripetibile, ma non del tutto incomprensibile agli uomini... Ti dirò di più: è quello il momento in cui se lui sente che io gli sto volendo più bene di quanto lui in quel momento sia capace di volersene.... qualcosa si smuove.. Ora devo andare. Sai, mi sono resa conto di aver trascurato Luciano. Ma se vuoi puoi passargli le nostre discussioni. Io non ho nulla in contrario. amichevolmente Gilda
Cara Gilda, penso che la psicoterapia si caratterizzi rispetto ad altre professioni di aiuto soprattutto per la non direttività. Credo, inoltre, che l'atteggiamento non direttivo debba essere mantenuto anche quando ci troviamo di fronte ad una minaccia di suicidio. In quanto facilitatori di scelte individuali, gli psicoterapeuti sono le persone meno indicate per impedire questa scelta estrema. So che alcuni fanno sottoscrivere al cliente l'impegno a non suicidarsi almeno finché dura la terapia, ma ogni psicoterapeuta serio sa che non può nulla contro il suicidio. Può darsi che durante la psicoterapia il cliente cambi idea, ma non siamo noi ad avere il controllo sulle sue scelte. Meno che mai possiamo costringerlo a venire da noi: psicoterapia e costrizione non vanno d'accordo. Ricordo un'amica che mi aveva telefonato preoccupata per la depressione della figlia che studiava all'estero; le diedi il nome di un collega che parlava italiano ma le dissi anche che sarebbe toccato alla ragazza telefonargli perché questa era la prassi. La ragazza non fece mai quella telefonata e si tolse la vita dopo qualche mese. Altri professionisti sarebbero intervenuti anche senza il consenso della ragazza, noi non avevamo alternative. Ciao Paolo
Caro Paolo, il racconto che tu fai del caso di suicidio della figlia della tua amica ha avuto su di me un notevole impatto emotivo, tanto che mi ritrovo a scrivere… Lavoro da molti anni con bambini, adolescenti e giovani adulti con patologie serie, spesso gravi e mi sono quindi confrontata sovente con una richiesta dei genitori che non coincide con quella del figlio. Là dove la patologia o la situazione è, per Gilda Bertan e Paolo Clemente
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qualche motivo, grave, credo che non sempre si possa applicare tout court la giusta e sana “regola” per cui “è dal paziente che deve arrivare la richiesta d’aiuto”. E' vero che non possiamo salvare il mondo intero, ma non sempre ci si può riparare, (come ho sentito spesso fare) rispetto ai casi di suicidio, dietro alla “pulsione di morte”, senza chiederci se potevamo fare qualcosa di più (certo non i miracoli!) Ho sentito spesso citare Bion e soprattutto la sua frase “senza memoria e senza desiderio” che non significa senza responsabilità e senza pensiero. Cardine della teoria di Bion è il rapporto contenuto/ contenitore . Prendi un fiume: quando tutto è tranquillo può evocarci immagini di tranquillità, di bellezza… Quando però tracima l’immagine è ben diversa…. Ma non è certo l’acqua “cattiva” in sé, è il rapporto argini/portata d’acqua che non funziona…. e il fiume non può da solo aumentare i suoi argini... e le misure che si prendono in tal caso sono di straordinaria amministrazione… A volte, come ci insegna Bion, è l’apparato per pensare i pensieri che non funziona, che non è ancora ben costruito, o presenta qualche falla… A volte l’aiuto passa attraverso un'azione “vicariante” momentanea di alcune funzioni dell’io… Non sempre chi ha bisogno può esprimere “verbalmente” la sua richiesta; i ragazzi spesso la esprimono in altro modo. Nella mia pratica clinica ho trovato utile suggerire ai genitori di “contrattare” il primo approccio con uno psicoterapeuta. Tipo: “ lo so che ti rompe… ti chiedo di andarci almeno due volte… come dal dentista…. poi deciderai se vorrai continuare…” E qualche volta mi sono ritrovata a dire a ragazzi che stavano per tutto il tempo seduti davanti a me con le mani che tormentavano i lacci delle scarpe e la testa quasi incuneata tra le ginocchia, cose tipo: “ tu sei qui perché i tuoi genitori ti ci hanno portato…. anch’io sono qui con te perché i tuoi genitori ti ci hanno portato… che ne dici di far passare questo tempo in maniera un po’ più simpatica?...” Io non lo so, sai, se era la cosa giusta da fare… certamente se ne potevano fare di migliori…. ma ha funzionato…. A volte ho ascoltato musica con i ragazzi… ricordandomi che Bion dice anche che, con qualche paziente, bisognerebbe saper suonare il violino….. la funzione alfa non passa soltanto attraverso il verbale… Io non so se in questi casi sono stata direttiva; certo è che non mi sono sentita tale. Mi conforta il pensiero di Antonino Ferro quando dice: “il laboratorio psicoanalitico può andare a ‘raggiungere’ certi pazienti se il terapeuta ha il coraggio necessario per non avere paura della propria creatività e purché questo non sia sentito come un’infrazione di supposte ortodossie". Prendi queste “vignette” del mio lavoro non come un desiderio di “mostrarmi”, ma come un tentativo di ancorare il dibattito alla concretezza del lavoro quotidiano. Buona settimana a te Gilda Gilda Bertan e Paolo Clemente
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Cara Gilda, hai posto il problema dei limiti da porre alla non direttività. Secondo me questo limite è dato dall'età del paziente e, più in generale, dal carattere asimmetrico della relazione. Non a caso, Gilda, negli esempi che hai fattoti rivolgi al cliente col "tu”: è il segnale di una relazione asimmetrica dove la non direttività sarebbe certamente fuori luogo. Ma una relazione asimmetrica è compatibile con la psicoterapia? A mio avviso no. E qui entra in gioco la questione della scelta tra il termine "cliente" (infelice calco - lo ammetto - dall'inglese "client") e il più tradizionale "paziente". Il motivo per cui preferisco il termine “cliente" è che esso sottolinea la simmetria della relazione col terapeuta, mentre il termine "paziente" mi fa pensare ad una relazione asimmetrica. Ecco la mia tesi: quello che facciamo con i bambini, i ragazzi come con tutte le persone con cui ci poniamo in una relazione asimmetrica è una qualche forma di "ortofrenia" (intesa non nel senso storico ma come correzione della personalità) ma certamente non una psicoterapia: loro sì che sono nostri "pazienti" e che possono essere costretti a subire il trattamento! Il termine "psicoterapia" va invece riservato alle relazioni simmetriche, cioè quelle in cui ci poniamo sullo stesso piano del cliente, il quale acquista liberamente il servizio che gli offriamo e non può esservi costretto da alcuno. Costrizione e psicoterapia, lo ribadisco, non vanno d'accordo. A presto, spero Paolo
Caro Paolo, Io non penso che ascoltare, contenere, trasformare sia fare niente... o sia fare ortofrenia. Penso che questo sia proprio il nostro lavoro e che ciò non comporti un atteggiamento di "direttività", caso mai di servizio. Penso che questo lavoro aiuti il pz. a "formare argini più robusti". Io credo molto a ciò che dice Bion sulla funzione alfa. Dicendola con un linguaggio più semplice (che prendo a prestito da Ferro), quando io terapeuta esercito questa funzione di contenimento/trasformazione, passo anche al pz. le "istruzioni per l'uso" (Ferro) perchè "impari" ad autocontenersi. Tutto ciò non con una funzione pedagogica, ma con una funzione "... materna", nel senso proprio di funzione alfa, come fa una mamma "sufficientemente buona". Questo non risolverà tutti i casi di suicidio (è anche meglio che non succeda, per carità!!), ma alcuni sì. Quanto agli adolescenti.... la tecnica, in questa età, è da inGilda Bertan e Paolo Clemente 10
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ventare ogni volta, credimi. E la creatività al servizio della psicoterapia è ancora poco esplorata, ma io ci credo. Molto. In adolescenza il suicidio avviene quasi sempre per raptus. Quelli che sopravvivono, una volta ripresisi, sono contenti di essere ancora vivi. Voglio dire che se riusciamo a fermare qualche suicidio, facciamo quello che il pz. vuole, non il contrario. Con questo non voglio dire che chi decide di togliersi la vita lucidamente, non vada rispettato. Lucidamente, però. Se rinunciamo ai pazienti difficili torniamo indietro di almeno mezzo secolo, quando si diceva che le psicosi etc etc... non potevano essere trattate con la psicoterapia. Solo che la psicoterapia non può rimanere imbalsamata dentro a rigide norme (dietro alle quali spesso ci nascondiamo). Io la penso così. E ti ripasso la parola .A presto, con stima Gilda
Cara Gilda, a questo punto il discorso sul suicidio si biforca: da un lato persone che hanno consapevolmente scelto di andare dall'altra parte e con le quali, penso che siamo d'accordo, non cè nulla da fare; dall'altra adolescenti che devono ancora imparare a contenersi da soli e a pensare. Come sempre nelle cose psichiche, non c'è una distinzione netta, ma un confine incerto. Per i primi vale il teorema di Hillman: "Non si tratta di unamorte prematura, come vorrebbe la medicina, ma dell'ultima reazione di una vita in ritardo che non si è trasformata in precedenza. Avendo mancato nel passato le sue crisi di morte [e rinascita ndr.] , vorrebbe morire adesso, e tutto in una volta. [..] L'effetto della morte consiste nel portare a compimento, in un momento critico, una trasformazione radicale. Intervenire a questo punto con la prevenzione in nome della preservazione della vita frustrerebbe la trasformazione radicale". Per i secondi il discorso è diverso: potrebbe trattarsi di un raptus. Ma come riconoscere un raptus? Mi viene in mente quell'ambigua espressione della Legge Basaglia, quando si parla di generiche 'alterazioni' della psiche. Quando una persona è alterata? Chi può stabilirlo? Due medici, dice la legge, ma poi ci vuole anche l'imprimatur del sindaco per evitare che i tecnici possano agire senza controllo. Il solito problema: chi controlla i controllori? Se, come dici tu, un ragazzo tenta di suicidarsi perché gli ha preso un raptus, dobbiamo: a) stabilire che si tratta di un raptus e non di una decisione consapevole (che a quell'età non può essere presa?); Gilda Bertan e Paolo Clemente 11
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b) impedirgli il suicidio oggi perché ci ringrazierà domani. Possiamo e dobbiamo essere creativi, certo, soprattutto se ci viene chiesto di intervenire in situazioni di costrizione, come quando un ragazzo ci viene portato dal genitore perché lo 'curiamo'. La psicoterapia può crescere in situazioni di costrizione? Mi vengono in mente quei fichi abbarbicati sulle mura di Urbino: non sono le condizioni ideali per la pianta, eppure vive. Questa è la sfida da raccogliere, per chi la sa raccogliere. Anche con i cosiddetti 'psicotici' si opera in situazioni di costrizione. Più che di pazienti difficili parlerei di pazienti coatti. Ecco, la mia tesi è che in tutti i casi di coercizione al trattamento non facciamo psicoterapia ma un'altra cosa che, non trovando una parola migliore, chiamerei 'ortofrenia'. E credo anche che sia necessaria una grandissima versatilità per fare sia la psicoterapia che l'ortofrenia, a seconda dei casi. Per quanto mi riguarda, preferisco lasciare il 'lavoro sporco' ad altri operatori e trattare solo clienti che sono venuti da me con le proprie gambe. Sia perché conosco i miei limiti, sia perché temo che abituandomi a lavorare in situazioni di costrizione potrei perdere la capacità di lavorare in situazioni di non costrizione. Insomma, preferisco la specializzazione alla versatilità. E' davvero stimolante interloquire con te. Alla prossima ciao Paolo
Caro Paolo, quando cerco di esporti il mio pensiero, in risposta alle tue osservazioni, mi si accavallano un'infinità di idee che vorrei comunicarti, cosa che praticamente è impossibile fare in una mail. Si accavalla ad esempio l'idea di psicoterapia in rapporto a ciò che tu definisci simmetria/asimmetria (io credo che la simmetria sia un discorso molto astratto applicabile solo alla geometria, ma non ai rapporti umani...) con qella della relazione terapeuta/ pz o cliente. Ancora: anche nell'adulto il suicidio può essere non una scelta, ma l'impossibilità a vivere a causa (ad esempio) di un'importante depressione. Poi l'annoso problema della psicoterapia (ma perchè ortofrenia a tutti i costi?) applicata ai pz psichiatrici o borderline. Insomma tante cose. Per me gli ingredienti della psicoterapia sono: l'ascolto, la capacità negativa del terapeuta (ovvero quel famoso atteggiamento senza memoria e senza desiderio, ovvero anche capacità di non fare e di non dire e di non interpretare) la funzione Gilda Bertan e Paolo Clemente 12
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alfa (ovvero la capacità di operare trasformazioni nel campo... operazioni di bonifica....) Tutte queste cose si possono fare anche in situazioni critiche. E' chiaro che la psicoterapia dovrebbe partire da una scelta del paziente. A volte però l'individuo si trova in situazioni in cui non può scegliere. Certo che il lavoro psicoterapico vero e proprio forse ( ma non ne sono poi così sicura) inizia quando si concorda di intraprendere consensualmente un percorso insieme... Per forza non si tiene nessuno... tanto meno un adolescente. Se il trattamento va avanti è perchè al ragazzo la cosa... è... piaciuta! Io mi ero espressa in quei termini perchè si parlava del primo approccio, del primo passo verso il terapeuta. E lì a volte c'è bisogno di una spintarella. A volte bisogna volere al ragazzo (ma potresti leggere uomo o donna) più bene di quanto lui sia in grado di volersene in quel momento. Riconoscere o no un raptus: mi sembrano problemi un po' artificiosi: la gente arriva: è lì, sul campo,sta male: devi fare o non fare qualcosa; non hai molto tempo per le burocrazie. Io non temo di sporcarmi le mani. Sarà perchè o lavorato a lungo in ambito istituzionale e ho giusto quegli anni in più (purtroppo) che mi hanno permesso di vivere con grande entusiasmo alcune svolte storiche sia in ambito manicomiale (Basaglia e dintorni) sia in ambito scolastico (smantellamento delle scuole speciali e inserimento degli h.) Se mi dai un indirizzo e se ti fa piacere, ti mando un mio libro “Il labirinto, Arianna e il filo”. E' sulle patologie gravi in età evolutiva, ma il mio pensiero c'è tutto. Molto è applicabile all'adulto. Resta chiaro che io non voglio insegnare niente a nessuno. Solo mi piace il confronto. Mi stimola sempre nuove idee. Perciò ti ringrazio di darmene l'opportunità. Per intanto ti saluto. Alla prossima Gilda
Cara Gilda, ci incontriamo senz'altro sull'ascolto e sulla "capacità negativa del terapeuta (ovvero quel famoso atteggiamento senza memoria e senza desiderio, ovvero anche capacità di non fare e di non dire e di non interpretare)" e ancora sulla capacità del terapeuta di 'agganciare' un adolescente che pure è stato inizialmente costretto dai suoi alla psicoterapia. Non sono d'accordo, invece, quando parli della 'depressione' come di un'entità, una malattia, un incidente della vita. Penso che ogni paziente sia affetto semplicemente da se stesso e dunque, se proprio di depressione vogliamo parlare, essa è un proGilda Bertan e Paolo Clemente 13
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dotto, cioè una costruzione della personalità intera e non qualcosa che abbia 'colpito' accidentalmente il paziente. Se vogliamo comprendere il senso della depressione, dobbiamo chiederci con Kelly se per caso non ci sia un'alternativa peggiore che il cliente sta scartando: insomma, la depressione potrebbe anche essere la soluzione meno peggiore al problema esistenziale di una persona. In fondo tutti quanti - ma per fortuna non tutti i giorni! - dobbiamo decidere cosa fare delle nostre e altrui vite. "La gente arriva: è lì, sul campo, sta male: devi fare o non fare qualcosa" scusami se citerò ancora ‘Il suicidio e l’anima’ di Hillman, ma dice le cose che penso in un modo inimitabile - "Il medico, perciò, deve curare. Al di sopra di ogni altra cosa egli deve fare qualcosa... Qualsiasi passività da parte sua diventa una sorta di suicidio... ciò che ha valore non è quello che il medico fa, ma il fatto che egli faccia... Oggi soltanto il medico può guarire, e questo è il motivo del suo grande successo e del suo essere continuamente costretto a fare qualcosa...Il medico, oggi, contende da solo con la vita e con la morte... E' subentrato agli dei, e un segno della sua assunzione in un luogo divino è la sua fretta di aiutare, la sua mania per l'azione, il suo furor agendi". Hai ragione quando dici "io credo che la simmetria sia un discorso molto astratto applicabile solo alla geometria, ma non ai rapporti umani": mi rendo conto che pecco di 'esprit de géométrie' volendo sempre razionalizzare tutto, mentre la terapia è fatta anche di 'esprit de finesse' e di dionisiaco. Questo è un mio difetto, lo riconosco, ma forse è anche il mio stile. Non per nulla ho scelto Kelly e non Perls o Lacan... Non penso che la gente faccia scelte sbagliate ma soltanto scelte che a noi terapeuti non piacciono. La contraddizione, così come il problema o il sintomo, è sempre nell'occhio dell'osservatore: ecco perché mi faccio spiegare i problemi dai miei clienti anziché spiegarli io a loro. Ora ti saluto, non prima di averti dato il mio indirizzo, anche se averti qui a disposizione, tutta per me, è molto più eccitante che leggere un libro;-). Ciao Paolo
Caro Paolo, sono d'accordo con quasi tutto. Solo una cosa: anch'io non vado pazza per la nosografia, ma dobbiamo pur capirci quando parliamo di un qualche disagio. Ogni persona è unica, ma dal momento che riusciamo a comunicare, credo che qualcosa di comune tra gli esseri umani ci sia (Hillman come junghiano penso che sarebbe d'accordo...) Per questo motivo l'umanità cerca sempre di nominare gli eventi, disagi psichici compresi. Ed ora temo che ti scandalizzerai: io penso che la malattia mentale esista. Possiamo cambiare il suo nome, ma la sostanza non cambia. Come non è chiamando con nomi strani ed edulcorati gli handicap che li togliamo a chi ce li ha. Penso che tanto più abbiamo chiara la configurazione di certi "quadri cliGilda Bertan e Paolo Clemente 14
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nici" e tanto più riusciamo ad essere di aiuto. Se riusciamo a intuire una brutta depressione in tempo e cercare comunque, anche solo con la nostra silenziosa presenza, di far sì che non tutti gli spiragli verso il futuro si chiudano, può essere che evitiamo un suicidio. Se insisto su qs punto è perchè ho (ahimè!) una qualche esperienza in proposito.... So di essere brutale, specie con uno come te che (non so se pecchi di geometrismo) ma sicuramente mi sembri un affascinante romantico, anche poetico a volte... Ma come fa l'uomo ad essere affetto soltanto da sé stesso e come fai a dirlo proprio tu che conosci bene la moltitudine che ogni uomo ospita, tanto da avere un alter ego in Jean Mais? Certo ognuno è unico, ma non è una monade. Quel malessere, che tu lo voglia chiamare depressione o no, certamente, inesorabilmente è suo. Ma non è certo una sua produzione autarchica . Dire che uno è depresso, sarà pure mettergli un'etichetta, ma non è certo mettergli la depressione dentro. E' risconoscere che la sua mente, o la sua anima (come direbbe Hillman) soffre, in maniera unica, irripetibile, ma non del tutto incomprensibile agli uomini... Ti dirò di più: è quello il momento in cui se lui sente che io gli sto volendo più bene di quanto lui in quel momento sia capace di volersene.... qualcosa si smuove.. Ora devo andare. Sai, mi sono resa conto di aver trascurato Luciano. Ma se vuoi puoi passargli le nostre discussioni. Io non ho nulla in contrario. amichevolmente Gilda
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