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I SENTIERI DELLA RICERCA rivista di storia contemporanea
Del Boca Ottolini Cerutti Begozzi Colombara Giovana Ventura Addis Saba Ferro Beccaro Giannantoni Michelotti Romandini Vecchia Zaccaria
dicembre 2006
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I SENTIERI DELLA RICERCA rivista di storia contemporanea
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO
I Sentieri della Ricerca è una pubblicazione del Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo.
Direttore Angelo Del Boca Condirettori Giorgio Rochat, Nicola Labanca Redattrice Severina Fontana Comitato scientifico Marina Addis Saba, Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele, Gian Mario Bravo, Marco Buttino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni Clodomiro, Basil Davidson, Jacques Delarue, Angelo d’Orsi, Nuruddin Farah, Edgardo Ferrari, Mimmo Franzinelli, Sandro Gerbi, Mario Giovana, Claudio Gorlier, Mario Isnenghi, Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Vittorio Lanternari, Marco Lenci, Aram Mattioli, Gilbert Meynier, Pierre Milza, Renato Monteleone, Marco Mozzati, Richard Pankhurst, Giorgio Rochat, Massimo Romandini, Alain Rouaud, Gerhard Schreiber, Enrico Serra, Christopher Seton-Watson, Francesco Surdich, Nicola Tranfaglia, Jean Luc Vellut, Bahru Zewde
La rivista esce in fascicoli semestrali Direttore Angelo Del Boca Editrice: Centro Studi Piero Ginocchi Via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB) Stampa: Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli Via Jenghi, 10 - 28877 Ornavasso (VB) e-mail: info@saccardotipografia.191.it N. 4 - 2° Sem. 2006 Numero di registrazione presso il Tribunale di Verbania: 8, in data 9 giugno 2005 Poste italiane spa Sped. in a.p. D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 Prezzo di copertina € 12,00 Abbonamento annuale € 20,00 Abbonamento sostenitore € 100,00 C.C.P. n. 14099287 intestato al Centro Studi Piero Ginocchi via Pellanda, 15 - 28862 Crodo (VB) causale abbonamento: ISDR
La pubblicazione di questa rivista è stata possibile grazie al contributo di:
Provincia del Verbano Cusio Ossola
Comune di Crodo
Comune di Baceno
Sommario
editoriale 7
Voltiamo pagina di Angelo Del Boca vivere la Resistenza
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Il diario partigiano di Nino Chiovini
89
Fuori legge??? di Nino Chiovini. Note su un diario partigiano
di Gianmaria Ottolini 109
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Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza di Giovanni A. Cerutti La sala storica di Domodossola. Storia di una mostra «permanente»
di Mauro Begozzi 153
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale di Filippo Colombara
195
Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese di Mario Giovana
203
La questione della politica partigiana di Davide Ventura
225
La lotta di liberazione delle donne partigiane di Marina Addis Saba
241
Le riforme democratiche sacrificate al miraggio dell’Armata Rossa di Giovanni Ferro
261
Che cos’è il premio Omegna. Dialogo fra Massimo Bonfantini e Mauro Begozzi
275
Verso i quarant’anni. L’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara»
283
La «Casa della Resistenza» di Fondotoce. Un centro-rete per la storia del ’900 nel Verbano Cusio Ossola
rassegna bibliografica 291
Il mondo e gli uomini di Giustizia e Libertà nella ricostruzione di Mario Giovana di Andrea Beccaro
295
Giovanni Pesce, garibaldino in Spagna di Franco Giannantoni
303
Schede
317
Notizie sugli autori di questo numero
Voltiamo pagina di Angelo Del Boca
1. È con un sollievo indicibile, che non ha paragoni, che abbiamo visto concludersi il quinquennio di governo di Silvio Berlusconi. Dire che l’abbiamo vissuto con angoscia e fastidio è riduttivo. Per la prima volta in questo dopoguerra, interminabile e non privo di turbamenti, il nostro paese ha sfiorato il collasso economico, ha perso rispettabilità all’estero, ha visto stravolgere la Costituzione nata dalla Resistenza, ha rischiato di soffocare in un clima di volgarità, di doppiezze, di calunnie, di bugie, di false promesse, di assenza totale di valori. Mai era accaduto nella storia d’Italia, che un presidente del Consiglio definisse «coglioni» tutti gli italiani che non avrebbero votato per lui. Nel definire del tutto anomalo il progetto politico di Berlusconi e della destra che lo sostiene, il direttore de «la Repubblica», Ezio Mauro, indicava i quattro elementi cardine di questa devianza: «La cultura populista, il monopolio dell’universo televisivo, il conflitto di interessi e le leggi ad personam [...]. Se non si vuole parlare di regime, ove queste quattro anomalie sussistano, bisogna però convenire che la qualità della democrazia ne risulta fortemente impoverita»1. Ancora più severo Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano romano. Scriveva il 20 marzo 2006: «Ma chi è, che cosa è diventato il Berlusconi di questa campagna elettorale? Una scheggia impazzita di un sistema istituzionale volutamente frantumato in cinque anni di bracconaggio legalizzato dalla maggioranza parlamentare? Un eversivo disposto a tutto pur di non lasciare il potere? Un caso di egolatria da manuale psichiatrico?» E concludeva: «Berlusconi è convinto di governare per diritto divino»2. Non meno intransigente era il giudizio su Silvio Berlusconi espresso da David Lane, il giornalista inglese che per anni ha studiato il personaggio per conto dell’autorevole «The Economist»: «I metodi di controllo sociale si sono affinati nei settant’anni che separano la Marcia su Roma di Mus7
Angelo Del Boca
solini dalla discesa in campo di Berlusconi. Eppure, qualsiasi cosa sia stata detta per spiegare e giustificare l’anomalia italiana chiamata Silvio Berlusconi, il suo controllo dittatoriale sui mezzi d’informazione italiani rappresentava una reale e funesta minaccia per la democrazia. Il paragone tra Mussolini e Berlusconi potrebbe essere esagerato, senza dubbio, ma quando gli storici riesamineranno in futuro la storia di un ricchissimo magnate dei media con seri problemi giudiziari che si lanciò in politica e conquistò il potere, difficilmente diranno che ha portato onore al suo paese o che i suoi anni di governo siano stati un periodo di cui gli italiani possano parlare con orgoglio»3. 2. Nei cinque anni di Berlusconi uno dei bersagli favoriti dalla compagine di centro-destra è stata la Resistenza. Si è fatto di tutto per denigrarla, per sottostimarne il peso militare, per evidenziarne il ruolo di divisione, per cancellarne la memoria o per confinarla tra i miti illusori. Il fatto, del resto, può riempirci di amarezza e di indignazione, ma non stupirci. Una delle colonne portanti della Casa delle libertà è una formazione politica che ha le sue radici nella storia e nell’ideologia del fascismo. Nonostante le abiure di comodo, i congressi di presunta rifondazione e i pellegrinaggi in Terrasanta del suo leader, la matrice fascista affiora di continuo in Alleanza Nazionale. A sessant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale non si sono mai viste tante svastiche, tante croci celtiche, tanti labari e saluti romani come durante la campagna elettorale per le politiche del 9 aprile 2006. Nel corso della quale la Casa delle libertà ha imbarcato tutto l’arcipelago della destra estrema neofascista, dalla Mussolini a Rauti, da Tilgher a Saya, a Fiore. Anche se, fortunatamente, gli obiettivi più radicali non sono stati raggiunti da questa destra, non si possono tuttavia dimenticare tutti i tentativi per abrogare la legge Mancino e la XII norma finale della Carta costituzionale contro la ricostruzione del disciolto partito fascista. Così come i tentativi per la cancellazione del 25 aprile come festività nazionale: già proposta da Almirante nel 1955 ed oggi riproposta dal «Domenicale» di dell’Utri. Né va dimenticato il progetto di Alleanza Nazionale per il riconoscimento della qualifica di «militari belligeranti» per quanti servirono dopo l’8 settembre dalla parte di Mussolini. Per ben due volte, nel 2003 e nel 2005, un gruppo di parlamentari di AN cercava di far approvare una legge che poneva i neofascisti di Salò sullo stesso piano dei partigiani. Il 10 gen8
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naio 2006 il decreto-legge n. 2244 veniva però cancellato dal calendario del Senato soltanto perchè, in vista dello scioglimento delle Camere per le elezioni del 9 aprile, veniva a mancare il tempo per la discussione. Nel commentare questo disegno di legge, nel momento in cui più accesa era la polemica fra i due poli, Maurizio Viroli scriveva: «La legge ha inoltre un evidente significato di scherno: nell’anno in cui l’Italia celebra il sessantesimo anniversario della Liberazione, la maggioranza di governo approva una legge che sancisce solennemente che chi ha combattuto per la libertà ha il medesimo valore di chi ha combattuto perchè l’Italia rimanesse serva. Le leggi non assegnano soltanto premi o sanzioni, ma esprimono valori e formano cultura. Il valore che questa legge esprime, e la cultura che vuole formare, è che la Resistenza è stata una semplice guerra civile fra bande di ugual valore. Un modo davvero ineccepibile di celebrare la Liberazione»4. Gli episodi che abbiamo ricordato fanno parte della vasta campagna di denigrazione e di delegittimazione che è stata condotta dalla maggioranza di centro-destra. Ma non sono i soli. Si va dal progetto di varare una festa che sostituisca quella del 25 aprile, all’attribuire all’attività di guerriglia dei partigiani la responsabilità delle stragi naziste5; dal tentativo di Berlusconi di assolvere Mussolini precisando «che non ha mai ucciso nessuno» mentre gli oppositori li mandava graziosamente «in vacanza al confino»6, alla gara fra pseudostorici nell’enfatizzare le stragi compiute dai partigiani nell’immediato dopoguerra. 3. Proprio per celebrare la fine di un lungo e fastidioso incubo – Berlusconi e i fascisti al governo – dedichiamo questo quarto numero della rivista ai temi della Resistenza e dell’antifascismo. Apre la rassegna lo straordinario «diario partigiano» di Nino Chiovini, per la prima volta pubblicato nella sua versione integrale e corredato di una lunga nota di Gianmaria Ottolini, che ne precisa le vicende, i personaggi, i valori. Segue un articolo di Mauro Begozzi su La Sala storica di Domodossola. Storia di una mostra permanente. Gianni Cerutti, dal canto suo, interviene sulla data del 25 aprile e scrive la storia delle sue celebrazioni. Filippo Colombara partecipa alla rassegna con un documentatissimo saggio sui riti e i simboli della guerra partigiana, mentre Davide Ventura si chiede se la resistenza abbia avuto una sua precisa politica. Marina Addis Saba dedica, a sua volta, un saggio riparatore alle donne partigiane, il cui apporto alla guerra di liberazione è stato 9
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troppo a lungo trascurato. Di particolare interesse, poi, il saggio di Mario Giovana dal titolo Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese. Del libro inedito di Giovanni Ferro, dal titolo La parabola dell’antifascismo democratico, pubblichiamo un capitolo nel quale il vecchio antifascista (classe 1911), che ha conosciuto i confini di Lipari, Ponza, Ventotene, Gioia Tauro, descrive con amarezza la liquidazione del Partito d’Azione, la caduta del governo Parri, la fallita epurazione dei fascisti, l’occupazione totalitaria dello Stato da parte della Democrazia Cristiana. Mauro Begozzi e Massimo A. Bonfantini intessono infine un dialogo sul Premio letterario della Resistenza Città di Omegna, giunto quest’anno alla 47a edizione. 4. Il prossimo numero sarà, come di consueto, articolato nelle già note sezioni. Ma, ancora una volta, predominerà l’Africa, con articoli sulla cacciata degli italiani dalla Libia di Gheddafi; sull’aggressione all’Etiopia vista dal quotidiano genovese «Il Lavoro»; sul Congo Belga nella memoria dei coloni italiani. Ma il documento più rilevante (e agghiacciante) è costituito dalle fotografie scattate dal soldato Giorgio Vitali mentre Addis Abeba veniva data alle fiamme per rappresaglia al fallito attentato del 19 febbraio 1937 alla vita del viceré Graziani. Il 2006 è stato un anno molto fortunato per gli studi sul colonialismo italiano. Dal 5 al 7 ottobre si sono svolti a Milano i lavori del convegno internazionale «L’Italia e l’Etiopia. A settant’anni dall’impero fascista», con l’intervento di trenta studiosi italiani, etiopici, eritrei ed inglesi, in pratica i maggiori specialisti della materia. Dal 12 al 14 dicembre si è invece tenuto a Tripoli, per iniziativa del Libyan Studies Centre, diretto da Mohamed T. Jerary, e di alcuni storici italiani, un seminario sui campi di concentramento costruiti e gestiti dagli italiani nella regione desertica della Sirtica, dal 1930 al 1934, con un bilancio di 40 mila morti. Entrambi i convegni hanno fornito nuovi e decisivi apporti all’indagine sui rispettivi temi. Nel corso del 2006 è stato anche possibile accedere ad un archivio di capitale importanza per la storia delle relazioni italo-libiche, di cui, addirittura, non si conosceva l’esistenza. Si tratta dell’archivio di proprietà dell’avvocato libico Anwar Fekini, che comprende, fra i documenti di maggior rilevanza, le Memorie del nonno, Mohamed Fekini, uno degli oppositori tripolitani più coerenti e tenaci all’occupazione italiana della Libia; circa cinquecento allegati (soprattutto lettere) alle Memorie, che coprono il periodo 1911-1930; e la raccolta di poesie dell’ambasciatore Ali Noured10
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dine Fekini, padre dell’avvocato Anwar, dal titolo Ricordi della resistenza e dell’esilio. L’insieme dei documenti comprende più di mille pagine e costituisce un unicum che, per alcuni aspetti, ribalta la visione che noi occidentali abbiamo del popolo libico e di quel periodo storico. Da un primo utilizzo di questo archivio, ci è stato possibile compilare un volume dal titolo A un passo dalla forca. Il libro, corredato da una cinquantina di fotografie inedite, apparirà nel febbraio 2007 in quattro versioni, italiana, francese, inglese e araba. Il 2006 è stato anche l’anno della pubblicazione, sul quotidiano «la Repubblica», di alcuni articoli su una delle più bestiali stragi consumate in Etiopia dalle truppe del generale Ugo Cavallero. Gli articoli, oltre a suscitare sgomento, provocavano commenti e proposte di notevole rilievo. Il giurista Antonio Cassese, ad esempio, suggeriva di seguire l’esempio della Germania, che ha reagito al nazismo scavando a fondo nel proprio passato recente, facendolo conoscere, attraverso un serratissimo dibattito fra storici (Historikerstreit) alle più giovani generazioni, erigendo monumenti e musei alla memoria. Egli suggeriva inoltre di costituire una commissione di storici che esaminasse ciò che è accaduto in Etiopia (e nelle altre colonie italiane, aggiungiamo noi) e preparasse «una documentazione ed una analisi rigorose». In seguito alla proposta di Antonio Cassese (apparsa su «la Repubblica» del 23 maggio), noi chiedevamo ospitalità allo stesso giornale per avanzare un ulteriore suggerimento. Quello di istituire una Giornata della memoria per i 500 mila africani che l’Italia crispina, giolittiana e fascista hanno sacrificato nel corso delle loro sciagurate campagne di conquista. Nello stesso giorno in cui Nello Ajello esponeva la nostra proposta nel suo intervento su la «Repubblica», scrivevamo una lettera al ministro degli Affari Esteri Massimo D’Alema per metterlo al corrente della nostra iniziativa. La scelta di Massimo D’Alema non era casuale o soltanto dettata dalla stima che nutriamo per lui. Per la verità, egli è stato il primo – e unico – capo del Governo italiano che, dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, nel corso del suo viaggio a Tripoli del 1° dicembre 1999, ammise in maniera esplicita la colpa coloniale. Contiamo dunque sulla sua sensibilità e sulla sua capacità di leggere la storia, anche quella che si vorrebbe rimuovere e cancellare a tutti i costi. Nella lettera a D’Alema gli facevamo osservare che gli attuali rapporti con le nostre ex colonie non sono per nulla sereni, a cominciare da quel11
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li con Tripoli, turbati dal mancato risarcimento per i danni di guerra. Una ricerca a tutto campo, eseguita con metodi scientifici, sui crimini commessi in Africa, non potrebbe che allontanare dal nostro paese il sospetto che si voglia rimuovere il passato e negarne gli aspetti più deteriori, come sta facendo da tempo il Giappone. Ciò potrebbe anche agevolare la soluzione del problema del contenzioso, che si trascina da anni. Quanto alla Giornata della memoria per i 500 mila africani uccisi, ci sembra che essa abbia un valore non soltanto simbolico. Noi siamo convinti che potrebbe avere un influsso non effimero su popolazioni che non lottano soltanto contro la povertà e l’Aids, ma cercano disperatamente anche una propria identità. Se questa «giornata» venisse fatta propria del nostro Governo – scrivevamo nella lettera a Massimo D’Alema – si raggiungerebbe anche l’obiettivo di riconoscere ufficialmente le colpe e gli orrori del nostro passato coloniale nella maniera più esplicita, nobile e definitiva. 5. UN NUOVO APPELLO. Il nostro «Appello ai lettori», che ha aperto il fascicolo 2 de «I sentieri della ricerca», e che li invitava ad abbonarsi alla rivista, ha avuto un discreto successo: circa 100 abbonamenti, fra i quali alcuni «sostenitori». Se si aggiungono agli altri 100, di cui già disponevamo, si copre con questi introiti quasi il costo di un numero della rivista. È già un buon risultato, e noi siamo grati ai sottoscrittori, ma non è ancora sufficiente. Sono necessari altri 200 abbonamenti. Dobbiamo tuttavia segnalare che due enti pubblici, la Regione Piemonte e la Provincia di Verbania, hanno risposto al nostro appello rispettivamente con un contributo di 3.500 e 1.000 euro. Confidiamo che queste loro sovvenzioni vengano ripetute anche nei prossimi anni per assicurare la sopravvivenza alla nostra rivista. Vogliamo ricordare, ai nostri lettori, che l’editrice della rivista possiede uno statuto di organismo senza fini di lucro, e che il direttore e i collaboratori de «I sentieri della ricerca» non percepiscono alcun compenso, ma si sentono premiati dal solo privilegio di poter fare della ricerca storica, con metodo, passione, coerenza, senso di responsabilità, e senza condizionamenti. Torino, 15 dicembre 2006
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Note al testo 1
«la Repubblica», 8 agosto 2005: Berlusconi e l’anomalia della destra italiana.
2
«la Repubblica», 20 marzo 2006: Capo del governo per diritto divino.
3
DAVID LANE, L’ombra del potere, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 351.
4
«la Stampa», 12 febbraio 2005: La pacificazione non si ottiene senza giustizia.
5
Il 22 aprile 2003 il portavoce di Forza Italia, Sandro Bondi, sosteneva che se le popolazioni di Marzabotto avevano pagato un «prezzo troppo alto», la colpa era dei partigiani che hanno «radicalizzato lo scontro con i nazisti in ritirata» («l’Unità», 23 aprile 2003). Periodicamente, poi, gli autori dell’attentato di via Rasella venivano indicati come i veri responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, travisando i fatti in maniera indecente.
6
«Corriere della Sera», 12 settembre 2003. Le dichiarazioni di Berlusconi furono registrate dal settimanale britannico «The Spectator».
7
«la Repubblica», 22, 23 e 27 maggio 2006.
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Vivere la Resistenza
Il diario partigiano di Nino Chiovini
È un romanzo questo? L’autore dice di no. L’autore dice che è necessario, se vogliamo pubblicarlo, premettere qualche parola di scusa. Non sappiamo bene di che voglia scusarsi. Forse di essere più partigiano che romanziere? Ma se fosse più romanziere sarebbe stato certamente meno partigiano. Forse anche i lettori lo preferiranno così. Fuori legge??? Diario di un partigiano nel Verbano* [1] Nell’ottobre dell’anno di grazia 1943, sulle montagne del Verbano, tre gruppi di persone si erano intestarditi nel proposito di voler giocare alla guerra. Gli altri, dopo i primi proclami tedeschi a lettere cubitali con le varie pene di morte, erano tornati alle loro case, facendo più o meno, pubblicamente, atto di sottomissione ai nuovi e vecchi padroni. I tre gruppi di testardi erano: quello dei finti boscaioli con dimora al Locchio, un’alpe sotto la Marona; quello dei finti cacciatori con dimora all’Alpe Vel; il gruppo internazionale di stanza ad Alpe Aurelio; internazionale perché costituito da quattro italiani, due sudafricani e cinque inglesi; L’armamento superava di poco quello dei defunti «balilla». Chi aveva un fucile da caccia, chi un paio di ’91, chi una pistola a tamburo. Naturalmente il «chi» si riferisce ai gruppi e non agli individui. I pugnali erano considerati armi da fuoco. La situazione alimentare era costantemente pietosa, prova ne sia che il * Pubblicato a Verbania sul settimanale «Monte Marona» in 36 puntate, con poche interruzioni, dal n. 15 del 6 ottobre 1945 al n. 54 del 10 luglio 1946 e firmato con l’acronimo enneci. Tra parentesi quadre il numero delle puntate nonché le integrazioni e le date, del rastrellamento di giugno, corrette nella ripubblicazione parziale su «Resistenza unita», n. 6 del giugno 1989; la data, tra parentesi quadre, del 30 giugno 1944, corregge un evidente errore. I passi in corsivo del diario erano stati anticipati sul n. 12 (21 giugno 1945) in un pezzo, a firma Peppo, dedicato al partigiano «Vola» (Pierino Agrati). Per il resto la trascrizione è integrale.
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Il diario partigiano di Nino Chiovini
problema «stomaco» era quello che destava maggiori preoccupazioni. Era la prima battaglia da vincere e tutti i componenti cooperavano in vasta misura per vincerla. C’era chi chiedeva viveri alle proprie famiglie e chi raccoglieva castagne, chi sfruttava le conoscenze del posto e chi usava la propria faccia di tolla. Ad Alpe Vel imperversava la mania della caccia (Ermanno diceva fruttuosa) ai pennuti e alle lepri, ad Alpe Aurelio la pesca delle trote e le incursioni nei campi di fagioli di Rugno. Al Locchio, dice Sergio, si tirava la cinghia in modo inquietante. In quei tempi la parola «comitato» aveva un significato astratto quanto la parola «mitragliatrici». Qualche rara persona per sentimenti patriottici o per solidarietà umana contribuiva a non far cadere la baracca. Erano i Francioli, i Cividini, la Maria Meschia, la Savina… La storia dirà ai posteri che la situazione rimase invariata ancora per un mese. I fatti salienti di questo periodo furono l’arrivo al Locchio di Arca, Selva e Marco, reduci dal rastrellamento subito dalla loro banda sulle montagne di Pinerolo. [2] Da Alpe Aurelio se ne andarono i cinque inglesi, i quali non condividevano le nostre bellicose idee. Partirono dopo aver ringraziati i rimasti per il vitto e l’alloggio procurato loro per un mese. Quando in Val Cannobina li lasciai, credo se ne fossero già scordati: non volevano vendere i loro cappotti per pagare la guida che li avrebbe portati in territorio svizzero e per lasciare qualche soldo per il ritorno a me e a Cornie, un sudafricano che aveva voluto rimanere. Verso la fine di novembre si cominciò finalmente a parlare di azioni, solo a parlarne, ma ciò significava un passo innanzi. La situazione alimentare era migliorata benché lasciasse sempre molto a desiderare. I rimasti ed i nuovi arrivati avevano più fede e fermi propositi, poi c’erano…le armi. La futura Brigata «Battisti», che dal Locchio si era spostata nel frattempo a Steppio, era forte ormai di 15 o 20 uomini tra cui Arca, Marco, Sergio, Selva, Cucciolo e Cochi, i quali facevano assegnamento su di una diecina di moschettini e fuciloni mod. 91 non tutti scassati, oltre a qualche pistola. L’internazionale che non era più internazionale, ad Ungiasca venne rinsanguata con i «complementi», tra cui Tucci, Ugo, Jean. Possedeva sei moschetti, materiale esplosivo (mezzo chilo di gelatina per giunta trasudata), bombe a mano italiane e cinque o sei pistole non tutte a tamburo. Tutti 16
Il diario partigiano di Nino Chiovini
aggeggi recuperati nei giorni immediatamente successivi all’8 Settembre e trasportati faticosamente in valigie dal milanese. Ad Alpe Vel, Ermanno, Dante, Luciano, Togni, Pierino erano invece di tendenze conservatrici. Non avevano cambiato località ed il loro primitivo armamento non si era arricchito che di un «novantuno» ottimo per sperticare le noci, di una pistola automatica a cui mancavano colpi e caricatore e di un revolver a spinetta per duelli con manico di madreperla, pezzi di ricambio e astuccio di legno. Ermanno asseriva che quella pistola fosse un tempo quella del conte di Bragelonne, ma la mia opinione era quella che il primitivo possessore fosse da cercarsi in epoche più remote. Naturalmente colà, per coerenza conservatrice, era sempre di moda la caccia e pare fruttasse davvero poiché anche gli abitanti di Steppio scovarono una doppietta. L’arma era costantemente nelle mani di Marco perché lui diceva che sapeva sparare. Forse è vero. Nelle mie visite a Steppio (perché ora eravamo anche collegati o meglio sapevamo reciprocamente dell’esistenza dei gruppi) sorprendevo sempre Marco col fucile imbracciato, in pose prettamente
La testata del giornale «Monte Marona»
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Il diario partigiano di Nino Chiovini
venatorie. Facili vittime della ferocia di Marco, erano i «scurbatt», ovverosia i corvi, primi esseri in camicia nera catturati ed uccisi, i quali servivano ottimamente a variare il monotono e poco sostanzioso rancio costituito da polenta e salsa che Arca pomposamente chiamava spezzatini. Qualche volta Marco acchiappava anche altri volatili quali le gazze che lui si ostinava a chiamar ghiandaie, fregandosene del mio parere di vecchio cercatore di nidi e di cacciatore con la fionda. Per amore di verità: Marco un giorno uccise una gazza (lui dice ghiandaia) con un colpo di pistola alla distanza di circa dieci metri, ma la pistola non è il fucile da caccia. Intanto per Intra, oltre ai soliti carabinieri, bighellonavano i primi «Mai morti» e nello stesso tempo Arca e compagni iniziavano le prime scorribande notturne in città. Fu appunto Arca che inculcò nei compagni la lodevole abitudine di togliere i pantaloni e le scarpe ai militi catturati e di lasciarli in tale stato. Il primo esempio lo diede una sera in compagnia di Cucciolo. Rifacendo l’esperimento con Bandera nelle vicinanze dell’odierna Casa del Popolo, si accorse che i due piccioni «beccati», nella nuova ed originale divisa non avevano proprio caldo. Sorsero allora in lui tutti i buoni sentimenti di cui era capace e con fraterna sollecitudine, applicando una legge fisica, si diede a sfregare le parti del loro corpo che maggiormente risentivano della bassa temperatura non senza prima averli legati ad un palo elettrico; ma Arca non sempre era buono. Intanto il numero di armi cresceva. [3] Da noi le armi erano sempre quelle, ma in compenso era stata trovata una fonte di viveri preziosissima: il Sanatorio di Miazzina. In poco tempo la nostra mensa fu invidiata quanto quella di Lucullo, ma tra gli sfamandi c’eravamo Tucci ed io che ci rivelammo subito formidabili consumatori di cibarie a danno dei compagni. Ugo fungeva da cuoco, ma valeva quanto me, ossia poco, e non sono modesto. Peccato che i fascisti mettessero spesso il naso negli affari del Sanatorio, per cui ogni tanto i viveri da quella parte non potevano arrivare, con le conseguenze presumibili. Venne il dicembre e con il dicembre il primo freddo e la prima neve che ci trovò alla Piana, quattro baite scassate nella conca di Valganna che avevamo ottenuto di abitare. Sicuro, ottenuto, perché quelli erano tempi in cui si chiedeva la baita, la legna, e a Steppio anche l’acqua delle cisterne. E spesse volte queste cose ci erano negate poiché la gente di lassù non pote18
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va capire cosa facessimo colà; fossimo stati almeno armati, ma le poche armi che avevamo le dovevamo tenere accuratamente nascoste e dovevamo passare per innocui renitenti, poiché se «quelli del basso» si fossero accorti, ci avrebbero «sbaraccati» alla prima puntata. «Sbaraccare» è un termine partigiano. Se poi qualche raro alpigiano notava la presenza di armi, quello non voleva aver più a che fare con noi, poiché vedeva già la sua casa, le sue baite in fiamme. Erano ancora i tempi in cui la gente era terrorizzata dai primi proclami nazi-fascisti, erano i tempi in cui non ci capiva e non capiva niente di noi e conseguentemente era l’epoca in cui noi tutto chiedevamo fuorché l’ospitalità in case civili: sarebbe stato chieder troppo. Era l’epoca in cui nascondevamo le armi anche a duemila metri di quota. Prelevamenti, requisizioni, fucilazioni avrebbero destato orrore se qualcuno ne avesse parlato. Non eravamo partigiani nel significato della parola. Forse lo eravamo teoricamente. Giunse il Natale che ci portò il bel tempo e una notizia tanto bella quanto inaspettata: a Busto Arsizio si era costituito un Comitato il quale ci avrebbe fornito armi, viveri e uomini. Dopo il discorsetto che ci fece il rappresentante di questo Comitato, la parola «comitato» ebbe un significato meno oscuro ma nemmeno chiaro. Eravamo ancora diffidenti e fortunatamente scettici. Avevamo più fiducia nelle valigie che portavano i nostri parenti i quali non si chiamavano «comitato». Il mattino di Natale mi trovò arrancante e sudato sulla salita che da Cossogno porta ad Alpe Aurelio, nostra nuova e vecchia dimora, con le spalle gravate dal peso di un gerlo contenente una stufa, un sacco di patate e una damigiana di vino. Facevo «Babbo Natale»; infatti nella nostra «villa» trovai un albero di Natale, ma un albero veramente partigiano: in luogo delle candeline e dei soliti aggeggi, sui suoi rami erano appesi caricatori, bombe a mano, salamini di gelatina e simili. In cima troneggiava una lettera da casa: sentivamo già la nostalgia delle nostre case! Nei giorni successivi giunsero le prime reclute mandate da quel tal Comitato e giunsero anche una diecina di coperte. Belle coperte, vivacemente colorate, pesanti, fin troppo pesanti, ma avevano una proprietà che faceva a pugni con l’uso a cui avrebbero dovuto essere destinate: quella di non lasciar dormire per il freddo delizioso che attiravano. Sergio Papi si accaparrò subito quella dei colori più sgargianti, perché voleva farsene un cappotto quando sarebbe finita la guerra. Povero Sergio! Ho ancora a casa il tuo 19
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cappotto ma non è fatto con quella coperta e per te la guerra è finita quando ti hanno fucilato in un lager tedesco. La sera del 2 gennaio 1944 Intra vide passare per le sue vie strani individui. Forse erano più ridicoli che strani. Si vedeva chiaramente che facevano il possibile per passare per giovinastri in cerca di ragazze. Qualcuno era vestito in modo equivoco: scarponi chiodati, pantaloni da sciatore, giacche militari… Erano a gruppi di due o tre e battevano le vie più frequentate soffermandosi e gettando occhiate dentro ogni bettola, ogni bar. Quando s’incontravano due di questi gruppetti, i componenti si scambiavano parole di questo genere: «niente?» «niente». In breve: quegli individui eravamo noi, in cerca affannosa di armi, naturalmente attaccate a qualche milite. Io dovevo essere molto buffo poiché ogni volta che incontravo altri compagni, partivano da loro irrefrenabili risate. Mi accorsi in seguito che al mio impermeabile nero di tela cerata mancava l’inceratura in un tratto, cosicché al centro della schiena si disegnava una macchia bianca sul nero dell’impermeabile. Anche il resto del vestiario destava serie preoccupazioni, dicevano gli altri, ma io non ero di quel parere, poiché mentre mi trovavo con Marco all’entrata del cinema Impero, uscì il pattugliame della GNR e nessuno dei componenti mi degnò di uno sguardo, cioè ero assolutamente normale. Marco dice che mi guardavano, ma io non credo a Marco. [4] Qualche giorno dopo partivo alla volta di Busto Arsizio con due compagni: si andava a fare la prima azione! Dovevamo prelevare armi e munizioni dalla casa di un tizio che non le avrebbe mollate che davanti alla bocca delle pistole. La cosa procedeva bene: il tizio aveva «mollato la merce» costituita di tre moschetti, pistole lanciarazzi, bombe a mano e mille colpi di fucile. La «merce» la trasportavamo dentro un sacco enorme, per le vie di Busto verso la casa di Luciano, uno dei miei due compagni. Era sera e la luna rischiarava madre terra molto ineducatamente. Quando ci trovammo a pochi metri da un pattugliame di fascisti, questi non tardarono molto a capire chi eravamo e così iniziammo il primo fugone, accompagnati da scoppi e da miagolii non rassicuranti. Candido, il secondo compagno, cadde prigioniero e noi due tornammo sul Verbano scornati. Raggiungemmo i compagni che nel frattempo si erano spostati a Pechi, un alpe sopra Intragna, a «un tiro di mitragliatore» da Steppio. Noi però cambiammo subito il nome di Pechi in quello più pomposo di Pechino, ragion per cui Steppio fu chiamata Sciangai, e Steppio passò alla storia sotto 20
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questo nome. A Pechino trovai due reclute mandate da Busto: un tizio alto e brutto, con voce cavernosa, che si diceva giornalista; e un ragazzo che dimostrava 17 o 18 anni. Cominciavo ad arrabbiarmi poiché pochi giorni prima quelli di Busto avevano inviato quassù un ex milite di 16 anni. Avevano forse intenzione di costruire un asilo infantile? Il ragazzino di 17-18 anni si chiamava Carluccio e gli chiedo scusa ora se quel giorno mi arrabbiai. La vita nei giorni successivi procedeva tranquilla per noi ma non per i cuochi di Sciangai e Pechino, i quali facevano la spola tra le due cucine, per continui baratti, allo scopo di preparare i pasti senza l’ausilio dei sali e dei grassi: ecco perché il rancio aveva sempre forti sapori di salsa e di dadi. Un giorno sono segnalati due carabinieri ad Intragna. Parto con Marco e con la pistola prestatami da Arca. Dobbiamo avere proprio l’aspetto dei boscaioli, se ad Intragna essi rispondono cordialmente al nostro deferente saluto. È proibito affrontarli in paese: li attenderemo nel bosco. Due impeccabili «mani in alto» riducono i due rappresentanti della legge alla posizione richiesta. Due «Beretta» nuove sono il premio della nostra fatica. Sono felice: in quel momento dimentico anche i tre moschetti e i mille colpi lasciati a Busto. Marco tiene un discorsetto a quelle due persone che si rivelano ipocritamente vili: uno è il brigadiere di Premeno. Saprà in seguito chi è la «Battisti»: per ora facciamo loro credere, come al solito, che siamo del gruppo «Beltrami». A Sciangai intanto la famiglia si è ingrossata: sono giunti il pompiere con il suo fardello di «balle» da raccontare; «37» con una petulanza da scolaro. Da un paio di mesi c’è anche uno studentello giunto quassù col pigiama ed altri attrezzi d’albergo. Ha un viso che sa di spavento e di allegria e tiene molto alla sua nazionalità colombiana. È permanentemente di vedetta alla «Casa dei Venti», il posto di avvistamento. Nessuno avrebbe riconosciuto in lui l’attuale Gabri. Una sera Arca parte con una diecina di abitanti delle due città montane, col proposito di disarmare il pattugliame dei militi che di notte scorazza per Intra. Eravamo troppo buoni in quei tempi; non si voleva sparare, volevamo soltanto le armi e, soprattutto, volevamo convincere chi già si era venduto all’invasore. Quando il pattugliame giunse nei pressi del rione di San Giuseppe fu accolto da un «mani in alto» imperioso sì ma inopportuno. Una dozzina di fascisti armati di sette mitra non si attiene ai voleri del primo che capita, ma, santa ingenuità, così avvenne, ed avvenne pure che i militi iniziarono 21
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il fuoco contro un mitra e una diecina di pistole. Arca, visto che il suo mitra non aveva intenzione di sparare, si lanciò contro un milite. Conclusione: il milite andò a terra ed Arca si trovò fra le mani un altro mitra. Quella notte il Verbano ebbe i suoi primi feriti: Mosca tornò col petto forato, assieme ad altri due feriti leggeri. [5] La sera seguente trovò riuniti reduci e rimasti nella «Sala Concordia», una baita con pavimento di legno e con stufa che naturalmente affumicava e non riscaldava. Arca, dopo avere illustrato gli errori commessi durante l’azione, ci disse: «Hanno sparato loro per primi. Da oggi in poi, guerra aperta». I ragazzi lo capirono, lo amarono di più e tennero fede a ciò che il Comandante aveva detto. Il primo sangue non li aveva spaventati e fu per questo che quella sera attaccarono con più ardore la canzone «…scendono i partigiani verso il cuore della città». Cantavamo non perché ci assaliva la nostalgia della casa, delle persone care; non per far passare la sera. Cantavamo perché avevamo una fede che non era ostinazione, per una volontà di combattere e punire i malvagi che avevano fatto male a dei nostri compagni; e questa volontà non era ancora provocata dall’odio ma da un sentimento di giustizia. Cantavamo contenti e sereni. Un giorno a Pechino arrivarono altre due reclute, mandate da Busto: un ragazzo di diciassette anni, esile, alto, ed un uomo sui 35 anni, con due occhi espressivi; mancava della mano destra! Ero arrabbiato con quel «Comitato» che mandava anche invalidi. Quell’uomo era Guido, «il Monco». Il ragazzo, Franco. Giunse il primo mitragliatore, e quel giorno fu festa cittadina; la corvée, partita il giorno precedente, fu accolta, al rientro, da una raffica che sfiorò le teste degli uomini. Essi credettero che a Pechino ci fossero i fascisti, poiché, armi automatiche, a quanto risultava loro, noi non ne possedevamo. A Sciangai ora ci guardavano con rispetto. Un giorno ero con Tucci a Cossogno. Ci dissero che a Villa Ompio c’erano i partigiani; avevano visto anche delle mitraglie: torcemmo il naso increduli. Ci diedero altri particolari, talché mandai Tucci a vedere. Tucci tornò nel pomeriggio con notizie strabilianti. C’era effettivamente un gruppo di partigiani, una quindicina, al comando di un certo mag22
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giore Superti e capitano Mario; c’erano anche due mitragliatrici 12,7 e quattro mitra. Un armamento da signori! Mi disse, poi, che il comandante del gruppo avrebbe desiderato parlare con Arca e che quei partigiani mangiavano carne e fumavano nazionali. Il nostro entusiasmo si raffreddò in seguito, quando ci diedero altre notizie e quando ci dissero che le mitraglie erano senza treppiede ed avevano soltanto 400 colpi, cioè 25 secondi di fuoco. Fu mentre Tucci raccontava, che incontrammo in paese due carabinieri. Li attendemmo sul ponte, fuori dall’abitato. Bottino: due moschetti e una pistola «Beretta». Fummo felici quel giorno. Alle giornate di sole primaverile sopraggiunse il freddo. Cadeva nevischio quel giorno, e lontano, in direzione di Alpe Pala si udivano colpi sordi e raffiche. Ad Alpe Pala c’era un nostro distaccamento, Port Arthur. Partii con Tucci, Gabri, Marmellata e Cucciolo in pattuglia. Arca mi aveva prestato il suo mitra. Ero contento di avere un mitra, ma mi sembrava ingombrante e pesante. I caricatori che portavo sul petto mi davano fastidio. Avevo tanto desiderato un mitra ed ora che lo avevo ne trovavo già i difetti. A Port Arthur ci dissero che era stata attaccato il Battaglione «Val d’Ossola», il gruppo di Superti. Un’autocolonna di fascisti era giunta nelle prime ore del mattino a Rovegro ed aveva attaccato le posizioni di Villa Ompio. Ora si udivano più chiaramente i colpi. Si distinguevano lo scoppio delle bombe a mano, le raffiche scroscianti della 12,7, quelle timbrate dei mitragliatori. Dalla conca di Alpe Ompio salivano delle colonne nerastre di fumo: erano le prime baite bruciate, il primo tributo che la gente della montagna pagava ai fascisti. C’incamminammo verso Unchio; lì avremmo atteso i fascisti che tornavano. Eravamo sei moschetti ed un mitra: pochi, ma anche sufficienti. Ci appostammo sopra la strada di Cossogno poiché ci avevano detto che anche a Cossogno c’erano i fascisti. Passammo parecchie ore scrutando, chiedendo tabacco a Marmellata, pane a Cucciolo e mandando ogni tanto Gabri a chiedere informazioni ai passanti. Era quasi sera quando decidemmo, arrabbiati, di levare l’appostamento e scendemmo sulla strada. Eravamo appena scesi che sulla strada di Rovegro e Santino si profilò una colonna di autocarri. Gridai di scendere verso il ponte di Santino mentre ormai tutti precipitavano in quella direzione. Traversammo di corsa Unchio, mentre le poche persone che incontrammo ci guardavano stupiti. Nulla, andavamo a sparare. 23
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[6] Giungemmo sopra il ponte un momento prima che una macchina targata «Polizei» si fermasse sotto di noi. Ci abbassammo, temendo di essere scoperti. La macchina si rimise in moto e noi ci disponemmo sopra il ciglio della strada alla imboccatura del ponte. La colonna sfilava sotto di noi: in fondo, dalla piana di Santino, scendeva il penultimo camion distanziato dai precedenti e dall’ultimo. Avvisai tutti di attaccare quello; togliemmo le sicure e ci mettemmo in posizione di sparo. Era ormai il crepuscolo, non si distingueva bene il mirino; gli automezzi su cui i fascisti stavano in silenzio, ignari, accendevano i fari. Pensavo che avrei fatto una raffica di tutto il caricatore e slacciai la fibbia delle tasche del porta caricatori per averne a portata di mano un altro. Tutti erano calmi, tranquilli: i fascisti e noi. Si stava per uccidere ed essere uccisi. Si può essere tranquilli quando si sta per uccidere. Io pensavo se sparando nella cabina del camion avrei dovuto spostare a ventaglio o no la canna del mitra. Gli altri non erano preoccupati; vicino a me vedevo i visi sereni di Gabri e Cucciolo. Per tutti era la prima volta che si sparava. Il camion sbucava dalla curva, imboccava il ponte, lo passava…Alla fine del ponte mirai, premetti il grilletto. Partì una raffica: vidi e sentii i vetri cadere, anche un fanale era stato colpito. Premetti ancora, niente: si era inceppato il mitra. Non avevo previsto quell’inconveniente. Lo scrollai furiosamente, ma non era quello il rimedio. Il camion, su cui si abbattevano i colpi dei compagni, dopo aver sbandato, si era fermato sotto di noi. Una bomba a mano lanciata da Carluccio era andata a finire sul cofano, un’altra lanciata da Marmellata, sul tendone. Sotto udivamo voci concitate: «Via, via, via!». Incominciò la reazione avversaria, la reazione dei 14 automezzi, la reazione di 250 uomini contro 7. Noi iniziammo la ritirata e Cucciolo continuava a sparare; lo chiamammo ed egli sparava. Quando finì il caricatore si decise a seguirci. Su per il prato di volata fra rari miagolii: i fascisti sparavano all’impazzata. Ripassammo tra le case, sulla strada di Cossogno, nel bosco. Ce l’avevamo fatta. Da un milite che in seguito disertò, ebbi i particolari. Avevamo fatto 4 morti e 5 feriti. Quel milite era sull’ultimo automezzo, un’autoblinda. Fortunatamente non sparammo su quella: ne avremmo cavato poco. Nei due giorni seguenti i fascisti tornarono con i tedeschi: tornarono in un migliaio e costrinsero la banda a ritirarsi sopra Cicogna, alla Casa dell’Alpino. Le perdite furono di 4 prigionieri, tra cui la moglie di Superti, 24
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una 12,7 e 48 baite incendiate. Due giorni dopo compivo venti anni. Tucci e Sergio mi regalarono la loro razione di sigarette, Marco un pacchetto di «Africa». Arca mi regalò la possibilità di prendere un mitra, ma io persi quella occasione. Febbraio 1944. Pechino è un bel posto, innegabilmente più bello di Sciangai. All’intorno c’è un bel prato; nel pomeriggio vi distendemmo le coperte sporche di polvere, di foglie secche e di pidocchi. C’è sempre sole: come faremmo a spidocchiarci se non ci fosse il sole? L’operazione di spidocchiatura richiede molto tempo ma è efficace. A Sciangai invece c’è sempre vento, le stradicciole tra baita e baita sono sature di fango, l’ambiente è caliginoso e poi a Sciangai, la gente non si spidocchia. A Pechino è in uso il «battesimo» della recluta: la recluta, seminuda, riceve parecchie secchie di acqua gelata e compie atti di sottomissione a chi ormai è già «anziano». Si sente «anziano» chi da due-tre mesi trascorre questa vita. E se nevicasse come faremmo con le reclute? Penso che troveremmo una soluzione: il battesimo lo debbono fare. Per gli atti di sottomissione il problema sarebbe più facile. Consiste nel procurare turni di guardia e corvé, legna da raccogliere e da spaccare, più del necessario; e con la neve gli anziani sarebbero ancor più esigenti. In cucina siamo sempre alle solite: si vive quasi alla giornata. Il magazzino non è che una piccola cassapanca tarlata nel cui fondo giacciono sacchetti di tela che conterrebbero un quantitativo di fagioli, di riso, di farina gialla, maggiore di quello che normalmente contengono. [7] Da Busto riesce a giungere finalmente fino a Laveno un autocarro con viveri e vestiario per noi. Il carico, meno la parte fregata dal proprietario della bettola in cui era stato scaricato, viene trasportato in barca fino a Ghiffa, dove passa sulle nostre spalle. La corvée è piuttosto lunga, ma finalmente possiamo cambiar la camicia, possiamo mangiare qualche volta il pane bianco, possiamo condire la minestra con l’olio, anche se l’olio ha un sapore impossibile, che trasferito alle pentole rimarrà finché si cucinerà in quelle pentole. Febbraio 1944. Ora c’è anche un piccolo distaccamento della «Battisti» a Pian Cavallone. Ciò per eventuale protezione e per collegamento con il 25
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Battaglione Valdossola, che si è attestato tra Alpe Ompio e la Valgrande. Siamo alla metà di febbraio: ormai il bel tempo se n’è andato ancora. Talvolta nevica, spesso c’è un vento eccezionale, sempre fa freddo. Siamo sempre tappati nelle baite. Il fumo dei caminetti è inesorabilmente ricacciato dal vento che, chissà perché, soffia da tutte le direzioni. Si lacrima e si gioca a carte, si impreca e si puliscono le armi, si tossisce e si prepara la minestra. Solo Filippo fa il bagno tutte le mattine rompendo il ghiaccio che si è formato alla superficie di un pozzetto. Solo le vedette si infreddoliscono sullo spiazzo dell’albergo Pian Cavallone e alla «Casa dei Venti» di Sciangai. Ma freddo ne avremo ancora e più intenso. Febbraio-marzo 1944. Mussolini ha concesso un’amnistia ai disertori ed ai renitenti che si presenteranno entro l’8 marzo. Il momento è scelto bene; i «tiepidi» chiedono un permesso e non si faranno più vedere: si sono «presentati». I fascisti hanno promesso, dicono, di bruciare le loro case se non si presentano; i carabinieri hanno arrestato i loro padri. Le file si sono assottigliate. Io non sono spiacente; anche Marco è contento, poiché «i più scassati, dice, sono partiti». A Pian Cavallone, Gabri, il comandante del distaccamento, è rimasto con un solo uomo. Arca è andato a casa per l’ultima volta; ormai viaggiare senza essere pescati è una cosa seria. Anche Carluccio e Renato mi hanno chiesto di andare a casa, a Busto, ma quella è gente che ritorna. Decido di spostare Pechino a Pian Cavallone. Iniziamo il trasloco e comincia a nevicare. Una pentola rotola in valle e non si trova più; è molto grave, ma all’albergo rimedieremo con i secchi di smalto. Anch’io decido di andare a casa poiché sento che potrò ancora andare soltanto alla fine della guerra. Parto senza documenti; a Intra incontro un mio ex compagno di scuola: ora è nella GNR. Viaggio con lui fino a Milano. Egli sa che sono un partigiano; una volta eravamo amici, ora ammette che la Germania ha ancora 40 probabilità su 100 di vincere la guerra, ma non ammette il male che fanno i fascisti. Poiché egli fa servizio a Varese, gli chiedo notizie di conoscenti che facevano parte della banda che era al S. Martino prima dello «sbaraccamento». Mi dice che sono stati catturati. Saprò in seguito che non è vero, e questo non è agire da amico; è agire da nemico, e forse è più logico così. 26
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A Milano lo lascio: lui è diretto a La Spezia per ottenere il passaggio alla «X Mas» o alla «S. Marco», io vado a casa per rivedere i miei. Sul trenino che mi porta a casa riesco a trovare un angolo buio che mi protegga da incontri non richiesti, di conoscenti. Talvolta vedo passare militi armati e penso non sia difficile disarmarli. Al mattino, col buio, riparto. Dal battello rivedo le montagne bianche di neve: è nevicato ancora. Riconosco Sciangai, Pechino, Alpe Vel, Pian Cavallone. Sul battello ci sono dei militi: non pensano che i partigiani, dal Cavallone, vedono questo battello; non sanno che vedono loro, che vedono me. Non sanno che lassù ho lasciato il mio moschetto, la mia pistola, il mio zaino. Non sanno che io sono un partigiano, mi piace pensare a queste cose. Io so chi sono loro, loro non sanno chi sono io. Sorrido al pensiero che tra poco rivedrò Guido e gli altri, rimetterò la mia sudicia giacca a vento ed i miei scarponi slabbrati e permeabili. [8] Sotto il rifugio di pian Cavallone incontro una corvée della legna; ci sono anche Carluccio e Renato: mi dicono che hanno portato un mitragliatore. Carluccio è stato preso in una retata a Busto, ma è riuscito a scappare quasi subito. È la terza volta che Carluccio è preso e riesce a scappare. Sono giunte altre reclute: ormai a Pian Cavallone siamo una ventina. Parte anche Sergio, in divisa da carabiniere con un compagno in divisa da milite, per trasporto di armi. Non li rivedremo più tutte e due. Sergio andrà in Germania e sarà fucilato in seguito ad un tentativo di fuga; dell’altro, di Pavia, non avremo più notizie. Marzo 1944. Da parecchi giorni nevica: è un nevicare fitto, sottile, ininterrotto, quasi orizzontale. Il vento fortissimo fischia e fa gemere i pochi alberi di Pian Cavallone incorniciati di ghiaccioli. Il metro e mezzo di neve sommerge tutto, i muretti, i massi; la stalla vicina non è che un cumulo bianco. È un magnifico, mefistofelico spettacolo della natura, ma qui sono quasi esaurite le scorte e non c’è legna. Chi ha voluto fare il tentativo di uscire, è tornato bianco, è tornato dopo aver percorso venti metri: non si può camminare. Se continua ancora qualche giorno a nevicare inizieremo a saltare il pasto. Le interminabili partite a tressette non riescono a far dimenticare che si ha appetito. Guido gioca molto a tressette: sono affezionato a Guido. Di notte, nemmeno con dieci coperte si riesce a dormi27
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re. Il freddo fa gelare il fiato sulle coperte e le sigarette che durante il giorno si sono inumidite. Non fa meraviglia, quindi, che in questi giorni nasca un giornale: «Liberi e Forti». Naturalmente il primo e ultimo numero del giornale, poiché tra qualche giorno cesserà di nevicare. Il giornale, a due facciate, è «stampato» a penna su di un foglio di quaderno, ed è maturato dalla mente del giornalista, il pidocchioso abitante di Lainate. La tiratura è di una copia. Il «giornalista» è uno strano individuo: una volta, dice lui, scriveva su «Il Popolo d’Italia»; ora è terrorizzato dalla Polizei che, dice sempre lui, piantona la sua casa e s’interessa moltissimo della sua attività clandestina. L’articolo di fondo è naturalmente suo, ed i compagni sorridono leggendolo: anche loro hanno scoperto che non ha un senso. Anche Gabri ha scritto un articolo sui «Comitati». L’articolo diceva che quando saremo calati al piano, sarebbero stati quelli dei «Comitati» a raccogliere gli allori e ad accaparrarsi i posti migliori. «Ma ricordatevi – dice l’articolo – che noi avremo ancora le armi in mano». (Noto che i «Comitati» non vanno confusi con i CLN; a quel tempo non erano che gruppetti di individui, per la quasi totalità industriali, che finanziariamente ci aiutavano). Anche Gabri talvolta sa essere profetico: non dimentichiamo che siamo ai primi di marzo 1944. Marzo 1944. Ha finito di nevicare e sono terminati anche i viveri. Abbiamo due metri di neve. Partiamo in cinque per Miazzina: si nuota nella neve. Giungeremo a Miazzina stanchi e bagnati, dopo sette ore di marcia infernale: generalmente ci vuole un’ora a compiere quel percorso. Al Sanatorio riempiamo i nostri zaini e ci rifocilliamo. Le suore ci guardano con pena e comprensione: in questo periodo esse sanno che hanno un compito importante per l’esistenza di un gruppo di partigiani e raddoppiano la quantità dei rifornimenti, sottraendola in mille modi alla dispensa del Sanatorio e al controllo dei fascisti. Giungiamo nel pomeriggio alla «Colma». Il vento, che soffia da stamattina, ha cancellato la pista di ieri; anche ora la cancella man mano che procediamo. Gettiamo gli zaini rigonfi nella neve e iniziamo a chiamare i compagni che a Pian Cavallone ci attendono. Finalmente sentono; gridiamo loro di scendere a prenderci gli zaini. Questa volta siamo quasi spossati: abbiamo accusato la neve alta e la lunga salita. Con noi c’è Dick. È un cagnolino di Miazzina, amico di Carluc28
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cio e questa volta l’ha voluto accompagnare. Il vento fa volare la neve che punge, e arrossa il viso, toglie il respiro. Ciò non va a genio al piccolo Dick, che non sa come sottrarsi a quel fastidioso ticchettio di ghiaccioli che anche noi tentiamo di evitare. Scava fossette nella neve e vi si accuccia, finché il vento non l’ha coperto di bianco, impedendogli la respirazione. Ne riesce per costruire altre fosse, uscendone ogni volta più esasperato. Noi ridiamo; perché, poi, dobbiamo ridere mentre un essere più debole si adopera per sottrarsi ad una cosa più forte della sua naturale debolezza? Non è giusto ridere, ma noi ridiamo, forse per non pensare al vento che ci flagella e alla stanchezza che ci fa accucciare nella pista dietro gli zaini. [9] Giungono gli altri: il primo è Guido. Dice che non tutti potremo avere il cambio, perché solo quattro dei rimasti hanno gli scarponi. Già, non tutti hanno gli scarponi. Da noi è un continuo cambio di scarponi perché non sempre gli stessi vadano a pestare la neve. Ognuno ha imparato il numero del piede di ogni compagno a furia di cambiare scarpe. Ecco perché iniziamo la costruzione di pantofole preparate con i tappeti e con le stuoie dell’albergo. La costruzione procede lentamente, poiché abbiamo due soli aghi per cucire. Quando la neve è gelata si può camminare con quelle pantofole, ma la neve entra egualmente, proprio come se calzassimo gli scarponi. Non importa, poiché le reclute ci danno l’esempio facendo il «battesimo» con la neve anziché con l’acqua, perché acqua non ce n’è. A Pian Cavallone è proibito lavarsi. La poca legna che ci procuriamo segando i tavoli e le seggiole superflue, è appena sufficiente a sciogliere la neve per ottenere l’acqua necessaria alla cucina. È permesso lavarsi con la sola acqua che ricuperiamo dallo stillicidio del tetto. In tal caso, l’acqua viene sfruttata al massimo: è usata per lavarsi i denti, il viso, il collo di diversi individui; per fare la barba e infine per lavare i piedi. Marzo 1944. Un gruppo di renitenti si è presentato a noi: c’è Guidone, Alfredo, Barba. Vengono mandati all’Alpe Borella, sotto Pizzo Pernice, a costruire un nuovo distaccamento. Giungono spesso reclute: è giunto Arturo, è giunto «Mario matt». Arrivano anche armi; ma in minor misura: parecchi uomini sono ora disarmati. Siamo una trentina e ormai siamo considerati una «banda»: la banda del Pian Cavallone. 29
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È necessario ora fare un ruolino. Il ruolino non è che un quadernetto in cui sono scritte le generalità e l’arma, se è armato, di ognuno. Il quadernetto è nascosto in una fessura di un muro. Vengono anche fatte le votazioni per nominare i quadri. I miei compagni sono forse più democratici di me: desiderano discutere le cose, ogni imposizione li urta, ogni ordine lo vogliono dettato da necessità. Qualcuno però, vuol fare l’anarchico nei riguardi altrui e ciò non è bello. Molti si dicono comunisti: sono i più giovani. Desidererebbero che io mi dichiarassi comunista. Non lo sono; perché dovrei dire di esserlo? Guido è comunista, ma non lo dice: a me l’ha detto Brunello un suo compaesano. Spesso a Pian Cavallone si discute di politica e di partiti politici, ma Guido non prende parte alle discussioni. Perché non parla? Anch’io a 15 anni discutevo di calcio e di squadre di calcio. Discutere in quel modo non è la stessa cosa? Io non so che vuole il comunismo, ma anche i miei compagni non lo sanno, anche quelli che si dicono comunisti. E Guido che ha tre bambini e la moglie a casa, tace; Guido che ha una sola mano, quassù lavora più di tutti. È un rimprovero il suo silenzio? Marzo 1944. Da parecchio tempo non facciamo azioni. I fascisti si saranno dimenticati della nostra presenza? Ora è quasi una necessità essere inattivi. Qualcuno potrebbe chiedere perché siamo a 1.600 metri di altezza. Se me lo chiedesse non saprei rispondergli esaurientemente e scenderei, ma nessuno mai me lo ha chiesto. Me lo chiederò io stesso un giorno. Anche la «Battisti» è più in basso e non fa nulla anche lei; il «Valdossola» è più in basso ancora e anche lui sta buono. Siamo a corto di viveri; nei negozi, senza le carte annonarie non ci danno quasi nulla. Mando Guidone a prelevare un po’ di tessere al municipio di Cambiasca. Ora abbiamo il pane, la pasta, il burro. I miei compagni si sono arrabbiati con Tucci perché lui ha fatto credere loro di esser diventato comunista e il giorno ha detto di aver voluto fare uno scherzo. Quasi lo odiano perché dicono che lui mi influenza. Dicono che le mie decisioni sono in rapporto ai suoi desideri, ma non è vero. Arca ha chiesto se vogliamo far parte della «Banda Battisti». So che i ragazzi non ne vogliono sapere, perché dicono che Marco e Mosca fanno gli ufficiali ed incolpano Tucci se io non ho ancora preso la decisione di non passare con Arca. Tucci è un bambino intelligente; mi è simpatico e gli sono affezionato, ma malgrado i suoi 19 anni è ancora un bambino. lui non c’entra in tutte queste cose e gli altri mancano di obiettività. 30
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Mi spiace, poiché non posso più servirmi di lui per sapere ciò che vogliono o desiderano i compagni; ciò che essi pensano. Essi, o meglio, noi non abbiamo ancora imparato a dire ciò che pensiamo, a chiedere ciò che vogliamo, cioè siamo ancora insinceri. E Tucci non è stato, quindi, la mia polizia privata, ma solo il mezzo di interpretazione dei desideri dei compagni. Marzo 1944. È giunto a Pian Cavallone il Maggiore Biancardi, accompagnato da due partigiani del «Valdossola». Dice che è stato mandato dal CLNAI quale ispettore delle bande del Verbano. Non gli ho nemmeno chiesto un documento che comprovi ciò che ha detto. [10] Biancardi, prima dell’8 settembre, era Maggiore nel SIM. L’ho conosciuto nell’ottobre del ’43 a Induno Olona, nel tempo in cui egli aveva attinenze con la banda del S. Martino. Mi dicevano che era un uomo in gamba. Il maggiore Biancardi desidera che io mangi alla mensa ufficiali. La mensa ufficiali è il suo piatto e mi spiace che debba essere anche il mio. Preferisco mangiare con i compagni. Anche Superti ha la mensa ufficiali e si fa chiamare «sig. Maggiore». Ieri sera ha mandato una corvée a Miazzina. Fa molto freddo di notte, ma non c’era vino, non c’erano sigarette, non c’era thè. I ragazzi hanno comparto il vino, le sigarette ed il thè con i soldi che lui aveva dato loro. Ho capito che i miei compagni erano contenti perché avevano bevuto un paio di bicchieri ed avevano fumato qualche «popolare». Biancardi mangia con il fiasco del vino davanti a sé, beve il thè alla fine del pasto e fuma le «Nazionali». Anche a me ha offerto un pacchetto di «Nazionali»: io l’ho accettato. Il nostro cuoco chiede al «sig. Maggiore» se la minestrina è sufficientemente salata e se desidera altro. Biancardi dice che soffre di stomaco, ma il sale è scarsissimo e il cuoco lo sa. Un ragazzo ha disertato dalla «S. Marco»: lo chiamano «Marco». A Marco piace il sig. Bacco. È un bravo ragazzo, ma quando beve no. Anche il distaccamento di Alpe Vel si è unito a noi. A Vel sono sempre conservatori. È arrivato da Legnano un ragazzo che dice di essere stato con Beltrami e poi con Moscatelli. Si chiama Toni, Antonio Aspes. Toni racconta molte cose, parla molto e dice che ha due mitra a casa. I miei compagni lo pigliano in giro e lo detestano anche. Toni è una spia. Ora non lo 31
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so, ma lo saprò tra qualche mese, dopo che avrà fatto catturare Franco, Dino, Bruno, Renato. Sarà anche fucilato a Oleggio dai partigiani della «Servadei». Da qualche giorno sto pensando che fino a che si sta quassù, mezzo sepolti dalla neve, si potrà fare ben poco. Sarà un buon rifugio per renitenti, ma non una base per azioni di guerriglia. I quattro fascisti che avevamo possibilità di catturare nei paesetti della zona, dopo le frequenti esperienze dei loro compagni che tornavano «nudi alla meta», si sono rintanati nei presidi. Spesso accarezzo l’idea di fare un giro di sabotaggio e recupero di armi, nella zona tra Milano e il Ticino. Guido, Carluccio, Brunello, Tucci e Franco ai quali ho esposto il progetto, sono disposti a porlo in esecuzione. Ne ho parlato anche a quelli del Comitato di Busto. Sono disposti a rifornirci di viveri, denaro, documenti ed esplosivo. E gli altri che faranno? Qui comincio a diventare egoista. Rispondo a questa domanda dicendomi che c’è il maggiore Biancardi, ma la risposta non convince nemmeno me stesso. I compagni mi stanno venendo in odio, poiché loro, involontariamente, ostacolano, con la loro presenza, l’esecuzione del progetto che di colpo mi sembra bellissimo. Comincio a sottovalutare la loro capacità, la loro onestà morale. Giungo a pensare che vogliono fare del male a Tucci. Biancardi mi ha proposto un’azione da farsi in collaborazione con partigiani del «Valdossola». Si dovrebbero attaccare le Carceri di Varese, liberare i detenuti politici (tra cui membri del CLN di Milano) e tornare con autocarri in zona. Il piano d’attacco mi sembra puerile, ma non posso criticare l’operato di un maggiore. Tra i partecipanti all’azione ci sarebbe anche Toni. L’azione di Varese è rimandata per ora. Da Busto mi avvisano che fra qualche giorno, esattamente il 28 marzo, ci porteranno ad Ungiasca i documenti. È tempo di decidere: Guido sembra meno entusiasta della cosa e gli dico che può raggiungerci in seguito. Penso sia meglio che i compagni non sappiano del nostro progetto, e decidiamo che ce ne andremo, insalutati, di notte. L’indiscrezione di uno ci metterebbe i fascisti alle calcagna in zone che non conosciamo. Ancora egoismo forse: partiremo di notte, forse per non dare spiegazioni che ci sarebbero noiose e dolorose. Perché non sono sincero con me stesso? Perché non ammetto che voglio partire per procurarmi soddisfazioni personali che qui non posso procurarmi per mancanza di fascisti e di materiale? Perché non confesso che sono stufo di pestar neve, di mangiar po32
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co e male, di esser di esempio agli altri? Perché sono ridiventato egoista e questo spiega la ragione per cui Guido mi ha disilluso, mi ha fatto arrabbiare: lui non è egoista. [11] Marzo 1944. Questa notte siamo partiti: Carluccio, Tucci, Franco ed io. Armamento: le sole pistole. Fuori dall’albergo ho percorso i primi metri per forza: non credevo di essere così affezionato a quelli che lasciavo. A Ungiasca ho trovato quelli di Busto i quali hanno cambiato parere; dicono che la cosa è troppo pericolosa, che non hanno esplosivo e che, insomma, possiamo tornare. Io non torno, perché tornare lassù significa tornare indietro e indietro non voglio tornare, anche se ho sbagliato, poiché ancora non so bene che sia l’autocritica. Io conosco ancora quella parola grossa che si chiama «orgoglio» e che non è altro che la infantile e deleteria cocciutaggine. Immediatamente decidiamo di stabilirci in quella zona che ha il vantaggio di essere a tre quarti d’ora da Intra e Pallanza. «It’s a long way to Tipperary / it’s a long way to go…». Tucci tenta di canticchiare per l’ennesima volta questa canzone che ormai mi sta venendo a noia. Sì, effettivamente per raggiungere il nostro accampamento, «it’s a long way» la strada è lunga. Per far sì che nessuno scopra il luogo del nostro accampamento compiamo lunghi giri prima di giungere. «It’s a long way to Tipperary»…e così la nostra dimora viene battezzata «Tipperary». La nostra dimora è una tenda; quando c’è sole è afosa, quando piove è inospitale. Nella tenda da poco piantata regna il perfetto caos e si verificano i più disparati connubi: le scarpe sono avvolte nelle coperte, i panni sporchi accarezzano il pane, le munizioni giocano con la terra, il pacchetto del burro ospita famigliole di formiche. Con tutto ciò non ci sembra orrenda, bensì pittoresca e migliore dell’albergo del Cavallone per conciliare il sonno. Tra un paio di giorni inizieremo l’attività. Aprile 1944. Oggi abbiamo consegnato ad Ugo il primo moschetto, per il Cavallone. Ugo l’abbiamo trovato ad Ungiasca ed il moschetto a Trobaso, attaccato ad un milite. Ho già visto Guido, Ugo, Arturo, altri. Non mi chiedono nemmeno perché sia sceso. È spiaciuto a loro? Forse sì, perché sento che sono spaesati. 33
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Carluccio ieri mi ha detto che toccava a me scuotere le coperte e preparare il «letto». Me lo son fatto ricordare perché non ne avevo forse voglia di farlo? 27 aprile 1944. Abbiamo fatto conoscenza con il «Lot». «Lot» non è il nome di battaglia di un partigiano, ma il nome di un oste, padre di un partigiano: «Rolando». Il «Lot» abita nell’unica osteria di Manegra, un simpatico villaggio sopra Oggebbio e lui è l’unico abitante permanente di Manegra. A Manegra, siamo venuti per cercare un piccolo deposito di armi e munizioni, ma abbiamo perso l’autobus: qualcun altro è giunto prima di noi e non abbiamo trovato che un centinaio di colpi di fucile. Ora siamo nell’osteria del «Lot» a mangiare: il «Lot» ci avvisa che a Premeno, a un’ora di qui, c’è un presidio della GNR. Il presidio non è altro che quattro o cinque militi ed altrettanti carabinieri. Decidiamo di fare un giretto da quelle parti, per vedere se possiamo trovare qualcosa: siamo in cinque e discretamente armati, poiché le ultime scorribande hanno fruttato. Abbiamo tutti due pistole ed io lo «sten» che Gabri, Carluccio e Tito, hanno fregato ad un milite a Trobaso. Manca Franco. È partito in licenza e non è più tornato: Toni Aspes l’ha fatto catturare a Laveno. Abbiamo pulito la caserma. Tutti sono stati buoni ed hanno subito mollato le loro preziose cianfrusaglie. Il brigadiere, che ha già ricevuto un proiettile nel collo, da due partigiani della «Battisti», e dal quale per la seconda volta ritiro la pistola, ci ha detto che c’è ancora un milite in paese. [12] Ci sparpagliamo qua e là, sguardando nei caffè, per recuperare anche l’ultimo moschetto. Alla stazione, sento che Tucci dice: - È qui. - Subito dopo uno sparo. Un compagno corre indietro dicendomi concitatamente: - Hanno preso Tucci. Mi getto sull’entrata del caffè… Tucci ha una mano bucata, io ho un occhio nero per un colpo di pistola che mi hanno sparato a bruciapelo. Lo «sten» ha ucciso un carabiniere e un milite. Un terzo è fuggito. Il brigadiere è un porco, poiché ci ha detto che mancava soltanto un milite. Che sperava da questa bugia? Guardo i due cadaveri: il milite giace di fianco, con la testa spaccata da 34
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una raffica e con la mano che stringe ancora il pugnale. Il carabiniere, supino, ha gli occhi aperti, occhi azzurri di una fissità intensa. Il suo viso è composto ad un ghigno che sa di odio e di riso. Dal suo petto escono rivoletti di sangue. Li guardo e dico a Tucci: - Poveri Cristi! L’han voluto loro! Rastrelliamo le armi: Tucci smoccola stranamente, poiché non trova la sua pistola, una «Gabilondos» 7,65. È ancora eccitato per il corpo a corpo che ha dovuto sostenere contro i tre. Rivoltiamo i morti, ma la pistola non si trova… Tucci ha ricevuto una lezione: ha imparato a sue spese che un ragazzino che ancora sa di latte, non intima la resa, con una 7,65 a 25 centimetri di distanza dai loro petti. Quelli non potevano altro che saltargli addosso. 28 aprile 1944. Questa mattina ci ha svegliati un ronzio caratteristico, raffiche e colpi sordi. Appena fuori abbiamo guardato il cielo: tre «Stukas» volteggiavano ad occidente e scendevano in picchiata ad ogni passaggio sulla Valgrande. Spezzonavano e mitragliavano: il «Valdossola» era di nuovo attaccato. Scendiamo sotto Ungiasca e raggiungiamo il versante sinistro della valle del S. Bernardino, dirimpetto a Rovegro.
Primavera 1944: un gruppo di giovani partigiani in Valle Intrasca che diedero vita alla «Cesare Battisti»
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A Rovegro c’è un concentramento di automezzi; con il binocolo distinguiamo gli attaccanti: sono tedeschi, e militi della legione «Muti». Siamo soltanto in tre: Tucci, Carluccio ed io. Tucci è febbricitante per la ferita di ieri a Premeno e poi non abbiamo che lo «Sten» e le pistole. I tedeschi e i fascisti sono sparsi tra i boschi ed i prati, attorno al paese. Ci divertiamo ad offenderli in gergo poco decoroso: quelli ci sentono, sbinocolano, ma non ci riescono a vedere, poiché, immobili, siamo confusi col terreno. Due fascisti, un ufficiale e un milite, si dirigono, sulla carrozzabile verso ponte Casletto. Scendo in direzione del fondo valle e da trecento metri sparo una raffichetta all’indirizzo dei due. I colpi di un’arma che fallisce il bersaglio, anche a cinquanta metri, non possono essere troppo pericolosi a trecento, ma quelli devono essere molto prudenti, poiché percorrono un centinaio di metri carponi, al riparo di un muretto e altrettanti ad ottima natura. Sento sopra di me le risa fragorose dei due compagni; no, quelli non sono coraggiosi ed hanno fatto una pessima figura innanzi ai loro avversari. Esprimiamo, ad alta voce, il nostro giudizio nei loro riguardi, ma quelli continuano quanto mai guardinghi. 29 aprile 1944. Stamattina sono giunti dal Cavallone, Guido, Brunello e Guidone, con fucili e mitragliatore. Se stamattina riattaccheranno tenteremo di impedire che i fascisti passino sulla carrozzabile Rovegro- ponte Casletto. Mi dicono che Biancardi, in seguito all’attacco di ieri in Valgrande, si sia ritirato sul monte Marona. Pare sia molto preoccupato, eccessivamente preoccupato. Qualcuno mormora che sia venuto quassù per cercarsi un «buco». Io penso che in seguito alla caccia che gli è stata data per mesi a Milano, abbia i nervi molto scossi, e ciò è comprensibile. Maggio 1944. Biancardi è partito: pare sia partito definitivamente. Da tempo aveva già rinunciato alla sua qualifica di ispettore, poiché né Arca né Superti gradivano la sua intromissione. Al Cavallone ora la situazione non è molto chiara: manca il comandante a quei cinquanta uomini, con tutte le conseguenze presumibili. Arca ha spostato i quaranta uomini della «Battisti», al rifugio del Vadaa a cavaliere tra la Val Cannobina e la Val Intrasca. Superti ha disposto tutti i suoi distaccamenti in Valgrande, scaglionan36
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doli lungo il fondo valle. Il «Valdossola» conta ormai 150 uomini. Le foglie sono spuntate: chi non è partigiano non può capire quanto amiamo le foglie. Non può capire il piacere che proviamo vedendole crescere. Le foglie nascondono tutto: noi, le nostre abitazioni, la nostra vita, le nostre intenzioni. Per questo, amiamo le foglie che acque e sole han fatto crescere. Più acqua che sole: gli acquazzoni si avvicendano a ritmo veloce. Nella tenda rischiavamo di marcire, per cui abbiamo cambiato dimora: ora abitiamo in una casa, nella frazione La Nava, sotto Ungiasca; è una casetta rustica, isolata. La famiglia, ora, si è accresciuta di Guidone e di una recluta. La recluta, però, ha sulle spalle quattro anni di «naia» negli alpini dell’«Intra», e le campagne di Francia, Albania, Balcania e due decorazioni. È conosciuto in tutta la zona, da anni, con il suggestivo nome di «Bagat», ed anche da noi si chiama così. Gli ho mandato un biglietto a Intra, un giorno, fissandogli un appuntamento a Miazzina, una sera. Quella sera lo trovai in mezzo a una piazzetta di Miazzina, con le mani in tasca e con l’aria annoiata e assente. Lo salutai: - Ciao «Bagat». - Ma io non ti conosco. - Sono quello del biglietto: ti conoscevo di vista e sono stato a scuola con te nelle elementari. - Ah! - Allora, vuoi stare con me? - Sì. - Quando verrai allora con noi? - Ci posso stare fin d’adesso. - Ma come, non vuoi andare ad avvisare i tuoi, non vuoi prendere qualcosa, cambiarti il vestito? - No, non è necessario. - Sei autista, vero? - Sì. - Stasera si dovrebbe scendere verso Intra con un paio di camioncini. Vuoi guidarne tu uno? - E perché no?…Hai un’arma per me? - Fu così che «Bagat», nel primo giorno di partigiano, partecipò alla sua prima azione. [13] Abbiamo fatto atto di sottomissione a Superti. Ora facciamo parte del Battaglione «Valdossola». Siamo però staccati dal resto della forma37
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zione, poiché gravitiamo sempre sulla zona di Miazzina ed abbiamo compiti di rifornimento viveri, disturbo e pattuglia. Avevo chiesto, in proposito, il parere di Arca, ed anche lui diceva che stava per unire la «Battisti» al «Valdossola», poiché vedeva in Superti l’uomo che, nella zona, desse maggior affidamento. Sono andato al comando del «Valdossola», in Valgrande. Da poco sono stati effettuati, dagli alleati, due «lanci Standard»; poca cosa: un centinaio di Sten, munizioni, esplosivo, viveri e vestiario. Ho ottenuto due Sten, granate a mano e bombe incendiarie. Ora in cinque abbiamo tre armi automatiche e parecchie pistole: moschetti non ne vogliamo. I moschetti e la guardia sono le cose che non ci piacciono. Personalmente, penso che la guardia non serve quando nessuno disturba. E ne servirebbero di più quando c’è qualcosa. Ma queste idee sono personali e incontrano pochi proseliti fuori dalla nostra squadra. Tuttavia noi, imperterriti, continuiamo ad andare a dormire non sapendo come e da chi potremo essere svegliati. A viveri ora stiamo bene: il Comitato di Busto continua a rifornirci mentre pare che a Pian Cavallone abbiano tagliato i viveri, perché è un gruppo troppo «rosso» per loro. Al Cavallone, Guido è stato nominato comandante con votazioni quasi unanimi, e si è mostrato subito molto energico. Nella nostra zona è dislocata un’altra squadra del «Valdossola», di una quindicina di uomini, al comando di due fratelli: Cesare e Sandro. La Diarchia non dev’essere un ottimo sistema di governo, poiché spesso i due fratelli discutono «animatamente» tra loro. In quella squadra ci sono tre o quattro ragazzi sui diciotto anni, molto in gamba: prima appartenevano alle formazioni di Moscatelli, poi furono catturati e si arruolarono nella GNR per non essere fucilati. Hanno disertato qualche giorno fa, dopo aver disarmato i trenta uomini del presidio di Fondotoce, salendo carichi di armi. Il nome di battaglia per alcuni di loro è il vero nome: Porta, Filotto, Travaglino. Gianni è il più in gamba di loro: il resto non vale molto. 21 maggio 1944. Stamattina alle otto, Carletto, un ragazzo di Ungiasca, ci ha svegliati bruscamente dicendoci che i fascisti, da ieri sera alle 23, sono a Miazzina ed hanno già attaccato Pian Cavallone. Decidiamo di tender loro un’imboscata sulla strada di Miazzina, quan38
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do torneranno. Altre notizie, attinte dagli abitanti, ci informano che i fascisti (arditi della Legione «Tagliamento») sono giunti con automezzi sino a Cambiasca ed hanno proseguito a piedi. Ci appostiamo, sopra una curva, sulla strada ed attendiamo. Siamo in cinque: Bagat, Tucci, Guidone, Carluccio ed io; 3 sten, un mitragliatore, un moschetto. Verso mezzogiorno salgono due «Spa 38» con i soli autisti. Li lasciamo passare. Ad un certo punto io e Bagat, che per necessità igieniche, siamo in un tratto scoperto, siamo scoperti da due militi, che da un muretto sopra al Sanatorio, guardano in basso. Torniamo dagli altri e decidiamo di appostarci più in basso. Camminiamo tra le felci, a qualche metro sopra la strada: ci abbassiamo a tempo per non essere scorti dai militi che scendono sui due «Spa 38». Gli automezzi scendono a motore spento, i militi canticchiano una canzone popolare. Siamo accucciati tra le felci, a qualche metro sopra di loro. All’intorno c’è soltanto terreno scoperto: una scarpata lunga, spoglia di alberi. Bagat, che di fianco a me, stringe nervosamente l’arma, mi sussurra che non possiamo sparare: lo so. Ci faremmo accoppare tutti. Ci appostiamo ed attendiamo ancora qualche ora, ma inutilmente: tutti i fascisti hanno lasciato Miazzina. Saliamo lungo la strada. A Miazzina incontriamo i partigiani reduci dal combattimento di Pian Cavallone: da parte nostra nessuna perdita, nemmeno un ferito. Li hanno attaccati stamattina alle sette, quasi di sorpresa, favoriti dalla nebbia. L’unica «arma pesante», il mitragliatore, si è subito inceppato e non ha più sparato. I nostri hanno resistito un po’ alla «Colma» e all’Albergo e in seguito hanno dovuto ritirarsi al «Toden». Di lì hanno visto bruciare l’Albergo. «Nord», un ragazzo di Vicenza, piangeva vedendolo bruciare, e tutti hanno stretto i pugni. Addio, Albergo del Pian Cavallone! Hai finito di ospitare i cenciosi soldati di un esercito senza capo, senza Stato Maggiore, senza artiglierie, senza direttive, spesso senza pane, senza armi. Ti amavamo perché ricordiamo quando ci riparavi dal freddo, dalla tormenta. Ti amavamo perché lì, abbiamo indurito i muscoli, abbiamo trovato un senso della vita. Ora non sei altro che macerie e muri arrostiti dal fuoco, anneriti dal fumo, come ce ne sono a Milano, a Berlino, a Londra, a Cassino, dovunque sono passate le divisioni vittoriose o le disordinate colonne in ritirata; dovunque è pas39
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sata la guerra che vince sul vinto e sul vincitore: su gli uomini e sulle cose. La guerra perde soltanto di fronte a chi la odia, a noi. Dinanzi a Guido che preferiva starsene a casa a pescare, davanti a Bagat, che dice di essere salito perché non vuole andare in guerra, innanzi a Gabri che avrebbe voluto frequentare il Politecnico. [14] Maggio 1944. Due militari della «Luftwaffe» hanno disertato. Anche loro non vogliono più combattere la guerra. Sono partiti da Oleggio con un autocarro e dopo averlo distrutto, si sono presentati a noi. Si chiamano Karl e Ludwig, dicono di essere austriaci. Karl è biondo, alto, secco; ha un viso affilato, occhi di colore indefinibile. Il suo sguardo, sempre intelligente, talvolta è tagliente, quasi cattivo, talvolta chiaro e scanzonato come quello di un monello. È loquace e si esprime in un italiano stentato e buffo. Ludwig è l’opposto: piccolo, tozzo, taciturno, capelli ed occhi castani, viso quadrato e sguardo impenetrabile. Non si sa affatto esprimere in italiano. Forse la sua intelligenza è chiusa quanto il suo carattere. Sono eccellenti bevitori e Karl ha subito fraternizzato con Bagat. Fanno parte della nostra squadra ed io diffido un po’ di loro. Dopo la puntata nemica al Pian Cavallone, Guido ha portato un forte distaccamento ad Alpe Cavallotti. È denominato distaccamento «Bolgia». Il nome calza alla perfezione, poiché gli elementi più attivi, più «caldi», sono in tale distaccamento. I ragazzi di lassù sono un po’ arrabbiati con noi, poiché non abbiamo fatto l’imboscata. Forse non credono nemmeno che non abbiamo potuto farla soltanto perché non abbiamo avuto fortuna. Molto arrabbiati, ed a ragione, sono con la squadra di Sandro e Cesare, i quali, in allarme dalla sera precedente alla puntata, non hanno avvisato Pian Cavallone. Nemmeno noi hanno avvertito: si trattava di venti minuti di strada… Da parecchio non facciamo altro che azioni di prelevamento viveri: quasi ogni notte non dormiamo e quasi ogni notte giungono a Miazzina carichi di viveri. Al mattino, regolarmente, prima di andare a dormire, facciamo una visita alla solita «Trattoria Visconti». La faremo fino a che Karl e Ludwig non avranno finito il denaro che hanno. Miazzina, la domenica sembra un paese in giorno di fiera: lunghe teorie di persone salgono da Intra, da Pallanza, dai paesi sottostanti per vedere quegli individui che ora la propaganda fascista non chiama più «sban40
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dati» né «elementi antinazionali», ma semplicemente «ribelli», «fuori legge» ed anche «partigiani». Sì, ribelli; ribelli alle loro imposizioni, fuori dalla loro legge, partigiani di ciò che è giusto. E la popolazione, la buona gente del Verbano comincia a capirlo. Per questo, nei paesi ci offrono ospitalità, viveri, protezione. Per questo la gente ci viene a trovare e ci fa dono della sua solidarietà. Che ne pensano intanto, i fascisti laggiù? Chiari segni indicano che, seriamente si preoccupano del «fenomeno ribellistico». Già nell’aprile il prefetto di Novara ci aveva assicurato impunità ed esenzione da obblighi militari, se ci fossimo presentati e ci aveva proposto un «modus vivendi» tra noi e i fascisti, proposte che naturalmente abbiamo respinto. Sentono già la nostra forza e la nostra superiorità morale: dopo otto mesi dalla nascita del partigiano su queste montagne, non un’azione condotta da loro, ha ottenuto risultati soddisfacenti. Non un partigiano è caduto ancora, in azioni belliche. Invece a loro, qualche morticino è scappato e parecchie azioni si sono risolte a nostro favore, con risultati eccellenti. [15] Qualche giorno fa abbiamo anche effettuato un cambio di prigionieri. Durante il cambio è avvenuto un significativo colpo di scena: un milite che doveva essere cambiato, nella caserma della GNR di Intra, davanti a un suo ufficiale, ha dichiarato che rifiutava il cambio e che sarebbe rimasto con noi, anche dopo le esortazioni e le minacce dell’ufficiale. Ora, l’ex milite Camillo Bassi è diventato un ottimo partigiano. Salgono, nei giorni di festa, i parenti, gli amici, i conoscenti dei partigiani; salgono gli sconosciuti che vogliono bene ai partigiani ed i partigiani scendono dai loro distaccamenti. Si ritrovano; per Miazzina è un ininterrotto chiamarsi, salutarsi. Sale qualcuno con la fisarmonica ed al «Caffè Pinotta» si balla. Balli simpatici, fatti di rumori stridenti degli scarponi chiodati, che si confondono col suono della fisarmonica, con il chiacchierio allegro. Gli uomini offrono «un bicchiere» ai partigiani; il bicchiere diventa molti bicchieri, l’atmosfera si scalda, i partigiani intonano i primi canti. Prima titubanti, poi decisamente; anche i «borghesi» si uniscono ai cori. Fa bene questa comunione di popolo e partigiani e non è falsa fratellanza: le ragazze portano abbondanti merende; la «Pinotta», la buona mastodontica Pinotta (ormai il suo caffè è chiamato «Distretto», poiché tutte le reclute attendono in quel luogo, la «bassa di passaggio») mette a dispo41
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sizione il suo caffè e la sua cucina; il Ferdinando e il Sassi procurano posti per dormire, tutti ci vogliono aiutare. Capiterà anche qualche spia, fra tanta gente: gli arresti di persone venute a trovarci, ne sono la prova. Due ragazze sono già state individuate ed abbiamo tagliato loro i capelli: c’è chi dice che avremmo dovuto fucilarle. Il taglio dei capelli è poco, ma pensiamo che la fucilazione sia troppo. Anche il distaccamento di Alpe Vel, comandato da Gabri, «corre per gli indipendenti». Ha preso possesso di una villetta sopra Caprezzo ed ha iniziato la nostra stessa attività. La villetta è stata denominata «Condor» e la squadra, «pattuglia Condor». Gabri, sceso tra i conservatori di Alpe Vel, finalmente ha rivoluzionato il distaccamento. Gabri mi chiama «maestro» e dice che seguirà sempre il mio esempio, ma dice che io sono Cimabue e lui per conseguenza vuol diventare Giotto. Auguri, compagno Gabri. Seguendo il mio esempio, anche lui è andato in Valgrande per il rito di sottomissione a Superti e si è portato via tre mitra, senza caricatori. Ora gironzola per la zona con i suoi inseparabili calzoncini di velluto e con un mitra scarico. Gli chiedo per quale ragione si porti a passeggio quel mitra, ma lui evade sempre la risposta. Sul calcio di quel mitra c’è una iscrizione: «X.Y. (il nome di un sottufficiale della GNR) Viva la Vita». Ironia della sorte! Ora è in fondo al Rio Valgrande… [16] Era stato catturato il 28 maggio a Fondotoce con tutto il presidio, dai partigiani del «Valdossola». Scesero di notte, una trentina, al comando del Cap. Mario, ed applicarono una mina che esplose scassando l’edificio. La successiva sparatoria li costrinse ad arrendersi, meno qualcuno che cadde nel breve combattimento. (Furono catturati un ufficiale, 42 militi, 2 spie e materiale bellico). Appena Guido ebbe il comando della banda, passò anch’egli alle dipendenze di Superti. Aveva capito che da sola, la banda avrebbe incontrato rilevanti difficoltà di ordine militare e morale. Superti appena la banda si unì al «Valdossola» mandò un altro comandante. L’atto non fu certo democratico ma era nel suo costume. Il nuovo comandante è un tenente degli alpini, sulla trentina. Si mostra, se non molto intelligente, volenteroso e coraggioso. Se dal lato tecnico accusa qualche lacuna, non così dal lato morale. Si chiama «Rolando» 42
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ed è il figlio dell’oste di Manegra, il «Lot». In seguito a queste ultime «annessioni», il battaglione «Valdossola» (Comandante Superti) è costituito su quattro «bande»: 1ª banda «Antonio Gramsci» (c.te: cap. Mario); 2ª banda (c.te Rizzato), tutte e due dislocate in Valgrande; 3ª banda «Cesare Battisti» (c.te: Arca), dislocata in Valle Intrasca - Vadàa; 4ª banda «Giovane Italia» (c.te: Rolando) dislocata a Pian Cavallone - Miazzina. La forza, di 300 uomini, alla fine di maggio è distribuita all’incirca così: 90 alla prima banda, 90 alla seconda, 60 alla terza, 60 alla quarta. La nostra squadra, quella di Gabri e quella di Sandro e Cesare sono passate tutte alle dipendenze di Rolando, ma con larga libertà di azione ed autonomia. 4 giugno 1944. Bagat ha fermato un milite della «San Marco», in licenza. Il milite ha avuto l’accortezza di lasciare l’arma (un mitra) nella caserma della GNR di Intra, prima di godersi la meritata licenza, al paesello. Bagat gli ha detto che domattina, giorno in cui egli deve rientrare, andrà a prendere il mitra e glielo consegnerà, pena gravi rappresaglie. Non so quali potrebbero essere le rappresaglie. L’appuntamento è fissato per le 5,30 al ponte Vigne, a Intra. Ormai possiamo permetterci di fare brevi passeggiate nei sobborghi di Intra e Pallanza. La nostra zona d’influenza diventa sempre più vasta. I piccoli presidi nemici sono stati ritirati: a Fondotoce, dopo l’incursione della I banda, non hanno più rimesso il presidio. Nella zona non rimangono che i presidi di Pallanza, Intra, Oggebbio, Cannobio e quelli della Val Cannobina. In Val Cannobina sono comparse le prime pattuglie della «Battisti»: hanno attaccato il presidio di Cavaglio e automezzi tedeschi. Nella zona, ormai non si avventurano più piccoli reparti avversari. 5 giugno 1944. Scendo verso Intra con Bagat, per ritirare il mitra del «sanmarchino». Sopra Comero, sentiamo rumore di passi: nessuna pattuglia nostra è fuori. Ci spostiamo sui bordi della strada e lasciamo che gli altri avanzino… Al nostro «Chi va là» si affrettano a dire che sono dei nostri e che hanno un fascista prigioniero. Si presentano: sono appartenenti a quella squadretta che opera clandestinamente a Intra ed ora, poiché sono stati riconosciuti, riparano da noi. Sono «Sascia», «Rudi» e «Fausto». Il fascista, catturato stanotte con uno stratagemma, è uno dei più pericolosi 43
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della zona. L’accoglienza che facciamo al fascista non è delle più cordiali. Salutiamo i compagni proseguiamo. A Trobaso andiamo a chiamare Guidone che ieri sera è andato a casa. Giungiamo sul luogo dell’appuntamento con un’ora d’anticipo e perlustriamo attentamente: meglio non fidarsi. Alle 5,30 il milite non è ancor giunto: Bagat minaccia terribili rappresaglie; inganniamo l’attesa cogliendo ciliegie da un albero vicino. Alle 6 arriva il milite con il mitra e quattro caricatori. Tornando passiamo a 100 metri dalla sentinella che passeggia sul ponte della Rimessa. Per qualche minuto Bagat lo tiene sotto la mira del suo mitra. Gli dico di non sparare: non sarebbe onesto sparargli in tali condizioni, poi, osservo, non si potrebbe nemmeno recuperare il suo mitra, causa il posto di blocco, vicino. Per la verità, questa seconda ragione determina la salvezza del milite. Forse lui non saprà mai che in quei momenti ha rischiato di morire e che io con una osservazione di ordine morale (poco convincente) e con un’altra di ordine tecnico (molto più convincente) gli ho salvato la vita. 6 giugno 1944. Questa sera si deve andare ad Arizzano per ritirare scarpe ed altra merce. Si andrebbe in macchina. Da tre notti non dormo e Bagat da quattro. Una abbondante libagione a Cambiasca, ci ha messo addosso una sonnolenza invincibile; cosicché noi due e Carluccio restiamo a terra. Partono, verso sera, una decina, tra cui Tucci, Karl, Porta, Jean, Filotto, Gianni. Al ritorno vogliono passare per il lungolago di Intra. Sportivamente sarà una bella cosa, ma militarmente non ha senso. A un centinaio di metri dall’Imbarcadero, da una via laterale, sbuca un automezzo. Karl, che è al volante, blocca la macchina a 15 metri dall’automezzo e accende gli abbaglianti. È un’autoblinda. Un attimo e poi i nostri cominciano a sparare. Qualche secondo e comincia a cantare una mitragliatrice… Jean è colpito da una ventina di schegge di bomba a mano; Karl ha un proiettile nel fianco destro; Filotto ha un mignolo spaccato da un colpo: il dito è attaccato al palmo soltanto per un po’ di pelle. Uno strattone e il dito è staccato. [17] I feriti si ritrovano al Sanatorio di Miazzina; vengono medicati, poi vanno alla «Trattoria Visconti» a ristorarsi col vermouth, con parec44
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chio vermouth! Tutti sono rientrati, meno uno: Gianni. Dalle prime notizie apprendiamo che sul luogo dello scontro, stamattina c’era un cadavere con la testa spaccata: Gianni. Nel tentativo di portarsi sotto l’autoblinda per lanciare una «Sipe», è stato raggiunto da una raffica di mitraglia. È il primo partigiano caduto in terra verbanese. «Raccolli Semplice, “Gianni”, di S. Maurizio d’Opaglio, classe 1924», una raffica e due tratti di penna ti hanno cancellato dai ruolini della IV Banda. Sotto, si legge un’annotazione: «Caduto in combattimento a Intra, il 13 giugno 1944». Addio, Gianni. - Pronto? Caserma della milizia? - Sì. Con chi parlo? - Con un partigiano. - Tanto piacere. - Per me no invece. Desidererei parlare con il vostro Comandante. - Sono io. - Voi avete il cadavere di un nostro compagno, Raccolli Semplice. Avreste difficoltà se noi provvedessimo a ritirarlo e portarlo a Miazzina? - Sì, non si può. - Ma a voi non costa niente, non chiediamo che una cosa umana, possibilissima… - Ripeto che non possiamo. Ora sospendo la comunicazione perché… - Se non ci lasciate il cadavere vi impicchiamo tutti i vostri prigionieri sugli alberi dell’ «Allea……» ma il «comandante» ha interrotto la comunicazione. Questa, la conversazione tra me e il comandante della GNR di Intra. Non ci vogliono dare Gianni. Povero Gianni! Ti manderemo dei fiori, ti ricorderemo sempre. I fascisti hanno emesso un nuovo bando di chiamata per le classi 1921 e 1926. Le reclute, in questi giorni, si presentano a diecine, da noi. È un continuo arrivo di squadre di ragazzi a Ponte Casletto, a Miazzina, al Vadàa. Al 10 giugno il «Valdossola» è costituito di 400 uomini: 110 la I Banda, 130 la II, 80 la III, 80 la IV, ma tutti ci credono migliaia. L’altro giorno a Caprezzo è giunto un camion con una mitragliatrice 45
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Breda ’37 e una ventina di uomini al comando di un ufficiale degli alpini: Mario, Mario Flaim. Quel gruppo si è unito alla «Giovane Italia». 12 giugno 1944. Da qualche tempo il comando di battaglione ci aveva informati di un probabile lungo rastrellamento, che avrebbe dovuto aver inizio il 2 giugno, poi rimandato di dieci giorni: il 12 giugno; ma noi al solito non crediamo a informazioni del genere, anche se sono giunte dal nostro migliore informatore, un ufficiale che presta servizio in un comando fascista. Stanotte, verso le ventitre, da Ungiasca, abbiamo visto una fila di luci che avanzavano da Baveno verso Fondotoce. Non abbiamo voluto mettere in relazione i due fatti: siamo molto ottimisti noi partigiani ed i rastrellamenti e le puntate finora ci hanno lasciati indifferenti. Forse perché abbiamo subito soltanto attacchi di poca entità. Stamattina abbiamo udito i primi colpi e le prime raffiche verso la Valgrande. Quattro partigiani che si trovavano in pattuglia tra Ponte Casletto ed Ungiasca, dopo una piccola sparatoria hanno riparato ad Ungiasca. Dicono che i tedeschi sono già a Ponte Casletto e sparano con l’81 su Cicogna; pare che non tutte le mine dei tre ponti, abbiano funzionato. Per tutta la giornata nessuna staffetta è giunta dalla Valgrande, siamo isolati dal Comando. [18] Verso sera Gabri, con una quindicina di uomini scende in direzione di Rovegro. I tedeschi hanno due prigionieri e intendono fucilarli. Al ponte, tra Cossogno e Rovegro odono qualche raffica: i due partigiani sono stati fucilati. Nello stesso tempo la pattuglia è scoperta e fatta segno al fuoco di armi automatiche: si ritira con un ferito. Domani mattina, forse attaccheranno noi. [13 giugno 1944] Nemmeno oggi siamo stati attaccati, mentre in Valgrande da stamattina si combatte. Oggi, con il 105 hanno bombardato la casa dell’Alpino e Cicogna. A Cicogna non ci sono nostri distaccamenti, eppure la bombardano. Molte case sono state colpite: qualcuna brucia. Oggi hanno usato anche gli aerei. Chissà per quali motivi, cominciamo a pensare che il rastrellamento si ridurrà ad un attacco a fondo contro la Valgrande: non «sentiamo» assolutamente il rastrellamento. Da Rolando è giunto l’ordine di trasferirci a 46
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Pian Cavallone. Le disposizioni per la IV Banda, in caso di attacco, sono quelle di resistere fino all’esaurimento di munizioni sulla linea di ripiegamento Alpe Cavallotti, Pian Cavallone, Monte Marona. Esaurite le munizioni la IV banda dovrebbe ripiegare sulla III, la «Battisti», ed infine portarsi in Val Pogallo e congiungersi con la prima e la seconda banda provenienti dalla Valgrande. Della mia squadra Bagat, Karl, Ludwig e Guidone stanno scorazzando nella zona di Intra e Pallanza. Cesare e Sandro hanno intenzioni meno bellicose: intendono nascondere le armi e imboscarsi. Qualche uomo della squadra però non vuol mollare le armi. Le intenzioni sono giunte all’orecchio di Rolando e stasera giungendo a Miazzina ho trovato Guido con tutto il «Bolgia». Mi ha fatto leggere un biglietto che conteneva l’ordine di disarmare tutte e due le squadre perché i componenti non intendevano concorrere alla difesa. L’ordine era firmato da Rolando e doveva essere eseguito da Guido. Faccio presente che non ho mai dato ordine di imboscare le armi e che io stesso, lo vede, sono armato. Non intendo che la mia squadra sia confusa con l’altra e tanto meno intendo essere disarmato. Dico infine a Guido che domani mattina salirò a Cavallone con il resto della squadra e parlerò con Rolando della faccenda. Guido mi è ostile. 14 giugno 1944. Stamattina Tucci ed io avevamo appuntamento con Carluccio alla Nava, per poi salire al Cavallone: quando ci siamo svegliati, ho sentito sopra, sulla strada di Ungiasca il caratteristico rombo di motori: nel dirigermi verso Ungiasca ho incontrato Franca, la sorella di Bagat, con tredici reclute. Mi ha detto che da Ungiasca i tedeschi stavano scendendo, forse per rastrellare i boschi. [19] Abbiamo raggiunto Tucci e verso le dieci, con Franca, sono partito per trovare Carluccio; dopo un centinaio di metri qualche raffica ci ha avvertito che i tedeschi erano vicini, assai vicini. Siamo tornati e abbiamo consigliato le reclute a ritornare. Abbiamo indicato loro la strada, ma solo uno di loro si salverà, gli altri saranno catturati e fucilati. Anche Franca è scesa a Intra; noi due decidiamo di raggiungere il Cavallone senza Carluccio. Vuotiamo gli zaini tenendoci solo il sapone, il dentifricio, lo spazzolino da denti, l’asciugatoio e qualche pacchetto di «tabacco di prima». Il resto, anche il riso e la farina gialla che poco prima ci aveva dato Franca, lo lasciamo nel bosco sotto un albero, coperto da un 47
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telo da tenda. Piove: una pioggerella insistente e fine. Al santuario Monscenù traversiamo la strada e saliamo lungo il pendio ripido e spoglio. Una macchina sta salendo. Ad un certo punto sentiamo raffiche, scoppi di bombe a mano, colpi; venti secondi di fuoco, forse trenta, forse un minuto: il caratteristico fuoco delle imboscate. Poi voci concitate che si perdono nel bosco: mi sembra di udire la voce di Gabri: – Da questa parte. Infine silenzio. Saliamo più veloci, poiché siamo visibili da Cambiasca, arriviamo sulla cresta e finalmente entriamo nel bosco. Nel fogliame intravedo una testa, chiamo: sono nostri compagni. Ci dicono di abbassarci, poiché da Alpe Pala i tedeschi stanno sbinoccolando. Ora sentiamo una violenta sparatoria verso Pizzo Pernice. Ad Alpe Cavallotti distinguiamo col binocolo una mitragliatrice, dei tedeschi attorno ad essa e la villa, il «Bolgia», che brucia. La mitragliatrice sgrana lunghe raffiche in direzione della «Colma». Mezz’ora dopo la mitragliatrice tace per riprendere in seguito, ma dalla «Colma» verso il Cavallone, poi dal Cavallone verso il Toden. Me ne sto muto a guardare pensando che lassù si spara ed io che dovevo andarci, non ci sono andato; forse qualcuno è già morto e io sto mangiando il pane e la sardina che mi hanno offerto i compagni. Forse lassù i compagni arrancano stremati, affamati, molli d’acqua e di sudore, sotto i colpi, verso il Toden ed io, a duecento metri dai tedeschi che scrutano, non mi posso muovere. Da parecchio tempo le mitragliatrici avversarie sparano sempre dal Cavallone e non avanzano; sparano lunghe e rabbiose raffiche di 15-20 colpi. Ora si sente un’altra mitraglia: raffiche a lunghi intervalli di due-tre colpi, timbrate, la nostra «Breda 37». La «Giovane Italia» resiste al Toden. Man mano che scende la sera, tacciono le mitragliatrici, i mitragliatori, i fucili… Ci avvoltoliamo nella coperta, puntando i piedi contro un albero per non scivolare in basso, mentre la pioggia continua a cadere. 15 giugno 1944. Verso le dieci udiamo una forte detonazione: penso a qualche ponte saltato, a qualche mina esplosa, ma dopo qualche secondo sopra la mia testa, sento un intenso rumore che sa di batter d’ali e di fischio, di tormenta e di cascata d’acqua. Man mano il rumore si perde, poi verso la cappelletta del Cavallone, una nuvoletta sospesa nell’aria, infine una colonna nerastra che sale violentemente dal terreno, seguita da un boato. È il cannone, il 149, che da Intra spara verso il Cavallone. 48
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[20] Il cannoneggiamento continua per parecchie ore: i colpi battono il Cavallone, la cappelletta, battono insistentemente la cresta del Toden, la Marona. Anche un mortaio da 81 spara da Alpe Pala su Alpe Vel. 16 giugno 1944. Il rastrellamento è iniziato cinque giorni fa: non c’è più niente da mangiare, sono finiti i cannoneggiamenti, le raffiche ed i colpi si fanno sempre più radi. Soltanto dal Vadàa, dallo Zeda si sente ancora sparare. Sulla strada, a Cambiasca, il via vai dei camion è sempre intenso, più dei primi giorni. Si succhiano le foglie lucide d’acqua quando si ha sete. Abbiamo fame. Io non so resistere alla fame, o meglio la fame mi fa scordare il pericolo. Ho convinto gli altri a scendere verso Cambiasca in cerca di viveri. Partiamo a notte fonda, passiamo la strada, scendiamo nel buio inciampando, imbrigliandoci tra i roveti, spesso sbagliando strada, bestemmiando sordamente. Sopra Cambiasca entriamo nell’abitazione della moglie di un partigiano: nemmeno qui c’è da mangiare. Quella donna ci dice che i fascisti han messo posti di blocco dappertutto, che staranno nella zona una quindicina di giorni e che tutto il giorno girano per i boschi facendo passare ogni baita, ogni cespuglio. Qualcuno è scoraggiato, tutti sono di umor nero. Salgo diversi ciliegi in cerca di frutti, nel buio, con le mani, ma le ciliege sono già state colte. Ne racimolo una ventina: non mi compensano nemmeno delle energie sprecate arrampicandomi. Propongo agli altri di scendere verso Intra ma nessuno raccoglie la proposta. Gli altri infine decidono di imboscarsi in una valletta e di attendere la fine del rastrellamento: la proposta non è molto geniale. Convinco Tucci a seguirmi e partiamo. Evitiamo Cambiasca e puntiamo verso le ultime case di Trobaso: ci togliamo le scarpe. Vicino alla chiesa sento il chiacchierìo dell’acqua di una fontana: ho sete. Propongo a Tucci di andare a bere ma lui dice che facilmente nei pressi vi sarà una sentinella. A malincuore, dopo una sommessa discussione, mi lascio convincere e passiamo la strada trenta-quaranta metri sopra: c’è la luna e vicino alla fontana c’è una sentinella. Sul ponte di Possaccio togliamo le sicure agli «Sten» e traversiamo senza esser visti, non sapendo di essere passati poco prima sotto la casa in cui dormono i fascisti del vicino posto di blocco. 49
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Sopra Possaccio ci fermiamo a fumare l’ultimo tabacco; talvolta le sigarette calmano la fame, anche se sono infumabili. Proseguiamo: evitiamo, per strana intuizione, un altro posto di blocco a Vignone, poi scendiamo. Ormai sono a casa mia: di questa zona conosco ogni prato, ho in mente l’esistenza di ogni muretto, di ogni filo spinato. Traversiamo Zoverallo, poi quasi di corsa tra i prati verso il luogo in cui [so che] troveremo pane, vino, risotto. Giungiamo all’alba [all’abitazione di mia nonna, ai bordi della provinciale per Premeno]. 19 giugno 1944. Da una settimana siamo in rastrellamento. Il giorno 16 anche la «Battisti» è stata attaccata. Sulla strada di Premeno il traffico dei rastrellatori è ininterrotto. Passano i militi della «Muti», della «S.S. italiana», della «Leonessa» esuberanti di odio e cantano: non sono i nostri canti popolari nostalgici e solenni, non sono le canzonette allegre e melanconiche. Sono canti freddi, duri, scanditi: inni che si possono cantare soltanto con la mascella contratta e con una ruga verticale al centro della fronte; inni che si possono sentire solo con l’arma tra le mani, non a tracolla. Quelli, resi allegri dalla facile guerra, cantano perché odiano e poco perché amano: non saprebbero cantare una vecchia canzone che parla della mamma, della morosa, del paese, del compagno che ti muore accanto, mentre seduto per terra nella baita, la schiena gelata vorrebbe un po’ del caldo delle tue gambe arrostite dal fuoco di quattro pezzi di faggio, mentre la tua arma giace dimenticata a una spanna dietro di te. A noi piace cantare così, ma «noi» pensiamo che i nostri avversari sono dei perfetti imbecilli se non sono delinquenti. [21] Passano reparti tedeschi e non cantano. Sono gli «Alpenjager» i quali forse pensano che la caccia al camoscio, seppur fatta in Italia, è sempre divertente. Salgono i cecoslovacchi, lentamente, gravati dal peso degli zaini e di qualcosa dentro di loro, accompagnandosi ai muli dai cui fianchi pendono le cassette di munizioni e le mitraglie: tra loro e i muli non c’è differenza; servono tutti e due, a forza e incoscientemente, i tedeschi. Passano i georgiani e non sanno pensare al loro tradimento: mangiano e sparano agli ordini degli ufficiali tedeschi. Passano le S.S., ma il loro cervello è la «machinenpistole». Passano i 17.000 e salgono a sparare contro i 400 che ormai non sono 50
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più 400. Sparano perché il loro capo ha detto di sparare, ci ammazzano anche se siamo feriti, anche se siamo disarmati, anche se ci arrendiamo, anche se siamo già morti, perché il loro capo lo ha detto. Sparano perché tirando il grilletto la loro arma spara ed il loro dito che preme il grilletto, le loro braccia che sostengono l’arma, il loro corpo imbottito di munizioni, il loro occhio che mira, il loro cervello che imprime ai rispettivi nervi il comando di sostenere, di mirare, di sparare, fanno parte dell’arma. Le armi dei nostri avversari sono fatte di legno, carne ed acciaio. 20 giugno 1944. Oggi abbiamo salutato «Diciassette». È una partigiana di 17 anni. È scesa con parecchie reclute dal comando della «Battisti», al Vadàa, la sera prima dell’attacco ed è rimasta imboscata qualche giorno con gli altri a Carpiano. Dice che nella zona circola Bagat con un altro compagno. Ha qualche notizia della «Battisti»: mi dice il nome di qualche caduto che non conosco e poi mi informa che Marco con un gruppetto è nella chiesa di S. Martino. Stasera andremo a trovarli così ci sgranchiremo le gambe e ci rimetteremo di buon umore; qui sembra di essere in prigione e la minima contrarietà rende irascibili. Divento irascibile perché Tucci si lamenta dall’inizio del rastrellamento per le sue gengive infiammate, divento irascibile ogni volta che sento l’alito fetente della sua bocca scassata; Tucci diventa irascibile perché io lo divento e talvolta ci detestiamo, quasi ci odiamo. Cerchiamo di allontanare la noia leggendo ogni cosa, guardando dal finestrino, ascoltando ogni rumore: passa ancora quell’odioso porta-ordini tedesco, in motocicletta. Quello ci esaspera con la frequenza del suo transito. Scompare dietro gli alberi, alla nostra vista e sale mentre il rombo del motore va affievolendosi verso Antoliva; ma questa volta poco sopra Antoliva lo sentiamo arrestarsi… e non riprende… Verso sera scendono i cecoslovacchi con i loro muli. I soldati, mentre scendono con passo stanco, cantano una nenia triste. Un soldato, su di una carretta, accompagna il canto con la fisarmonica. In testa alla colonna c’è un ufficiale, ma non canta: forse è annoiato di quel canto e gioca col suo frustino che si abbatte sui rami di un sambuco facendo cadere parecchie foglie. Riderei se frustasse il tronco dell’albero, con l’intento di farlo cadere ed è, in fondo, la stessa cosa: frustando i rami 51
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fa cadere le foglie, ma non tutte. La pianta probabilmente soffrirà, ma un altro anno nasceranno altre foglie. Un atto inutile compie. Tengo l’ufficiale sotto la mira dello «Sten»: potrei accopparlo e lui non lo sa. Per questo forse fa cadere le foglie, e fa soffrire la pianta. 21 giugno 1944. Bisogna saper camminare di notte: significa vedere, sfruttare l’oscurità e camminare senza far rumore anche con gli scarponi chiodati: tutte cose che il partigiano ha imparato. Servono moltissimo in questo rastrellamento che non accenna a finire; han servito ieri sera per andare a trovare Marco, Trentasette e Marmellata a S. Martino; servono anche stasera per andare a ritrovarli. Passiamo da Zoverallo, brancolando tra prati e sentieri verso S. Martino. Sotto la chiesa sentiamo chiamare, qualche metro sopra di noi, il mio nome. Ci fermiamo sorpresi, teniamo pronti gli «Sten» e scrutiamo nel buio, ma non vediamo nulla. La voce ripete ancora più forte il mio nome; questa volta la riconosco: è quella di Bagat. Con Bagat c’è anche Travaglini. Raccontano che ieri han «fatto fuori» un tedesco e una moto nei pressi di Antoliva e li hanno fatti scomparire nella valle attigua. Chiediamo a quale ora è avvenuto: verso le 15. Era la moto che avevamo sentito fermarsi. Anche a Bagat dava fastidio… Ieri i tedeschi, in collaborazione con i fascisti, hanno fucilato 43 partigiani a Fondotoce. Proseguiamo con loro e bussiamo alla porta della casa di Trentasette, il figlio del sagrestano di S. Martino. C’è Arca. Ci sono anche Pompiere e Leone. Quelli di stasera sono incontri che non si dimenticano. Arca racconta la sua odissea, dice dell’imboscata ai tedeschi a Colle Biogna, dice di Lupo fucilato a Falmenta, di otto partigiani fucilati ad Aurano, parla dei morti, forse Brambilla, Cucciolo, Brambillino, altri conosciuti, reclute ignote… Arca parla di Lupo. Erano in un bosco nascosti, mentre i nemici passavano spesso a pochi metri. Da parecchi giorni non mangiavano. Lupo disse che andava a cercare da mangiare; uscì dal bosco, sul prato, verso le baite. Dietro a sé udì un «Ah!» di soddisfazione: si voltò e vide parecchi tedeschi che gli puntavano le armi. All’ufficiale che gli chiese perché era venuto in montagna, rispose: «Perché non potevo vedere i fascisti». Al cimitero di Falmenta chiese una sigaretta. Un colpo di pistola gli lasciò in gola la prima boccata d fumo: perché aveva fame è morto. 52
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[22] Arca è triste. Conta i morti: sono troppi. Li ricorda vivi. Ricorda la battaglia coi tedeschi a colle Biogna, i giorni passati nel bosco ad incidere gli alberi, a succhiare le foglie, a confezionare sigari con le foglie secche. Arca vorrebbe presentarsi ai tedeschi per essere cambiato con i prigionieri che ancora non hanno fucilato. Gli gridiamo di no perché la sua morte non avrebbe senso e la sua vita ha ancora senso. «Ascolta, Arca. La tua vita ha più senso di prima, poiché ora ci sono i morti nuovi. La tua e la nostra lotta ha ancora un senso perché c’è Pompiere, c’è Marco, c’è Trentasette, ci sono i rimasti e ci saranno quelli che si uniranno ai rimasti». In questi giorni impariamo che i nemici sono più delinquenti che imbecilli e tali li tratteremo. Abbiamo capito che siamo piccini di fronte a loro, ma anche valiamo qualcosa se ad attaccarci sono venuti una divisione Brandeburghese, le legioni «Muti», «S.S. italiana», «Leonessa», «Tagliamento», e se hanno sprecato tempo e morti al Cavallone, in Valgrande, al Vadàa, prima di sfondare. Chiedo ad Arca di passare nella «Battisti» con tutta la squadra. Il comandante Arca ha accettato. Da stasera siamo la Volante della «Battisti». 22 giugno 1944. Questa notte un falso allarme ci ha costretti a passarla sotto un castagno. Al mattino abbiamo salutati gli altri, e Bagat ha condotto Travaglini, Tucci e me in una villa in cui sono imboscati parecchi partigiani. La villa è circondata da un vasto parco; agli angoli del parco abbiamo incontrato le reclute che montavano la guardia. Povere reclute! Avevano ancora in tasca i soldi di casa e ci chiamavano tutti «signor comandante», quando è capitato loro addosso questo rastrellamento. Quando sarà finito, chi di loro sarà ancora vivo, non sarà più «recluta», «coniglio»: sarà un anziano. Intanto fanno la guardia, infreddolite, paurose o incoscienti: non capiscono ancora nulla, non sanno distinguere i rumori sospetti da quelli innocenti, non sanno trovare una posizione adatta, camminano pesantemente, con fracasso. Pendono dalle nostre labbra senza obbiettare, anche se gli si ordinasse la cosa più strampalata. In questi giorni, se possono accodarsi ad un anziano, gli si appiccicano ostinatamente ed han sempre paura di perderlo: mai accusano fame, stanchezza, paura, per timore che li si pianti. Entrando nel parco si ha l’impressione di giungere nei pressi di un no53
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Nino Chiovini (al centro)
stro distaccamento: coperte al sole, armi e giberne appoggiate ai muri, cauto scalpiccio di partigiani affaccendati. I «parecchi partigiani» di Bagat, sono 32, quasi tutti della «Giovane Italia» e qualcuno della Valgrande: quasi tutti «conigli»; i pochi anziani spadroneggiano indecentemente. Oggi, però, spadroneggiamo noi su tutti: quelli anziani di fronte a noi sono reclute. Bagat oggi è indaffarato a «farli scattare», come in piazza a Miazzina; ma no, Bagat, siamo in rastrellamento! È arrabbiato perché han lasciato fuggire un milite catturato due giorni fa. Loro stanno ad ascoltare i suoi rimbrotti con espressione sconsolata: qualcuno, meno recluta, azzarda inutili difese. 54
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Andiamo a sentire la radio nella vicina villa disabitata di un gerarca fascista, poi mangiamo il rancio preparato dalla gente del luogo. Da una settimana, questa gente procura da mangiare per una trentina di partigiani. È buona la gente del Verbano. Quanti partigiani possono ringraziarla se sono ancora vivi, se sono sfamati! Gli altri bombardano, accoppano, incendiano, «perquisiscono» le case, le cascine: la gente è sempre più solidale con noi. E questa gente, quasi non sa che cosa sia la patria. Perché ci aiuta allora? [23] È strano che questa zona, e quella sottostante, fino al lago, non sia stata rastrellata, benché ormai sia satura di partigiani: ogni giorno, poi ne giungono altri. È strano perché intanto rastrellano con zelo e pazienza, ogni cespuglio, ogni baita, ogni ruscello, dalla Valdossola all’Intrasca, dalla Val Vigezzo a Cannero, dallo Zeda a Intra, tralasciando solo la zona da Premeno al lago, da Possaccio ad Oggebbio. Gli avversari, forse, attendono che tutti i rimasti si concentrino in questa zona? Sarebbe la miglior tattica per loro. È un rastrellamento imponente questo, per uomini e mezzi impiegati e per estensione. Dopo aver circondata e isolata la zona, bloccando la Valdossola, la Vigezzo, la Cannobina e il lago, hanno attaccato una dopo l’altra, le nostre posizioni, e dopo avere infranta la nostra resistenza si sono dati e si danno tuttora a rastrellare con implacabile meticolosità, passando per le armi ogni partigiano o renitente catturato. Tutte le strade e tutti i sentieri sono bloccati. Ogni mezzo di locomozione è fermo, nessuna imbarcazione può staccarsi dalla riva del lago. Ogni partigiano è stanco di saltare il pasto, di dormire sotto la pioggia, di pensare sempre alla possibilità della cattura e conseguente fucilazione. Il rastrellamento non è soltanto una operazione militare, ma anche un’operazione morale e psicologica. Rastrellamento, tedeschi, fascisti, fame, fucilazione sono parole, parole, parole agli occhi altrui. Ma chi l’ha provato non dice soltanto che sono parole: sa che sono fatti concreti, realtà vissute. È inutile descrivere lo stato psichico di chi subisce il rastrellamento: tanto nessuno lo capirebbe e tutti direbbero che si esagera. 24 giugno 1944. Oggi è il mio onomastico e domani sarà domenica, ma festa sarà per noi quando terminerà il rastrellamento. 55
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Siamo in [sistemati nella portineria di] una villa, cinquanta metri sopra il lago, nei dintorni di Intra. Noi quattro, Pompiere, Marmellata, Marco e Leone. Mangiamo da capitalisti e siamo quasi di buon umore. Soltanto sogniamo le bettole dei paesi, le cantate a squarciagola, la gente. Sogniamo le ragazze da guardare, con cui parlare dal ciglio di una strada o tra le case del paese. Invece, ancora sonni leggeri, orecchie tese, fiato sospeso, notizie di morti e di fucilazioni, umore vicendevolmente opprimente: tutto per il rastrellamento. Una signora ci ha gettato, attraverso il muro di cinta, un biglietto ed un pacchetto di sigarette: è la signora Giardini [Tranquillini]. Il biglietto è del comandante e dice di tenerci pronti per la partenza, poiché è imminente la fine di questa autoreclusione. Tiriamo il fiato. 27 giugno 1944 [29 giugno 1944] Questa notte siamo partiti: i tedeschi e i fascisti se ne sono andati. Non ne siamo ben convinti e camminiamo con misure di sicurezza. Procediamo nel buio, su per la mulattiera verso Pian Nava. Ad ogni bivio raccogliamo reduci e reclute e continuiamo in silenzio sotto la pioggia sottile. Abbiamo cominciato a raccoglierli fuori dalla villa. A Pian Nava usciamo, circospetti, sulla provinciale, poi giù verso Esio. Siamo più di cinquanta. La colonna continua nella notte caliginosa verso La Rocca, un’alpe sopra Scareno, luogo di raccolta dei resti della Battisti. [24] Con Bagat e Tucci mi fermo ad Esio. Andiamo da don Aurelio a chiedere da dormire: ci offre coperte, lanterna e foglie secche. Quello è un uomo in gamba. Entriamo nella cascina e prepariamo il giaciglio; stavolta ci leviamo anche le scarpe e le calze: vogliamo rifarci delle ultime notti passate sul cemento. Siamo contenti, di una gioia fanciullesca: sogniamo l’arrivo di domani a Miazzina e gli incontri con i compagni superstiti. Solo i morti, i primi molti morti ci tolgono per qualche attimo il buon umore, ma anche a quelli ci stiamo abituando. Non potrebbe essere toccata a me? A Bagat? Domani non potrebbe capitare a Tucci? I morti sono nostri compagni che ora sono a riposo, ma sono sempre nostri compagni. Per questo non ci mettono addosso malinconia e paura: malinconici e paurosi non potremmo più fare i partigiani. Si è più malinconici sentendo il latrato di un cane dei tedeschi, che vicino a dieci compagni morti e in mezzo a una spara56
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toria. Domani sera scenderemo a fare un prelevamento di viveri. I rastrellatori sono ancora a Intra, ma la Battisti ha fame e noi abbiamo anche voglia di ricominciare. 24 giugno 1944 [30 giugno 1944] Stamattina, appena alzati, senza nemmeno accomodare lo stomaco, ci siamo incamminati verso il fondo della valle Intrasca. Sulla strada, abbiamo trovato le prime postazioni per le mitraglie fatte dai fascisti; poi, man mano procedevamo, col solito passo squinternato, reso un po’ più elegante dal desiderio frettoloso di giungere a Miazzina, altre postazioni, altre piazzuole, altri muretti a secco: non riusciamo a capire se i nostri avversari abbondino di umorismo o manchino di senso della misura. Sapevano o non sapevano «quelli», che, dall’Ossola a Cannobio, da Intra alla Val Vigezzo, eravamo soltanto due mitraglie e 600 colpi, due mitragliatori, 200 moschetti, 100 sten e un centinaio di uomini disarmati? Camminando postillando ogni postazione con una risata, un motto umoristico, non sempre lusinghiero per le capacità strategiche e militari dei nostri avversari. A Cambiasca andiamo a ritrovare i nostri conoscenti: ci accolgono con festosità mista a timore, raccomandandoci di stare ancora attenti e di non gironzolare troppo. Dietro la prima curva, sulla strada di Miazzina, si sono già perdute tutte le loro raccomandazioni. Capitiamo in piazza a Miazzina, mentre dal lato opposto sbuca un gruppetto di «reduci»: contentezza, abbracci rumorosi, pochi passi e siamo alla Trattoria Visconti per meglio assaporare la gioia. All’angolo di una casa vedo Piero: me l’avevano dato per fucilato a Fondotoce. Anche lui mi credeva fucilato, a Fondotoce: ci guardiamo con stupore, poi, reciprocamente constatiamo con effusione, a Miazzina, la nostra ottima salute. Nuovi incontri: Gabri, Guido il Monco, Ermanno, Luciano, Aldo, Arturo. Nuovi saluti affettuosi, sinceri: ogni parola significa qualcosa, ogni esclamazione esterna un sentimento, ogni pausa è necessaria. Non c’è posto per un briciolo di retorica. Guido ha un braccio rotto da un colpo di «Sten»: il braccio monco. È stato ferito a Pizzo Pernice. [25] Gabri mi racconta dell’imboscata sopra Comero, fatta con la sua squadra e con Mario Flaim, il pomeriggio del 14: era la sparatoria intensa 57
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udita mentre con Tucci salivo verso Alpe Pala. Han fatto fuori una macchina con quattro ufficiali, tra cui il Comandante della «Leonessa». Si incrociano i racconti, le domande, le risposte che spesso dicono di morti, di fucilati, di feriti. Sappiamo della lunga e dura difesa al Cavallotti, al Pizzo Pernice, al Cavallone, al Toden, alla Marona. Anche Rolando, il comandante della «Giovane Italia», forse è morto sotto la Marona. Tutto il giorno giungono superstiti. Molti sono segnati in viso, dai disagi, dalle marce forzate, dalla fame. Parecchi, per quattro, cinque, anche otto giorni, non hanno mangiato e camminano, spesso appoggiandosi ad un bastone, con andatura da ubriachi. Hanno le guance infossate, un pallore da candela e anche gli occhi cattivi. Tutti saremo più cattivi, dopo i racconti sentiti, dopo quello che abbiamo provato, dopo i morti che stanno tra noi e i nostri avversari. La Marona è un cimitero: parecchi cadaveri, nudi, non hanno ferite di proiettili, ma soltanto la testa fracassata, il petto sfondato, la schiena schiantata e giacciono ai piedi dei salti di roccia. Dalla Valgrande le notizie sono rade, tisiche, frammentarie: da quel poco che riusciamo a sapere, pare che le perdite siano molto forti: Superti e Mario sono vivi. L’incontro con Carluccio è ancora più espansivo: è stato quasi sempre alla Nava. Dopo quattro giorni che non mangiava, un pomeriggio è salito a Miazzina, satura di tedeschi, per cercare viveri; al ritorno gli han bucato la giacca in due punti e una scarpa. Carluccio è un ragazzo fortunato. Karl e Ludwig giungono insieme, verso sera, smoccolando comicamente in esotico e in indigeno: erano andati a finire a Trarego, sopra Cannero. Poi c’era il Lago… [26] Ludwig non è un pauroso, Karl ancor meno: con noi han sempre dimostrato di essere molto coraggiosi. Tutti e due han fatto la guerra; Karl ha fatto due anni di Russia. Sono ancora scossi: istintivamente hanno percorso ore e ore di strada pur di salvarsi: dicono che il rastrellamento è una brutta cosa. Altri che han provato la guerra, quella fatta con i carri armati, con le artiglierie, con l’aviazione, dicono che è fatta anche di cose che si chiamano reparti di sussistenza, turni di riposo, armi e munizioni a sufficienza, campi di concentramento per prigionieri, leggi internazionali. Pensiamo che i prigionieri siano una bella istituzione: peccato che «quelli lag58
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giù» non ne vogliono sapere. Della nostra squadra manca ancora Guidone, ma ha già avvisato che si trova a Trobaso e che ci raggiungerà domani. Verso sera scendiamo per prelevare i viveri. Primi giorni di luglio 1944. Da parecchi giorni facciamo la spola, col solito camioncino del Di Orazio, tra i dintorni di Intra e Ponte Scareno, dove le corvée della «Battisti» scaricano i viveri e li portano a La Rocca. Siamo già riusciti a portare diversi carichi di viveri. Karl e Bagat, naturalmente, si contendono il volante della macchina. Karl è un ottimo autista. Anche Bagat sa guidar bene, forse meglio di Karl. Peccato che si scordi che la macchina ha un motore: lo «arrostisce». «Arrostire» è un termine partigiano, da poco entrato in uso: significa rompere, accoppare, fregare, rovinare e parecchie altre cose. Soffriamo quando sentiamo il motore che canta stonato e ansima, quasi che il motore fosse una persona. Ma Bagat continua imperterrito a premere l’acceleratore finché la macchina si ferma dopo pietosi sussulti. La colpa, naturalmente, è del carburatore «ingolfato» o delle candele sporche. Ora siamo di nuovo al completo: anche Guidone è rientrato. Ha passato un rastrellamento a Trobaso; i primi giorni in casa, finché non arrivarono i fascisti a perquisirla. Dopo qualche minuto riuscì a raggiungere una camera già perquisita e si cacciò dietro la porta, con la pistola in pugno, senza sicura. Si aprì la porta: chi l’aveva aperta diede un’occhiata all’interno chiedendo agli altri se quella camera fosse già perquisita e posando la mano sulla maniglia interna: Guidone vide una mano il cui anulare portava una fede, e un pezzo di manica con il grado di sottotenente. Trattenne il fiato, pronto a sparare: la porta si richiuse. Siamo a La Rocca. È un’alpe sotto la strada del Vadàa, a dieci minuti da Scareno. A La Rocca ritroviamo altri vecchi compagni della «Battisti»: Mosca, Italo, Nando, Peo. Non tutti, perché parecchi «sono andati a riposo». Sono già accertati 19 caduti, ma la «Battisti» contava 90 uomini all’inizio del rastrellamento, e solo una quarantina sono i superstiti. Delle reclute, solo pochissime sono rientrate. Stringiamo amicizia con nuovi compagni, i più interessanti. «Ghiffa», il cuoco, è un ex alpino, commilitone di Bagat e sa cucinare a meraviglia. Il «Maresciallo», è un carabiniere siciliano, catturato dal 59
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«Valdossola» a Mergozzo e venuto a finire da noi, causa il rastrellamento. È brutto come un fascista, burocratico ed intransigente quanto un funzionario dei ministeri. Qui ha le mansioni di magazziniere e pretende il buono di prelevamento firmato da Mosca, anche per un fiammifero. Con noi, però è diverso: potremmo prelevare anche lui senza buono. È pauroso e noi abbiamo scoperto il suo debole: gli abbiamo promesso una pistola. Ecco perché non ci servono i «buoni». «Dieci» è l’unico che abbia ottenuto un beneficio dal rastrellamento. È un ex milite di 34 anni, alto e grosso, con una nera barba retorica e una cicatrice verticale su di una guancia: ha disertato in aprile, portandosi con sé parecchie armi. A Traffiume, in Cannobina, ha puntato il moschetto contro un milite, intimandogli la resa: il milite, armato di mitra, era a 100 metri. Ora «Dieci» ha un mitra, rastrellato in rastrellamento. [27] Gigi è un milanese, ufficiale dei carristi. Trapela allegria da tutti i pori: come Mosca. Provoca, incessantemente, discussioni politiche tra comunisti e anticomunisti; poi, interviene burlescamente, trasformando la discussione in comici duelli umoristici tra lui e i partigiani posati e seri. Gigi mi ha pregato di condurlo con noi alla prossima azione. Dalla Svizzera sono giunti otto prigionieri russi. Non sanno dieci parole di italiano: con loro siamo costretti a parlare in tedesco. Sono quasi tutti ucraini e russi bianchi: catturati sul fronte orientale, furono condotti a lavorare nelle miniere di salgemma, in Francia; riuscirono ad evadere, e attraverso il Reno ripararono in Isvizzera. Uno di loro è già stato ferito durante uno scontro a Intra. Bagat è di umor nero. La Rocca non gli piace, perché dice che gli unici luoghi per sdraiarsi senza il timore di rotolare in valle, sono i sentieri, e anche quelli sono scarsi. Le conseguenze del suo cattivo umore le subiscono i «conigli» e Tucci. Già, Bagat e Tucci non vanno d’accordo. Bagat sta diventando permaloso, e Tucci noioso. Nella vita civile può essere quasi impossibile il caso che parecchi individui appartenenti a disparate categorie sociali, dotate di disparata educazione, riescano a comprendersi a tal punto da costituire un gruppo di persone affiatate. E anche se esistesse affiatamento, non giungerebbe mai a sfiorare l’amicizia. A La Rocca, abitazione di gente per la quale il proprio mondo è soltanto se stessa con le proprie armi, le munizioni, i paesi d’attorno, la voglia di 60
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mangiare e di dormire, questo avviene. Non avviene soltanto a La Rocca: in parecchi altri luoghi come La Rocca avviene. Ma La Rocca è il caso più esteso e meno verosimile per chi non appartiene al mondo nostro. Tra i gruppetti che fanno parte della gente che abita provvisoriamente a La Rocca, ho scovato quello di Jimmy. È sudafricano e l’italiano lo parla come lo parleranno i russi tra un mese. È studente in medicina e non ha mai gridato viva l’Unione del Sud Africa. È un uomo pacifico e anche egoista talvolta: forse perché è così pacifico. Della guerra se ne frega più che odiarla. Se ne frega a tal punto da fare le azioni per puro senso sportivo e questo non credo che sia una contraddizione. Anche «Dottore» è studente in medicina, ma non è sudafricano e il suo senso sportivo non è molto sviluppato. Ha voglia di laurearsi e i fascisti son quelli che glielo impediscono. Perché è a La Rocca glielo impediscono. Anche a Peo che studia lettere e odia ogni violenza, lo impediscono. Anche a Ezio e Felice che però sono «matricole» e ancora sono ragazzi con la mentalità delle «matricole». Anche Oddo e Paolo che sono due impiegati, han dovuto piantare il lavoro. Naturalmente anche loro, come Ezio e Felice, ce l’hanno coi fascisti perché sono i fascisti che li han fatti andare in montagna. Un giorno, forse a guerra finita, penseranno che i fascisti eran quelli che volevano la guerra e allora odieranno la guerra come la odia Peo adesso. Ci sono anche Renzo e Achille: né studenti, né operai, né impiegati sono. Il loro mondo, prima, non era nemmeno sfiorato dai loro amici di adesso. Il ladro, han dichiarato che facevano prima di venire in montagna. Molti possono dire che la dichiarazione è cinica. Io penso che sia stata sincera prima di essere cinica. Questi due non sono venuti in montagna per fede o per necessità politica. Chissà perché. Può anche non interessarmi. So che ci sono e sparano e sono onesti. Non so fino a quando saranno onesti, ma Arca dice che Renzo sarà onesto per sempre. E questo fa bene perché son queste cose che fan credere nel mondo degli uomini. Son tutti questi uomini e ragazzi, studenti, ladri, lavoratori italiani e no, che vivono insieme: parlano, dormono, sparano e si radono la barba insieme. [28] Siamo tornati a Miazzina: fatichiamo a starci lontani più di tre giorni. A Miazzina, gli uomini di Guido il Monco sono occupati a perqui61
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sire le ville. Avevano chiesto indumenti e viveri ai proprietari delle ville, per loro e per i feriti; e ne avevano bisogno sul serio. Chi ci comprendeva li ha dati, e chi non ha voluto, si è visto perquisire le abitazioni e sequestrare parecchi indumenti. I ragazzi han fatto bene. Qualcuno, purtroppo, ha ecceduto e sono nati commenti poco favorevoli verso i partigiani, ma era un pretesto per parlar male di noi da parte di chi non ci potrà mai soffrire e capire. Se non ci comprendono adesso che siamo ridotti a un terzo… Soltanto ora, man mano passano i giorni, sappiamo valutare le perdite subite. In Valgrande sono rimasti appena in cinquanta; altrettanti a Miazzina; e una quarantina a La Rocca. Un mese fa eravamo 400 vivi; ora non siamo che 150, ma più che vivi: per i morti. Gli avversari ci avevano attaccati con l’intenzione di pulire definitivamente la zona: hanno ottenuto buoni risultati, pensando alle nostre perdite, ma pensando all’imponenza del loro numero e dei loro mezzi, i risultati diventano ridicoli. Poi, quante sono le loro perdite? Hanno commesso parecchi errori. Anche noi abbiamo commesso un grave errore: quello di resistere. Avremmo dovuto buttarci subito a ridosso del lago e avremmo evitato parecchi morti. Impareremo per la prossima e imparerà anche chi ha dato l’ordine di resistere. Una constatazione di cui noi stessi ci stupiamo è quella di vedere con quale velocità ci siamo ricostituiti. Ormai le bande sono in piedi ancora e tra poco ricominceremo con i fascisti: fino al prossimo rastrellamento: poi, loro ancora; e dopo, ancora noi. Finché una delle due parti farà l’ultimo rastrellamento. Una nostra canzone dice che i partigiani «…attendono il momento della calata al piano…». Anche i fascisti cantano «…all’erta imboscati, che gli M son tornati…», ma la cantano soltanto loro, mentre quell’altra la cantano anche le ragazze, gli uomini e i bambini. E loro lo sanno. Per questo cantano: Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia nera ci hanno detto che siamo da catene, ci hanno detto che siamo da galera. L’amore coi fascisti non conviene….
È un programma la canzone. Dentro c’è lo stile che non sarà mai stile; c’è l’argomento che necessariamente è volgare; c’è la cocciutaggine o la 62
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stupidità di chi si sente in torto e continua imperterrito a sbagliare; c’è, soprattutto la confessione che a loro fa male più di ogni cosa: «Le donne non ci vogliono più bene…». Le donne, gli uomini, tutta la gente non vuol bene a loro. Essi se ne sono accorti e hanno alzato le spalle, han fatto la canzone. Poi, la loro indifferenza si è trasformata in animosità, in odio. Odio contro di noi e contro la gente: ora è naturale che i fascisti si divertano a incendiare, a fucilare e a trattar male. Per loro che oramai non sanno controllarsi, è una necessità. Non sanno accontentarsi di cantare la canzone attraverso un paese deserto, dalle cui case gli abitanti, ansiosi e paurosi per se stessi e per noi, lanciano, per le finestre socchiuse, sguardi malevoli e imprecano a fior di labbro: debbono bruciare, distruggere, massacrare. È il lor senso della vita? Noi diciamo che è il loro senso della morte. E non lo diciamo soltanto perché abbiamo il senso dell’umorismo. Ho saputo che mio padre è stato arrestato: l’han portato a S.Vittore. Da S.Vittore, di regola, si esce per andare in Germania o al muro. Ad arrestarlo è stato Toni Aspes: perché due figli di mio padre sono partigiani. Mi chiedo, perché l’hanno arrestato? Dico che sbagliano, che non è giusto. Vorrei parlare con quelli che l’hanno arrestato per spiegare che commettono un errore e che mio padre non c’entra con i figli. L’ira fa più male quando è impotente, diventa sorda e chiede uno sfogo: due sottufficiali, catturati in questi giorni, sono andati a finire sotto terra. Bagat pensa che sarebbero sotto terra anche senza mio padre a S. Vittore: per i morti nudi, ancora insepolti e pieni di vermi. A chi li ha uccisi, noi non avevamo arrestato il padre. 21 luglio 1944. Di nuovo a La Rocca. È un ottimo luogo di riposo dopo l’azione. Ci si ritrova, si chiacchiera, si dorme sul fieno tepido e duro dell’anno passato, si mangiano ciliegie. Oggi c’è anche il cioccolato: è il frutto di una scorribanda alla «Nestlè» di Intra, l’altra notte. Si doveva scendere con tre camioncini, poi non ce n’era che uno e allora Guidone ha proposto il tram Intra - Premeno. Al Comandante è piaciuta la proposta e ci ha fatto sopra un piano complicato ma redditizio. Siamo scesi e siamo tornati a Premeno col tram carico di quintali di zucchero e di cioccolato puro: il cioccolato era destinato ai tedeschi. Qualcuno dice che anche prima del rastrellamento di giugno, la 63
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«Battisti» era scesa alla Nestlè ed era salita col cioccolato dei tedeschi: buona parte è poi tornata nelle loro mani. [29] È giunta una staffetta con un biglietto di Arca. Marco lo legge e assume un’espressione non nuova: quella intrisa di imprecazioni anche non pronunciate. Tra noi si capisce che significa una simile espressione: qualcosa va male. Marco mi passa il biglietto. Leggo le prime righe. «Con una probabilità su mille, Gigi è vivo…». Erano rimasti a Intra per recuperare delle armi in case di fascisti; durante il ricupero di uno «Sten», Gigi è stato colpito, mentre parlava con due donne parenti di un milite, a pochi metri, dal milite che, avvisato, si era appostato dietro a una finestra. Quando Arca e Koki sono passati con la macchina per raccoglierlo, sono stati accolti da una raffica che ha bucato una gomma. Poco dopo giunge da Intra la conferma che fa sfumare anche la millesima probabilità. Qualche notte fa, Gigi era sceso con noi per un prelevamento. Avevamo caricato di merce due carri trainati dai cavalli e durante il ritorno c’era stata una gara tra i due equipaggi: il «Giorgio», montato da Guidone, Tucci e Carluccio; e il «Casimiro», montato da Gigi, Bagat e me. Al ponte di Scareno era giunto primo il nostro «Casimiro» con dieci minuti di vantaggio. Gigi si era divertito anche più di noi. Se quella notte Gigi non fosse stato con noi, adesso sarei meno triste. 23 luglio 1944. Da oggi la «Volante» cambia base: da Miazzina a Premeno. Ci spiace lasciare Miazzina, ma è necessario: saremmo troppo decentrati dal Comando. A Miazzina lasciamo i nostri bei ricordi; lasciamo anche Bagat e Guidone dopo un ennesimo litigio con Tucci. A loro spiace lasciarmi e Gabri è contento perché passeranno alla sua «Volante». Siamo rimasti in quattro: noi tre e Wladimir. Wladimir è russo: di Isium, in Ucraina. A La Rocca l’avevo chiesto ad Arca. Si era meravigliato Arca: «Non sa due parole di italiano, poi non lo conosci e non sai se vale». Quando gli ho comunicato la notizia del trasferimento, Wladimir si è mostrato soddisfattissimo. Più ancora quando gli ho detto che il suo ’91 poteva lasciarlo, che tanto non avrebbe servito. Wladimir ha una spiccata 64
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antipatia per i fucili e altrettanta simpatia per l’ «automatic», il mitra. Ma per ora ha soltanto una pistola 6.35. Mentre transitiamo da Ramello, un uomo ci avvisa che sopra Scareno, verso Colle, ci sono i tedeschi ed è in corso una sparatoria. Decidiamo di portarci sulla strada di Premeno per fare un’imboscata quando torneranno. Ci fermiamo mezz’ora per prendere un bagno in un bacino idroelettrico tra Ramello e Vignone: è presto ancora e i tedeschi scenderanno più tardi. Wladimir è contento di poter nuotare un po’. Mentre ci asciughiamo al sole, mi narra, coi suoi trenta vocaboli di italiano, la sua fuga da un campo di concentramento della Francia, in Svizzera attraverso il Reno. Ha diciannove anni Wladimir e un viso ridente come un cespo di primule. I suoi grossi lineamenti non giungono a cancellare la sua espressione fanciullesca e simpatica. Gli ho scoperto una emotività eccezionale e un’anima semplice come una baita. Wladimir è dotato di una intelligenza eccezionale, non altrettanto di buon senso: agisce sempre d’istinto. Ad Arizzano chiediamo alla gente quanti automezzi tedeschi sono saliti. «Nessuno», rispondono. «Come nessuno?». «Stanotte sono saliti i tedeschi?». «No, no». Indirizziamo improperi all’uomo dell’informazione che ci ha fatto allungare la strada e tiriamo avanti verso Premeno. A Bée, uno sfollato ci offre pancetta e vino. Ci sediamo davanti a un caffè affollatissimo e posiamo a terra zaino e armi. Siamo ai primi bocconi quando cinque camionette di tedeschi giungono improvvisamente a trenta metri da noi. Facciamo appena in tempo a riprendere le nostre armi e a tener dietro alla gente che fugge con terrore: qualche secondo dopo, le camionette si fermano davanti al caffè; scende un ufficiale, non vede i nostri zaini, chiede qualcosa poi risale e la colonna riparte. Non ci hanno visti ed è poco possibile, oppure han fatto finta di non vederci. [30] Da stamattina siamo in cerca della «Battisti». Tutto il giorno camminiamo. Capisco ora perché spesso i fascisti perdono le nostre tracce e dicono che siamo come fantasmi. Finalmente a Colle incontriamo Nico, Marco Balilla e Mauro della «Perotti», con un motocarro carico di marsala e di vino. La «Perotti» è una banda che si è costituita quindici giorni fa al comando di Pippo, monarchico. Anche loro non ne sanno niente della 65
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«Battisti». Alleggeriamo il carico del motocarro di qualche litro e ripartiamo con un fiasco che passa da mano a mano finché vuoto, lo mandiamo a fracassarsi sul tetto di una baita. A La Rocca finalmente troviamo Palin. Non è un partigiano, ma fa lo stesso: Palin dice che la Battisti è tutta a Scareno, a casa sua. Palin, nella «Battisti» è conosciuto anche dalle reclute. È un abitante di Scareno e per noi è staffetta, guida, albergatore, portaferiti, becchino, tutto. È una istituzione da premio Nobel. Li ritroviamo fuori della casa di Palin, sotto un pergolato, attorno ad Arca, in allegra conversazione. Non tutti: Lanzi, Victor e Domo sono morti nel combattimento di ieri; Peo e Bobi sono all’infermeria e Strozza è ancora su, alle baite di Scarnisca con un polmone bucato. Wladimir si è rattristato: è morto Victor, il contadino russo, dopo aver sparato tutti i colpi che aveva. Sulla strada del Vadàa è avvenuto questo: questa strada comincia a perder sangue sul serio. Luglio-agosto 1944. Premeno è un bel paese, ma non è ancora Miazzina. Forse, tra qualche mese, anche Premeno diventerà Miazzina. La gente ci guarda di traverso, sospettosa, paurosa. Ci chiama «fascisti rossi» e teme che mettiamo a soqquadro il paese. In questi giorni parecchi si sono già ricreduti. Si attendevano di vederci girare per il paese con lo sguardo fiero, l’arma imbracciata senza sicura. Invece si sono accorti che camminiamo come loro e non chiediamo i documenti alla gente. Abitiamo una villetta fuori del paese tra chiazze di prato e boschetti. L’abbiamo battezzata col vecchio nome «Tipperary». A fianco della porta principale c’è un’iscrizione in inglese: «Home, sweet home». Anche per noi. Da parecchi giorni, nelle prime ore del mattino ci appostiamo nelle vicinanze di Intra, lungo la strada di Premeno, per proteggere il passaggio di eventuali carichi favolosi di armi, che dovrebbero giungere dal Milanese, con degli autocarri. Naturalmente abbiamo posto esili speranze sull’arrivo di queste armi: e ogni notte bestemmiamo per le belle ore rubate al sonno. Stamattina più ferocemente del solito, poiché ci siamo alzati alle tre. Abbiamo oltrepassato da poco Antoliva, quando sentiamo rumore di autocarri. Ci buttiamo lungo la strada poi attraverso i prati, ma solo per 66
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scrupolo di coscienza senza entusiasmo. Sbuchiamo di nuovo sulla strada a venti metri da due autocarri che stanno salendo. Riconosco Carletto che scende e mi corre incontro. Carletto è una vecchia conoscenza. Gli chiedo se ci sono delle armi e mi risponde affermativamente. Guardo i carichi, son coperti da teloni sotto i quali s’indovina qualcosa di ossuto. - Ci sono i mitragliatori? - No, ci sono le 12,7. Il telone forma diversi campanili di buon augurio. - Son quelle alte sotto il telone? - No, quelle sono le 20 millimetri. Le 12.7 sono sull’altro autocarro. - Hai detto 20 millimetri? - Sì, ce ne sono sette. - Munizioni?. - Fin che ne vuoi. Adesso siamo contenti anche noi, quasi come Carletto e i suoi amici. Carletto mi racconta le diverse avventure di viaggio. Dice che han fregato quella roba in uno stabilimento dell’Isotta Fraschini a Cavaria, vicino a Gallarate. Le bande s’ingrossano di nuovo. Ma più lentamente. Sono avvenute parecchie scissioni dal battaglione «Valdossola». La «Giovane Italia» si è unita ai dissidenti della Valgrande ed ha costituito la 85ª Brigata Garibaldi «Valgrande Martire», al comando di Galli, un gappista milanese. Il «Valdossola» ora Brigata «Valdossola» è rimasto con pochissimi uomini. La «Perotti» è in val Cannobina: qualche giorno fa ha catturato 18 tedeschi. Anche la «Battisti» si è staccata da Superti ed è diventata battaglione autonomo; una sessantina di ragazzi, ma che sparano e che han visto la morte a un palmo. E sanno perché sparano. [31] Abbiamo un vice comandante del battaglione e il vice comandante è Nemo. Nemo ha fatto il bel colpo delle armi a Cavaria con Carletto. È ingegnere, era capitano d’aviazione, ha fatto un sacco di cose utili, ma lui non lo dice perché parla poco: solo quando è necessario. È un uomo con mo67
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glie e un bambino e quando parla fa allargare il cuore e fa riflettere: perché parla quando è necessario. E non gli manca coraggio e buon senso. Agosto 1944. Di notte i fascisti, a Intra, si chiudono in caserma.Di notte i partigiani scorazzano indisturbati per le vie di Intra. Talvolta rischiamo di spararci tra noi e le pattuglie della «Valgrande». L’altra notte, dopo aver atteso parecchie ore un immaginario pattugliame di militi, colmi di rugiada e di sonno, siamo andati alla Nestlè con un carretto a cavallo. Ci siamo portati a Premeno cinque quintali di cioccolato. La Volante, in seguito all’accentuata attività, richiede, al Comando Brigata, una recluta per la sua base Tipperary (Premeno-Sweet Home), con compiti di cuoco, piantone ecc. Nemo chiede a una recluta: «Tu come ti chiami?», poi «Agrati Pierino. Tu andrai alla ‘Volante’ e ti chiamerai Vola». La notte passata ci siamo divertiti a gettar ciottoli nel giardino di villa Caramora: nella villa ci sono i militi della PAI. Abbiamo gettato i sassi per provocare un’ipotetica sentinella. Poiché non c’è stata nessuna reazione, siamo tutti d’accordo nel giurare che non c’è sentinella. Stanotte scenderemo per sorprenderli nel sonno e disarmarli: c’è una diecina di mitra e altrettante pistole nella villa Caramora. Leo, per l’ennesima volta è rimasto fregato: alla vigilia di ogni azione fa sempre la conta con Mosca e chi vince parte per l’azione. Mosca bara e questa volta l’ha lasciato vincere, perché sapeva che l’azione non era per la notte passata. Leo è in gamba e quasi mi pento di averlo chiamato coniglio il giorno in cui è salito; ma quando si è presentato, i capelli biondi e il viso avrebbero stonato accanto alla canna di un’arma. Ora, che non è passato un mese, non stonano e Leo ha imparato a sorridere come noi. Stanotte sorrideva e parlava sommessamente: come noi. Per l’ennesima notte passiamo il ponte e siamo a Intra. Sette siamo: Nemo e Sascia, Tucci e Carluccio, Marco, Wladimir ed io. Né Leo né Mosca questa notte han potuto venire e stanotte è la volta buona: nove mitra e nove pistole, se va bene. Appoggiamo al muro di cinta del giardinetto che cinge la villa, una scaletta a pioli che abbiamo con noi: saliamo. Ora siamo tutti e sette seduti in cima al muro, con le gambe ciondoloni verso l’interno. Ritiriamo la scala e l’appoggiamo dentro il giardino. Scendiamo e cominciamo ad avanzare verso la porta della villa. Ci sono quindici metri dal muro alla villa. Ora si ode soltanto il sommesso macinare del68
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le nostre scarpe sulla ghiaia. Marco fa violentemente segno di abbassarci. Ci accucciamo ognuno dove ci ha sorpreso il segno di Marco. Sentiamo armare un mitra, ma non vediamo dove. Forse in mezzo alle piante davanti a noi. Un colpo, una raffica e poi silenzio. C’è la sentinella allora. E ha sparato anche. Noi avremmo giurato che non c’era. Sono disteso sul terreno, piantato su un gomito e il palmo della mano mi sostiene la testa. Mi guardo attorno: Sascia e Carluccio sono dietro di me che occhieggiano dal tronco di un albero. Tucci, è in mezzo al giardino dietro a esili frasche di piselli. Ai miei lati ho i piedi di Marco e di Nemo. Più in là, nell’ombra di un cespuglio, indovino Wladimir. Riattaccano a sparare: ora non si capisce più niente. Si vedono fiammelle vibranti alle finestre e si odono raffiche lunghe, una sopra all’altra. Anche una mitraglia si sente, ma si distingue appena tra il crepitare di quel plotone di mitra. Da dieci metri sparano e aspetto da un attimo all’altro, attendo il pugno caldo di una pallottola. Marco si volta e vede che sto guardando avanti, imbambolato. Si arrabbia: «Giù quella testa, patacca». Metto la guancia contro terra aspettando sempre il colpo addosso. Come mai non è ancora arrivato? Durante una pausa Nemo si volta e mi chiede, sorridendo tranquillamente: «Che facciamo?» «Usciamo» rispondo. «Da che parte?» «Lì, dall’angolo». Giungiamo d’un balzo al muro: sono con Nemo e Wladimir; gli altri stanno salendo dalla parte della scala. I due mi spingono su per il muro, poi afferro Nemo per le braccia e lo tiro su. Ora c’è Wladimir: è pesante. Gli altri ricominciano a sparare e io non riesco ad issarlo. Wladimir, con voce concitata mi sussurra: «Fare presto, fare presto». Tra un momento ricadremo tutti e due nel giardino e le pallottole schioccano contro il muro. Finalmente dall’altra parte gettano la scala: Wladimir vi appoggia il piede con precipitazione e d’un colpo è in cima. Saltiamo giù, traversiamo la strada e dall’angolo cominciamo a rafficare: siamo arrabbiatissimi benché per stranissimo caso nessuno di noi sia stato colpito da quelle raffiche. Per finire, tutti i nostri mitra si inceppano: furibondi imprechiamo sordamente. Ma le nostre rade raffiche sono bastate a far tacere gli altri. Ripassiamo il ponte con andatura triste. Wladimir mi dice: «Io credere tutti morire, la dentro» «Anch’io, Wladimir». [32] Il sole è già alto sopra le montagne di Laveno, quando arriviamo 69
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a Premeno, a Tipperary. C’è aperto e fuori, sull’uscio un partigiano sta lavando le stoviglie. Si capisce alla prima occhiata che è una recluta. Già, forse è la recluta che abbiamo chiesto al Comando. - Come ti chiami? - Vola. - Ti han mandato da Pian Cavallo? - Sì. - Pulisci i nostri mitra e prepara da mangiare per quando ci sveglieremo. Ci va a genio: non è come le altre reclute che vogliono sapere un sacco di cose e si danno delle arie. Quando ci alziamo il pasto è pronto e i mitra sono puliti. Il viso di Vola non mendica neppure un nostro sguardo di approvazione. 1° settembre 1944 - occupazione di Cannobio. Ordine di operazioni: «La “Volante”, stanotte scenderà sulla strada nazionale tra Ghiffa ed Oggebbio e provvederà ad interrompere le comunicazioni fonotelegrafiche tra Intra e Cannobio e tratti intermedi. Si incontrerà a Cannero, alle ore 8, con il Distaccamento 109 e rimarrà in attesa di ordini. Arca». Scendiamo verso il lago, sollazzati dalle bestemmie, in perfetto ucraino, di Wladimir, all’indirizzo della «strada italiana», per la verità un sentiero scosceso e sassoso. Vola ci segue in silenzio, con la sua unica arma: una pistola calibro 6,35. Arriviamo alla «nazionale» ed ora si tratta di tagliare i fili del telefono e del telegrafo: quali saranno della ventina di fili che vediamo sopra le nostre teste? Decidiamo di tagliarli tutti in attesa di future delucidazioni. Tutti nicchiano: nessuno vuol salire perché costa fatica salire sui pali; perché bisogna tagliare i fili con una semplice accetta, e poi c’è la corrente elettrica che a Vola in special modo non è simpatica. Vola stesso si offre e taglia i fili di una ventina di pali. Da quel giorno abbiamo compreso il suo spirito di sacrificio. Giungiamo a Cannero e incontratici con gli altri attendiamo gli ordini che non arrivano mai. Non è conveniente mandare avanti una pattuglia che potrebbe essere scoperta mentre l’azione dovrebbe aver carattere di sorpresa. Ci vuole un borghese che vada a prendere contatto con il grosso che scende dalla Cannobina. Ancora Vola si offre dicendo che ha «i documenti a posto». Prende l’aspetto di un boscaiolo attaccandosi una roncola alla 70
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cintura e parte in bicicletta. Rientra dopo aver portato a termine l’incarico. Qualche mese più tardi mi confesserà di non aver avuto affatto in quella circostanza i documenti in regola. 3 settembre 1944. A Cannobio c’era un presidio tedesco e uno fascista: a Ponte Valmara un presidio della Guardia di Frontiera. Oggi ci sono i partigiani della «Battisti» e della «Perotti». Stamattina si è arreso anche il presidio fascista di Cannobio che ancora resisteva, sperando nell’arrivo di rinforzi. L’occupazione ci è costata solo un morto e qualche ferito. Circa 100 prigionieri, tra cui 70 tedeschi, 4 mitragliatrici, 4 mortai da 45 e una ventina di mitragliatori. Anche la flotta abbiamo: due battelli della Soc. di Navigazione e due «mas». I tedeschi si sono arresi quasi senza sparare, forse perché va bene l’offensiva degli inglesi sul fronte italiano. Sono stati accompagnati alla frontiera svizzera. I fascisti no, la popolazione ha voluto che restassero a Cannobio per sempre. Anche noi l’abbiamo voluto. A Cannobio tutta la popolazione è per le strade e si accalca intorno ai partigiani: le reclute sono raggianti, ma gli anziani ostentano parecchia indifferenza e preferiscono gironzolare per le camerate delle caserme in cerca di colpi di mitra e di pistola, preferiscono scovare una bettola tranquilla per bere e per mangiare. Questo cercano gli anziani. Stamattina s’è iniziata la mania di arruolarsi e i primi arruolati sbandierano già i ’91 e li sparano per vedere se funzionano. Bestemmiare ci fa, questa gente. Nella caserma dei militi ho rimesso a nuovo Wladimir con un paio di pantaloni grigio verde, fasce nere e una camicia nera di flanella. Di vecchio s’è tenuto soltanto le scarpe ed il baschetto blu scuro, quasi nero: non ci mancava che quello per rassomigliare a un fascista. Wladimir mi ringrazia con effusione russa per i vestiti che gli ho procurato e io sghignazzo vedendolo vestito in quel modo. A mezzo del pomeriggio ballonzola qua e là una confusa notizia che a Cannero siamo attaccati: è meglio andare a vedere. Arca che ha già scovato una motocicletta mi fa salire e partiamo. Dietro a noi c’è Dieci con un’altra moto e poi una macchina. Curve, con la moto a 45 gradi e l’aria che ricaccia in gola il respiro e fa lacrimare: questo significa andare in moto con Arca. Arriviamo a Cannero. È vero: un camioncino di militi della brigata ne71
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ra di Intra, un reparto di nuova costituzione, è giunto davanti al nostro posto di blocco, di sorpresa. I militi si sono accorti a duecento metri dei partigiani, un attimo prima che una 12,7 e una 20 millimetri aprissero il fuoco. Ora il camioncino è lì in mezzo alla strada, sforacchiato e inservibile. I militi sono scappati verso Intra. Riprendiamo l’inseguimento con le due moto e la macchina, lasciando a terra Wladimir che bestemmia paurosamente, ma le balestre della macchina toccano terra per il sovraccarico. Credo che Arca vada troppo in fretta: nelle curve mi scordo dei fascisti. Anche nei rettilinei. Ora la macchina ci ha sorpassati. Poi il fracasso delle nostre raffiche copre quello delle macchine. Abbiamo raggiunto i fascisti. Arca ha bloccato la moto, scendiamo, corriamo innanzi: vediamo quelli della macchina che tornano verso di noi per mettersi al coperto, poiché qualche fascista ha fatto in tempo ad asserragliarsi in una villa vicina ed ora piovono raffiche sulla strada. Anche un fascista morto vediamo: a settanta metri da noi, disteso sull’asfalto. Mi fa meno impressione dell’ultima volta che ne ho veduti e non ci ripenserò che per ricordare l’azione di oggi. Ormai, un fascista morto, per me, non è che un uomo senza vita, è un nemico di meno. È un’unità che allarga lo spazio che separa i nemici da noi. Oggi non ho tempo di pensare ad un uomo cadavere; oggi, sono contento perché i fascisti scappano e noi li inseguiamo. Sono saturo di euforia gioiosa perché oggi il rastrellamento lo facciamo noi e loro provano quello che abbiamo provato noi, dieci volte tanto, perché la gente li attende ad ogni cantonata per segnalarceli. So che questa non è la parte migliore dei sentimenti di un partigiano, ma chi di noi sa dimenticare i compagni morti nei modi più inumani? [seconda parte] Lo ritrovo (Vola) qualche giorno dopo Natale a Scareno: viene dalla Svizzera. Per un po’ di tempo conduciamo una vita grama, nella più completa inazione in mezzo alla neve tra una puntata e l’altra. Un giorno, mi dice: «Peppo, mi sembra che non hai più voglia di far niente». Ha colpito nel segno e il rimprovero ha servito: si ricostituisce la «Volante Cucciolo» e ricominciamo le nostre scorribande. [33] 14 gennaio 1945.Un’ora fa ho detto a Vola che oggi commisero i fascisti e li ho chiamati anche «poveri diavoli». 72
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Vola stava scopando: oggi vuol fare pulizia generale nella nostra casetta. Senza smettere di scopare mi ha risposto che sì, non avrebbe mai voluto cambiarsi con un fascista, nemmeno per mezz’ora, ma che oggi li commiserava più del solito. - Hai ragione, continuava, oggi sono davvero «poveri diavoli». E adesso non starmi tra i piedi, vai fuori che sto lavorando. Vola ha parlato come nei giorni in cui è contento. Oggi è contento di vivere: per la valanga di sole che erompe dal di fuori, attraverso la finestra e fa guardare con simpatia le cose più banali della nostra casa: anche le stoviglie sporche e i tizzoni spenti nel camino, su cui la vivida luminosità inaspettata fa pesare l’inutilità della sua funzione in questa giornata diversa. Sono uscito per finire di impicciare Vola e perché ci eravamo già detto tutto; ho socchiuso gli occhi perché il chiaro accecante del sole e della neve era prepotente e li ho riaperti gradatamente. Poi ho esaminato la pista, tracciata nella neve fresca dagli altri che erano scesi in paese: volevo giungere al muretto distante dieci metri e la pista passava a tre metri. Ho dato una occhiata alle mie pantofole, poi le ho tolte e mi sono buttato avanti nella pista con le pantofole in mano. I piedi provavano scottature gelate gradevoli e dolorose. Provai ad immaginarmi il lavoro dei piedi che schiacciavano la neve, la scavavano, la gettavano indietro nello sforzo violento di avanzare celermente e immaginai le reazioni dell’anima esasperata dei piedi, allo sforzo e al freddo. Così mi trovai contento di pestare la neve coi piedi nudi. All’ultimo tratto, quando dovetti lasciare la pista, pensai che questa voluttà innaturale poteva anche cessare, che sarebbe stato tempo. Mi sdraiai sul muretto tiepido di sole precoce, usando le pantofole per cuscino. Mentre ascoltavo le varie instabili impressioni che ricevevo dai piedi ubriacati dal gelo tenero della neve fresca, pensai che la nostra casetta era il luogo più bello abitato dai partigiani. Era vero perché non ne conoscevo altri migliori. L’aveva scovata Carluccio, uno degli ultimi giorni d’ottobre. Un giorno di pioggia da rastrellamento: e con i tedeschi alle costole. Lui Carluccio, e Tucci. Girovagando tra le pinete di Sasso Corbè, si erano affacciati ad una balconata di terreno e la casetta era lì, a quattro passi. I rigagnoli di acqua ghiaccia, dalla fronte scendevano sui loro nasi gocciolanti. Anche i mitra erano intrisi di acqua. E quando il mitra e il naso gocciolano, ci si esaspera, gli occhi si riem73
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piono di rabbia e si mandano alla malora anche i tedeschi. Era chiusa la casetta, ma Carluccio sa trovare il modo di entrare in una casa chiusa: sa fare mille cose, Carluccio. L’ho visto riparare armi, radio, orologi, impianti elettrici. L’ho visto fare il falegname, il meccanico, l’infermiere, l’autista. Dice che nessuno gli ha insegnato. Lui osserva tutto, fino alla curiosità spinta, poi ci prova e riesce, perché è un artigiano nato. E non ha faticato per aprire la casetta. Ci son entrati e ci son rimasti: a dispetto dei tedeschi a due palmi. Poi anche Cesco ci andò a stare; in seguito li raggiunsi anch’io; infine, quando tornò dalla Svizzera, anche Vola: l’ultimo giorno dell’anno. Poi, Tucci andò al Comando e restammo in quattro. L’abbiamo chiamato «Rifugio»: è in fondo alla balconata di terreno, tra gli abeti più alti e non visibile da nessun punto. Nemmeno dalla cima di Sasso Corbè. Non è una casa, ma nemmeno una baita: è una casetta minuscola, quasi un rifugio alpino, con stufa economica, acqua potabile e camino. E un portichetto per metterci la legna tagliata. C’è anche un «water», ma i nostri piedi poggiano sulla neve. La neve ha raggiunto l’altezza del davanzale dell’unica finestra e ci pensano le frequenti nevicate a tenercela aggrappata. Dentro, colmiamo il vuoto del tempo e dello stomaco, giocandoci i colpi di mitra a «scala quaranta» o al «poker»: con estrema prudenza, perché i colpi di mitra non sono denari. Anche a «dama», giochiamo; con un gioco costruito da Vola. Vola è volonteroso, pieno di buon senso e spirito di sacrificio: lo vediamo ogni giorno da ogni minimo atto. Vola dorme quasi sempre vicino a me, che dormo male e son pieno di scabbia. Per convenzione dovrebbero dormire a turno vicino a me, ma Cesco e Carluccio mancano spesso ai patti. La neve e questa vita statica, ci fan diventare sempre più indolenti. Non Vola, Cesco più di noi due. Una sera ci eravamo appena coricati: Cesco, che aveva la candela un palmo dietro la testa, non voleva spegnerla poiché diceva di essere stato poco prima coi piedi sulla neve. Nemmeno delle puntate ci curiamo. Talvolta, quando scendiamo a Premeno, la gente ci informa che i fascisti sono appena partiti: la gente non sa dove abitiamo. Soltanto una volta abbiamo lasciato il «rifugio»: perché la «Confinaria» era a cento metri da noi. Vita grama e borghese. Vita da borghesi in decadenza. E triste.
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[34] Vita trascinata con indolenza, accumulando aridi e monotoni minuti su minuti. Ecco perché basta il sole tepido a cambiare il nostro umore e farci accorgere che sa essere bello anche il mondo. Ci si dovrebbe vergognare riflettendo che il nostro umore è subordinato alle condizioni atmosferiche, eppure per noi e per me è un fattore importante, come sono importanti il vino e le patate che porteranno oggi Carluccio e Cesco da Premeno, e forse il tabacco e il liquido antiscabbia, perché oggi Cesco dovrebbe incontrare sua madre. Sono così importanti queste cose, che quando Cesco e Carluccio saranno all’ultimo tornante della salita, chiederò se hanno tutte queste cose. So che non mi risponderanno finché non mi avranno raggiunto e li avrò di nuovo interpellati, perché loro han camminato, han portato lo zaino, hanno le scarpe fradice, mentre io sono sdraiato sul muretto. Lo sanno loro di godere una certa superiorità e anche in questo modo la fanno pesare. Così stasera si sentiranno al sicuro da ogni altro lavoro, anche quello di badare al fuoco: esattamente come farei io. So come si è creata questa meticolosa computazione del lavoro di ognuno. Cesco, l’ultimo arrivato nella «Volante», doveva subire nei primi tempi l’autorità di noi, che ci atteggiavamo ad anzianissimi. Lentamente è riuscito a emanciparsi da questa dipendenza. Quando ci siamo accorti che i nostri ordini perentori non raggiungevano più l’effetto, era troppo tardi: Cesco si considerava ormai un anziano. Aveva ragione e anziano lo consideriamo. Cesco prese atto con rapidità violenta del nostro riconoscimento e pretese di riguadagnare il non lavoro perduto ingiustamente. Il lavoro che lui non voleva eseguire, non avevamo intenzione di farlo noi, così si giunse ai giorni in cui si cominciò a dire: «Se tu fai questo, io faccio quest’altro». Le conseguenze non potevano essere che quelle a cui siamo giunti. Fortunatamente Vola è un uomo anche quando noi facciamo i bambini e ciò che non vogliamo fare noi, lo sbriga lui: queste cocenti lezioni, che valgono più di ogni discorso sono gli unici argomenti che qualche volta fanno tornare uomini. Naturalmente la colpa di questo stato di cose è più nostra che di Cesco, sopratutto perché il giorno in cui è entrato a far parte della «Volante», non era una recluta. Cesco, frequentava la mia stessa scuola e faceva parte della squadra di pallacanestro di cui facevo parte io. Quando i fascisti chiamarono la clas75
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se del ’25, Cesco piantò la scuola e raggiunse la banda di Beltrami in Val Strona; questo avvenne nel dicembre 1943. Fu assegnato al plotone di Rutto e in seguito ad un rastrellamento si ritrovò col suo plotone a Villa Ompio tra i ragazzi del «Valdossola». Fu una marcia infernale e tra i canaloni della Valgrande parecchi più anziani di lui si accasciarono senza forza e colmi di gelo, aspettando la morte nel torpore svuotante da cui niente li poteva scuotere. Cesco imparò a serrare i denti per non crepare così senza senso, imparò a vedere i compagni morti prima che il loro cuore cessasse di battere, imparò a gettarsi selvaggiamente su una capra e a divorarne cinque minuti appresso la carne tepida e dolciastra. A Villa Ompio, due giorni dopo, giunsero i fascisti. Cesco era con quella dozzina di partigiani che tennero duro e costrinsero i fascisti a ritirarsi e a tornare il giorno dopo, e quello dopo ancora, in un migliaio, compresi i tedeschi. In Valgrande, dove il «Valdossola» aveva emigrato terminò di maturargli addosso una secca pleurite: Cesco tornò a casa sua una sera, ubriaco di febbre. Cominciò per lui la vita tra ospedale militare e documenti falsi, fu arrestato e poi rilasciato, disarmò qualche fascista, fece un paio di sparatorie, guarì completamente, infine si trovò stufo di non essere in montagna. Dieci giorni dopo aver perduto Cannobio e Cannero giungevo a Pian Cavallo da Finero con la «Volante» rimessa a nuovo e appesantita. Era il tempo dell’occupazione dell’Ossola: reclute, macchine e munizioni a iosa e molte cose che non andavano più e che facevano bestemmiare i più anziani. Dopo un giorno a Domodossola dove avevo scoperto mense ufficiali, e cinque o sei giorni in Val Vigezzo e Cannobina, dove gli «ufficiali» della brigata «Perotti» fumavano sigarette svizzere e si facevano chiamare «signor tenente», racimolai la vecchia «Volante», andai a scovare Dieci, Sergio e Trentasette convalescenti per ferite, aggiunsi Lino, Marmellata, il russo Costatin e ci incamminammo contenti verso Premeno. Quando giungemmo a Pian Cavallo, sulla porta di entrata dell’albergo c’era Cesco, in piedi contro lo stipite. [35] Non mi meravigliai di trovarlo a Piancavallo. Da tempo avevo imparato a meravigliarmi soltanto quando un partigiano si metteva con i fascisti. Di Cesco (anzi Gastone, poiché ancora lo conoscevo soltanto col suo vero nome) non avevo saputo più nulla dal ’43 e da un paio d’anni non lo vedevo. 76
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Ci sorridemmo dandoci la voce, poi: «Cosa fai qui?» Lui rispose con gesti vaghi e buffi, un’elegante alzata di spalle di tutta la persona: braccia, testa, orecchie, torso. Parlammo un po’, chiedendo io notizie di antichi compagni. Gastone aveva conservato la sua voce lenta strascicata, come un torrente delle Langhe: anche in piena sempre pigro. Anche arrabbiato Gastone non l’avevo mai visto accelerare il gettito delle sue parole o mutare tono di voce. Aveva ancora il viso infantile, le efelidi sulle guance e più fitte vicino al naso, ancora la peluria chiara sotto le basette, come l’ultima volta che l’avevo visto; solo gli occhi grigio azzurri erano quelli di un uomo. Teneva in testa, di sbieco, una bustina da aviere: ultimo tocco alla sua scanzonata compostezza. Terminò di raccontarmi succintamente la sua vita dall’8 settembre alla sera precedente quando è giunto a Pian Cavallo. Poi lo piantai per andare in cucina a smaltire la fame. Più tardi ripensai a Gastone e per quella parte di lui che conoscevo, mi accorsi di giudicarlo bene. Tornai dritto da Gastone e gli chiesi, senza preamboli, se voleva venire in «Volante». Mi rispose, senza pensarci troppo, che ci stava a venire in «Volante». - Qual è il tuo nome di battaglia? - Cesco. Allora mi infilai nella camera del Comando del Battaglione e trovai quello che cercavo: un signore della nostra età con la giacca a vento nuova pulita, che si presentò con un nome di battaglia idiota come un fascista convinto. I compagni mi avevano avvertito che quello era appena «rientrato» dalla Svizzera e che doveva essere stato ufficiale del «Regno». Andai da lui perché era l’aiutante maggiore del battaglione, così mi avevano detto. Quel grado fino a quei giorni era stato sempre estraneo alla nostra vita: giuro che se l’era fabbricato lui prima di «uscire» in Italia. All’aiutante maggiore dissi che avevamo bisogno di un uomo, una recluta: - L’abbiamo già trovato e ci sta a venire, avrà diciotto anni. Cesco si chiama, è venuto su ieri sera - e calcai su quel è venuto su ieri sera, pronunciandolo con tono irrisorio e indifferente nel medesimo tempo. Si trattava, come gli avevo detto, di una recluta. Quello disse subito, condiscendente, che potevo prendermelo e io chiesi di nuovo il suo nome di battaglia, ma questa volta lo pronunciò con una punta d’esitazione. E scendemmo, finalmente, verso Premeno su di un camion carico di 77
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legna: la «Volante» con i suoi mitra Hotckiss e Mauser, satura di colpi da sparare e d’allegria nuova, inspiegabile; e Cesco serio, tra facce ignote, impacciato da un fucile modello ’91, nuovo ma lungo e antiestetico, perciò inammissibile accanto al suo esatto corpo d’atleta. Un mattino, qualche giorno dopo, stavo con Vola, Carluccio e Wladimir, dietro un muretto in pendio, ad aspettare. L’alba era, e noi aspettavamo che fosse sufficientemente chiaro per distinguere le sentinelle del posto di blocco fascista sottostante. Ogni tanto puntavo il Mauser di Vola ma le figure dei militi erano ancora confuse, seppure sempre meno. Due erano le sentinelle che passeggiavano tra i muretti a secco sul ponte, forse per scaldarsi, perché anche noi eravamo intorpiditi. Uno canticchiava un antico motivo «bada bimba a quel che fai, l’amore va e non ritorna più». Poi una detonazione a destra cambiò il sapore di quell’alba: l’Hotckiss della pattuglia di Dieci cominciava a sparare sul posto di blocco attiguo al nostro. Vedemmo i militi buttarsi rapidamente al coperto. I colpi susseguenti tardavano a farsi sentire. - Deve essersi inceppato il mitragliatore - proclamò Carluccio. Doveva essere proprio così. Intanto non avevo perso di vista il milite che prima cantava; l’avevo visto rimanere qualche secondo immobile nella positura in cui la detonazione l’aveva sorpreso, poi s’era buttato con irruenza dietro il muretto più vicino. Non udendo altri spari, sporse la testa, poi il collo, si vedevano le spalle: cominciai a mirare. La canna del Mauser tendeva a scivolare lungo la superficie obliqua del muretto; poi si fermò in un’incavatura proprio quando la mia inquieta impazienza stava diventando dolorosa ed ero sul punto di erompere in un’ondata di imprecazioni. Quando la tacca di mira e il mirino si trovarono al posto giusto, la sentinella rassicurata, sporgeva fino alla cintola, con gli avambracci poggiati sul muretto. Rettificai per bene la mira e premetti. [36] Le fastidiose sensazioni del rinculo e dell’assordamento mi colsero in un’esplosione di gioia: il milite s’era accasciato, si distinguevano nettamente la testa e le braccia penzoloni al di qua del muretto. Dio, che tiro! L’avevo preso! Mi alzai, mi volsi verso i compagni e più con gli occhi che con la voce urlai che l’avevo beccato. 78
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Sentii la voce tranquilla di Vola: «L’ha preso, di’» e dentro non c’era meraviglia, solo una gaia inflessione, una debole ghignata uniforme in tutte quelle parole. Wladimir vociava: «Bene, preso uno fascista» e sgranava, inebriato, insensate raffiche di mitra. Anche Dieci, finalmente riattaccò a sparare, e anche i fascisti si decisero a rispondere. Ricaricai velocemente e mirai sul secondo milite che scappava lungo la strada. Sparai e tutti e quattro lo vedemmo piroettare sull’asfalto, poi trascinarsi lentamente verso un muro che l’avrebbe defilato. Il terzo colpo batté a meno di un metro, sull’asfalto, provocando una manciata schizzante di scintille giallo-viola; infine il milite scomparve dietro il muro. Nuova esplosione gioiosa, mentre imprecavo a Wladimir che scialacquava raffiche come un fascista. Ora rispondevano astiosamente da tutti i posti di blocco circostanti. Si udivano ancora, tra il fuoco delle altre armi, le cupe pigre raffiche dell’Hotckiss di Dieci. Fischiarono attorno a noi le prime pallottole meglio indirizzate, poi dissi di ritirarci ché non ne avremmo fatto più niente; ormai i fascisti sparavano con mezza testa fuori dai ripari, o dietro le feritoie con mitra mitragliatori e mitraglie. Percorremmo speditamente il primo tratto scoperto, tra un vicendevole vociare festoso e rumorose risate. Ero contento, felice per i tiri, felice di averne fatto fuori uno e mezzo, contento della beffa riuscita, del milite che prima cantava e poi s’era accasciato, dell’altro ch’era rotolato sull’asfalto. Venti minuti dopo i fascisti sparavano ancora col medesimo ritmo col quale avevano cominciato. Sparavano ancora quando c’incontrammo in un prato con la pattuglia di Dieci, che inveiva contro il mitragliatore inceppato dopo il primo colpo: c’era voluto qualche minuto per rimetterlo a posto. In fondo, però, erano contenti quelli di Dieci, perché dopo una raffica, avevano visto aprirsi un largo strappo nella tenda sotto cui speravano si trovasse qualche milite. Ora, forse per sempre, tutte le volte che l’afosa sonnolenza di idioti periodi come questo, invade me e il mio mondo, non sono entusiasta di quell’azione. Sarei sempre capace di ripeterla, perché debbo fare così, perché «loro» ci hanno costretti a sparare in quelle condizioni, perché così significa lottare contro chi ci ha costretti a sparare in quelle condizioni, ma non 79
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sarei entusiasta. Specialmente la faccenda del terzo colpo sparato contro un uomo già colpito non mi va più. Forse, allora, è stata la foga, o non ho avuto il tempo di pensarci o deve essere stato il mio senso sportivo che soffocava la razionalità, perché mi accorgo che per molti mesi, sparare era il mio sport preferito. Ma quel terzo colpo era inutile, ingiusto, insensato. Sento il dovere di sparare anche su della gente che, ignara, sta canticchiando e pensando cose lontane dalla lotta, ma non sono entusiasta di questo dovere. Forse è anche pigrizia, forse paura, forse perché ora, soltanto adesso, in mezzo a rastrellamenti e puntate che cominciano e finiscono senza data, sento il desiderio di essere lasciato in pace. Voglio essere lasciato in pace, libero di camminare senza armi e di girare per le vie della città mia, di andare al cinema con i pantaloni stirati se ne ho voglia e con le scarpette leggere di pelle con la suola di gomma; io e Cesco e Carluccio e Vola, perché anche loro desiderano tutte queste cose e fanno di tutto per dimenticare che i tedeschi e i fascisti sono gente diversa da noi. Perché non capiscono i fascisti di piantare tutto il loro peso di armi nei loro fortini, e perché i tedeschi non vanno a casa loro, ognuno a casa sua, ognuno pensare ai fatti suoi, e perché non pensano come noi? Perché sono diversi da noi? Perché, Dio?… Teste di rapa! E noi dobbiamo sparare soltanto perché loro non capiscono e soltanto loro, fascisti e tedeschi di tutto il mondo, sono l’ostacolo alla tranquillità nostra e di tutto il mondo: noi costretti a fare la guerra contro quelli che fanno la guerra. enneci 25 febbraio 1945: Volante «Cucciolo» a Trarego ** La Volante, a Trarego, è caduta senza retorica. I Caduti di Trarego e tutti i nostri Caduti ci hanno insegnato. La loro morte ci ha insegnato la vita e la via La Volante è tornata da un appostamento. È a Premeno. A Premeno arriva un biglietto di Arca. Un biglietto, un ordine di dieci parole: «La Volante deve raggiungere Scareno nel più breve tempo possibile». ** «Monte Marona», n. 34, 20 febbraio 1946. Pubblicato anonimo.
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La Volante parte da Premeno. Parte di malavoglia: è appena tornata da un «giro» e vorrebbe stare un po’ a Premeno. Invece deve andare a Scareno. E Scareno non le è simpatico: ma parte, la Volante. E quasi, non canta. Si porta con sé un paio di bottiglie di cognac e qualche vasetto di marmellata, arrivato giusto allora. La Volante beve gli ultimi bicchieri al «Riposo», poi saluta «mamma Luisina». Esio, Aurano, poi Scareno. E su, al Comando. Arca è contento di rivedere la Volante: È sempre contento quando la ritrova. La saluta tutta e tende la mano a tutta. E tutta la Volante lo saluta; ed è contenta di salutarlo. Parla, Arca. Dice che in Cannobina la squadra di Dieci, è stata attaccata. Ci sono dei morti: uno, forse, è Dario. Dario era buono e anche un uomo. Un uomo di 18 anni: un bambino a vederlo, un uomo a conoscerlo. Arca dice che bisogna far qualcosa contro quelli che hanno accoppato Dario e il resto: contro la «Confinaria». Prima di partire, la Volante ha già vuotato una bottiglia di cognac ed ha superato la malinconia di Scareno. Gigetto e Jubal si tirano le loro barbe: barbe di quattro peli biondi e castani, barbe forzate. Vola diverte e Cesco dice a Vola che arrivano i «mongoli»: Soltanto la Volante sa cosa voglia dire «arrivano i mongoli» e soltanto lei ride. Poi, parte la Volante. Sugli scalini intona la sua canzone: ... squadra dell’allegria; tra noi partigiani non c’è malinconia.
Volante «Cucciolo» contenta e malinconica. Nove uomini contenti e malinconici . È contento il Vola di essere accanto a Gino, Cesco accanto a Carluccio, Ermanno accanto a Gigetto, uno accanto all’altro. E la Volante fa i primi passi cantando, e uno allacciato all’altro. E beve, beve anche l’altra bottiglia di cognac. Gigetto dice che è ora di andare a dormire. Forse è meglio fermarsi alle prossime baite. Tutti faticano e camminano nel buio senza luna: contenti e malinconici. Malinconici perché devono andare in Cannobina. Andare in Cannobina significa andare tra gente che non tutta ci vuol bene, gente che non tutta sta zitta, significa mangiar poco e soprattutto significa lasciare la zona bella, la zona che vede In81
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tra, Pallanza e tutti i paesi che piacciono alla Volante. Alle prime baite la Volante si ferma, entra in una e mette le armi al riparo del fieno. Poi dorme, malinconica e contenta. Nella Volante tutti si vogliono bene. Bene sul serio. E dormono uno accanto all’altro, abbracciati. Così, dormono. Perché si vogliono bene. La Volante oggi ha camminato, si è fermata, ha mandato una corvée a Trarego per prendere viveri. Qualcuno ha fatto il bagno, qualcuno ha dormito, qualcuno ha preparato da mangiare. La corvée è tornata con pane, carne, vino e una notizia: una pattuglia di fascisti sale tutte le sere a Trarego: 5-10 fascisti, ora di arrivo, abitudini, itinerario e ora di partenza. C’è tutto. La Volante mangia, parte col buio, giunge a Trarego, lo lascia sopra di sé e si apposta sulla strada. Passa il tempo e i fascisti non passano. La squadra di Dieci resta com’è: con i suoi morti. I fascisti restano come sono: senza morti freschi. La Volante torna, cerca una baita col fieno, per dormire. Perché sono le due di notte. Al mattino, esce dalla baita la Volante: Si scolla di dosso le briciole di fieno e sale su per il prato giallo sciatto di gelo vecchio: per cuocere la carne, sale. A metà pendio vede uomini, uomini armati, cappello alpino. Un colpo di binocolo: «Confinaria». A 150 metri. Tutti i sentieri sono pieni di «Confinaria». Fascisti per tutta la montagna. Baite che bruciano e fascisti per tutta la montagna. E la Volante è nove uomini. La Volante tiene consiglio: tra le baite a 200 metri dai fascisti. Poi ha deciso. Deciso che cosa? Sa che è in trappola e vuole uscirne. Non si scalda e non perde tempo. Non smania e scherza ancora, ma pensa. Che cosa pensa? Ha deciso di non farsi pescare. Cerca un angolo morto per passare le ore che mancano al buio. Scende sparsa, sperando di essere defilata. Forse è defilata: se nessuna la vede. Come si fa ad essere defilati quando non c’è che prato quasi uguale chiazzato di neve e fascisti dappertutto? Fascisti sopra, su ogni sentiero, fascisti ai lati, fascisti sotto, a Trarego, a Oggiono. Ha trovato un angolo morto, la Volante: un catino, un imbuto di terreno, una conchetta, qualcosa per non lasciarsi vedere da tutte le posizioni. Nel catino la Volante parla. Parla, racconta e ride. Cesco racconta e gli altri ridono, Jubal racconta e gli altri ridono, Gigetto racconta e gli altri non ridono: perché parla di Fondotoce. Poi, parla Ermanno, poi di nuovo Cesco, poi qualcuno ancora e gli altri ridono, meno quello di guardia che non sente. La volante ride, non si dà pensiero. Vede i fascisti e non si scalda. Vede 82
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le baite bruciare e allora si arrabbia: si chiede perché i fascisti incendiano le baite. Che colpa hanno le baite? Poi, torna contenta di nuovo. Contenta di essere tutta assieme, uno accanto all’altro. Poi verso sera c’è Vola di guardia e Vola dice che un reparto di 43 uomini scende verso il catino. La Volante tiene consiglio e decide. Scendere in valle, e con la notte risalire l’altro versante, passando tra i loro presidi. Brutto è decidere, poi si scherza ancora. Fuori dal catino, la Volante imbocca il sentiero appena segnato, scende verso la valle passando sotto il roccione. Una raffica scuote il silenzio dei sassi che rotolano pianamente: e la Volante si ferma. Guarda e vede una fila di uomini in cima al roccione: sente altre raffiche e si butta lungo il pendio pelato. Le raffiche infittiscono, passano accanto alla Volante, fischiano tra la Volante. E la Volante passa accanto alle raffiche, passa nelle raffiche, si muove tra le raffiche. Poi, la Volante si muove nel suo destino. Il destino di Ermanno che, sotto il roccione, spara finché avrà colpi. Il destino dei vivi che il caso lascia vivi. Il destino degli altri che si fermano al muretto. Un muretto a secco, dove comincia il prato. Dietro il muretto, uno accanto all’altro. E i colpi, uno accanto all’altro. E arrivano uno accanto all’altro. E colpiscono quelli della Volante: uno accanto all’altro. Poi, Cesco dice che sono tutti morti e feriti e che la piantino di sparare. Lo dice ad un ufficiale: «Disgraziato, piantala di sparare: son tutti morti e feriti». Ed è ferito anche lui. E dice proprio «disgraziato». La «Confinaria» smette di sparare di lontano. Si avvicina e spara da vicino. Da due metri, spara. Sui morti e sui feriti. Raffiche lunghe, senza senso, per dritto, per traverso. Calci di mitra che spaccano le ossa già rotte dalle raffiche. Sette morti. E la Volante eran nove. Due borghesi, e fanno nove. Perché due borghesi? Nove morti. Nove morti e 348 ferite. Nove morti massacrati. La Volante morta: uno accanto all’altro, come la Volante viva.
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La vita di Nino Chiovini e i suoi scritti Nato nel 1923 a Biganzolo, oggi frazione di Verbania, si diploma perito chimico nel 1942. Trasferitosi con la famiglia paterna a Cuggiono, nel Milanese, entra in contatto con un gruppo di giovani che si raccolgono intorno al prete antifascista don Giuseppe Albeni; nel frattempo lavora come tecnico alla società SIO di Milano. Dopo l’8 settembre entra attivamente nella Resistenza dando vita sulle colline del Verbano, con giovani del luogo e di Busto Arsizio, al nucleo originario della futura formazione partigiana Giovane Italia, ufficialmente costituitasi nel febbraio 1944. La formazione ha vita travagliata, con cambio frequente di comandanti tra cui lo stesso Chiovini (Peppo), il maggiore Biancardi, inviato dal CLN di Varese e che si allontanerà senza dar più notizia di sé dopo appena due mesi, a fine aprile, l’operaio comunista lombardo Alfredo Labadini (Guido il Monco), il tenente degli alpini Gaetano Garzoli (Rolando) a cui si affianca successivamente il tenente Mario Flaim; entrambi i tenenti moriranno sul Monte Marona il 17 giugno durante il rastrellamento della Valgrande. L’ambito operativo della formazione è direttamente sovrastante Verbania, dalla bassa Valle Intrasca (Ungiasca, Miazzina) sino al Pian Cavallone, sede del comando, collocandosi tra l’area di azione del Valdossola di Superti, a ovest (Ompio, Valgrande, alture di Premosello) e quella della Cesare Battisti di Armando Calzavara (Arca) a est (alpeggi di Intragna, Premeno, Colle, Vadàa). Chiovini, con l’arrivo di Biancardi, si stacca operativamente dal grosso della formazione, dando vita ad una volante che agisce a ridosso di Verbania «restando sempre però agli ordini della Banda». Dopo il grande rastrellamento di giugno, mentre gli altri sopravvissuti della Giovane Italia danno vita, con i superstiti della Valdossola guidati da Mario Muneghina, alla 85a Brigata Garibaldi «Valgrande Martire», Peppo con i suoi confluisce nella Cesare Battisti dando vita alla Volante Cucciolo che opererà attivamente nel Verbano, da Intra al confine svizzero, sino al 25 febbraio 1945 quando sarà sopraffatta a Trarego. Sopravvissuto all’eccidio, Chiovini comanderà la volante Martiri di Trarego che parteciperà attivamente agli ultimi mesi della Resistenza contribuendo alla liberazione di Verbania e di Cannobio.
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Volantino della Repubblica sociale italiana.
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Nel dopoguerra, trasferitosi definitivamente a Verbania, lavora come tecnico alla Rhodiatoce; il suo impegno continua aderendo nel 1946 al PCI e ricoprendo, tra il 1951 e il 1960 gli incarichi di consigliere e assessore al Comune di Verbania. Partecipa attivamente alle lotte operaie della Rhodiatoce (poi Montefibre) e agli inizi degli anni settanta aderisce, con il partigiano Gino Vermicelli, al gruppo verbanese de Il manifesto. Nel frattempo intensifica la sua opera di ricercatore e scrittore della Resistenza locale in contatto e in collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza P. Fornara di Novara e il Comitato Unitario per la Resistenza di Verbania; lavoro che, con successive integrazioni e riedizioni, dà luogo a quello che è ancor oggi il principale testo sulla Resistenza nel Verbano e sul rastrellamento della Valgrande: I giorni della semina (1974), opera idealmente completata dagli altri due testi Valgrande partigiana e dintorni (1980) e Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte (1981). L’inizio della collaborazione con l’editore Vangelista di Milano in occasione della nuova edizione, ampliata, de I giorni della semina (1979) proietta Chiovini fuori dell’ambito editoriale locale e lo stimola a nuovi terreni di ricerca: in particolare la ricerca storico-etnografica su quella che lui stesso definiva «civiltà rurale montana» a riconoscimento del debito di tutti quei montanari, donne e uomini, che «pagando un prezzo liberamente accettato, si schierarono, ognuna nella misura in cui le era possibile o le veniva richiesto, dalla parte di chi si stava battendo per la libertà e per la pace» (Mal di Valgrande) e, nel contempo, alla ricerca delle proprie radici famigliari, nel cuore della Valle Intrasca. Escono così in successione: Cronache di terra lepontina (1987), A piedi nudi (1988), Mal di Valgrande (1991) e, postumo, dopo la sua morte l’anno avanti, Le ceneri della fatica (1992). Una bibliografia provvisoria degli scritti Io di politica non me ne voglio interessare in «Monte Marona», n. 7, 23 maggio 1945 (firmato Peppo) … e tu a che partito sei iscritto? in «Monte Marona», n. 9, 7 giugno 1945 (firmato Peppo) Vola in «Monte Marona», n. 12, 21 giugno 1945 (firmato Peppo) Fuori Legge??? Diario di un partigiano nel Verbano, 36 puntate in «Monte Marona», dal n. 15 del 6 ottobre 1945 al n. 54 del 10 luglio del 1946 (firmato Enneci); riedizione parziale delle puntate 17-23 (dal 12 giugno al 29 giugno 19444) in «Resistenza Unita», n.6, giugno 1989 25 Febbraio. Volante «Cucciolo» a Trarego in «Monte Marona», n. 34, 20 febbraio 1946 (non firmato) 86
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Verbano, giugno quarantaquattro, Comitato della Resistenza, Verbania 1966, pp. 71 I giorni della semina 1943- 1945, Comitato per la Resistenza nel Verbano, Comune di Verbania 1974, pp. 140 (riedizioni: Vangelista, Milano 1979 e 1995, pp. 155; Tararà, Verbania 2005, pp. 159) Nino Chiovini sulle trattative e sulla liberazione dell’Ossola in «Resistenza Unita», n. 3, marzo 1974 (lettera firmata) Fondotoce fra passato e presente in «Resistenza Unita» , supplemento al n. 5, maggio 1979 Sulle sponde del Ticino nell’inverno del ’43, in «Resistenza Unita», n. 1, gennaio 1980 Due giorni prima avevo compiuto dodici anni in «Resistenza Unita», n. 6, giugno 1980 (ripubblicato in Mal di Valgrande) Val Grande partigiana e dintorni. 4 storie di protagonisti, Margaroli, Verbania 1980, pp. 123 (riedizione: Comune di Verbania - Comitato della Resistenza, Verbania 2002, pp. 126) Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte, Comitato per la Resistenza nel Verbano, Comune di Verbania, 1981, p. 66 (riedizione parziale in «Resistenza Unita», n. 6, giugno 1992) Il ’44 sulle sponde del Lago Maggiore in «Novara», n. 1/81, Camera di commercio di Novara, 1981 Note sul battaglione partigiano Taurinense in Jugoslavia in «Novara», n. 2/81, Camera di commercio di Novara, 1981 Quando stava per sorgere l’alba di un mondo nuovo. Nel Verbano in «Resistenza Unita», nn. 4/5, aprile-maggio 1981 Partigiani e «sfrusitt» nell’Alto Novarese in «Ieri Novara Oggi», n. 5, Novara 1981, pp. 117140 Precisazione, in «Resistenza Unita», n. 11, novembre 1981 (a proposito della manifestazione di Pala di Miazzina) La divisione «Garibaldi» in Jugoslavia in «Resistenza Unita» , n. 12, dicembre 1981 E. LIGUORI, Quando la morte non ti vuole, Alberti, Verbania 1981 (curatore e prefatore N. Chiovini) Partigiani all’estero in «Resistenza Unita», nn. 4/5, aprile-maggio 1982 Per non gridare alle pietre in «Resistenza Unita», n. 6, giugno 1982 (firmato n.c.) In biblioteca. Quando la morte non ti vuole in «Resistenza Unita», n. 9, settembre 1982 A Trarego per la libertà, Comune di Verbania 1982 (ristampa 1995) Il Verbano tra fascismo antifascismo e resistenza, Comune di Verbania, 1983, pp. 22 (dispensa per L’Università della terza età) Storie d’anteguerra in Val Grande in «Verbanus n. 4», Alberti, Verbania 1983 (ripubblicato in Mal di Valgrande) Un altro modo di scrivere di Resistenza. Ancora su Viva Babeuf! di Gino Vermicelli, in «Il VCO», n. 10 del 19 maggio 1984, p. 9 Mario Flaim: sulle montagne del Verbano un testimone della fede e della libertà in «Il Verbano», 9 giugno 1984, tratto dall’inedito Piccola Storia partigiana della Banda di Pian Cavallone (cap. VI-VIII) pubblicato con la presentazione, e intercalato dai commenti, di G. Cacciami Otto giorni di libertà a Cannobio in «Il Verbano», 6 ottobre 1984 Andare a sachìtt in «Novara», n.1/84, Camera di commercio di Novara, 1984 (ripubblicato in Mal di Valgrande) G. SCOTTI, Gli alpini dell’Intra in Jugoslavia: Piero Zavattaro Ardizzi e i suoi uomini in quindici mesi di guerra partigiana in Montenegro e in Bosnia (schede biografiche e note di N. Chiovini), Comitato per la Resistenza nel Verbano, Verbania 1984, pp. 113
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I corti di Velina in «Novara», n.4/85, Camera commercio di Novara, 1985 (riedizione: Alberti, Verbania 1986; ripubblicato in Mal di Valgrande) A Verbania Borghese si arrende in «Resistenza Unita», nn. 4/5, aprile-maggio 1985 8 settembre 1943 nella Francia meridionale. In quei giorni ad Albertville in «Resistenza Unita», nn. 1/2, gennaio-febbraio 1986, Novara Di nome vipera in «Eco Risveglio Ossolano», 20 febbraio 1986 Dialetti delle valli Anzasca e Intrasca. Studio inedito del XIX secolo di Giuseppe Belli e di altri autori, in «Novara», n. 2/86 e 4/86, Camera di commercio di Novara, 1986 Cronache di terra lepontina. Malesco e Cossogno: una contesa di cinque secoli, Vangelista, Milano 1987, pp. 202 La liberazione di Cannobio nei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato in «Novara», n. 2/87, Camera di commercio di Novara, 1987 (con A. Mignemi) Giugno 1944. Rastrellamento in Valgrande. Cronaca di una sconfitta in «Resistenza Unita», n. 6, giugno 1987 Appunti di storia sociale della Val Grande, relazione al Convegno Val Grande ultimo paradiso, Verbania 19 settembre 1987 Ricordo di Dionigi Superti. Un partigiano vero e saggio in «Resistenza Unita», n. 3, marzo 1988 Spigolando in biblioteca. Le aquile delle montagne nere in «Resistenza Unita», n. 7, luglio 1988 A piedi nudi. Una storia di Vallintrasca, Vangelista, Milano 1988, pp. 186 (riedizione: Tararà, Verbania 2004) Ungiasca perduta in «Verbanus n. 9», Alberti, Verbania 1988 Medaglia di Bronzo a Gastone Lubatti. Ma perché non d’oro? in «Resistenza Unita», n. 11, novembre 1988 Addio alle armi, in «Le Rive» n. 1/89, pp. 56-58, Domodossola 1989 (ripubblicato in Mal di Valgrande) Cuggiono: un paese nella Resistenza in «Resistenza Unita», n. 10, ottobre 1989, disponibile in rete: www.anpimagenta.it/pagine/agg/anni/06/25_01_06/chiovini.htm Giuseppe Bosco «Bagat» in «Resistenza Unita», n. 10, ottobre 1989 Incisioni rupestri nell’area Verbano-Cusio in «Bollettino Storico per la Provincia di Novara», n. 1/90, pp. 143-152 (con A. Biganzoli) Grandiccioli: montagna fra i laghi in «Le Rive», n. 1/90, pp. 54 -55 Intra, Pallanza e il retroterra montano, intervento al convegno «Comuni, Province e disegno del territorio», Verbania 23-24 marzo 1990, trascrizione a c. A. Mignemi, disponibile c/o ISRN, non pubblicato Verbania minore in «Le Rive», n. 3-4/90, pp. 54-77 La storia del Lin in «Le Rive», n. 5/90, pp. 41-44 Impressioni e ricordi. Da Cannobio a Domodossola in «Resistenza Unita», n. 10, ottobre 1990 Il borgo di Sant’Ambrogio in «Le Rive» n. 2/91 Da Villa Caccia Piatti a Villa Pos: due secoli di storia in «Le Rive», n. 5/91 Mal di Valgrande, Vangelista, Milano 1991, pp. 141 (riedizione: Tararà, Verbania 2002) Le ceneri della fatica, Vangelista, Milano, 1992, pp. 256 La volpe in «Verbanus n.18», Verbania 1997, pp. 354-368, disponibile in rete: www.thuler.net/phorum/read.php?1,1617,1620 (riedito in: Istituto Cobianchi, Memoria di Trarego, Verbania 2003, pp. 154-164; nuova ed. Tararà, Verbania 2006)
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Fuori legge??? di Nino Chiovini. Note su un diario partigiano di Gianmaria Ottolini
«Monte Marona» I primi contributi di Chiovini compaiono nell’immediato dopoguerra sul settimanale «Monte Marona»1. Questa testata partigiana era stata preceduta da tre numeri del foglio ciclostilato «Valgrande Martire» comparso, a partire dal 21 aprile del 1945, quale portavoce dell’omonima formazione garibaldina. Dal 5 maggio, per iniziativa di Armando Calzavara (Arca), in qualità di comandante della Divisione «Mario Flaim» che dal marzo 1945 raggruppava unitariamente tutte le formazioni del Verbano2, il n. 4 del settimanale esce a stampa con la nuova testata (quattro pagine fitte in formato di quotidiano) quale organo ufficiale appunto della Divisione «Mario Flaim» e prosegue in questa veste sino alla fine di giugno. Finito il periodo ‘insurrezionale’, con la smobilitazione, il giornale interrompe le pubblicazioni per riprenderle il 6 ottobre del 1945 (anno I, n.15) quale Settimanale dell’Anpi del Verbano-Cusio-Ossola. Arca ne è sempre l’animatore, oltreché ufficialmente il direttore responsabile; le tematiche locali di tipo sociale e politico si affiancano a quelle partigiane e l’orientamento è abbastanza esplicitamente vicino a quello dei partiti di sinistra. Questo provoca alcuni malumori di cui si fa portavoce Enzo Plazzotta (Selva)3 che, da Genova, manda due lettere ad Arca rivendicando, a nome dello spirito libertario e pluralistico della Cesare Battisti, un giornale meno localistico, più battagliero, meno allineato e più libero, denso di «polemica morale» nonché maggiormente attento alla qualità di scrittura4. Nella seconda lettera, del 15 novembre, Selva indica quale riferimento, con le dovute differenze di mezzi disponibili, «Il Politecnico» di Vittorini ed invita Arca «a prendere le redini della dissidenza in seno al giornale» contro le «limitazioni della mentalità di partito e di PC in particolare» ponendo un aut aut: 89
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o Monte Marona giornale di sinistra (e in questo caso io dico arrivato, che può anche facilmente tramutarsi in finito) oppure Monte Marona giornale di giovani liberi … una onesta anarchia giornalistica.
Questo è il problema e bisogna «decidersi a decidere»5. Il dilemma è chiaro e il giornale, contrariamente agli auspici di Plazzotta, si orienta più chiaramente verso la prima strada, come viene implicitamente preannunciato nel n. 27 del 29 dicembre annunciando l’integrazione della testata «Monte Marona» con il titolo «il progresso»6; la scelta è evidentemente condivisa da Arca che pur apprezzava le osservazioni e i suggerimenti di Selva sulla qualità del giornale. Così avvenne infatti, dal n. 28 del 5 gennaio, con il nuovo titolo sovraimpresso su quello precedente e, a fianco della nuova testata, la dicitura esplicativa: Quelli della Marona, i nostri morti, appartengono a quel numero di uomini coscienti di usare la propria vita per il PROGRESSO SOCIALE
Le pubblicazioni terminano con il n. 66 dell’inizio dell’ottobre 1946: con l’allontanarsi di Calzavara dal territorio del Verbano7 evidentemente venne a mancare il centro propulsore dell’iniziativa editoriale. I primi due contributi di Chiovini, a firma Peppo, compaiono sul n. 7 e sul n. 9 (23 maggio e 7 giugno 1945); sono entrambi8 articoli di riflessione politica contro il qualunquismo di chi considera i partiti tutti ugualmente corrotti, ma anche contro i numerosi nuovi iscritti che affollano le rinate formazioni politiche non per scelta morale, ma per carrierismo. Il successivo articolo, sempre a firma Peppo, compare il 21 giugno ed è dedicato al partigiano Pierino Agrati (Vola)9; vi sono, evidentemente, riportati alcuni spezzoni del diario partigiano10 datati tra l’agosto 1944 e il 25 febbraio 1945 ed incentrati sulla figura del commilitone caduto a Trarego. Il pezzo si conclude con una amara riflessione su un presente che non rende giustizia al sacrificio dei caduti e che chiama i compagni sopravvissuti a reagire. Oggi sono stato al cimitero di S. Maurizio a ritrovarvi: te, Gino, Cesco, Lanzi, Victor. Sono sicuro che non siete contenti dei vostri compagni vivi poiché questa bella Italia per la quale siete caduti non vive, ma vegeta ed è fatta vegetare. Tu, Vola, così intransigente, così uomo con i tuoi 25 anni al confronto dei nostri venti, così onesto, così coraggiosamente onesto, dillo ai tuoi compagni di gloria che noi vivi non siamo poi così 90
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colpevoli di questo stato di cose. Lo saremo se non reagiremo; aiutaci e illuminaci tu sulla vera strada da seguire11.
Probabilmente in questo passo conclusivo ritroviamo, anticipate da Chiovini, le motivazioni profonde che hanno spinto Arca e i suoi collaboratori a non accontentarsi di un «Monte Marona» commemorativo e di denuncia più morale che politica. Fuori legge??? Il 6 ottobre 1945, quando «Monte Marona», con il n. 15, riprende vita quale organo dell’Anpi del VCO, inizia anche la pubblicazione di Fuori legge??? che dalla terza puntata, sul n.17, porta il sottotitolo di Diario di un partigiano nel Verbano. Il diario nella prima puntata compare firmato con l’acronimo emmeci (più che un depistaggio sembrerebbe un refuso) e, dalla seconda, in modo più esplicito, con enneci. La pubblicazione proseguirà regolarmente tutte le settimane, con poche eccezioni perlopiù in connessione a numeri speciali dedicati a particolari ricorrenze (25 febbraio per Trarego, 25 aprile), per 36 puntate fino al n. 54 del 10 luglio del 1946 quando, nonostante la dicitura continua, del seguito non si ha più traccia. L’arco temporale degli eventi narrati va dall’ottobre del 1943, con la costituzione dei primi informali gruppi partigiani nel retroterra collinare di Verbania, al febbraio del 1945 con le ultime azioni della Volante Cucciolo che precedono l’eccidio di Trarego. Non si tratta di una cronaca: l’andamento cronologico è infatti molto irregolare (solo in alcuni passaggi precisato nella data del giorno, perlopiù viene indicato il mese) e alcuni salti temporali lasciano il lettore incerto sul succedersi degli eventi. È appunto un diario in cui si intrecciano la dimensione narrativa e quella interiore, riflessiva. Di qui un certo riserbo di Chiovini nella pubblicazione di cui, oltre all’acronimo della firma, fanno fede le presentazioni editoriali volute dall’autore, sia in quella originaria («L’autore dice che è necessario, se vogliamo pubblicarlo, premettere qualche parola di scusa»), che nella riedizione parziale del 1989 su «Resistenza unita»: Nino Chiovini scrisse queste annotazioni […]immediatamente dopo la Liberazione. Come avverte lo stesso autore, a distanza di quasi mezzo secolo il diario va letto come un documento manifestamente frutto di impressioni immediate, condizionate da accesi sentimenti, che risentono dell’atmosfera cruda e magica appena trascorsa12. 91
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Con ogni probabilità il materiale originario di appunti e annotazioni era più ampio e non è stato interamente utilizzato per la stesura di Fuori legge??? come fa fede, ad esempio, oltre all’anticipo dei pezzi su Vola, un lungo articolo pubblicato su «Resistenza unita» nell’ottobre del 199013. Nel diario pubblicato si saltava infatti dal 3 settembre con la liberazione di Cannobio al 14 gennaio; della liberazione dell’Ossola e della successiva ritirata non si parlava se non per un breve cenno nel passo successivo dedicato alla recluta Lubatti (Cesco). Nell’articolo di cinquantaquattro anni dopo quel periodo, così come è stato vissuto dalla Volante Cucciolo - in occasione della liberazione ossolana ampliatasi in un Plotone esploratori14-, viene raccontato dettagliatamente probabilmente sulla base del materiale del diario allora non utilizzato. Certo lo stile è più distaccato, ma alcune modalità, in particolare quella di centrare il racconto non tanto sulle vicende ma sui luoghi e sui personaggi, richiamano direttamente le modalità del diario. Perché non fu pubblicato allora? Forse perché del personaggio cardine di quelle pagine, il partigiano ucraino Wladimir15 aveva perso le tracce e non ne conosceva il destino16, oppure per non esplicitare un giudizio critico17 sulla esperienza ossolana? Allo stesso modo la vicenda di Trarego, alle cui soglie si interrompe quanto abbiamo del diario, aveva già trovato una sua narrazione nel n. 34 di «Monte Marona» ad un anno dall’eccidio; lo scritto18 era anonimo ma è evidente la mano di Chiovini, magari coadiuvato dall’altro sopravvissuto, Carlo Castiglioni (Carluccio). E soprattutto troverà una sua compiuta realizzazione nello struggente racconto La volpe, pubblicato postumo, ma la cui prima stesura è di poco successiva alla pubblicazione di Fuori legge???, come afferma nella nota che ne accompagnava il testo. Se ben ricordo, scrissi queste pagine […] tra il 1948 e il 1950, quando avevo in mente ogni particolare della vicenda descritta. Le correzioni […] sono del 19 settembre 1989. Si tratta di correzioni esclusivamente formali, tendenti a perseguire una relativa correttezza del testo, e per esigenze stilistiche. Al contrario, mi pare giusto che la sostanza – con le sue sequenze, i ritmi, le osservazioni, i monologhi, i dialoghi – sia lasciata intatta, in quanto legata alle spinte emotive, al livello culturale, alla vita di quel tempo lontano. Oggi non scriverei più quelle pagine. O le scriverei in modo alquanto diverso. Per questa ragione, insieme al desiderio di non partecipare dolorose vicende che mi concernono, finché vivrò mai renderò pubblico questo scritto. … Biganzolo, 20 settembre 198919.
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Un’ultima osservazione relativa al titolo del diario: una prima disattenta lettura potrebbe farcelo intendere come fuorilegge quale rivendicazione spavalda di una (giusta) rivolta e ribellione; ma le due parole separate e l’enfasi sui tre punti interrogativi20 mi sembrano orientare decisamente verso una domanda retorica con evidente risposta negativa: «siamo noi fuori dalla legge (morale e civile) o non piuttosto coloro che, in tempi tremendi di ribaltamento dei valori, hanno cercato di salvaguardarla?» A questo interrogativo il diario vuole dare una risposta. La narrazione «Non è un romanzo questo», dice l’autore; eppure la freschezza e l’ironia della narrazione, grazie anche alla contiguità degli eventi, ci dà una sorta di ‘ripresa in diretta’ con un alternarsi di sequenze dal ritmo irregolare, alcune più distaccate, altre con forte centramento soggettivo. I temi che si alternano sono quelli della la lotta per la sopravvivenza stessa della formazione (contro la fame, contro il freddo e la neve del primo inverno, il reperimento di armi che garantissero un minimo di operatività …), il contatto stretto con la natura dei luoghi e il variare delle stagioni (lo spettacolo della neve che tutto sommerge, il piacere del sole invernale, la sintonia, l’amore tra le foglie e i partigiani …), il succedersi degli scontri con il nemico che passano dalle scaramucce iniziali finalizzate al reperimento delle armi alla tragedia del rastrellamento di giugno dopo il quale tutto cambia, le necessità organizzative e di comando dei raggruppamenti. Direi però che il cadenzarsi della narrazione non è dato tanto dalle vicende militari (che pur ci sono) né dalle fasi politico-organizzative abbastanza travagliate delle formazioni, ma dalla successione dei luoghi di insediamento della banda; ad ogni località pare corrispondere una precisa fase di sviluppo dell’esperienza partigiana in una stretta sinbiosi fra il terreno che ospita, le stesse mura che accolgono e la vita interna, le relazioni umane, della formazione dove i tempi del riposo e dell’attesa (quelli stessi in cui Nino ha probabilmente incominciato a raccogliere i suoi appunti per il diario), sono centrali per il costituirsi dello spirito e della fisionomia del raggruppamento; questi i luoghi che soprattutto mi sembrano cadenzare, in fasi distinte, il percorso narrativo: le Alpi del Locchio, di Vel ed Aurelio, e in successione Steppio, Pechi, Pala che assumono nomi in codice (Pechino, Sciangai, Port Arthur) più per 93
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un gioco fantastico ed autoironico che per necessità di sicurezza: è la fase costitutiva di uomini ed armamenti, dove ci si incomincia a conoscere e a padroneggiare il territorio e ad impostare le scelte, individuali e collettive, nonché a saggiare le prime reazioni del nemico ; l’albergo del Pian Cavallone, ospizio dei «soldati di un esercito di senza capi»: la fase eroico libertaria dove la prima generazione di partigiani ha «indurito i muscoli e ritrovato un senso della vita» preparando, tramite coloro che riusciranno a sopravvivere al grande rastrellamento, l’ossatura delle successive e più organizzate formazioni; il primo Tiperary, dapprima una tenda poi un rustico nella zona di Ungiasca, più a ridosso a Verbania, dove il piccolo gruppo aggregato a Chiovini sperimenta le modalità di collegamento fra i diversi distaccamenti e di rapide azioni proprie di una «volante»; i nascondigli che si succedono durante il rastrellamento di giugno (il bosco in cui si passa la notte puntando i piedi su di un albero, la casa della nonna a fianco della statale per Premeno, la portineria di una villa) quando si passa dall’amarezza dall’esser tagliati fuori dai combattimenti, alla progressiva consapevolezza delle dimensioni della tragedia che si sta realizzando e che segnerà una linea netta di demarcazione nella guerra: «In questi giorni impariamo che i nemici sono più delinquenti che imbecilli e tali li tratteremo»; la Rocca, nel luglio 1944, un alpeggio dai prati scoscesi sopra Scareno dove «gli unici luoghi per sdraiarsi senza il timore di rotolare in valle sono i sentieri, e anche quelli sono scarsi»: luogo e fase di raccolta e di riorganizzazione in cui convergono provenienze ed esperienze le più disparate: sopravvissuti al rastrellamento o provenienti dalla Svizzera, militari e civili, italiani e stranieri (russi, ucraini ed anche un sudafricano), delle età e dei ceti più diversi disparati («uomini e ragazzi, studenti, ladri, lavoratori»); infine la casetta fra le pinete di Sasso Corbè, «il luogo più bello abitato dai partigiani» – dice Chiovini – dove, nell’inverno del 1944-45, la costituita Volante Cucciolo, spostatasi sopra Premeno, si insedia: centro operativo e di riposo di un gruppo, di una squadra, affiatata e coesa, di professionisti della guerra di movimento. Le diverse fasi corrispondono anche a diversi rapporti con la popolazione locale; curiosità e sospetto da parte degli alpigiani che incontrano le prime bande in formazione; solidarietà e condivisione di momenti comuni di allegria con gli abitanti di Miazzina; l’aiuto silenzioso e solidale di alimen94
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ti, necessari a sopravvivere durante il rastrellamento, da parte della «buona gente del Verbano»; più difficile, almeno inizialmente, il rapporto con quelli di Premeno dove: La gente ci guarda di traverso, sospettosa, paurosa. Ci chiama ‘fascisti rossi’ e teme che mettiamo a soqquadro il paese. In questi giorni parecchi si sono già ricreduti. Si attendevano di vederci girare per il paese con lo sguardo fiero, l’arma imbracciata senza sicura. Invece si sono accorti che camminiamo come loro e non chiediamo i documenti alla gente.
In controcanto ai luoghi di insediamento la trama narrativa fa emergere in successione alcuni personaggi intorno a cui si dipanano gli eventi: Marco21 con cui, anche se della formazione ‘concorrente’ della Cesare Battisti, c’è sin dall’inizio un profondo legame di stima e collaborazione e, in più occasioni, di sfottò reciproco; Tucci22 che pur avendo un solo anno in meno «è ancora un bambino» e con cui Peppo stringe un legame profondo, da fratello maggiore, vivendo fianco a fianco molte delle vicissitudini; Guido il Monco23, operaio comunista, che lo sostituirà al comando della Giovane Italia e che Chiovini rispetta ma con cui non riesce ad entrare in sintonia; Arca, il comandante della Battisti, che Chiovini apprezza sia per il modo di concepire la guerra partigiana che per le modalità, per nulla da ufficiale, con cui si rapporta ai suoi partigiani; Bagat24, già alpino decorato, esperto di armi, dalle decisioni fulminee, autista che «arrostisce» i motori e «che dice di essere salito perché non vuole andare in guerra»; Vola, puntiglioso e caparbio, che, sia pur arrivato come recluta addetta ai lavori pesanti, si dimostra come il più maturo fra i partigiani della Volante Cucciolo; Cesco25 che «con il viso infantile, le efelidi sulle guance … e la voce lenta strascicata» ha l’aria spavalda di chi ha già un curricolo partigiano di tutto rispetto e non vuol certo lasciarsi trattare da recluta. E, naturalmente, altri ancora. Il diario Un diario «frutto di impressioni immediate, condizionate da accesi sentimenti» dirà Chiovini; certo, in alcuni passaggi anche questo26, ma a me pare che la dimensione diaristica più evidente sia altra, di riflessione e dialogo interiore che emerge quando, tra un momento narrativo e l’altro, magari a ridosso di un combattimento o di un momento scherzoso di svago, 95
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la sequenza si interrompe di colpo per lasciar spazio a domande ed a considerazioni più profonde, esistenziali e morali prima ancora che politiche. In alcuni casi la dimensione è corale laddove Peppo dà voce, magari per interposta persona, ai sentimenti collettivi come quando, dalle lacrime di Nord di fronte al rogo dell’Albergo del Pian Cavallone, emerge un addio collettivo di rimpianto non rassegnato, oppure quando le molteplici personalità e le disparate motivazioni dei sopravvissuti al rastrellamento, concentratisi alla Rocca, si fondono in una volontà comune di ricostituzione. Ma sono soprattutto le domande, le considerazioni personali, talvolta i dubbi quelli che emergono. Le responsabilità che chi comanda porta nei confronti del suo gruppo di uomini, di come mantenerlo coeso, di come anche un legame di amicizia privilegiato, quello con Tucci, possa incrinare il rapporto di fiducia con gli altri; di come fare in modo che un gruppo solidale e coeso sia anche aperto e franco nello scambiarsi le reciproche opinioni, valutazioni e desideri. Quanto vi deve essere di discussione democratica e di condivisione degli ordini senza che questo degeneri in individualismo. E soprattutto il carico di responsabilità di chi porta altri a rischiare la vita e deve, di volta in volta, individuare il giusto discrimine fra avventatezza ed attendismo. Chi siamo noi e chi sono loro. Solo la consapevolezza continua della differenza radicale con il nemico può impedire che la logica della guerra ci renda uguali. Loro bruciano le baite e noi siamo aiutati dalla popolazione; loro se la prendono con chi non c’entra, paesani o famigliari; loro fanno scempio dei cadaveri. La loro è una logica di morte, i loro corpi sono diventati un’appendice delle loro armi. La nostra è una logica di vita. Non solo nel combattimento ma nei comportamenti quotidiani, nel modo di camminare fra la gente, nel cantare. Il tema della radicale differenza fra i canti partigiani e quelli fascisti torna più volte; i loro non sono «i nostri canti popolari nostalgici e solenni, non sono le canzonette allegre e melanconiche» ma «canti freddi, duri, scanditi»; loro «cantano perché odiano» e, mentre con il passare dei mesi le canzoni partigiane diventano sempre più canzoni di speranza, le loro si incupiscono, piene di disprezzo, di rancore e di animosità. Ma la domanda centrale e ricorrente è soprattutto una: come far guerra in odio alla guerra, senza lasciarsi plasmare dalla logica e dalla cultura del combattimento. Perché «la guerra perde soltanto di fronte a chi la odia». A Chiovini non basta la certezza di essere dalla parte giusta; è consapevo96
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le della «sottile linea rossa»27 che passa tra l’essere nella guerra e l’essere in guerra. Non basta aver scelto di esser dalla parte giusta del fronte ed interrogarsi sulle ragioni profonde della propria scelta; l’interrogativo va riposto quotidianamente sul qui ed ora, individuando, in ogni specifica situazione, il limite che questa scelta pone fra azioni legittime e azioni giuste, con momenti anche forti di autocritica quando ci si accorge che lo spirito di battaglia ha preso il sopravvento. Limite che non solo la giusta avversione per i nazifascisti può spingerci a superare («So che questa non è la parte migliore dei sentimenti di un partigiano») ma anche la «foga», un eccesso di «senso sportivo» («mi accorgo che per molti mesi, sparare era il mio sport preferito») che può «soffocare la razionalità». Oggi, quando in nome della «esportazione della democrazia» e della «lotta al terrorismo» si giustificano massicci bombardamenti a città e qualsiasi «effetto collaterale» sulle popolazioni civili è considerato un legittimo inconveniente, possiamo leggere che, nel cuore della seconda guerra mondiale, la più sanguinosa della storia dell’umanità, un partigiano, Peppo, a ridosso di un combattimento contro il moloch nazifascista, si interroga se, in quella particolare occasione, non fosse stato più giusto sparare due colpi invece di tre, pur se «costretti a fare la guerra contro quelli che fanno la guerra». Il partigiano Peppo Se provassimo a chiedere ad un cittadino o a uno studente di Verbania di citare il nome di un partigiano della zona, senz’altro la maggior parte farebbe il nome di Nino Chiovini28. Eppure nulla, che io sappia, è stato mai scritto di specifico su Chiovini partigiano. Anche nel convegno a lui dedicato29 questa dimensione è rimasta assente. Il perché è evidente: Nino nei suoi libri, anche quelli dedicati alla Resistenza, non parla praticamente mai di sé e del diario partigiano si era persa di fatto memoria. La lettura oggi del suo diario ci permette così di aprire un capitolo che andrà senz’altro ripreso ed approfondito. La scelta di campo di Nino, dopo l’8 settembre è chiara e decisa; Peppo è tra i primi a «salire in montagna» nell’area del Verbano. Porta con sé, oltre al deciso antifascismo, precedentemente maturato a Cuggiono30, un carattere deciso e determinato unito ad una passione sportiva per l’escursionismo montano e la roccia: una miscela che, unita alla conoscenza del ter97
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ritorio, ne fa in modo del tutto naturale il comandante della costituenda Giovane Italia. Siamo nella fase eroica e libertaria di «un esercito senza capo, senza Stato Maggiore, senza artiglierie, senza direttive, spesso senza pane, senza armi». Accetta il ruolo che gli viene democraticamente assegnato tramite elezioni, ma non è certo quella la sua aspirazione. E di buon grado si ritrae quando altri saranno indicati al suo posto. Si rende conto delle necessità organizzative e militari della Resistenza ma, fedele allo spirito di ribellione, fa fatica ad accettare le modalità d’essere di buona parte dei comandanti delle formazioni. Quelli di provenienza militare che riportano lo spirito di superiorità di Ufficiali del Regno nei confronti delle truppe, si fanno chiamare «signor tenente» e, anche quando il cibo praticamente manca, ci tengono a dar vita alla «mensa ufficiali». Quelli di provenienza e fede comunista, che Chiovini rispetta, ma per i quali la principale, se non unica virtù, sembra essere l’indiscussa obbedienza ai propri capi politici. Se non un libertario, Peppo è e rimane uno spirito indipendente. Vuol capire e discutere le scelte e, se prevale il dissenso, preferisce andarsene per conto suo, con il suo piccolo gruppo31. Non rifiuta la gerarchia di comando, ma, ponderatamente, preferisce scegliersi i propri superiori. E quando, alla fine del rastrellamento, la sua formazione della Giovane Italia, fondendosi con il gruppo di Muneghina, prende un orientamento con cui non si sente più in sintonia, preferisce passare alla Cesare Battisti di Arca. È lui stesso, spontaneamente, un capo ma la sua dimensione è quella della squadra, di un piccolo gruppo preparato e coeso, della «volante» che si muove velocemente su tutto il territorio, all’interno della quale non solo «ci si capisce al volo» ma dove «tutti si vogliono bene. Bene sul serio. E dormono uno accanto all’altro». Compito del capo è allora anche la massima attenzione alle relazioni interne, a prevenire dissapori e tensioni. Pur di salvaguardare questa sintonia è disposto, sia pur a malincuore, a rinunciare al contributo di un partigiano esperto e valoroso come Bagat che lui stesso aveva cercato ed «arruolato». Allo stesso modo quando intuisce che un partigiano ha le qualità personali, oltreché professionali, per entrare a far parte del proprio gruppo, si dà subito da fare, magari con carte false, per farlo trasferire. La prima volante, alloggiata in tenda, collegata alla Banda del Pian Cavallone, la Volante Cucciolo dopo il rastrellamento, il Plotone esploratori durante la Repubblica dell’Ossola, la Volante Martiri di Trarego dopo l’eccidio del 25 febbraio: questa è la modalità di guerra partigiana 98
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che Chiovini concepisce e mette in pratica. Non è solo questione di stile di comando e di modo di concepire l’esser partigiano. La modalità della volante è innanzitutto una scelta politica. Peppo, ce lo dice esplicitamente, non è comunista, anche perché, afferma «Io non so che vuole il comunismo»32 e le discussioni animate ed approssimative che sente al Pian Cavallone gli ricordano quando «anch’io a 15 anni discutevo di calcio e di squadre di calcio»: una questione di tifo. Ma ha ben chiara la linea di discrimine che passa attraverso la Resistenza: ci sono i ‘conservatori’, quelli che aspettano e vogliono presidiare il loro piccolo territorio, l’attendismo insomma che trova proseliti fra le fila partigiane e che spesso è sostenuto dall’esterno dai Comitati («gruppetti di individui, per la quasi totalità industriali, che ‘finanziariamente’ ci aiutavano»), e ci sono i partigiani, come Peppo e i suoi, che pensano che al nazifascismo non si debba dar tregua. La volante è allora non solo un corpo coeso, ma un gruppo di professionisti dell’azione di movimento che ubbidisce con scrupolo alle missioni che le vengono affidate, e che, in mancanza di ordini, sa trovarsi da sola i propri obbiettivi. E quando in un momento di ozio, poco dopo il Natale 1944, Vola lo rimprovera: «Peppo, mi sembra che non hai più voglia di far niente» immediatamente la volante si rimette all’opera «e ricominciamo le nostre scorribande». Anche l’accettazione di una forma benevola ed ironica di nonnismo fra reclute («conigli») ed anziani che impone corvée e lavori pesanti ai nuovi arrivati, ha una funzione precisa: i tempi di formazione e addestramento all’interno di un gruppo partigiano non possono che esser brevissimi, bisogna quanto prima esser pronti a qualsiasi evenienza. È bene, per le reclute e per la squadra, capire subito se qualcuno non è adatto a quella vita. Infine, direi, un partigiano critico; dal diario non emerge in maniera esplicita, ma tra le righe si capisce che non sono pochi gli aspetti che Peppo, all’interno della Resistenza, non condivide, come possiamo trovare conferma nei suoi scritti successivi. I condizionamenti dall’esterno delle scelte partigiane che talora si traducono in imposizioni dall’alto di comandanti inidonei o comunque non in sintonia con la «banda» che devono dirigere. L’applicazione meccanica della logica militare alle formazioni partigiane sia a livello organizzativo e relazionale che, e questo è l’aspetto più tragico, nella concezione della guerra partigiana quale «eroica difesa ad oltranza» delle proprie posizioni 99
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sul terreno. Chiovini riconosce in pieno il valore, il rigore morale, lo spirito di sacrificio e l’eroismo del tenente Rolando e di Mario Flaim, come confermerà in più occasioni nei suoi scritti. La loro difesa ad oltranza del terreno fino al Pizzo Marona può essere anche giustificata dalla volontà di «proteggere la ritirata del Valdossola»33 ma la strategia complessiva durante il rastrellamento non è certo condivisa. Lo si legge fra le righe nel diario e se ne trova conferma in un passo di un’inedita Piccola Storia Partigiana della Banda di Pian Cavallone pubblicata parzialmente nel 1984, ma probabilmente scritta anni prima come revisione e approfondimento della prima parte del diario. Le scarse e imprecise notizie sul ‘Valdossola’ sono state portate dai feriti e dai loro accompagnatori in transito per luoghi più adatti, ancora euforici per la tenuta del primo giorno di combattimento. Ma non è soltanto la scarsità e l’imprecisione delle notizie che inducono Rolando a scegliere questa forsennata tattica difensiva, che neppure Superti pretendeva nelle sue indicazioni coordinatrici. Egli si rifà ai canoni della guerra d’Albania, combattuta dall’esercito italiano, fino all’epilogo, in difensiva, sulle montagne dell’Epiro e del Tomori. Naturalmente attribuisce decisiva importanza al terreno, alle possibilità di difesa sulle montagne; di casa, nella fattispecie. E Flaim che gli è accanto non batte ciglio, anzi approva. Fors’anche perché la scelta di Rolando offre quelle possibilità di espiazione e di riscatto dalle colpe altrui, da cui egli sembra attratto34.
Ed infine, ma non ultima, la sottovalutazione del rapporto con la popolazione locale. Nel diario l’importanza di un rapporto di collaborazione, come abbiamo già sottolineato, è espressa prevalentemente in positivo. Del rapporto problematico, dopo il rastrellamento, della Giovane Italia – unitasi al gruppo del capitano Mario e localmente diretta dal capitano Galli – con la popolazione di Miazzina, nel diario vi è solo un cenno un po’ forzosamente giustificatorio35 e in contrasto con quanto, del calore e della condivisione di quegli abitanti, era stato affermato relativamente al periodo precedente. La denuncia del tragico errore di impostazione di una logica di occupazione e vessazione sui residenti, con le sue conseguenze politiche, verrà invece espressa a chiare lettere in una lezione-conferenza del marzo 198336. Indipendenza di giudizio e spirito critico che Chiovini continuerà ad esprimere quando della Resistenza del Verbano si farà attento e scrupoloso storico; si possono ricordare la rivalutazione di Dionigi Superti37 colpito, dopo l’esperienza ossolana, dall’ostracismo e dalla condanna di fatto 100
Note su un diario partigiano
del CLN e la demitizzazione della figura di Cleonice Tomassetti38, l’unica donna tra i fucilati di Fondotoce, che la vulgata partigiana aveva tramandato nello stereotipo di una maestra, moglie di un partigiano, in attesa di un figlio e operante come staffetta partigiana39. Chiovini le restituisce la sua identità di popolana dallo spirito ribelle e determinato, non piegata dalle numerose sopraffazioni e sofferenze che la vita le ha dolorosamente consegnato. Lo scrittore Nino Chiovini Per chi conosce l’opera di Chiovini la lettura del diario penso possa costituire, come lo è stato per me, una sorpresa. In genere si distinguono nettamente le opere sulla Resistenza da quelle etno-storiche, non solo per il tema e per la loro successione temporale, ma per una evidente maturazione stilistica dello scrittore che riesce progressivamente ad unire il rigore del ricercatore40 ad una crescente capacità narrativa. La lettura del diario, di un testo che pur nella sua incompiutezza, rivela una notevole capacità di scrittura densa di ironia e freschezza narrativa – aggiungendovi magari la rilettura del racconto La Volpe, postumo ma, come abbiamo visto, risalente alla fine degli anni quaranta – mi sembra rimescolare le carte. Penso sia del tutto lecito sostenere che Chiovini avesse già allora la dote dello scrittore, del narratore ed è semmai quella del ricercatore che, con gli anni, viene a maturare sotto la spinta di un preciso impegno etico, civile e politico. L’impegno non solo a ricostruire con rigore gli eventi della sua terra, quelli a cui aveva partecipato e quelli che avevano segnato le generazioni che lo avevano preceduto, ma soprattutto a saldare un debito personale e collettivo insieme. In quella terra del Verbano, la terra dei suoi avi, la secolare civiltà della fatica, tra il 1943 e il 1945, si incontrò con chi, per rifiuto e per scelta, è salito in montagna, spesso sapendo e capendo poco, soprattutto all’inizio, di quel mondo. Si creò allora una crescente convergenza, non priva di contraddizioni, tra i due mondi che Nino analizza con rigore nell’introduzione a Val Grande partigiana e dintorni e che titola significativamente Guerriglia nel mondo dei vinti41. Ed è grazie a quella convergenza che poté arrivare il tanto sognato giorno della liberazione. E si tirano le somme: ci si accorge che quei due protagonisti hanno equamente diviso il peso della lotta. La popolazione montana, 101
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che ha pagato anche con il sangue, ha sopportato il maggior peso materiale, il peso di grosse distruzioni; i partigiani hanno contribuito in grande misura a riempire di nomi le lapidi che ricordano i caduti della guerra di liberazione42.
Questa convergenza di intenti si ruppe nel dopoguerra e chi vinse allora non seppe (o non poté) saldare il debito con le popolazioni montane. Se guardiamo allo sviluppo cronologico degli scritti di Chiovini43 possiamo distinguere tre fasi. La prima include gli scritti dell’immediato dopoguerra, basati sulla diretta esperienza (diario, commemorazioni, racconto La volpe), caratterizzati da un forte centramento soggettivo e da una tensione emozionale che riesce comunque spesso a distanziarsi grazie ad una efficace espressività narrativa. Dopo una pausa quasi ventennale, sono seguiti scritti di ricerca sulla resistenza centrati non più sulla propria esperienza (che viene messa tra parentesi), ma su una rigorosa indagine (documenti e testimonianze) e dalla ricerca di un nuovo stile, non più letterario, ma rigoroso e concreto nello stesso tempo, Si tratta della rigorosa «cronaca di una sconfitta» e, soprattutto, della ricostruzione del conflitto, interno alla Resistenza, «fra le forze progressive e l’attendismo» che a quella sconfitta ha contribuito44. Alla fine viene la impegnativa ricerca delle ultime sue opere, sulla civiltà rurale montana dove al rigore della documentazione d’archivio e alla ricerca etnografica e linguistica (cultura materiale, terminologie, toponimi, fonti orali, iconografia ecc.) si aggiunge una personale letterarietà storico-narrativa emotivamente partecipe. Rivedendo l’itinerario complessivo mi sembra allora di poter affermare l’unitarietà stilistica di Chiovini, sia pur all’interno di un percorso in cui le diverse modalità di utilizzo della scrittura vengono sperimentate, messe alla prova, per convergere, nelle ultime opere, in una loro completa e contemporanea utilizzazione. E, ancor maggiormente, la unitarietà etico-politica di tutta la sua opera: Chiovini si è fatto portavoce di un doppio debito che tutti noi, abitanti vecchi e nuovi di queste terre, abbiamo ereditato: il debito verso i caduti della guerra partigiana, la «semente di sangue» che non abbiamo saputo far fruttificare in questa Italia «che vegeta» e ildebito verso le popolazioni montane che affiancarono e sostennero le bande e ne mantennero viva memoria. Scrive nell’introduzione di Mal di Valgrande: I contadini di montagna che ebbero rapporti con la Val Grande ne conservano una
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Note su un diario partigiano
particolare memoria, da me valutata più profonda rispetto a quella di chi praticò altre aree montane per analoghe necessità. … Quella memoria poggia sugl’indimenticati ricordi delle tragiche vicende vissute nel corso degli ultimi due anni della seconda guerra mondiale, quando quelle persone, pagando un prezzo liberamente accettato, si schierarono, ognuna nella misura in cui le era possibile o le veniva richiesto, dalla parte di chi si stava battendo per la libertà e per la pace. Fu un’esperienza che si trasformò in patrimonio culturale che andò ad accrescere quello che faceva leva sugli ancestrali sentimenti di libertà e di autonomia e che, nel dopoguerra, trovò espressione sulle lapidi e nell’intitolazione di vie e piazze dei loro piccoli centri abitati45.
Diversamente da altri cultori di storia locale Chiovini non è un cultore della nostalgia che, idealizzando il passato, ne ignora le sofferenze e pertanto il nostro debito. Il nostro mondo è uscito dalla fatica quotidiana della sopravvivenza. È indubbiamente meglio la pace odierna della guerra. Il mondo rurale montano dell’anteguerra – e ancor più negli anni di guerra – era «un mondo imperfetto e crudele». La popolazione montana, allo stesso modo dei partigiani, aveva però chiari e «vivi gli obiettivi, gli scopi, il senso della vita, il suo fine»46. Noi che viviamo nella pace, nella libertà, in una società che ha superato la lotta per la sussistenza, figli della società della complessità e dell’incertezza, spesso non sappiamo che senso dare al nostro futuro e alle fatiche, perlopiù immateriali, del nostro tempo (la noia, la confusione, la solitudine.) La riscoperta del duplice debito ci può dare un senso ed una bussola. Questo mi sembra il messaggio unitario dell’intera opera di Nino Chiovini. Superando le delusioni e «valutando serenamente il mondo odierno». *** Quando Peppo chiese di poter aggregare Wladimir47 alla propria volante, Arca gli rispose «Non sa due parole di italiano, poi non lo conosci e non sai se vale». Nonostante le vicissitudini già trascorse, il suo viso diciannovenne era «ridente come un cespo di primule», pronto a vivere con entusiasmo e un po’ di incoscienza quei mesi dal luglio all’ottobre del 1944, ignaro delle delusioni che il rientro in patria gli avrebbe procurato. Ogni anno, immancabilmente in occasione dell’8 maggio, Wladimir mi scrive esaltando la remota vittoria sul fascismo: un modo per sopravvivere alle delusioni. Regolarmente gli rispondo offrendogli banali notizie personali. Per pudore, per pigrizia mentale persino, per timore di essere frainteso in particolare. 103
Gianmaria Ottolini
Non perché sia troppo tardi e impossibile per la nostra generazione saper serenamente valutare il mondo odierno, sapendolo fare in relazione alle esperienze passate – quelle negative (che sono le più) soprattutto – a cominciare dalla lontana lotta di liberazione, per concludere con i rapporti persona-persona e persone-natura, in cui s’annidano vecchi e nuovi fascismi. E trarne le logiche conseguenze48.
Note al testo 1
La denominazione richiama la vetta dove il 17 giugno 1944 si svolse uno dei combattimenti più sanguinosi del rastrellamento della Valgrande e dove caddero numerosi partigiani tra cui i due comandanti Gaetano Garzoli e Mario Flaim. Gli originali del settimanale sono stati consultati presso l’archivio della Casa della Resistenza di Fondotoce e la Biblioteca Civica Ceretti di Verbania.
2
«si addiviene […] alla abrogazione della differenziazione di colore di tutte le formazioni […] e alla costituzione della 1a Divisione Ossola ‘Mario Flaim’, al comando di ‘Arca’, con Commissario di guerra Mario (Muneghina)» in Diario storico 1a Divisione Ossola «Mario Flaim», a cura di G. Biancardi, Comune di Verbania, 1995, p. 20.
3
Con Giuseppe Perozzi (Marco) è stato, sin dalla sua costituzione, a fianco di Arca nella direzione della Cesare Battisti. Plazzotta nel dopoguerra si affermerà come scultore.
4
Lettera dell’8 novembre 1945: «Io non credo che si educhi il popolo verbanese con […] pezzi […] che si ritrovano facilmente su qualsiasi giornaletto di provincia o di periferia cittadina.[…]. Sarò un sognatore sterile forse, ma, credimi, come sarebbe bello un Monte Marona un po’ più bersaglieresco! […] un giornale che scotti in mano, dove ci si butta dentro articoli incandescenti, scritti dopo una chiavata (o durante) o in barca, o anche in redazione, se si riesce a dimenticare che è tale. […] Ma fatene magari due di pagine di cronaca, quella che interessa la popolazione locale … Ma le altre due pagine che siano dense […] di Voi, del Vostro spirito, della vostra polemica (quella MORALE). Diventate un po’ predicatori e non conferenzieri!». E. PLAZZOTTA (Selva), Da Pinerolo al Verbano, Alberti, Verbania 1995, p. 81.
5
Ivi, p. 85.
6
«Una novità al prossimo numero! Al titolo MONTE MARONA sarà aggiunto il titolo IL PROGRESSO del Verbano – Cusio – Ossola. Perché? Un giorno del Giugno 1944, una trentina di partigiani, al comando di Mario Flaim, combatté sul Monte Marona. Combatté per dar modo al grosso della formazione di potersi ritirare. Spararono sino alla fine e nessuno di loro tornò da quel combattimento a raccontare come era andata. Quegli uomini diedero un esempio di sacrificio e di altruismo: di ONESTÀ. E MONTE MARONA, ora, per noi significa ONESTÀ. Quei Caduti, tutti i ‘nostri Caduti’ hanno combattuto e sono morti per la libertà, per la giustizia, per
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Note su un diario partigiano
un migliore ordine morale, sociale, economico, e ciò significa combattere e morire per il PROGRESSO dell’umanità e per l’ONESTÀ del mondo.PROGRESSO e ONESTÀ sono senso della vita. Per questo uniamo le due parole: MONTE MARONA e PROGRESSO». 7
Cfr. G. BIANCARDI - G. MARGARINI, Armando Calzavara «Arca», Alberti, Verbania 2001, pp. 10 –13.
8
Io di politica non me ne voglio interessare sul n. 7 e … e tu a che partito sei iscritto? sul n. 9.
9
Vola sul n. 12 del 21 giugno.
10
I brani non compaiono nella successiva pubblicazione di Fuori Legge??? ma ne facevano a tutta evidenza parte. Li ho pertanto inseriti nella trascrizione del diario.
11
Vola cit.; Gino (Luigi Leschiera) e Cesco (Gastone Lubatti) con Vola sono caduti a Trarego il 25 febbraio 1945; Lanzi (Luigi Trelanzi) e Victor (Selepukin) a Colle il 23 luglio 1944; sono sepolti fianco a fianco nel cimitero di S. Maurizio di Ghiffa.
12
“Fuori Legge”. Diario di un partigiano del Verbano (da «Monte Marona»), in «Resistenza unita» n. 6, giugno 1989, inserto Verbano 1944 – 1989.
13
Impressioni e ricordi. Da Cannobio a Domodossola in «Resistenza Unita», n. 10, ottobre 1990.
14
«A Finero – assurto a centro di retrovia – l’incarico avuto fu quello di costituire un plotone esploratori da impiegare nella zona di Ghiffa e Verbania». Ibidem.
15
«Da alcuni mesi Wladimir stava con me. I suoi arti erano coperti di piaghe, effetto di una piodermite contratta in miniera. Ingenuo, scansafatiche, d’incrollabile fede staliniana, temerario, si era assunto il compito non richiesto di mia guardia del corpo». Ibidem.
16
Chiovini ne avrà notizia solo dodici anni dopo: «al suo rientro in patria fu inviato in campo di concentramento, più tardi processato in quanto colpevole di essersi lasciato catturare dal nemico, inviato in campo di lavoro, infine costretto a farsi altri tre anni di Armata rossa. Non gli era servito neppure il certificato rilasciato da Arca su carta intestata della brigata ch’egli, dopo essere evaso dalla prigionia, aveva combattuto con efficacia nelle nostre file». Ibidem.
17
Giudizio, che pur se su aspetti limitati, esprimerà nel 1974 in una lettera: Nino Chiovini sulle trattative e sulla liberazione dell’Ossola, «Resistenza Unita», n. 3, marzo 1974.
18
25 Febbraio. Volante «Cucciolo» a Trarego. Abbiamo riprodotto il testo, che ci sembra idealmente completare il diario, come appendice a Fuori Legge ???
19
«Verbanus n. 18», Verbania 1997, p. 354.
20
Dalla quattordicesima puntata («Monte Marona», n. 28 del 5 gennaio 1946) i tre punti interrogativi si riducono ad uno solo, forse a seguito di una critica di Selva: «Quei tre ??? che cazzo significano dietro il titolo delle puntate di Peppo? E sono anche brutti tra l’altro. Già, io, il solito esteta fissato!» (Da Pinerolo al Verbano. cit., p. 82). Mi è sembrato più aderente allo spirito originario mantenere, nella trascrizione e ripubblicazione del diario, i tre, magari brutti, ma certo più espliciti punti interrogativi.
21
Giuseppe Perozzi: cfr. nota 3.
22
Piero Tamburini.
23
Alfredo Labadini; cfr. nota biografica di Chiovini.
24
Giuseppe Bosco; cfr. Giuseppe Bosco «Bagat», in «Resistenza Unita» n. 10, ottobre 1989; un suo profilo anche in E. TRINCHERI (Marco), Partigiani raccontano. Liberazione della Valle Cannobina, Cannobio, Cannero e Oggebbio, Verbania 2000, pp. 63-64.
25
Gastone Lubatti; cfr. nota 11.
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Ad esempio l’ira di quando viene a sapere che suo padre è stato arrestato e tradotto a S. Vittore «perché due figli di mio padre sono partigiani». L’altro figlio partigiano è Antonietta (Diciassette) citata nel diario quando, il 20 giugno, nel corso del rastrellamento, accompagna delle reclute.
27
Il riferimento è al bellissimo film del filosofo regista Terrence Malik (USA, 1998). Se nel romanzo di J. Jones, richiamando un verso di Kipling, la «sottile linea rossa» era quella «tra la lucidità e la follia», in Malik assume dimensioni universali, tra la vita e la morte, tra la vitalità della natura e le forze distruttrici, in sostanza fra il bene e il male; tale linea passa dentro ciascuno di noi che, specie in situazioni di guerra, rischiamo di perderne il confine.
28
Alla sua notorietà, oltre la sua attività di ricercatore e scrittore, ha senz’altro contribuito anche il Sentiero Chiovini, il lungo e impegnativo trekking della memoria che, dalla Svizzera a Fondotoce, ripercorre la tragedia della Valgrande e che nel 2006 è giunto alla sua ottava edizione.
29
Nino Chiovini. Il tempo, lo spazio e la memoria, Verbania, 14 febbraio 2004.
30
Cfr. nota biografica.
31
«marzo 1944. Arriva, inviato da Comitato di Agitazione di Varese, il maggiore Biancardi. Costui è un uomo paurosissimo che non ci faceva concludere nulla di buono e quindi noi vedemmo volentieri quel giorno che se ne andò senza fare ritorno. Era allora comandante Peppo (Chiovini Giovanni) che non volendo restare in alto, pensò bene di fuggire di notte con altri due uomini per formare una volante che, alloggiata in tenda, si spostasse velocemente facendo azioni tempestive, restando sempre però agli ordini della banda». Diario storico cit., p. 146.
32
La cosa era del tutto naturale, sia nei piccoli centri che nelle città, per un giovane nato agli inizi degli anni venti. Cfr. ad esempio i primi capitoli della bella autobiografia di Rossana Rossanda (La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005).
33
NINO CHIOVINI, I giorni della semina, 5a ed., Verbania 2005, p. 80.
34
Mario Flaim: sulle montagne del Verbano un testimone della fede e della libertà in «Il Verbano», 9 giugno 1984. Nei passi precedenti vengono presentati il tenente Rolando (Gaetano Garzoli), nato nel 1915 ad Arizzano, nell’entroterra di Verbania, e, soprattutto, Mario Flaim, originario di Rovereto, figura di cattolico ispirato e intransigente in cui «alligna un cocente desiderio di espiazione».
35
Cfr. l’inizio della puntata n. 28.
36
«Sono da addebitare a Galli il suo atteggiamento inadeguato e talvolta vessatorio nei riguardi della popolazione di Miazzina e di altri villaggi» e «A meno di un anno dalla liberazione, in occasione delle prime elezioni amministrative […] a Miazzina il 34 per cento degli elettori non vota, non ne sente l’esigenza […] a Miazzina. Tre mesi più tardi, in occasione […] del referendum istituzionale del 1946 […] a Miazzina vince la monarchia con il 52 per cento» in Il Verbano tra fascismo antifascismo e resistenza, Verbania, 1983, pp. 16 e 18-19. Sulla figura di Galli (Mario di Lella), cfr. anche I giorni della semina cit., p. 115.
Cfr. NINO CHIOVINI, Val Grande partigiana e dintorni. Quattro storie di protagonisti, Verbania 1980, pp. 50-73 e Ricordo di Dionigi Superti. Un partigiano vero e saggio in «Resistenza Unita», n. 3, marzo 1988.
37
38
Cfr. Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte, Verbania 1981.
39
«Prendiamo atto, a seguito delle testimonianze riportate, che Nice non era un’insegnante, che non attendeva un figlio, che non era una staffetta partigiana. Aveva frequentato soltanto le classi elementari di una scuola di paese; in quel momento non c’era nessun uomo nella sua vita; soltanto a una settimana prima della sua morte risaliva il suo ingresso nella resistenza militante.
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Note su un diario partigiano
È bene fare giustizia delle inesattezza a suo tempo dette e scritte su di lei; nella sua vera identità, Nice diventa più comprensibile, persino più apprezzabile», ivi p. 57. L’immagine stereotipata era stata riportata, in buona fede, in P. SECCHIA- C. MOSCATELLI, Il monte Rosa è sceso a Milano, Einaudi, Milano 1958, p. 253. 40
Su quest’aspetto segnalo l’importante contributo di Antonio Biganzoli (Chiovini. La ricerca) al Convegno citato (cfr. nota 29) che da un lato sottolinea il rigore di un metodo che percorre precise fasi di indagine e di documentazione e dall’altro una modalità di scrittura che ne fa «uno scrittore-saggista di qualità» per il suo «modo di intercalare la narrazione: citazioni da fonti storiche, tabelle di dati demografici o di carattere economico, glossari di termini dialettali, così da fare delle sue opere una ragionata miscela di narrativa e di saggistica ed imporre così al testo il distacco della trattazione storica, ma, contemporaneamente, il “pathos” della partecipazione umana». Non condivido però la tesi di Biganzoli secondo cui per Chiovini la Resistenza costituirebbe solo «un episodio» di una storia complessiva, ben più importante, del territorio.
41
NINO CHIOVINI, Val Grande partigiana cit., pp. 9- 29.
42
Ivi, p. 20.
43
Cfr. la bibliografia provvisoria degli scritti.
44
NINO CHIOVINI, I giorni della semina cit., pp. 19- 21.
45
NINO CHIOVINI, Mal di Valgrande, Vangelista, Milano 1991, pp. 8- 9.
46
NINO CHIOVINI, A piedi nudi. Una storia di Vallintrasca, Vangelista, Milano 1988, p. 186.
47
Cfr. note 15 e 16.
48
NINO CHIOVINI, Impressioni e ricordi. Da Cannobio a Domodossola, cit.
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Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza di Giovanni A. Cerutti
Nelle province di Novara e del Verbano Cusio Ossola la vitalità della memoria della Resistenza si dispiega in numerose cerimonie commemorative che si susseguono per tutto l’anno. Non solo sono ricordati gli avvenimenti che hanno segnato in profondità la storia delle nostre comunità quali la strage degli ebrei di Meina, la battaglia di Megolo, gli eccidi di Baveno e Fondotoce, Borgoticino, Vignale, la Repubblica dell’Ossola, ma si può dire che la maggior parte degli episodi di una qualche rilevanza continua ad avere negli anni un momento pubblico di ricordo, così come accade per molti dei cippi posti a memoria dei partigiani caduti. A tener viva questa memoria sono le amministrazioni locali, interpreti della sensibilità delle comunità, e le associazioni partigiane, qualche volta anche solo i compagni dei caduti, ma quasi sempre sono presenti i prefetti, a dimostrazione di un’attenzione dello Stato centrale verso una dimensione del vivere associato che è percepita essere di grande rilevanza. Una memoria tenace e profondamente radicata nel vissuto delle comunità. E, del resto, si tratta di province tra le più segnate dall’occupazione tedesca e nelle quali il movimento partigiano è stato più presente. Negli anni in queste cerimonie si è delineata una struttura consolidata del genere commemorativo1 i cui momenti salienti sono il corteo, i discorsi delle autorità e l’«orazione ufficiale», vero perno intorno a cui ruotano le commemorazioni, affidata quasi sempre a persone che non fanno parte delle comunità che ricordano l’episodio. Da qualche anno con sempre maggiore frequenza chi organizza queste commemorazioni si rivolge all’Istituto storico della Resistenza per individuare un oratore, e non di rado finisce che l’oratore sia uno studioso dell’Istituto. Questa circostanza testimonia del particolare legame che si è stabilito tra le amministrazioni locali, le associazioni partigiane e l’Istituto, che non è percepito solo come centro di ricerca e luogo di conservazio109
Giovanni A. Cerutti
ne degli archivi, ma anche come istituzione culturale depositaria della memoria della Resistenza. Tuttavia è anche segno di una discontinuità, su cui penso valga la pena incominciare una riflessione corale. Per lungo tempo, infatti, le orazioni ufficiali sono state tenute da personalità rilevanti, riconducibili sostanzialmente a due figure-tipo: politici protagonisti della costruzione della Repubblica ed ex-partigiani, e sovente le due figure erano riunite nella stessa persona2. La caratteristica saliente delle orazioni tenute da questo tipo di figura era di rivolgersi ad un pubblico sostanzialmente omogeneo - ex-partigiani, famigliari di caduti, politici, amministratori locali e militanti espressione dei partiti che avevano condotto la lotta antifascista - che permetteva al prestigio e all’autorità dell’oratore di saldare senza soluzione di continuità la ricostruzione dei fatti che si commemoravano con le sfide politiche del presente. Una memoria sostanzialmente politica, in cui il senso della Resistenza era totalmente declinato nella vita della Repubblica, ora per richiamarne l’adesione ai valori fondamentali, ora per mobilitare risorse da impiegare nei conflitti del momento, a seconda della congiuntura politica. Queste figure stanno scomparendo senza lasciare eredi. La classe politica che si è formata nel dopoguerra sembra non avere nulla da chiedere e nulla da dire alle vicende della Seconda guerra mondiale e della nascita della Repubblica. Pare che le sue radici e gli interessi che rappresenta siano dislocati altrove. Tanto è vero che - naturalmente senza generalizzare - quando decidono di partecipare a una manifestazione o accettano di tenere un’orazione ufficiale, quasi sempre se c’è alle viste una competizione elettorale, non di rado i discorsi sono di una povertà desolante quando accennano alle vicende storiche e di una superficialità sconsolante quando tentano agganci sul presente, finendo per sfumare in discorsi confusi su pace, guerra e umanitarismo da talk-show. Le associazioni partigiane, invece, non hanno lasciato eredi nel senso materiale del termine e appare sempre più chiaro che sono destinate ad esaurirsi con la scomparsa delle generazioni che hanno partecipato alla Resistenza. Nate dagli scontri originati dalle vicende che tra il 1946 e il 1948 hanno diviso in due l’Europa, e che hanno profondamente segnato il sistema politico italiano, non sono state in grado di elaborare una strategia che facesse i conti con la nuova stagione che si è aperta dopo il 1989, quando la fine di quella divisione ha mutato gli scenari politici e dato avvio a una rilettura del senso delle vicende dell’Europa in guerra. In questo vuoto che si è aperto il ricorso all’Istituto storico mi sem110
Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
bra possa essere interpretato sia come segno di smarrimento, come riconoscimento che non si riescono a individuare figure politiche e istituzionali adeguate agli eventi che si vogliono ricordare, sia come segno della convinzione, forse non esplicitata fino in fondo, che l’epoca della Resistenza è ormai definitivamente consegnata al passato. E forse queste due considerazioni sono intrecciate tra loro, legando l’idea che l’assenza di eredi dei protagonisti del primo cinquantennio repubblicano abbia definitivamente chiuso un periodo e che la memoria della guerra vada coltivata solo al passato. Sembrano essere rimasti in campo tre modelli. Il comizio sull’attualità politica, interna o internazionale, Berlusconi o Bush, in cui il fatto da commemorare è solo l’occasione che permette di radunare gente, da liquidare con un generico riferimento, quando non viene ignorato del tutto; il discorso di qualche protagonista della Resistenza, fatalmente sempre meno protagonista di primo piano per questioni anagrafiche, che anche quando è nobile e vibrante e di assoluto livello, tuttavia è quasi sempre rivolto al passato, a confermare le proprie buone ragioni, e ha come referenti in grado di coglierne tutte le sfumature chi ha vissuto, o conosce per averla studiata, la stagione politica del primo cinquantennio repubblicano; la ricostruzione dello storico, che non può che consegnare la Resistenza al passato, cercando di capire e di spiegare secondo le sensibilità storiografiche del proprio tempo, e che più che una commemorazione avrebbe come scenario adeguato una conferenza. In questa situazione credo si aprano tre questioni, tra loro strettamente collegate. La prima, la più radicale, è se la memoria della Resistenza è ancora un elemento in grado di plasmare il discorso pubblico e le identità collettive e con quali contenuti. La seconda riguarda le forme attraverso le quali trasmettere questa memoria, e se le cerimonie commemorative e le orazioni ufficiali hanno ancora un pubblico al quale rivolgersi e attori in grado di dargli vita. La terza riguarda qual è il ruolo della ricerca storica nella costruzione della memoria, e cosa è una politica della memoria, questione che solleva il problema di chi debbano essere gli attori della politica della memoria della Resistenza. La memoria della Resistenza dall’antifascismo alla democrazia Non è possibile comprendere i sistemi democratici dell’Europa contemporanea senza conoscere le vicende dell’occupazione nazista, della sua 111
Giovanni A. Cerutti
sconfitta militare e delle reazioni con cui le diverse società la fronteggiarono. Naturalmente questo nesso si può stabilire con ogni evento del passato, dato che ogni evento del passato contribuisce a costruire il presente. Ma credo sia difficile negare la particolare rilevanza delle vicende della Seconda guerra mondiale nel plasmare il mondo contemporaneo. Di conseguenza, se dall’obiettivo della comprensione passiamo a quello della partecipazione attiva e della promozione della vita democratica, e dello sviluppo dei valori della democrazia, la memoria della Resistenza diventa un elemento centrale nel processo di costruzione dell’identità democratica che sorregge il raggiungimento di tali obiettivi. E se questo vale per tutti i sistemi politici europei - pur tenendo conto, come troppo raramente si fa, che per i paesi dell’Europa orientale la fine della Seconda guerra mondiale non ha rappresentato la fine dell’occupazione e l’avvio della costruzione della democrazia, ma l’inizio di un’altra occupazione e di un’altra dittatura - vale a maggior ragione per l’Italia, dove l’occupazione nazista è stata il tragico e violento epilogo di vent’anni di regime fascista. L’identità democratica non può non essere costruita sulla memoria delle circostanze e dei processi storici che hanno fatto nascere la democrazia. Soprattutto in considerazione del fatto che la legittimità delle nostre democrazie riposa su una costituzione, un documento del passato che in quanto tale fa parte della memoria condivisa della comunità. Quindi la legittimità di una democrazia non è mai basata sul presente, sulle vicende elettorali e sui programmi per il futuro, ma su una tradizione di lealtà alle istituzioni condivise3. L’attualità e la necessità della memoria della Resistenza trovano, quindi, la loro ragione d’essere nella costruzione dell’identità democratica. È la vita democratica, la lealtà alle sue istituzioni, il senso di appartenenza a una comunità costruita intorno ai suoi valori che rendono indispensabile la memoria della Resistenza. In questa prospettiva, l’antifascismo è il processo storico attraverso cui è stata costruita e si è consolidata la democrazia. Senza avere più, però, carattere normativo, né dal punto di vista culturale, né da quello politico, ideologico o storiografico. Parte ineliminabile della costruzione della memoria collettiva in quanto rappresenta uno degli elementi fondamentali nel processo di formazione della nostra Repubblica, non può più rappresentare il collante identitario del patriottismo costituzionale4. A questo proposito, nell’Italia degli ultimi quindici anni non si è tanto dispiegato un progetto consapevole teso a distruggere il paradigma antifascista, quanto un uso politico e ideologico, sovente contingente, del 112
Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
suo esaurimento naturale5. E d’altronde un esame attento della nostra Costituzione mostra facilmente che non è possibile separare i principi antifascisti dai principi democratici. I principi antifascisti si identificano, infatti, completamente con i principi democratici senza residui. Semplicemente è mutato il quadro storico, e i richiami all’antifascismo non sono più in grado di creare legami identitari. Questo, però, non significa che ci si può permettere di lasciarsi definitivamente alle spalle la questione del fascismo. Anzi. Se è vero che ormai l’antifascismo non può funzionare da collante identitario, la riflessione del significato del fascismo nella storia italiana è una questione più che mai decisiva per la definizione di una sicura identità democratica. Riflessione tanto più urgente, in quanto non è mai stata veramente sviluppata6. In particolare è necessario riportare alla luce il consenso su cui si costruì il regime, le continuità di fondo della storia italiana, specie tra stato liberale e fascismo, e gli errori delle forze politiche che costruirono poi l’alleanza antifascista nella crisi del primo dopoguerra, e che favorirono l’avvento del regime7. L’approfondimento di questo ultimo aspetto mostrerebbe che la democrazia, così come sarà poi intesa nella Costituzione del 1948, non era l’orizzonte di nessuna forza politica, e che sarà solo nel crogiolo della Resistenza e nel contesto del nuovo assetto dell’Europa che si farà strada per la prima volta l’idea della coesistenza democratica. Le cerimonie commemorative come forma di trasmissione della memoria Quando si viene chiamati a tenere un’orazione ufficiale, la prima preoccupazione è quella di raccogliere la documentazione sull’evento da commemorare. Questa ricerca ha due aspetti. Il primo riguarda lo svolgimento dell’episodio e la sua collocazione nell’ambito delle vicende della guerra. Il secondo il modo in cui le cerimonie si sono succedute nel tempo: quali sono stati i precedenti oratori e che rilevanza il ricordo dell’episodio ha per la comunità che ne promuove la celebrazione e per le comunità più vaste, provinciale e nazionale. Entrambe queste operazioni mettono in luce elementi, riflettendo sui quali è possibile approfondire la conoscenza delle dinamiche che governano la trasmissione della memoria della Resistenza. Contrariamente a quanto generalmente si pensa, la maggior parte degli episodi non viene ricordata ininterrottamente dalla fine della guerra8. La storia di molte cerimonie ha una data di inizio, sovente intorno agli anni sessanta9, altre hanno subito interruzioni e riprese10. Anche la selezione de113
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gli episodi da ricordare appare sovente casuale, tolti ovviamente i più importanti, legata a situazioni particolari, quali l’atteggiamento delle famiglie dei caduti, che qualche volta sono i veri motori delle manifestazioni, altre volte, per motivi privati o politici, un ostacolo insormontabile11, o vicende successive alla guerra che hanno posto in una luce diversa i protagonisti della lotta partigiana. Lo stato della documentazione storica non è quasi mai incoraggiante12. Le rievocazioni degli episodi in genere sono riconducibili quasi tutte a un’unica fonte, variamente utilizzata, e quasi mai suffragata da documenti o da lavori più sistematici. E quasi mai gli episodi sono collocati nel contesto delle vicende della guerra partigiana della zona, e men che meno delle vicende della guerra in generale, ma si stagliano come racconti esemplari. Inoltre tutti gli episodi sono rappresentati come momenti della lotta di liberazione. Un’analisi storica accurata mostra, invece, che si tratta di eventi molto diversi tra loro, con significati ben distinti, che ci parlano in modo diverso, non solo dal punto di vista storico, ma anche sotto il profilo della costruzione della memoria. Una rappresaglia13 è diversa da una strage di civili, una battaglia non è assimilabile a una fucilazione, gli episodi che coinvolgono i renitenti alla leva mettono in luce aspetti diversi rispetto a quelli che vedono protagonisti i partigiani inquadrati in brigate regolari: ogni episodio necessita di appropriate categorie esplicative14, che aiutano a dar conto dell’estrema complessità delle vicende della Seconda guerra mondiale - la prima guerra su grande scala che vede massicciamente coinvolte le popolazioni civili - e dell’occupazione nazista, della Repubblica di Salò e dei rapporti tra la guerra partigiana e le dimensioni quotidiane dell’esistenza. Ci si accorge anche, tanto più nei colloqui con i membri delle comunità coinvolte a vario titolo negli episodi che si ricordano, che le dimensioni della guerra e della Resistenza sono centrali nella costruzione della memoria, molto meno lo è l’antifascismo, specie politico15. Più memorie radicate nel vissuto delle comunità e proiettate in una luce di generico riscatto nazionale, che meditate riflessione sulle vicende della storia italiana ed europea. Ci sono, poi, due grosse difficoltà da affrontare per riuscire ad entrare in comunicazione con i partecipanti alle commemorazioni. La prima riguarda la dimensione militare della Resistenza16. È una dimensione che si scontra inequivocabilmente con il vissuto delle società contemporanee, e non di rado genera evidenti ed imbarazzanti contrasti con i discorsi che in queste occasioni vengono fatti richiamando la pace. È difficile giustap114
Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
porre gagliardetti e bandiere della pace senza soluzione di continuità, senza un’interpretazione complessiva in grado di dar conto delle asperità della storia. L’affermarsi della società post-militare17 ha tolto qualsiasi capacità di comunicazione ai miti della guerra e ai valori militari. Diventa difficile trovargli una spazio nella costruzione della memoria se sono troppo esibiti e troppo centrali. La seconda riguarda il rapporto con gli eventi luttuosi e la dimensione del martirio associata al loro ricordo18. L’insistenza su questi aspetti, senza l’elaborazione di un percorso che li contestualizzi e li apra ai significati che possono avere per la costruzione del futuro, sta schiacciando l’immagine della Resistenza inesorabilmente sul passato. Naturalmente si tratta di tenere nella giusta considerazione i modi di sentire delle famiglie, dei compagni dei caduti e di chi ha vissuto quelle tragiche circostanze, o ad esse si sente legato, ma il rispetto della dimensione privata19 deve essere collocato in una dimensione pubblica aperta al futuro. Quello che non funziona più, però, e che sta diventando addirittura dannoso, è il vero e proprio luogo comune «sono morti per noi», «sono morti per regalarci la democrazia». Innanzitutto perché attribuire motivazioni del genere, e qualsiasi tipo di motivazione, alle vittime che si commemorano è largamente arbitrario - quanti percorsi di vita i più diversi sono stati brutalmente unificati e fissati per sempre dalla morte violenta! - e poi perché è una modalità di argomentazione sempre più distante dalla sensibilità contemporanea, proprio in virtù dell’affermarsi della società post-militare20. È indispensabile mettere in primo piano la dimensione costruttiva della Resistenza e trovare un linguaggio che sia in grado di dar conto della violenza e dei lutti meno funzionale a placare l’angoscia dei vivi trovando loro un senso glorioso e più attento alla riflessione sulla catastrofe che ha luogo ogni volta che si interrompe una vita umana. Quando si muore, si muore. Quando si è uccisi, si è uccisi. Non ci sono significati in grado di riscattare una morte per chi è morto. Anche se questi episodi fossero in grado di aiutarci a costruire un mondo più umano, cosa per altro estremamente dubbia, i morti non ne beneficeranno mai. Meno eroi e più uomini, con i loro percorsi casuali e le motivazioni mai così chiare e tetragone. Davvero negli anni si è edificato «un monumento infamante all’Antiresistenza»21, più che costruire una memoria della Resistenza come forza dinamica dell’identità democratica. Riflessioni diverse, invece, richiedono le commemorazioni del 25 aprile. Nella maggior parte dei casi la festa della Liberazione viene vissuta co115
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me la festa della Resistenza, dei partigiani in particolare, e non come festa nazionale, come ricordo della nascita della democrazia, e con essa della nazione. In questa prospettiva, l’orazione ufficiale dovrebbe aiutare a ripercorrere le vicende della storia nazionale, sottolinearne le fragilità, ancorarla alle vicende della storia europea e mettere in evidenza da quali complessi processi è nata la democrazia. Processi in cui la Resistenza e l’antifascismo hanno giocato e giocano un ruolo insostituibile, ma non esclusivo. Non si vedono, però, attori né istituzionali22, né politici, né sociali, né culturali in grado di assumersi questa funzione. Ed è questa la miglior prova dell’incompiutezza della nostra storia nazionale23. Naturalmente resta sullo sfondo l’interrogativo se queste cerimonie abbiano un futuro, se le orazioni ufficiali siano ancora in grado di contribuire a costruire la memoria della Resistenza, se ci siano spazi per una politica della commemorazione, cioè di una «modalità dell’agire che aggrega interessi e valori comuni a un gruppo di attori sociali, in relazione all’ambito specifico della commemorazione di un evento»24. E ancora più decisiva resta sullo sfondo la questione della forma, perché «oggetti, artefatti, forme culturali non rappresentano soltanto asettici involucri di pezzi consistenti del nostro passato, più o meno apprezzabili dal punto di vista estetico, ma piuttosto influenzano i contenuti stessi della memoria a cui dànno letteralmente forma e, pertanto, costituiscono sempre punti di vista specifici e ben delineati sulla realtà che intendono rappresentare»25. Quante volte un brutto monumento - e quanti brutti monumenti ci sono in giro! trasmette una brutta immagine. Quante volte un discorso raffazzonato, dà l’idea che le cose di cui si sta parlando non sono importanti. E quanta differenza nell’idea che ci si fa di un evento ricordato con una commemorazione ufficiale e uno ricordato con un film, con un’opera teatrale o con un concorso scolastico. Il ruolo della ricerca storica nella costruzione della memoria L’essenza della verità storica26 sta nella comprensione e nella spiegazione degli eventi e dei comportamenti27, dei nessi che li legano, delle cause e degli effetti quando è possibile e ha senso stabilirli. È una ricerca sempre in divenire, risultato dei diversi approcci che si confrontano e si scontrano e del mutare delle epoche. Ogni generazione pone interrogativi diversi al passato o riformula gli stessi interrogativi alla luce di nuove sensibili116
Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
tà. È conoscenza del passato, e la conoscenza del passato non può essere il presupposto dell’identità collettiva, perché, naturalmente entro certi limiti, può essere condivisa anche in presenza di memorie diverse e non omogenee28. Nei processi di costruzione della memoria, legati a doppio filo alla definizione delle identità, la questione centrale è quella di quali scopi ottenere attraverso il richiamo al passato, e il giudizio sugli scopi dipende da una scelta di valore, non dalla ricerca della verità29. Si entra in una dimensione etica30, in cui la scelta del bene impone la dimensione della responsabilità. La riscoperta del passato e la sua susseguente utilizzazione non sono legati da un rapporto predefinito e invariabile. Sono, però, i criteri, più o meno coscienti, che guidano la scelta delle informazioni che provengono dal passato a orientarne l’utilizzo31. Questa sommaria descrizione mette in evidenza che per un verso la ricerca storica e i processi di costruzione della memoria - che quando sono guidati da un progetto diventano vere e proprie politiche della memoria sono attività nettamente distinte, ma per un altro sono profondamente interrelate. Scrive Hannah Arendt32 che condizione fondamentale per preservare la possibilità di un’azione politica nel futuro è che il passato e il presente siano sottratti dallo stato di potenzialità. Trattare il passato e il presente come parti del futuro, come campi su cui esercitare l’azione, significa privare l’ambito del politico della sua principale forza stabilizzatrice e del punto di partenza da cui cominciare qualcosa di nuovo. La solida stabilità della realtà fattuale deve essere al di fuori della portata dell’intervento dell’uomo. Un atteggiamento politico - cioè, nei termini della Arendt, aperto all’azione - verso i fatti deve essere collocato nello spazio molto stretto situato tra il pericolo di considerarli risultato di qualche sviluppo necessario che gli uomini non potevano impedire e il pericolo di negarli, provando a manipolarli fuori dal mondo. La Arendt scrive riferendosi alla manipolazione del passato degli stati totalitari, e del potere in genere, che in qualsiasi sua forma è sottoposto a questa deriva, ma mi sembra che le sue affermazioni abbiano valore in sé. Una ricerca storica intellettualmente indipendente e tesa a ricostruire e confrontarsi con i fatti nel modo più diretto possibile è l’unica base possibile per qualsiasi attività, sia essa la costruzione delle identità collettive o l’attività politica. E sempre la Arendt, nella stessa pagina, mette in evidenza come i fatti finiscano sempre per affermarsi grazie alla loro ostinazione, perché la loro apparente fragilità, che sembrereb117
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be esporli a qualsiasi manipolazione, in realtà è abbinata a una grande resilienza33, dovuta alla irreversibilità che contrassegna ogni azione umana. Una politica della memoria per durare e riuscire ad incidere nella costruzione della società, per avere qualcosa da dire nel dibattito pubblico, non può stabilire un rapporto strumentale con la ricerca storica, non può piegarla ai propri scopi utilizzando i propri valori come chiave interpretativa dei fatti. Prima la ricerca spassionata dei fatti, l’elaborazione di ipotesi esplicative, e poi, alla luce di questi risultati, il confronto con le proprie visioni del mondo, che, in seguito a questo confronto, possono anche essere sottoposte a qualche riaggiustamento. Va da sé, che il sostrato di questo modo di pensare è che chi sostiene buone ragioni non può aver paura di confrontarsi con i fatti, non può ritenere di non riuscire a venirne a capo.
Note al testo 1
Il concetto di genere commemorativo è stato elaborato nell’ambito degli studi di sociologia della memoria, sviluppando l’approccio culturalista, che analizza il modo in cui la memoria è usata come risorsa dagli attori sociali per costruire le identità individuali e collettive e definire in questo modo segmenti della sfera pubblica. Secondo questa prospettiva «il costituirsi di un genere specifico nella memorizzazione implica il delinearsi di una serie di convenzioni sociali, in grado di stabilire ciò che è appropriato e ciò che non lo è, rispetto alla rappresentazione di un certo passato». (ANNA LISA TOTA, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, Il Mulino, Bologna 2003, p. 170).
2
Naturalmente si tratta di una valutazione qualitativa, fatta sulla base dell’esperienza diretta e dello spoglio delle annate dei fogli partigiani e della stampa locale, nonché dei documenti degli archivi di alcuni comuni, e non suffragata da ricerche puntuali. Ma penso di non essere troppo lontano dalla realtà.
3
MARCELLO FLORES, Memoria collettiva e uso della storia, in «Il Mulino», n. 1/2005, p. 179. Sui caratteri delle costituzioni europee del secondo dopoguerra, rimando al classico lavoro di CARL JOACHIM FRIEDRICH, The Political Theory of the New Democratic Constitutions (1955), ora disponibile in lingua italiana nel volume curato da Sofia Ventura, C.J. FRIEDRICH, L’uomo, la comunità, l’ordine politico, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 231-254.
4
MARCELLO FLORES, Memoria collettiva e uso della storia cit., p. 182.
5
MARCELLO FLORES, Memoria collettiva e uso della storia cit., pp. 185-186. Sui problemi connessi
118
Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
al paradigma antifascista e al suo declino, vedi il classico studio di NICOLA GALLERANO, Critica e crisi del paradigma antifascista, in «Problemi del socialismo», n. 7/1986. 6
Sui motivi che hanno impedito questa riflessione vedi ALESSANDRO CAVALLI, I giovani e la memoria del fascismo e della Resistenza, in «Il Mulino», 363 (1996), p. 56. Cavalli parla di un «processo di rimozione collettiva» del fascismo, nelle sue radici storiche e nelle sue forme di regime autoritario e totalitario, strettamente e specularmente legato al «processo di monumentalizzazione» della Resistenza. Sul modo in cui le società reagiscono al crollo dei regimi, e sul tipo di memoria che sviluppano, vedi REMO BODEI, Addio al passato: memoria storica, oblio e identità collettiva, in «Il Mulino», 340 (1992), pp. 179-191, poi raccolto in R. BODEI, Libro della memoria e della speranza, Il Mulino, Bologna 1995. Una chiave interpretativa di notevole profondità per comprendere la vicenda del regime fascista, la sua vertiginosa ascesa e la sua rovinosa caduta, mi sembra possa essere sviluppata a partire dall’analisi di Friedrich sulla falsa autorità. Secondo Friedrich, l’autorità è sempre confinata entro la portata della ragione e non può esservi autorità assoluta perché non esiste una verità assoluta. La falsa autorità si manifesta quando gli uomini si pronunciano attraverso comunicazioni presentate come autorevoli, reputate suscettibili di fondarsi su di un’elaborazione ragionata, mentre in realtà non lo sono. La falsità di tale autorità appare in tutta la sua evidenza nel momento in cui il preteso potenziale deve essere concretizzato (C.J. FRIEDRICH, L’uomo, la comunità, l’ordine politico cit., p. 104. Ed. or. Authority, Reason and Discrection, Harvard University Press, 1958). Più che un’analisi teorica sembra la descrizione di quanto accade in Italia, dove ciclicamente l’opinione pubblica si consegna a uomini le cui comunicazioni alla prova dei fatti rivelano l’inconsistenza che un ascolto più attento avrebbe mostrato prima che fosse troppo tardi.
7
Anche su questo aspetto vedi ALESSANDRO CAVALLI, I giovani e la memoria del fascismo e della Resistenza cit., pp. 56-57.
8
Anche queste considerazioni si basano su esperienze personali e non hanno alle spalle ricerche documentate.
9
Ciò vale anche per la partecipazione dei Comuni all’organizzazione della cerimonia del 25 aprile. Questo è documentato almeno per Borgomanero da una ricerca non pubblicata conservata nel nostro Istituto e promossa dall’amministrazione comunale di Borgomanero. Il comune iniziò a partecipare all’organizzazione del 25 aprile solo nel 1965, in occasione del Ventennale della Resistenza. Negli anni precedenti i reiterati inviti dell’Anpi venivano sempre declinati, in modo più o meno rude, in corrispondenza delle personalità dei diversi sindaci e delle congiunture storico-politiche. Da notare che dal 1946 al 1956 sindaco di Borgomanero fu Giacomo Borgna, antifascista fin dal 1922 e protagonista della Resistenza novarese. Sulla figura di Giacomo Borgna vedi la voce biografica di Mauro Begozzi nel Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980. Volume III, a cura di Francesco Traniello e Giorgio Campanini, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 112-113.
10
Un’impressione, sempre basata su esperienze personali, è che ci sia stato un recupero di celebrazioni quasi dimenticate, o addirittura di allestimento di nuove cerimonie, a partire dalla metà degli anni novanta, in corrispondenza dell’ingresso al governo della formazione post-fascista.
11
Lo stesso vale per l’intitolazione delle vie, specie per quelle intitolate nell’immediato dopoguerra, dove su un giudizio storico meditato hanno fatto premio dimensioni emozionali o fattori fortuiti, quali la presenza o l’assenza di compagni o di famigliari di caduti nelle giunte e nei consigli comunali.
12
A questo proposito è fondamentale il lavoro di ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della Resistenza novarese. Uomini ed episodi della lotta di liberazione, Novara s.d., ma 1984, con presentazione di Angelo Del Boca, ampliamento di un precedente lavoro del 1955, che raccoglie, con una breve descrizione, tutti gli episodi significativi del periodo 1943-1945. Sulla figu-
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ra di Enrico Massara, valoroso partigiano e protagonista della vita politica e amministrativa di Novara, nonché fondatore e a lungo presidente del nostro Istituto, vedi ENRICO MASSARA, Mon vieux capitaine, a cura di Mauro Begozzi, Istituto storico della resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola «Piero Fornara», Novara 2004, con presentazione di Francesco Omodeo Zorini. 13
Ci sono alcuni casi in cui, a seguito di azioni partigiane, i tedeschi e i fascisti hanno in un primo tempo scelto le vittime della rappresaglia tra la popolazione del paese in cui si era svolto il fatto, ma - in seguito all’azione dei rappresentanti delle comunità, nella maggior parte dei casi sacerdoti, ma qualche volta anche podestà o esponenti del vecchio P.N.F. - hanno successivamente liberato gli ostaggi civili, eseguendo comunque la rappresaglia su partigiani o renitenti alla leva. Si tratta, come si può ben capire, di una situazione delicatissima e drammatica. Scavando con attenzione nelle memorie di queste comunità, questa dimensione affiora ancora oggi, in particolare attraverso la cura con cui di anno in anno sono allestite le cerimonie di commemorazione.
14
Che io sappia, non esiste un lavoro che tenti la definizione di categorie analitiche in grado di dar conto delle molteplici forme dell’impatto dell’occupazione nazista sulle singole comunità e sulle società più in generale, sia nei suoi aspetti tragici, che negli aspetti della vita quotidiana.
15
Su come la memoria della Resistenza sia stata costruita fondendo nelle commemorazioni pubbliche e nei monumenti esigenze molto diverse, fortemente debitrici alla propaganda del primo dopoguerra, vedi ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, La Resistenza italiana nei musei in La Resistenza tra storia e memoria a cura di Nicola Gallerano, Mursia, Milano 1999, pp. 56-57.
16
È una dimensione su cui hanno insistito e insistono moltissimo le associazioni partigiane, tanto che per molte sezioni locali è motivo di orgoglio essere considerate tra le associazioni d’arma.
17
ANTHONY GIDDENS, Oltre la destra e la sinistra, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 283-288 (Ed. or. Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics, Polity Press, Cambridge 1994). Il concetto di «società post-militare» è stato formulato da Martin Shaw, vedi MARTIN SHAW, Post-Military Society, Polity Press, Cambridge 1991.
18
Penetranti osservazioni su questo aspetto e sulle sue ripercussioni sulla memoria della Resistenza sono contenute nell’introduzione di Sergio Luzzatto alla nuova edizione del classico resistenziale di Piero Calamandrei Uomini e città della Resistenza, specie alle pp. XLVI-LXV (PIERO CALAMANDREI, Uomini e città della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2006. A cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi). In particolare, secondo Luzzatto l’idea guida di Calamandrei fu che «la morte dei partigiani fosse stata il più bel successo della loro vita» (p. LIX).
19
Sul rapporto tra memoria privata e memoria pubblica vedi TZVETAN TODOROV, Gli abusi della memoria, Ipermedium libri, Napoli 2001, pp. 49-51 (Ed. or. Les abus de la mémoire, Les Editions Arléa, Paris 1995). Secondo Todorov il punto di vista soggettivo, per cui l’esperienza è necessariamente singolare ed intensa, non deve essere trascurato, ma l’esercizio della razionalità deve mettere in comune le esperienze individuali con altre esperienze, procedendo a raffronti che permettano esiti utilizzabili dalla collettività. Va, però, assolutamente evitato il rischio dell’ «arroganza della ragione, insopportabile per il singolo, che si vede deprivato della sua esperienza e del senso che egli le attribuiva in nome di considerazioni che gli sono incomprensibili» (p. 49).
20
Vedi nota 17. L’idea che celebrare gli uomini che avevano ben servito la patria attraverso gli elogi funebri e altri atti commemorativi servisse ad incitare i giovani ad affrontare qualsiasi sacrificio a difesa della patria per ottenere la gloria che spetta ai valorosi risale a Polibio e alla sua analisi della superiorità di Roma su Cartagine contenuta nelle Storie (vedi ROBERT GILPIN,
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Ricerca storica e politiche della memoria nelle commemorazioni della Resistenza
Guerra e mutamento nella politica internazionale, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 156-157. Ed. or. War and Change in World Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1981). 21
SERGIO LUZZATTO, Introduzione a PIERO CALAMANDREI, Uomini e città della Resistenza cit., p. XXXIX. Secondo Luzzatto all’origine di questo atteggiamento ci sono, pur nella divergenza dell’analisi del fascismo, tanto Piero Calamandrei quanto Benedetto Croce.
22
Una svolta in questa direzione è stata la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, che ha inserito tra le questioni centrali del suo settennato la costruzione di una memoria in grado di sorreggere una sicura identità democratica, al centro della quale fossero la Resistenza e l’antifascismo.
23
Mi sembra molto interessante l’ipotesi avanzata da Marcello Flores (Memoria collettiva e uso della storia cit., p. 180) che l’identità costituzionale sia stata più debole nei Paesi in cui è stata vissuta attraverso ideologie subnazionali, per quanto si presentassero come universali. Questa debolezza ha favorito una contrapposizione polemica e una strumentalizzazione politica del nodo tra storia e memoria, alimentando memorie contrapposte che hanno impedito di dare spazio alla ricostruzione storica.
24
ANNA LISA TOTA, La città ferita cit.,p. 150.
25
ANNA LISA TOTA, La città ferita cit., p. 150.
26
A questo proposito vedi l’affascinante analisi di Christian Meier delle differenze tra la storia di Tucidide e la storia di Erodoto. Secondo Meier una delle caratteristiche rilevanti di Erodoto, autore della prima storia che viene scritta, è la capacità di osservare la polis dall’esterno, pur essendone parte (CHRISTIAN MEIER, La nascita della categoria del politico in Grecia, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 441-444, corsivo mio).
27
MARCELLO FLORES, Memoria collettiva e uso della storia cit., p. 184.
28
MARCELLO FLORES, Memoria collettiva e uso della storia cit., p. 179.
29
TZVETAN TODOROV, Gli abusi della memoria cit., pp. 59-60.
30
La dimensione etica è alla base anche del concetto di «rammemorazione» di Walter Benjamin. Secondo Benjamin la rammemorazione rompe il tempo lineare per ritrasformare i fatti in significati. In questo modo il sapere storico incorpora al suo interno il sapere etico. Secondo Leonardo Paggi, lo storico che intenda confrontarsi con le catastrofi morali del novecento non può eludere questo punto di vista (vedi LEONARDO PAGGI, Alle origini del “credo” repubblicano. Storia, memoria, politica in Le memoria della Repubblica, a cura di Leonardo Paggi, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. XXXVII).
31
TZVETAN TODOROV, Gli abusi della memoria cit., p. 34.
32
HANNAH ARENDT, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70-71. Si tratta di un saggio contenuto nella raccolta Between Past and Future. Eight Exercices in Political Thought, The Viking Press, New York 1968, che non era stato incluso nell’edizione italiana del 1970.
33
È proprio il termine usato dalla Arendt.
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La Sala storica di Domodossola. Storia di una mostra «permanente» di Mauro Begozzi
«Il 17 febbraio 2006 è stata “reinaugurata” la Sala storica di Domodossola ristrutturata in occasione del 60° anniversario della Repubblica dell’Ossola. Dopo 22 anni, l’Amministrazione comunale di Domodossola ha dato corso a una necessaria ristrutturazione della Sala storica sita nell’Aula consigliare, nella stessa sala ove si riuniva la Giunta Provvisoria di Governo dell’Ossola liberata nel settembre-ottobre1944. Pur rispettando l’originale disposizione di strutture e materiali esposti (immagini, documenti, ecc.) è stato deciso di semplificare i testi e di aggiungere nuove fotografie, così come si è provveduto a risistemare l’ingresso dotandolo di strumenti multimediali per consentire la visione anche di documenti audiovisivi. La ristrutturazione, curata dall’architetto Alessandro Feltre e dall’Istituto, ha inteso soprattutto adattare la comunicazione alle nuove esigenze dei visitatori contemporanei, senza per questo stravolgere contenuti e senso del percorso originale. Presto sarà anche possibile disporre di un’apposita guida». La notizia è apparsa sul portale dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara», www.isrn.it, nella sezione «attività-mostre». Poche righe per sintetizzare, come richiede il linguaggio internet, un fatto, un evento, una comunicazione. Gli è che non solo quella notizia l’ho scritta io, ma pure i testi semplificati della nuova versione della mostra e così anche ventidue anni fa i testi completi e mi accorgo ora più di allora d’aver accettato numerosi «compromessi» sull’altare di una non meglio definita esigenza e altrettanto non sufficientemente provata motivazione: «nessuno legge più, men che meno i testi di una mostra» (questo luogo comune è elegantemente definito: «adattare la comunicazione alle nuove esigenze dei visitatori contemporanei»). Insomma, da allora ad oggi mi sarei sempre più piegato all’idea della storia in «pillole», della semplificazione 123
Mauro Begozzi
comunicativa e la constatazione non mi fa piacere. Per questo, ma non solo, vorrei ricostruire la vicenda della Sala storica di Domodossola: mi sembra, infatti, da un lato emblematica dell’evoluzione delle forme e dei modi della mediazione e della comunicazione storica e dall’altro può servire per salvaguardare e riproporre, criticamente, un «lavoro perduto» ovvero gli originali testi della mostra non più leggibili durante le visite e mai editi, nonostante le reiterate intenzioni di produrre una guida. «Millenovecentottantaquattro, quarantesimo anniversario della Repubblica partigiana dell’Ossola. Sono mesi che percorro su e giù la Statale del Sempione da Novara per raggiungere Domodossola dove fervono i preparativi per ricordare degnamente l’avvenimento, una delle più gloriose pagine di storia scritte dagli Ossolani e con loro da migliaia di partigiani, civili, contadini, operai, montanari, intellettuali, donne e uomini accorsi da ogni dove per sostenere un sogno durato meno di quaranta giorni: sogno di libertà, sogno di pace e vita nuova. Le iniziative in cantiere sono tantissime e di notevole spessore culturale: impossibile citarle tutte. Innanzitutto si è deciso di allestire la cosiddetta Sala storica presso l’aula ove ancora si riunisce il Consiglio comunale. Si tratterà, in realtà, di una mostra permanente, ma le riunioni per decidere testi, immagini, carte e documenti da esporre sono innumerevoli e contrastate. Vi partecipano soprattutto testimoni e studiosi del luogo in un confronto difficile, perché ogni parola e ogni nome sono pesati con il bilancino del farmacista. L’avventura si concluderà solo a ridosso dell’inaugurazione rivelandosi, però, un’esperienza all’avanguardia per quegli anni perché impostata sulla proposizione e il confronto scientifico di materiale diverso: fotografie, testi, documenti e cartine. Multimediale si direbbe oggi, di sicuro anticipatrice di quanto solo molti anni dopo sarebbe diventato centro d’attenzione per gli storici: il territorio, la montagna, i sentieri della libertà»1. Il 22 febbraio 1984 l’Istituto riceve dall’allora assessore alla Cultura del Comune, Mariano Cattrini, delegato dal sindaco Giovanni Fornaroli alle celebrazioni per il 40°, copia del progetto di ristrutturazione della Sala storica «approvato dal Consiglio comunale il 17 febbraio». Tale progetto, in scala 1:100 è opera dell’architetto Sergio Pella che ha previsto 15 bacheche a muro. Il Comitato ha già definito anche i contenuti che vengono 124
La Sala storica di Domodossola.
riassunti in altrettanti temi (1. Insurrezione di Villadossola e banda «libertà»; 2. Battaglia di Megolo; 2. M.O. Silvestro Curotti; 3. Rastrellamento della Valgrande; 4. Anzola: 13 partigiani fucilati (tra cui 1 Greco e 1 Cecoslovacco); 6. Premosello: 8 civili uccisi; 7. La Repubblica partigiana dell’Ossola; 8. La Repubblica partigiana dell’Ossola; 9. La morte di Di Dio e A. Moneta; 10. Il Collegio Rosmini; 11. L’eccidio di don Giuseppe Rossi; 12. La salvaguardia del Sempione-centrali elettriche e fabbriche; 13: La Liberazione; 14. Bacheca; 15. Planimetria delle Valli Ossolane.) più o meno vincolanti. Il presidente dell’Istituto, Eraldo Gastone «Ciro», mi chiede d’occuparmene e schizza a matita accanto ai temi del progetto una serie di parentesi che indicano chiaramente che occorrerebbe raggruppare gli argomenti per inserirne altri, mancando a suo dire aspetti importanti di quella esperienza e in generale della resistenza in Ossola. Mi pare di capire che ritiene l’iniziativa importante, ma vorrebbe per l’Istituto carta bianca sui contenuti. Contrariamente a quanto si pensa di lui, «Ciro», il comandante militare delle Brigate Garibaldi della Valsesia Verbano Cusio e Ossola, è un uomo attento, aperto al dialogo e al confronto, ma crede nella libertà di ricerca e rifiuta ogni schematismo. Anche per me è un’occasione importante e una sfida, dopo le positive esperienze di lavoro dell’Istituto sui temi della comunicazione e dell’uso delle nuove fonti (fotografiche, sonore, ecc.) nella storia contemporanea. Circa un mese dopo, il 22 marzo, rispondo così al Comune e tramite esso al Comitato (che ho già incontrato un paio di volte): «Cari amici, ho finalmente avuto un po’ di tempo (per la verità rubato qua e là) per riordinare le idee sulla sala storica a partire dal progetto presentato dagli architetti. Ho riflettuto soprattutto sulla praticabilità delle indicazioni emerse dagli incontri rispetto al progetto definito e mi sono accorto che non sarà possibile soddisfare più di tanto le aspettative. A mio modesto avviso (che non è certo vincolante) e dopo avere esaminato tutte le possibili soluzioni, vi è soltanto una scelta credibile e fattibile tenuto conto, evidentemente, non dei gusti personali, ma delle reali condizioni di spazio, di fonti, di tempi, ecc. Ho perciò steso le allegate “considerazioni preliminari” che rappresentano il sunto delle riflessioni di cui sopra. [...] Concludendo, aggiungo che ho ripetutamente cercato di trovare una mediazione fra il progetto degli architetti e le indicazioni, anche contrastanti, provenienti dal Comitato. Non vi sono riuscito, ma questa potrebbe esse125
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re una mia lacuna e non una impossibilità reale [...]».2 Il problema, sostanzialmente, è che per il Comitato quella sala dovrebbe diventare una sorta di museo della resistenza ossolana (ove raccogliere ed esporre documenti, cimeli, immagini, ecc.), mentre per gli architetti, su preciso mandato del Comune, si tratta solo di utilizzare uno spazio, nemmeno tanto grande, dove però continuerà a svolgersi la vita amministrativa, a riunirsi il Consiglio comunale, sì che l’esposizione non potrà essere più di tanto invadente. Titolo così le considerazioni preliminari (in cui mi rendo conto d’aver messo le mani avanti per tenermi aperta una via d’uscita se non si comporranno le diverse posizioni) «allestimento della mostra nella Sala storica», dove appunto «storica» è la sala, mentre «allestimento di una mostra» è ciò che ci accingiamo a fare. «Il linguaggio espositivo della struttura. Prima di affrontare i problemi derivanti dall’allestimento della “mostra”, è necessario riflettere sui contenuti del progetto di ristrutturazione complessiva della sala e delle strutture a supporto “narrativo” dell’esposizione, così come sono state studiate e presentate dall’architetto Sergio Pella. Sostanzialmente tali contenuti tengono conto di due esigenze interagenti: da un lato quella del rispetto dei significati e valori storici intrinseci della sala e dall’altro quelli dell’uso non solo “museale” della stessa. Il progetto presentato si configura come una mediazione fra le due esigenze (l’unica forse possibile) che non consente tuttavia diverse e molteplici utilizzazioni degli spazi, ma al contrario limita fortemente le scelte di linguaggio e di percorso espositivo. Né poteva essere diversamente se si considera da un lato il limitato perimetro e dall’altro la simbologia del luogo, il suo legame definito con una precisa situazione storica, pur carica di forti contenuti ideali che travalicano la semplice contingenza e giungono a noi con un bagaglio di suggestioni, valori, uomini, fatti e luoghi di enorme rilevanza. Detto tutto ciò è impensabile costruire all’interno del progetto un discorso autonomo, che non sia cioè in stretta relazione con l’ambiente e le strutture, anche se occorre segnalare come la scelta dei supporti metallici suggerisca di tener conto dello specifico linguaggio dell’immagine, mentre la loro esplicita estraneità dalla sala, ci avverte delle distanze cronologiche tra fatti storici e ricostruzione storica, fra specifico appunto della sala e trasformazioni profonde intervenute, anche solo nel “modo” di guardare 126
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al periodo. In più occorre tener conto della “provvisorietà”’ della struttura a supporto, il suo essere “ospite” dell’ambiente, modificabile, estrapolabile: cosa questa che concorre a mantenere un giusto equilibrio fra le esigenze di cui sopra. Si può quindi concludere che i non più di 15 metri lineari a disposizione invitano e obbligano a scelte tematiche mirate, semplici, di facile leggibilità»3. Anche allora, quindi, il tema della comunicazione, del rapporto testoimmagini-documenti in una mostra, che voleva rappresentare e ricostruire avvenimenti storici complessi, era ben presente. «Percorso storico. All’interno di limiti ben definiti quali quelli strutturali, il percorso storico che ne deriva non può c he essere necessariamente, di sintesi, né è pensabile una suddivisione “a sezioni” dello stesso. Tuttavia è prioritaria a qualunque scelta di percorso espositivo, l’esigenza di evidenziare, anche se sinteticamente, l’unicità dell’esperienza storica della lotta di liberazione in Ossola. Tale unicità si deve poi configurare attraverso lo stretto rapporto fra particolare e generale, fra locale e nazionale, in cui lo spessore storico della Repubblica rappresenta lo specifico, originale e irripetibile. Tutto ciò è attuabile soltanto attraverso due ordini di scelte: a) quella dell’eloquenza propria delle immagini (percorso a sé stante non illustrativo degli scritti); b) quello dei supporti scritti (con doppio uso: didascalico e descrittivo la dinamica storica). Da simili, imprescindibili e forzate considerazioni, la scelta tematica a livello di immagini si riduce notevolmente rispetto alle esigenze espresse di coprire l’intero arco della resistenza ossolana, per concentrarsi sui 40 giorni della Repubblica. Ogni altro tipo di scelta risulterebbe infatti mortificata o impraticabile, per la scarsa simbologia delle immagini rispetto ai contenuti [...]. Il percorso sarà dunque duplice, con le immagini a testimonianza della vita, delle opere, delle volontà e degli atti espressi durante la Repubblica e con gli scritti usati per collocare l’intera esperienza nel quadro della lotta di liberazione in Ossola e in generale. La scelta delle immagini, a sua volta, dovrà possibilmente tener conto: a) del rapporto “d’azione” situazione-uomini, in cui l’evento coinvolge e spinge in campo forze che puntano a modificare le situazione esistente (dare il senso della lotta armata, del nemico, delle scelte, delle volontà); b) del contesto: non tanto geografico quanto politico-sociale (le libertà, 127
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gli atti, le scelte, le diverse opinioni, ecc.). Immagini e testi. Poiché è impensabile sperare (visti anche i tempi stretti di lavoro) nel ritrovamento di immagini inedite o sconosciute sul periodo, la scelta delle stesse andrà fatta tra quelle, non numerosissime, note e conservate o da privati o dalle associazioni o da questo Istituto. Più che sulla quantità, dunque, occorrerà puntare sulla “leggibilità”, con ricorso all’ingrandimento (anche del particolare) o all’accoppiamento. Oltre alle immagini fotografiche si potranno esporre (sempre con riproduzione fotografica) documenti, brani di essi, le testimonianze dell’attività della Giunta e della vita quotidiana (francobolli, annulli, tessere, giornali, ecc.). Per una corretta impostazione grafica [...] occorrerebbe fa ricorso a professionisti del settore. Gli scritti, a loro volta, dovrebbero servire al duplice scopo della didascalia e della costruzione di un autonomo percorso di lettura storica. Fra la parte illustrativa e quella scritta non didascalica, non vi sarà dunque un nesso consequenziale (una non illustra l’altra, né questa spiega la prima), bensì un rapporto d’insieme. Agli scritti il compito di collocare gli eventi, alle immagini quello di evocare le situazioni. Questo tipo di scelta espositiva di materiali riprodotti fotograficamente, evita infine il problema, di enorme difficoltà, di documentazione originale, comunque improponibile all’interno di una struttura come quella data. Non sarebbe male però se all’ingresso della sala venissero affissi i manifesti della Giunta e un richiamo cartografico che delimiti i confini della Repubblica e richiami le linee d’azione delle varie formazioni partigiane per la liberazione dell’Ossola. Uso della sala. Così concepito, il progetto di allestimento che ne deriva non si presta evidentemente ad un uso diretto in termini didattici, ma la visita di scolaresche, se guidate, potrebbe essere fonte di notevoli stimolazioni propedeutiche a ricerche sul campo o nelle rispettive sedi. Eventualmente, la messa a disposizione del pubblico giovane di sussidi bibliografici, di schede e di indicazioni archivistiche faciliterebbe molto questo “effetto” visita. Genericamente, comunque, la sala si presta ad un uso che potremmo definire ’promozionale’ della conoscenza e della riflessione storica sui venti mesi della resistenza ossolana e sui ’40 giorni’ di libertà»4. Il 9 maggio successivo, l’assessore Cattrini risponde alle «considerazioni preliminari»: «A larga maggioranza, una sola astensione, il Comitato ha accolto favorevolmente le Sue valutazioni [...] Le siamo, pertanto, grati se 128
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continuasse la Sua proficua collaborazione con il Comitato, per giungere alla proposta definitiva dell’allestimento della sala storica»5. Ovviamente accetto, anche perché da un lato l’iniziativa mi interessa e dall’altro non saprei più come sfuggire. Inoltre sono impegnato anche in altre attività messe in cantiere dall’Istituto e dal Comitato per il 40° anniversario6. Ciò che più mi preoccupa però è il poco tempo a disposizione: non più di tre mesi e devo ancora stendere il progetto definitivo, iniziare le ricerche, selezionare i materiali documentari, scrivere tutti i testi. Mi affianca nel lavoro il fotografo domese Emilio Gnuva che si rivela non solo un bravo professionista, ma un vero amico, paziente e disponibile alle mie continue richieste. In quell’estate del 1984, grazie anche ai preziosi consigli di alcuni componenti il Comitato, come il giornalista e storico ossolano Paolo Bologna, gireremo archivi, case, Istituti riproducendo centinaia di immagini e documenti. Nel frattempo ho steso e inviato il progetto al Comitato. Due le novità rispetto alle considerazioni preliminari: con un escamotage (raddoppio delle bacheche: sotto quelle a parete se ne aggiungono altrettante a sbalzo) l’architetto è riuscito a raddoppiare gli spazi espositivi, mentre è stato deciso di ristrutturare il grande tavolo di legno a forma di ferro di cavallo, che occupa il centro della sala, e che, opportunamente ricoperto di cristalli, consentirà di esporre altri documenti e immagini. Questa nuova situazione ha permesso di venire incontro a diverse richieste e consentito di risolvere alcuni problemi: a disposizione vi sono ora 12 pannelli a muro di cm. 85x85 e 4 di cm. 130x85 con altrettante bacheche a sbalzo. Le prime potranno contenere venti ingrandimenti di immagini simboliche (senza inutili didascalie), le seconde tutti i testi, che potranno a loro volta essere accompagnati da piccole mappe che evidenzieranno luoghi e itinerari. Inoltre, in fondo alla sala sarà possibile esporre il Gonfalone della città e una grande carta geografica che riproduca i confini della Repubblica dell’Ossola. Anche la medaglia d’oro con la relativa motivazione potrà essere esposta al tavolo7 assieme con i principali documenti prodotti dalla Giunta provvisoria di Governo dell’Ossola oltre ad altri preziosi materiali. Non si riuscirà, invece, ad attrezzare la piccola sala d’ingresso (dove oggi è stata allestita la postazione multimediale), occupata dalla telefonista del Comune, in cui è prevista una mostra permanente delle pubblicazioni inerenti la storia della resistenza in Ossola. In ogni caso, la disponibilità di nuovo spazio alleggerisce i problemi di 129
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scelta e consente, come detto, qualche concessione alle «pressioni» del Comitato che, pur approvando l’impianto del lavoro, vuole una storia della resistenza ossolana e non, come sarebbe mia intenzione, una ricostruzione più puntuale del lavoro della Giunta e della vita delle città e delle valli durante i quaranta giorni di libertà. Io penso, infatti, ad un territorio dell’intero Verbano Cusio Ossola ricco di «luoghi» della memoria attrezzati che definiscano un ideale e concreto percorso per viaggiatori interessati e curiosi. I tempi però non sono ancora maturi e, a parte il piccolo museo partigiano di Villadossola, la Casa degli «azzurri» ad Ornavasso e, soprattutto, la Casa della Resistenza di Fondotoce sono solo progetti o sogni tutti da realizzare. Così, accetto il primo «compromesso» e stilo le schede di seguito pubblicate cercando di rispettare l’esigenza di una ricostruzione, per quanto sommaria, della resistenza nella zona. Riletti a tanti anni di distanza quei testi mi sembrano pienamente rispondenti alla storiografia del periodo8: alla ricostruzione degli aspetti militari, si affiancano spunti e riflessioni di carattere sociale; ma sono ancora lontani da quanto solo qualche
La Sala storica di Domodossola prima della ristrutturazione
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anno più tardi sarebbe emerso dalle ricerche e dalle riflessioni, in particolare su temi quali quelli di «resistenza civile», di «compromissione popolare» per dirla con Gianfranco Contini, mentre non v’è traccia, né poteva esserci, di quanto solo recentemente viene dibattuto e realizzato a proposito di «luoghi della memoria» di «sentieri della libertà» e soprattutto di «storia per strada». Dunque, mentre ripropongo quell’«antico» lavoro penso alla recente ristrutturazione e alla promessa di dare finalmente corso ad una guida alla Sala storica. Penso anche, che forse si sarebbe potuto rivedere totalmente i testi e non già semplicemente ridurli. La ricerca nei vent’anni trascorsi ha fatto emergere nuovi documenti e nuove immagini, allargato lo spettro dei problemi e dei temi da affrontare. Di più, oggi i sentieri, gli itinerari e i luoghi attrezzati della Resistenza nella zona sono una realtà. Forse, con più tempo e soldi a disposizione, si sarebbe potuto o dovuto cambiare tutto. Forse....altri in futuro lo faranno. I testi originali della mostra Parete Riquadro basso n. 1 Le origini del movimento partigiano nell’Ossola, come nel resto dell’Italia centrale e settentrionale, risalgono al periodo immediatamente seguente l’8 settembre 1943, giorno in cui viene reso pubblico l’armistizio firmato cinque giorni prima tra il comando anglo-americano e il comando supremo italiano. Tale armistizio e la precipitosa «fuga» del re e degli alti comandi militari hanno provocato lo sfascio dell’esercito, rendendo così agevole l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe tedesche. In alcune zone del Paese e all’estero reparti italiani resistono ai tedeschi, ma vengono presto sopraffatti. Al pari di altre valli alpine, anche l’Ossola diviene ricettacolo di gruppi di militari sbandati che tentano di sottrarsi alla deportazione in Germania, di antifascisti, di prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento italiani, di ebrei che cercano rifugio nella vicina Svizzera. L’occupazione della provincia di Novara ha inizio il 12 settembre: dopo il capoluogo, truppe della Werhmacht e delle SS (in particolare due compagnie della divisione corazzata SS Liebstandarte «Adolf Hitler») si installano a Stresa, Baveno, Verbania e Domodossola assumendo il controllo di impianti 131
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idroelettrici, linee ferroviarie, posti di confine e di altri obiettivi militari. Al clima di incertezza e di paura di quei giorni (fra le prime «azioni» dei nazisti vi è infatti lo sterminio di ben 56 ebrei rifugiatisi nei paesi attorno al laghi Maggiore, Orta e Mergozzo), si assiste a poco a poco ad una vera e propria rivolta morale delle popolazioni, che aiutano in ogni modo i militari, i prigionieri, i perseguitati politici e razziali. Mentre da un lato, proprio grazie al carattere di quella occupazione, prende corpo la riorganizzazione politica e militare del fascismo, dall’altro, con la creazione della Repubblica sociale italiana, inizia l’embrionale rete di resistenti in Ossola. Dalla gran massa di militari che salgono in montagna, una larga parte passa il confine e si rifugia in Svizzera, altri tornano verso i propri paesi d’origine, ma non pochi decidono di restare e resistere. A questo moto spontaneo di ribellione, che forma l’ossatura delle prime formazioni partigiane e che esprime i propri comandanti in figure che presto diverranno leggendarie, si affianca l’attività di collegamento e di organizzazione dei «vecchi» antifascisti, di intellettuali e uomini politici di diverse tendenze, nonché la vera e propria insurrezione degli operai delle fabbriche e delle centrali elettriche. Dall’incontro, lento e irto di difficoltà, di queste tre componenti ha origine la resistenza armata al nazifascismo nelle valli dell’Ossola. Parete Riquadro basso n. 2 Dei diversi gruppi di resistenti che si formano, alcuni hanno vita effimera, altri invece costituiscono il fulcro delle future, gloriose formazioni partigiane che tanta parte avranno nel corso della lotta di liberazione in Italia. I principali di questi gruppi sono quello di Quarna, al comando del capitano Filippo Maria Beltrami: quello di Dionigi Superti, installatosi a Premosello all’imbocco della Valgrande e che fin dall’inizio si presenta come una vera formazione partigiana (parzialmente armata, conta una settantina di uomini tra ufficiali e partigiani); quelli di Mario Muneghina a Montecrestese e di Renato Cucchi all’imbocco della Valle Antigorio. Gruppi minori sono infine al Devero, in Valle Antigorio, a Formazza e al Lusentino. Di grande importanza anche la presenza di Pippo Coppo, che assicura il collegamento fra l’Ossola e i primi, ma già rilevanti nuclei di garibaldini della Valsesia, nonché di Bruno Rutto e dei fratelli Alfredo e Antonio Di Dio in Valle Strona. Nel Verbano, infine, si costituisce un grup132
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po di resistenti sopra Intragna alle dipendenze del tenente Franco Plazzotta, gruppo che sarà raggiunto a novembre da Armando Calzavara che ne diverrà il comandante. In tutta la provincia intanto si formano centri clandestini di resistenza ad opera di antifascisti di diversa ispirazione politica. A Novara, Borgosesia, Arona, Borgomanero, ecc. comunisti, socialisti e democristiani (oltre a uomini di ispirazione liberale e azionista) gettano le basi per la costituzione dei Comitati di Liberazione. Proprio ad Arona, il 21 settembre, si costituisce il primo CLN provinciale con Alberto Jacometti (socialista), Vittorio Flecchia (comunista), subito sostituito da Carletto Leonardi, e da Carlo Torelli (democristiano). Vengono così istituiti fiduciari di zona con il compito di collegare l’attività dei gruppi partigiani, nonché di organizzare il trasferimento oltre confine dei prigionieri alleati, degli ebrei perseguitati, di cercare collegamenti con i centri di Milano e Torino, di raccogliere fondi, armi e viveri per i resistenti, di creare un’efficiente rete di informazioni. Nel vicino Verbano tale compito è affidato a Natale Menotti, democristiano, mentre in Ossola fiduciario di zona è Ettore Tibaldi, socialista: Nelle fabbriche di Villadossola, Pieve Vergonte e Domodossola, oltre che alle centrali elettriche e alle dighe in Valle Antigorio, Formazza, Devero e Antrona si formano gruppi armati di operai. Questi gruppi sono collegati al centro di Tibaldi a Domodossola attraverso il lavoro e la direzione di uomini quali Erasmo Tosi, i comunisti Giacomo Roberti, Redimisto Fabbri, Dante Zaretti, Oreste Colombo, i socialisti Pirazzi Maffiola e Paolo Ferraris ed anche, per i democristiani, da don Cabalà e don Zoppetti. Il problema principale di tutti questi gruppi è quello delle armi, problema che viene subito affrontato con azioni diffuse ma sporadiche, con iniziativa ed entusiasmo. Assalti a caserme e presìdi, viaggi a Milano con ogni mezzo possibile, recupero di materiale abbandonato dai militari dopo l’8 settembre, sono i principali modi di rifornimento. In quest’opera spicca il lavoro audace e intelligente dei fratelli Ottavio e Mirko Scrittori di Villadossola. Parete Riquadro basso n. 3 Il primissimo nucleo di resistenti in Ossola si forma per opera di Fernando Calzetti, «Nando», alla testa di un gruppo di operai, che nel pome133
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riggio del 9 settembre approfittando dello sbandamento creato dalla notizia dell’armistizio si presenta alla caserma Urli di Domodossola e, in cambio di vestiti, si fa consegnare armi dai militari in procinto di partire. Due giorni dopo, a Caddo, al gruppo di «Nando» si unisce un altro gruppo formato da militari della Guardia di Finanza, al comando di Giuseppe Chiodo Piconi. Dal comune intento di combattere i nazifascisti, pur per motivi diversi, ma nel rispetto delle rispettive posizioni ideologiche e politiche, il gruppo, che conta una trentina di uomini, si installa all’Alpe Lusentino e sulle alture sopra Domodossola e si dà il nome di «Banda Libertà». Per uscire dal relativo isolamento e per superare i problemi di armamento e vettovagliamento, il gruppo cerca subito collegamenti con il centro di Domodossola. E’ Erasmo Tosi, inviato dai socialisti Corrado Bonfantini e Francesco Albertini, a creare tale collegamento con Tibaldi e don Cabalà, con gli altri nuclei di resistenza e con Paolo Ferraris a Masera. Preziosissima è in questa fase l’opera di Ada Innocenti che assicura al gruppo rifornimenti d’ogni tipo provenienti da semplici cittadini e dal Collegio Rosmini, che fin dall’inizio si mostra quale vero e proprio centro attivo di resistenza. Inoltre, Ada Innocenti si preoccupa anche di far circolare il foglio «La Voce della Montagna» che è la «voce» della banda. Le prime azioni compiute sono alla caserma Paglino-Iselle e a quella di Crevoladossola per raccogliere armi, alla strada della Val Bognanco per bloccarla. Ma sono proprio queste azioni che convincono i nazifascisti della pericolosità della banda e che li spingono ad agire, specie dopo un ennesimo «prelevamento» di armi a Domodossola e un’irruzione alla caserma della Guardia di Finanza ad opera di Giacomo Roberti, di Aldo Oliva, di Renato Vanni, di Luigi Boghi, di Silvestro Curotti, di Paolo Olzer e di altri componenti il gruppo. I tedeschi riescono, infatti, ad infiltrare due spie, una delle quali dopo uno scontro con i partigiani Olzer e Vivarelli, pur ferita riesce a salvarsi. Riconoscerà, dopo il rastrellamento effettuato in seguito all’insurrezione di Villadossola, alcuni partigiani della banda che arrestati, verranno condannati a morte e poi, graziati, inviati in campo di concentramento in Germania: sono Fernando Calzetti e Solaro. Il rastrellamento segna la fine della breve vita della «Banda Libertà», che pur non avendo partecipato direttamente all’insurrezione di Villadossola, è fra gli obiettivi dei nazifascisti. Nella rete cadono ad uno ad uno molti dei suoi componenti: Luigi Boghi, Rastelli, Guido Vivarelli, Giuseppe Giudici, Bruno Matli, Ermi134
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nio Marini, Guido Falcaro, Osvaldo Giovannone, Paolo Steffanino, Paolo Genini, Ernesto Conti, Remo Busca. Processati l’8 dicembre 1943 a Novara, vengono tutti condannati a morte tranne Aldo Rastelli e Paolo Genini, l’uno assolto e l’altro condannato cinque anni. Luigi Boghi e Remo Busca sono «graziati» e inviati in campo di concentramento in Germania. Gli altri giovani vengono invece fucilati al poligono di tiro di Novara. I superstiti, comunque, non si disperderanno continuando la lotta chi nelle fila garibaldine, chi nelle future formazioni «Beltrami» e «Valtoce». Alcuni di loro daranno la loro vita in combattimento. Sono: Silvestro Curotti, Agostino Pasolini, Aldo Oliva, Fermo Carina. Amabile Ceccon e Ferruccio Marchioni. Parete Riquadro basso n. 4 Il primo grande scontro dell’Ossola e il primo episodio insurrezionale di tutta la resistenza italiana, avviene a Villadossola nei giorni 8 e 9 novembre 1943. L’azione è decisa alla Pianasca dal gruppo di partigiani guidati da Renato Cucchi e Gianni Ornaghi in accordo con Redimisto Fabbri, animatore dei partigiani e degli operai di Villadossola, assieme con Dante Zaretti, Mario Benini, i fratelli Scrittori, Giovanni Zaretti. Il piano che viene comunicato anche agli altri gruppi operanti nella zona, consiste nell’occupazione militare della città e nella contemporanea insurrezione operaia delle fabbriche. A questo scopo ogni partigiano avrà con sé più armi da distribuire. Alle 10 del mattino del giorno 8, ha inizio l’operazione con l’occupazione dell’ufficio postale e delle caserme dei carabinieri e della finanza. Un gruppo di partigiani, guidati da Benini, si porta verso Trontano per attaccare con un altro gruppo il comando tedesco di Masera. Le fabbriche intanto sono in rivolta e si susseguono gli scontri a fuoco con morti e feriti: fra questi lo stesso Fabbri che è trasportato all’ospedale di Domodossola. Viene altresì deciso di attaccare il presidio tedesco della valle Antrona, verso il quale parte una trentina di partigiani. Nell’azione portata a termine con successo, cadono due giovanissimi: Silvio Boccaglio e Dante Semirari. I vari tentativi dei nazifascisti, succedutisi durante tutta la giornata di rientrare in Villadossola, vengono respinti con successo. L’entusiasmo è enorme: il gruppo di Mario Benini, che non ha trovato i tedeschi a Masera, 135
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ha nel frattempo interrotto la linea ferroviaria della «Vigezzina». Al rientro, ha inoltre uno scontro a fuoco con un gruppo di fascisti. Il successo militare e la combattività dimostrata, nonché l’appoggio della popolazione agli insorti, spingono a quel punto i nazifascisti ad un’azione di forza in grande stile. Nella mattinata del 9 novembre, infatti, dopo un bombardamento aereo che causa quattro morti tra i civili (Ines Zanotti, Olga Zanotti, Mario Bosio e Annibale Dell’Orto) e numerosi feriti, una colonna motorizzata tedesca e un treno carico di fascisti entrano in città. La difesa è a quel punto insostenibile: i partigiani sono costretti a ritornare in montagna. Per ben due giorni si scatena il rastrellamento e la rappresaglia che porta all’arresto di numerose persone. L’11 novembre a Pallanzeno vengono fucilati, dopo essere stati torturati: Redimisto Fabbri, Andrea Comina, Italo Finotto, Albino Valdré e Giuseppe Preioni. Altri partigiani e operai vengono arrestati nei giorni successivi. Trasportati a Novara vengono processati e quasi tutti condannati a morte. A più riprese, tra il 23, il 28 dicembre 1943 e l’8 febbraio 1944 vengono fucilati: Novello Bianchi, Franco Balzani, Riccardo Rossi, Ernesto Conti, Erminio Marini, Osvaldo Giovannone, Bruno Matli, Giuseppe Giudici, Guido Falcaro, Paolo Steffanino, Guido Vivarelli, Giuseppe Bianchetti. Altri nove (Gino Arioli, Pilade Bertolazzi, Dulio Bertaccini, Luigi Boghi, Idillio Brandini, Remo Busca, Romualdo Casdei, Enea Rinaldi, Rino Zanelli) sono deportati in Germania. L’insurrezione di Villadossola è stata indubbiamente un’azione prematura sul piano militare: è costata circa quaranta vittime e ha lasciato gravi conseguenze sulla nascente organizzazione partigiana della zona. Tuttavia, si è rivelata, non solo sul piano dimostrativo, un’azione di grande importanza avendo mostrato per la prima volta l’unità d’intenti e d’azione fra operai, partigiani e popolazione. Inoltre, anche se in modo ancora insufficiente, ha visto l’adesione concorde di vari gruppi partigiani che si sono mossi, nei limiti delle loro reali possibilità, a sostegno dell’insurrezione. Così, Mario Muneghina con l’assalto ad una colonna di tedeschi, così Filippo Maria Beltrami che ha attaccato il presidio di Gravellona, così in Val Vigezzo e dintorni ove si sono verificate sommosse minori. Parete Riquadro basso n. 5 A seguito dell’insurrezione di Villadossola, la sorveglianza e la persecu136
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zione dei nazifascisti si fa più serrata e scrupolosa. Chi non è arrestato (come Francesco Albertini e Paolo Ferraris, ambedue deportati a Mauthausen, da dove solo il primo riuscirà a tornare) è costretto a riparare in Svizzera, sorte che tocca ad Ettore Tibaldi. L’inverno alle porte si presenta assai difficile per i gruppi superstiti in Ossola, che sono costretti a stare nascosti. Alla fine di novembre, tuttavia, i partigiani di Beltrami nel Cusio e quelli di Moscatelli in Valsesia, solo parzialmente investiti dal rastrellamento, operano un’azione dimostrativa congiunta in Omegna che serve oltre che a cementare i rapporti tra le formazioni, a rincuorare la popolazione e i partigiani sparsi sulle montagne, nonché a convincere il nemico che il movimento non è stato sconfitto. La «calata» ha pieno successo. Ma le difficoltà che si sono venute a creare (molti di coloro che all’inizio avevano pensato ad una rapida soluzione del conflitto, abbandonano le formazioni) si moltiplicano e costituiscono un fertile terreno per spie e provocatori. Vittima principale di queste manovre organizzate dai nazifascisti è proprio il gruppo di Beltrami, che pur essendosi ingrossato a fine dicembre con l’unificazione al gruppo di Alfredo Di Dio (la nuova formazione prende il nome di «Brigata Patrioti Valstrona», valle in cui il gruppo si trasferisce), presenta un progressivo sfaldamento delle sue fila. Per porre rimedio a tale situazione il Capitano ha bisogno di tempo. Così, mentre pensa di trasferire il meglio dei suoi uomini in Ossola, ove riorganizzarsi per riprendere la lotta, accetta di incontrare il nemico e avvia trattative, attraverso la mediazione del Vescovo mons. Leone Ossola, per creare zone franche e avere periodi di tregua. Tali trattative sono malviste dai garibaldini e avvengono in una situazione di oggettiva debolezza (nonostante servano a liberare ostaggi e prigionieri). Verso la fine del gennaio 1944, mentre la formazione è sparpagliata in diverse zone, priva di collegamenti, Beltrami decide di accelerare il trasferimento in Ossola nel tentativo di sottrarsi ad un ormai imminente attacco nemico. In realtà tale decisione viene presa su false informazioni che continuamente e contraddittoriamente gli sono fatte pervenire. Il trasferimento crea un ulteriore sbandamento, isolando il gruppo di Beltrami che finirà per trovarsi in una trappola mortale. A Megolo, infatti, il 13 febbraio 1944, il gruppo viene attaccato in forze. Beltrami decide comunque di accettare il combattimento: per cinque ore i partigiani (una cinquantina) riescono a tenere testa alle forze nemiche, poi, privi di munizioni e quasi completamente accerchiati devono soccombere. Accanto al Capitano muoiono undici suoi compagni. Sono gli ufficiali Antonio 137
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Di Dio e Gianni Citterio e i partigiani Carlo Antibo, Paolo Bressani Bassano, Aldo Carletti, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta, Elio Toninelli. La battaglia di Megolo pone fine alla «Brigata Patrioti Valstrona» e insieme con essa alla prima fase del periodo della resistenza ossolana, fase ricordata nel segno della straordinaria figura di Beltrami. Parete Riquadro basso n. 6 La morte di Beltrami, figura leggendaria, amata dalla popolazione e da tutti i partigiani, segna una svolta profonda nel modo di condurre la lotta armata al nazifascismo. Paradossalmente, è proprio attraverso la sconfitta e la perdita del principale simbolo della prima fase della resistenza, che le formazioni partigiane rinasceranno su basi nuove e andranno via via rafforzandosi sino a diventare un vero e proprio esercito di liberazione. L’illusione fascista e nazista d’aver spezzato sul nascere il movimento si rivela effimera. A nulla servono i nuovi bandi di richiamo alle armi che Mussolini periodicamente emana. La grande maggioranza dei giovani non solo non aderisce, ma si dà alla macchia e raggiunge le ricostituende formazioni partigiane. Accanto alla ribellione dei giovani, gli operai delle fabbriche, con scioperi sempre più numerosi e con rivendicazioni sempre più apertamente politiche, isolano di fatto la Rsi, che si rivela uno stato di polizia repressivo senza alcun seguito e credibilità nel Paese. Le montagne dell’Ossola tornano ad essere sicuro rifugio e una base preziosa per i «ribelli» che vanno riorganizzandosi. Le nuove formazioni nascono su presupposti diversi sia in termini militari, con una più marcata fisionomia numerica e organizzativa, sia sotto l’aspetto politico reclamando ognuna la propria identità ideologica. Dalla confinante Valsesia i garibaldini di «Cino» Moscatelli e «Ciro» Gastone inviano tre distaccamenti (il «Fanfulla» al comando di Aldo Aniasi, nella zona dell’Alpe Sacchi, il «Torino» di «Boris» e Andrea Cascella sopra Ornavasso e un terzo in Valle Anzasca al comando di Dino Vicario), che in seguito formeranno la II divisione d’assalto Garibaldi «Redi». Alfredo Di Dio, già responsabile militare della «Brigata Patrioti Valstrona» è invece l’animatore di una nuova formazione che prenderà il nome di «Valtoce», costituita essenzialmente attraverso il reclutamento di giovani 138
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cattolici che da Novara, Omegna e Borgomanero, grazie a Gino Borgna, don Antonio Vandoni e don Gerolamo Giacomini, vengono indirizzati in montagna. Di Dio darà un’impronta prettamente militare e apolitica alla formazione appoggiandosi sia ai gruppi democristiani dell’Alto milanese sia agli ambienti socialisti di Corrado Bonfantini e Mario Greppi. Anche Dionigi Superti ricostruisce il battaglione «Valdossola» su basi militari. La sua personalità e il fascino che il suo nome suscita tra i partigiani caratterizzeranno fortemente la nascente formazione che avrà contatti e rapporti con tutte le forze politiche e un rapporto privilegiato con gli alleati in Svizzera. Quarta importante formazione è quella dedicata a «Filippo Maria Beltrami» riorganizzata ad opera di Bruno Rutto, che saprà raccogliere l’eredità di uomini e di idee del Capitano. Infine fra la Val Vigezzo, la Val Cannobina e il Verbano nascerà la divisione «Piave», formatasi dall’unione della «Cesare Battisti» di Armando Calzavara e la «Generale Perotti», di Filippo Frassati. Parete Riquadro basso n. 7 Tutte le formazioni riprendono con vigore la lotta. La primavera del 1944 vede, infatti, numerose azioni partigiane e altrettanti episodi di resistenza attiva da parte della popolazione. Gli operai intensificano gli scioperi in quasi tutte le fabbriche del Cusio, del Verbano e dell’Ossola. Il dissenso all’occupazione tedesca e alla repressione fascista si manifesta apertamente. A Domodossola, gli studenti delle medie del Collegio Rosmini, costretti ad assistere ad un film di propaganda, fischiano la proiezione. Sulle montagne si moltiplicano gli scontri e le imboscate. La rappresaglia non tarda a venire. A Forno in Valle Strona, il 9 maggio, la tristemente nota «Legione Tagliamento» assale un ospedaletto garibaldino uccidendo sette feriti ricoverati e due medici. Poi a Chesio sorprende una pattuglia della «Beltrami» e fucila sei partigiani sulla piazzetta del paese. Decine sono gli episodi di eroismo. A Oira di Cesara, il 3 giugno, una volante della «Beltrami» dopo aver recuperato prezioso materiale da un lancio alleato, è sorpresa da una compagnia tedesca comandata dal capitano Ernst Simon (il «vincitore» di Megolo). Mentre i partigiani cercano di raggiungere la boscaglia, il domese Silvestro Curotti, «Dom», deci139
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de di rimanere per proteggere la ritirata dei compagni. Per quattro ore tiene testa ai ripetuti assalti e agli inviti alla resa. Riserva per sé l’ultimo colpo rimastogli. Lo stesso nemico gli concede l’onore delle armi. Alla memoria, sarà concessa al partigiano «Dom» la medaglia d’oro al valor militare. Il mese di giugno è un mese decisivo per le sorti della guerra: il giorno 4 gli angloamericani hanno, infatti, liberato Roma, mentre il giorno 6 hanno dato il via alla liberazione dell’Europa occidentale con l’imponente sbarco in Normandia. Sul fronte orientale, inoltre, i sovietici danno inizio a una formidabile offensiva sulla linea baltica e bielorussa che travolge in breve le armate nemiche. Questi fatti, che la propaganda fascista non riesce a nascondere, creano anche tra le nostre montagne la sensazione che la sconfitta del nazifascismo sia imminente e spingono tutte le forze partigiane ad intensificare la loro attività al fine di impegnare al massimo le retrovie tedesche. Così, ad esempio, il 10-11 giugno le formazioni garibaldine della Valsesia riescono a liberare l’intera valle e a mantenerla tale sino al 4 luglio. Parete Riquadro n. 8 Il ripiegamento nazista da tutti i fronti e l’approntamento di nuove linee difensive abbisogna di retrovie sicure, con la possibilità di utilizzare al massimo le linee di comunicazione e gli impianti produttivi. Il movimento partigiano è perciò un pericolo mortale per la Germania, in Italia come nei restanti paesi occupati. L’ultimo bando di richiamo alle armi, con relativa promessa ai «ribelli» di un generale «perdono», voluto da Mussolini, è scaduto il 25 maggio, dando scarsi risultati. Al contrario, tutte le formazioni partigiane registrano in quei mesi un notevole aumento dei propri effettivi. Il Lago Maggiore e l’Ossola sono vie decisive per i tedeschi, che decidono di «ripulirle» definitivamente dai ribelli. Con largo impiego di uomini e mezzi corazzati e d’artiglieria, dall’11 al 30 giugno, dopo aver bloccato tutto il traffico ferroviario, stradale e lacustre nella zona compresa nel quadrilatero Piaggio Valmara, Pallanza, Masera, Val Vigezzo, rastrellano spietatamente la Valgrande. A sopportare il peso dell’attacco sono la «Valdossola» di Dionigi Superti, la «Cesare Battisti» e la «Giovane Italia». In tutto non più di 400-500 partigiani contro 5-6 mila nazifascisti. La resistenza 140
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è strenua e l’operazione non si svolge né con la rapidità, né con la facilità previste. Ovunque i partigiani si battono con coraggio, ma il rastrellamento più che un’operazione militare è una vera e propria caccia all’uomo, che mira a spezzare il legame fra la popolazione e i ribelli. Durante i venti giorni in cui dura il rastrellamento, cadono in combattimento o sotto le fucilazioni quasi trecento fra partigiani e civili. Il territorio viene sconvolto: case, baite, alpeggi bruciati o distrutti e la valle non riuscirà mai più a riprendere, nemmeno a guerra finita, l’antica fisionomia. Innumerevoli sono gli episodi e gli atti che testimoniano la spietatezza dei nazifascisti, che si accaniscono non solo contro i partigiani, ma anche contro gli alpigiani rei d’aver sempre dato loro rifugio. A Fondotoce, il 20 giugno, per suggellare il carattere terroristico dell’operazione, 43 partigiani (fra cui una donna, Cleonice Tomassetti) arrestati nei giorni precedenti, vengono fucilati dopo essere stati torturati e fatti sfilare da Intra alla crociera. Durante tutto il corteo gli stessi hanno dovuto portare un cartello con scritto: «Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono banditi?». Dei 43 fucilati, il giovane Carlo Suzzi riesce miracolosamente a salvarsi: ferito, sarà soccorso dai cittadini accorsi sul posto. Il giorno dopo altri diciassette giovani vengono fucilati a Baveno. Fondotoce diventa da allora il simbolo della resistenza di tutta la provincia. Con quel massacro non solo i nazifascisti non sono riusciti a scalfire il rapporto partigiani-popolazione, ma lo hanno ancor più cementato. La lotta non verrà, infatti, minimamente interrotta: le brigate partigiane diventano divisioni, per il numero sempre crescente di uomini e donne che decidono di combattere con ogni mezzo il nazismo e il fascismo. Parete Riquadro basso n. 9 Nei mesi di luglio e agosto la pressione partigiana sui presìdi tedeschi e fascisti nelle valli, logora il già incerto spirito combattivo dei militi, che avvertono il senso di imminente sconfitta: così, è in seguito ad una serie di fortunati attacchi, spesso congiunti, dei vari reparti delle diverse formazioni, come avviene nella battaglia del Massone ai primi di agosto, o nei ripetuti attacchi ai treni che trasportano georgiani e cecoslovacchi, che abbandonano le fila naziste. In una di queste azioni, cade Paolo Stefanoni al quale verrà intitolata una brigata della «Valtoce». La reazione di tedeschi e fa141
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scisti è sporadica, spesso isterica, ma sempre spietata. Il 6 agosto ad Anzola d’Ossola, tredici partigiani di una brigata della «Beltrami», al ritorno della battaglia del Massone, si scontrano con un reparto tedesco che riesce a circondarli. La resistenza, pur accanita, è vana. Alcuni cadono in combattimento, altri, feriti, vengono trucidati. Sono: Giovanni Bagaini, Riccardo Mira D’Ercole, Giuliano Ferri, Armando Rizzolo, Luigi Rossi, Ernesto Morea, Leopoldo Mordenti, un greco e un cecoslovacco. Così all’Alpe Grandi dove sei partigiani sempre della «Beltrami» sono passati per le armi. A Premosello Chiovenda, infine, durante un’azione di rappresaglia, un reparto tedesco si abbandona a uccisioni gratuite e occasionali. Quattro civili (Emma Nini, Alfredo Pozzi, Bartolomeo Borretti e Giuseppina Canna) scelti a caso sono assassinati, molte case vengono incendiate e distrutte. L’iniziativa è comunque ormai saldamente nelle mani partigiane che sono all’offensiva sui vari fronti ossolani. Il nemico si ritira sempre più nei presìdi fortificati, senza alcuna possibilità di manovra e di controllo del territorio. A Omegna, il 10 agosto, delegati delle formazioni «Valtoce» e «Beltrami» firmano con il comandante tedesco Krumhaar una convenzione che dichiara la città zona neutra. Il 28 la convenzione viene ratificata. L’atto è aspramente contestato dai garibaldini. Un certo attrito si crea fra le diverse formazioni, che hanno modi diversi di intendere e interpretare la lotta al nemico. Questi attriti avranno ripercussioni anche in seguito, all’atto della liberazione della Val d’Ossola, ove la mancanza di coordinamento delle azioni militari provocherà notevoli problemi. Parete Riquadro basso n. 10 Nel corso dell’offensiva partigiana, iniziata in agosto, i garibaldini liberano ad una ad una le valli Anzasca, Antona e Bognanco. Il 7 e 9 settembre, infine, assaltano i presìdi di Varzo e Crevoladossola, «ripulendo» anche la Val Divedro. Qualche giorno prima i partigiani della «Cesare Battisti» e della «generale Perotti» hanno liberato, con un colpo di mano, l’importante città di Cannobio. Sull’onda del successo si sono spinti in Val Cannobina e in Val Vigezzo sino a Masera dove hanno costretto alla resa il presidio nazifascista. I pochi partigiani rimasti a Cannobio vengono però subito attaccati dal lago e da terra e sono costretti a soccombere. In questo 142
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scontro muoiono otto partigiani. Nel frattempo le divisioni «Valdossola» e «Valtoce» controllano tutte le linee di comunicazione con il basso Novarese e con la Lombardia. L’8 settembre, la «Valtoce» attacca con successo il munito presidio di Piedimulera, che sbarra la strada verso Domodossola. Al termine della dura battaglia i nazifascisti in fuga subiscono un nuovo attacco da parte della «Valdossola». L’Ossola intera è praticamente nelle mani dei partigiani. Il 9 settembre i garibaldini entrano in Villadossola, mentre nella notte stessa i comandanti della «Valtoce» e della «Valdossola» trattano la resa del capoluogo. Intermediari di tali trattative sono i parroci di Domodossola, don Luigi Pellanda e di Masera, don Baldoni. La resa si conclude con il plenipotenziario dei partigiani colonnello Attilio Moneta ed è la logica conclusione di una situazione divenuta insostenibile sia militarmente che psicologicamente dalle truppe nazifasciste presenti in Ossola. La mattina successiva quando le prime pattuglie entrano in città, questa è già in festa: ovunque spuntano bandiere tricolori, mentre le strade e le piazze si animano di persone. Subito appare il primo manifesto del «Comando militare» che annuncia l’avvenuta liberazione dell’intera vallata. Alla sera, dopo mesi di oscuramento, tutte le luci restano accese creando nell’animo degli ossolani la sensazione che l’incubo della guerra sia finalmente finito. 1600 chilometri quadrati e 70 mila persone, un piccolo fazzoletto di terra nell’Europa sconvolta dal conflitto, è libero. Per quaranta giorni, tanto durerà questa libertà, in Ossola si sperimenteranno embrionali, ma significative, strutture democratiche, si scriveranno e si vivranno con entusiasmo, partecipazione e consapevolezza incancellabili pagine di solidarietà umana e civile. Parete Riquadro basso n. 11 La liberazione non è avvenuta senza problemi e difficoltà. Il mancato coordinamento delle azioni militari denuncia ancora una volta l’esigenza di istituire un comando unico che sappia meglio organizzare le diverse iniziative, unificando comandi, servizi e collegamenti, nonché faccia superare le divisioni e le non uguali caratteristiche delle formazioni. Un esempio tragico ed eclatante degli effetti negativi di una simile carenza, è rappresentato dalla battaglia di Gravellona Toce che si svolge dall’11 al 13 settem143
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bre. In Gravellona, importantissimo nodo di collegamento fra Cusio, Ossola e Verbano si sono concentrate numerose forze soprattutto fasciste ritiratesi dall’Ossola. Riuscire a liberarla significherebbe garantire confini più sicuri all’intero territorio in mano partigiana, creando al contempo una base per un eventuale futuro allargamento dello stesso territorio. L’azione non viene tuttavia preparata e coordinata come richiederebbe, ma è opera dell’intraprendenza e del coraggio dei garibaldini della divisione «Redi», di un reparto di georgiani, di partigiani della «Beltrami» ed è sostenuta anche da reparti della «Valdossola» e della «Valtoce». Nessun comando superiore l’ha ordinata. L’attacco è quindi spontaneo, generoso, ma difficilmente realizzabile. La roccaforte fascista resiste coraggiosamente ai ripetuti assalti e a nulla servono gli atti di eroismo dei partigiani impegnati. Da Intra, per primi giungono a rinforzo reparti del «Venezia Giulia», altri arriveranno in seguito da Baveno e costringeranno i resistenti ad un difficile e sanguinoso sganciamento. Ben 29 partigiani e 5 civili cadono durante i combattimenti, numerosi sono i feriti. Altre difficoltà e problemi di carattere sia militare che civile si presentano comunque alle forze di liberazione. Innanzi tutto si devono approntare difese valide del territorio e ciò comporta un radicale mutamento nella mentalità dei partigiani abituati alla guerriglia e non alla difesa su posizioni statiche. Sul piano civile, poi, vi sono enormi carenze alimentari che reclamano interventi e soluzioni immediati, vi sono problemi di ripristino dell’amministrazione pubblica, di quella economica, di polizia, di giustizia, di istruzione, di igiene, di ripresa del lavoro, ecc. Ma è proprio a questo riguardo che si esalta l’entusiasmo e la maturità delle forze democratiche di liberazione, le quali dimostrano un altissimo livello di capacità e competenze. Sarà per il concreto lavoro messo in atto dall’amministrazione civile dell’Ossola liberata che quei quaranta giorni di libertà verranno ricordati come quelli della «Repubblica dell’Ossola». Parete Riquadro basso n. 12 Il comandante della formazione «Valdossola» Dionigi Superti, «anche in rappresentanza della altre formazioni», con un manifesto alla popolazio144
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ne, ordina la costituzione di una Giunta provvisoria di governo designandone anche i membri: il professor Ettore Tibaldi, socialista, quale Presidente, don Luigi Zoppetti, l’ingegner Giorgio Ballarini, indipendente, Giacomo Roberti, comunista, il dottor Alberto Nobili, liberale. In seguito, anche per l’intervento degli organismi centrali della resistenza italiana, i commissari di governo sono aumentati di numero per consentire una maggiore operatività e una più equa pariteticità nella coloritura politica della Giunta. Entrano il socialista Mario Bonfantini, l’azionista Severino Cristofoli, il democristiano Natale Menotti, la comunista Gisella Floreanini, la prima donna in Italia chiamata a responsabilità di governo. Don Zoppetti, destinato a far parte del Cln di zona, è poi sostituito da don Gaudenzio Cabalà, mentre anche al comunista Roberti, subentrerà il compagno di partito Emilio Colombo. Segretario della Giunta è Umberto Terracini che stila i verbali con grande precisione in tutte le numerose sedute, dalla prima dell’11 settembre sino all’ultima, il 15 ottobre, che si tiene in Valle Formazza essendo Domodossola già occupata dai nazifascisti. La Giunta affronta immediatamente i gravi problemi che la situazione ha creato, dimostrando non solo entusiasmo, ma una correttezza e una preparazione che ancor oggi stupisce. Il «fenomeno» Ossola varca presto i confini. La Giunta tratta subito con la vicina Svizzera (neutrale, ma attenta alle vicende dei confinanti ossolani) alcune questioni fondamentali. L’Ossola ha bisogno di viveri per la popolazione, in cambio offre prodotti industriali giacenti nelle fabbriche e scrupolosamente censiti dall’ingegner Cristofoli. Delegazioni elvetiche arrivano nell’Ossola e con loro, entusiasti giornalisti da tutto il mondo, che faranno conoscere all’opinione pubblica internazionale quel che sta succedendo in questo angolo d’Italia. «Il capo della giunta cura i contatti con il Cln di Milano e vi è un commissario per ciascuna delle seguenti branche: servizi pubblici, collegamento militare, amministrazione finanziaria ed economica, alimentazione, polizia, istruzione e igiene. Le officine lavorano regolarmente, i contadini attendono alle fatiche dei campi. La ferrovia delle Centovalli non ha subito interruzioni, limitato è invece il traffico sulla linea del Sempione», scrive un giornale svizzero. Importanti iniziative sono discusse e messe in opera. La giustizia (si rimette in funzione pretura e tribunale e le sentenze sono pronunciate in «nome della nazione») è affidata a Ezio Vigorelli. Tre mesi prima, durante il rastrellamento in Valgrande ha perso i suoi due figli, Bruno e Adolfo, ma non per questo dà un’impronta al suo ufficio nel segno della vendetta. So145
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no al contrario istituiti un campo di concentramento per fascisti a Druogno e la «Guardia nazionale», mentre una precisa norma regola gli arresti che devono essere notificati al giudice entro ventiquattro ore. Le denunce anonime vengono cestinate e nessuna condanna a morte viene eseguita. Inoltre, anche le interferenze delle formazioni partigiane sono messe sotto controllo: a loro il solo compito di polizia militare interna ai reparti. Viene messo ordine alla circolazione a motore. I partigiani devono rivolgersi all’Intendenza militare per le loro esigenze, mentre grazie alla ditta Moalli, sono ripristinati i collegamenti di autocorriere per le valli. Nelle fabbriche chimiche si produce una miscela per sostituire l’introvabile carburante, mentre quelle meccaniche producono armi e mezzi per il movimento partigiano. Sempre legalitaria, la Giunta chiede all’Upu, l’Unione postale universale con sede a Ginevra, l’autorizzazione per stampigliare i francobolli di uso corrente con la sovrastampa: «Cln-Giunta provvisoria dell’Ossola» (l’autorizzazione viene concessa, anche se giunge quando a Domodossola è già rientrata l’autorità di Salò). Vengono organizzati i sindacati (una rivendicazione operaia ottiene un aumento di tre lire in busta-paga) e le mutue, gestite direttamente dai dipendenti delle aziende. La stampa ha una fioritura impensabile: «Liberazione» 14.000 copie vendute per ogni numero uscito; 9.000 copie «Unità e libertà» (è la pubblicazione curata dalla Giunta e a cui tutti possono collaborare, mente il «Bollettino di informazioni» è la Gazzetta ufficiale del governo). Ogni formazione armata si affretta a dare alle stampe un proprio giornale, così come le organizzazioni di massa. Ben 11 saranno alla fine le testate stampate, cosa assolutamente unica nel panorama delle zone libere dell’intera Europa. Si pensa anche d’installare una stazione radio: si è nella fase sperimentale delle trasmissioni, quando la «Repubblica» crolla. Benché le preoccupazioni maggiori siano rivolte all’alimentazione delle forze armate e della popolazione (viene accettata un’offerta della Croce rossa svizzera che si impegna ad alloggiare presso famiglie della vicina Confederazione un migliaio di bambini ossolani, e si fa tempo a organizzare un convoglio di 500 ragazzini), anche i problemi culturali sono tenuti in debito conto. Particolarmente frequentate le lezioni di una «università popolare» ideata da Mario Bonfantini, che tiene la sua ultima lezione davanti a 150 persone la sera dell’11 ottobre, quando già i cannoni della «Folgore» neofascista tuonano a pochi chilometri dalla città. La scuola (si deve iniziare l’anno scolastico il 16 ottobre e gli edifici sono fatti sgombrare dai co146
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mandi partigiani) è oggetto delle cure di don Cabalà, del direttore didattico Alcide Bara, di Mario Bonfantini, di Gianfranco Contini e di Carlo Calcaterra. Si decide di abrogare tutti i libri di testo in vigore sotto il fascismo, perché la «scuola non deve essere al servizio di una propaganda ufficiosa, ma deve educare la gioventù alla libertà». Mantenendo la denominazione di scuola media che in Italia rappresenta il nodo di congiunzione tra le elementari e l’università, per la zona liberata la giunta approva che la scuola sia articolata in tre anni di scuola unica (ginnasio inferiore) per accedere a tutte le scuole superiori (ginnasio superiore, liceo, istituto magistrale). Le scuole professionali devono essere articolate in corsi biennali di perfezionamento, corsi triennali per le professioni industriali e commerciali, scuola tecnica industriale di due anni. «La vita nella libera Repubblica dell’Ossola non era così vivace soltanto nel settore dell’educazione e formazione, ma dimostrava che, nonostante i ventidue anni di dittatura, si sapeva fare valere in ogni campo le regole del gioco democratico» - ha notato Hubertus Bergwitz, uno storico tedesco – «L’Ossola libera voleva essere qualcosa di più della semplice amministrazione di una zona conquistata dai partigiani. Per coloro che ne erano responsabili volle rappresentare un modello al quale l’intero mondo libero potesse guardare con interesse». Parete Riquadro basso n. 13 Una delle principali motivazioni che avevano spinto le formazioni partigiane a liberare il territorio ossolano era stata la convinzione di poter aprire un secondo fronte interno dove concentrare armi e uomini per preparare un’offensiva verso la pianura padana. A questo proposito vi erano stati contatti e anche vaghi impegni da parte degli alleati. Durante i quaranta giorni si sono perciò approntati campi di atterraggio per aerei da trasporto e si sono costruite posizioni difensive. Quando si capisce che gli Alleati hanno scartato l’ipotesi del secondo fronte (perché impegnati nel ponte aereo con Varsavia e perché hanno già deciso che l’offensiva in Italia si fermerà per tutto l’inverno) i partigiani si trovano soli ad affrontare il più che certo ritorno in forze delle truppe nazifasciste. Viene comunque decisa la resistenza ad oltranza nel tentativo di impedire o, comunque, ritardare il più possibile la rioccupazione della zona dove vi sono, oltre l’impor147
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tante linea ferroviaria del Sempione, impianti produttivi e centrali elettriche indispensabili alla macchina bellica tedesca. Il piano per la rioccupazione è studiato dai tedeschi meticolosamente e il dispiego di forze e mezzi imponente. Dal canto loro i partigiani predispongono le loro linee di difesa nel miglior modo possibile: si rendono conto, tuttavia, di non poter resistere ad attacchi massicci e prolungati. Fra mille difficoltà è stato finalmente costituito il «Comando unico», che si trova però ad affrontare subito una prova durissima, senza aver avuto il tempo necessario per rodarsi. Il 9 ottobre inizia l’attacco nazifascista. La situazione si presenta subito grave, nonostante l’eroismo dei partigiani che riescono per ben tre giorni a respingere il nemico. Altri fattori aggravano la situazione: il tempo inclemente rende inservibili le mine predisposte per far saltare i ponti (anche se in parte rallenta l’avanzata nemica). Il giorno 12, il comandate della «Valtoce» Alfredo Di Dio e il colonnello Attilio Moneta muoiono in un’imboscata, lasciando un’intera divisione senza guida proprio nel momento in cui la sua presenza è indispensabile. Informato dell’avanzata di truppe nazifasciste in Val Cannobina, Di Dio decide un’ispezione alle difese per controllare le postazioni. Accompagnato da Moneta e dal maggiore Giorgio Patterson, giunge all’imbocco della galleria di Finero convinto di trovare ancora i partigiani. Improvvisamente, invece, il gruppo viene attaccato. Di Dio, ferito a una gamba muore dissanguato in poche ore. Anche Moneta rimane ucciso. Patterson, ancora con la divisa canadese, viene invece fatto prigioniero. Rinchiuso nel carcere di San Vittore a Milano, ne uscirà solo il 25 aprile del 1945. Il giorno 14 ottobre, in una Domodossola deserta, il capo della provincia Enrico Vezzalini entra a bordo di un carro armato. Gran parte della popolazione ha abbandonato la città, cercando con ogni mezzo rifugio in Svizzera. L’attacco nazifascista si è sviluppato contemporaneamente nella valle principale e in Val Cannobina: qui è stata travolta la divisione «Piave», mentre tra Mergozzo e Ornavasso la resistenza della «Valtoce» e della «Valdossola» ha soltanto rallentato la rioccupazione. Parete Riquadro basso n. 14 La ritirata delle formazioni partigiane avviene tra decine di combattimenti ed episodi tragici ed eroici. 148
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In Valle Anzasca, i fascisti all’inseguimento di reparti garibaldini al comando di Domenico Pizzi uccidono partigiani e civili all’Alpe Colla e all’Alpe Meccia. In Val Devero, a Goglio, mitragliano la funivia sulla quale hanno cercato scampo alcuni partigiani, altri eccidi ai Bagni di Craveggia in Val Vigezzo. Per otto giorni, dopo la rioccupazione di Domodossola, i partigiani resistono sulle montagne. Le ultime retroguardie respingono in Val Formazza l’ennesimo attacco dei fascisti della «Folgore», poi sono costretti a espatriare attraverso il passo san Giacomo imbiancato da una prematura e abbondante nevicata. Con loro vi sono Tibaldi e gli altri Commissari. Nell’esilio non certo dorato dei campi di internamento elvetici, la Giunta, con la sola assenza di Gisella Floreanini, che ha seguito in un’epica marcia i garibaldini verso la Valle Strona, stila una dettagliata relazione sull’attività svolta durante la liberazione dell’Ossola. Ma il confine non è stato passato solo da circa 2000 partigiani. Con loro sono esiliati spontaneamente anche 25 mila civili: una rottura con il nemico che li costringerà a desistere dai propositi di rappresaglia. La popolazione si è ampiamente «compromessa» con la propria «Repubblica», ha partecipato, si è esposta come non mai in passato e ciò rappresenta una straordinaria prova di volontà e di coraggio e una dimostrazione dell’indissolubile legame tra la resistenza e le popolazioni. Se il bilancio della sconfitta è pesante, il movimento non è comunque finito. La divisione «Piave» che ha subito il primo attacco è stata schiantata; la divisione «Valdossola» ha per intero riparato in Svizzera, così come parte della «Valtoce». Ma molti reparti sono rimasti sottraendosi all’attacco. Ben presto le formazioni si ricostituiranno. In Valgrande si forma la divisione «Mario Flaim» erede della «Valdossola»; sul Mottarone prende vita la seconda divisione «Valtoce»; fra la Val Vigezzo e Isorno si rafforza la brigata «Matteotti»; mentre la «Beltrami» rimane al suo posto, così come i garibaldini della divisione «Redi» che sono ormai presenti in tutta l’Ossola. Al Capo di stato maggiore Delle Torri, il comando generale del Cvl affida il posto di comandante interinale della zona Ossola, affiancandogli come commissario politico Livio Scarpone. Tale nomina viene accettata da tutte le formazioni che si riuniscono a Cesara il 10 gennaio. All’inizio del 1945 sono presenti in Ossola ancora 1200 partigiani. La zona verrà suddivisa in tre aree affidate all’azione e al controllo delle singole formazioni. 149
Mauro Begozzi
Parete Riquadro basso n. 15 L’inverno 1944-45, con la stagnazione delle operazioni militari su tutti i fronti, si presenta particolarmente difficile per i partigiani ossolani. Il 13 novembre il generale Alexander ha diffuso per radio un proclama col quale esorta i partigiani a cessare le azioni su larga scala, a non agire e a tenersi pronti per nuovi ordini. Un «tutti a casa» i cui effetti si fanno subito sentire. I partigiani ora che sono un esercito, certo non smobilitano, ma sanno di non poter contare su alcun aiuto da parte degli alleati. Ciò e ancor più avvertito dai resistenti ossolani, che già hanno conosciuto la cocente delusione del mancato concreto sostegno durante la «Repubblica». Per alcuni mesi perciò devono subire l’iniziativa nazifascista che è libera di portare a termine operazioni di rastrellamento. E’ solo verso la metà di gennaio 1945 che la resistenza ossolana è in grado di riprendere con una certa forza l’attività. Il giorno 18 arriva anche il primo lancio di rifornimenti di una certa consistenza nei pressi di Quarna, dopo mesi di assoluto silenzio. Il Comando di zona distribuirà le armi e i materiali a tutte le formazioni. Per la ripresa della guerriglia, per attacchi ai presìdi e alle linee di collegamento e per la predisposizione di piani di difesa degli impianti e delle centrali idroelettriche minacciate di distruzione dai tedeschi in caso di ritirata, vengono diramate a tutti i reparti precise disposizioni. Alla ripresa dell’attività, i nazifascisti rispondono con nuovi rastrellamenti, che si susseguono regolarmente nelle diverse valli e località. Non mancano, come è loro abitudine, di macchiarsi di atti efferati come il 26 febbraio 1945, quando a Calasca Castiglione, in Valle Anzasca, uccidono il giovane parroco don Giuseppe Rossi, reo d’aver suonato le campane quale segnale per i partigiani. A nulla valgono le giustificazioni e le testimonianze dei compaesani, che il suono delle campane è un segnale per i boscaioli richiamati per il pranzo. Il 4 marzo, il corpo martoriato del parroco sarà ritrovato in un canalone nei pressi della frazione Colombetti. Parete Riquadro basso n. 16 Nell’imminenza della sconfitta dei nazifascisti, ormai alle corde su tutti i fronti, ai partigiani dell’Ossola viene affidato il compito di impedire at150
La Sala storica di Domodossola.
ti di sabotaggio da parte dei nemici in ritirata. Il 3 aprile il Comando della divisione garibaldina «Redi» comunica al Comando di zona e alle unità dipendenti che alla stazione di Varzo stazionano venti vagoni carichi di tritolo destinato a far saltare la galleria del Sempione e le centrali elettriche dell’Ossola. Gli alleati minacciano un bombardamento dell’aviazione, che risulterebbe devastante per i paesi vicini, mentre anche i servizi di sicurezza svizzeri si preparano ad intervenire. Un’azione partigiana presenta notevoli rischi, tuttavia viene predisposto un piano dettagliato a cui collabora Gianni Brera. Singole unità verranno poste a difesa delle centrali elettriche, mentre sarà sferrato un attacco a Varzo con l’impiego di più battaglioni al comando di Giuseppe Bensi, Mirko Scrittori, Serafino Zani e altri. Un primo battaglione, nella notte del 22 aprile, circonda la caserma di Varzo distante venti metri dai vagoni; un altro si occupa di bloccare le comunicazioni tra Varzo e Domodossola; un terzo, infine, porta le 1500 casse di esplosivo in una fossa approntata a quaranta metri di distanza, con un lavoro che richiede più di tre ore di tempo sotto una pioggia battente e le incendia per evitare l’esplosione, che creerebbe notevoli danni all’abitato. L’azione si risolve con un brillante successo ed è il segnale per l’insurrezione finale. Il 23 aprile i nazifascisti evacuano dal territorio a nord di Domodossola e il 24, circondati dai partigiani, sono costretti a lasciare la città. Il capoluogo dell’Ossola e tutte le vallate circostanti sono nuovamente e definitivamente liberi.
Note al testo 1
MAURO BEGOZZI, Introduzione a La Repubblica dell’Ossola, settembre-ottobre1944, riedizione a cura del Comune di Domodossola in occasione del XL Anniversario della Liberazione dell’Ossola, Domodossola 2005, p. 9.
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Archivio Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel VCO «P. Fornara» (d’ora in poi AISRN), fondo ricerche, b. «40° Ossola».
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Idem.
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Idem.
5
Idem.
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Mauro Begozzi 6
«Anche nelle scuole c’è fermento e impegno. In particolare, tra marzo e maggio si è svolto un seminario per docenti coordinato dal Consiglio scolastico distrettuale n. 56 sul tema La Repubblica partigiana dell’Ossola. Anima del progetto è il compianto Franco Livolsi, mentre il coordinamento è del professor Luciano Rinaudo. Provincia di Novara e Comune di Domodossola curano la pubblicazione che si rivela l’ultimo prezioso documento testimoniale di chi partecipò da protagonista all’esperienza del settembre-ottobre 1944. Accanto ad alcuni saggi storici di Rosario Muratore, Francesco Omodeo Zorini e del sottoscritto il lavoro raccoglie, infatti, i ricordi di Gisella Floreanini, Alcide Bara, Fausto Del Ponte, Aminta Migliari, Plinio Pirazzi Maffiola e Paolo Bologna. Terzo, importantissimo, momento è il Convegno patrocinato dal Consiglio regionale del Piemonte e voluto dalla presidente del Comitato per l’affermazione dei valori della Resistenza e dei principi della Costituzione repubblicana, Laura Marchiaro, sul tema L’ideale di giustizia della Resistenza: dall’esperienza delle zone libere alle emergenze degli anni ’80. Vi partecipano storici del calibro di Massimo Legnani e Gaetano Grassi e giudici impegnati nelle più spinose e difficili inchieste del momento, al culmine della stagione del terrorismo: Pierluigi Vigna, Giancarlo Caselli e Maurizio Laudi. L’appuntamento è così importante che vi partecipa anche il ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli. Di quel convegno, purtroppo, si è persa memoria perché alla fine non si trovarono le risorse per pubblicarne gli atti. Il Comune, allora retto dal sindaco Giovanni Fornaroli, non si risparmia e asseconda come può le diverse proposte che non si esauriscono nei tre momenti citati: conferenze, manifestazioni, lezioni nelle scuole, momenti celebrativi si susseguono a ritmo incalzante in tutta l’Ossola e nella vicina Confederazione elvetica. Ai responsabili del Comitato costituito per le commemorazioni sembra, però, che manchi qualcosa e particolarmente un libro che segni, come nelle precedenti occasioni, il quarantesimo. Ovviamente è tardi per una nuova ricerca, per una nuova proposta, così si pensa a una ristampa. Anche se la pubblicistica sulla Repubblica dei partigiani è ormai ricchissima, introvabile è il volume stampato nel 1959 che reca appunto il titolo La Repubblica dell’Ossola Settembre 1944 Ottobre. Si tratta di un numero unico edito dal Comune in occasione del quindicesimo anniversario, redatto da Filippo Frassati, stampato dalla Cartografica C. Antonioli, con la copertina disegnata da uno dei più grandi grafici italiani, Albe Steiner, che fu partigiano proprio in Ossola. Di più, il libro raccoglie saggi e testimonianze dei massimi esponenti della Resistenza italiana e dei protagonisti dei quaranta giorni di libertà. La scelta sembra obbligata, tanto più che proprio Filippo Frassati si è detto disponibile a scrivere l’introduzione alla nuova edizione». MAURO BEGOZZI, Introduzione cit. p. 9.
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Proprio quest’esigenza aprirà una curiosa ricerca sull’originale, che si scopre non essere conservato in Comune. Dopo molto tempo e molte peripezie verrà infine ritrovata nello studio del Presidente della Provincia di Novara.
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La recente ristrutturazione della sala ha fatto sì che i testi e le relative mappe andassero perduti. Attraverso i documenti conservati nella citata busta «40° Ossola» del fondo ricerche nell’Archivio dell’Istituto è tuttavia possibile ricostruirli, sia attraverso gli originali scritti a biro su di un notes, sia attraverso quelli dattiloscritti e poi consegnati per la stampa. È interessante vedere le correzioni, le aggiunte e i tagli apportati che rendono bene l’idea dei ripensamenti, delle precisazioni e anche delle discussioni intervenute in Comitato. L’introduzione della scrittura a computer, della cancellazione e della correzione automatica, non consentirà più alcuna analisi filologica fra i testi definitivi e le elaborazioni precedenti quindi, in futuro, sarà impossibile una riflessione come questa a proposito di quanto avvenuto pochi mesi fa per la revisione dei nuovi testi della mostra.
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Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale di Filippo Colombara
Il pomeriggio del 30 dicembre 1943 gli uomini di Pédar Rastelli raggiungono Castagnea, piccolo borgo della Valsesia e rifugio garibaldino. Ai montanari che li accolgono mostrano il trofeo catturato ai fascisti della «Tagliamento» il giorno precedente. «Era una bandiera tricolore - scrive il comandante partigiano -: era l’incosciente prova di una criminale organizzazione fratricida che spiegava contro le forze sane della nazione il vergognoso collaborazionismo col nazista. Quel tricolore era alla testa della nostra brigata, perché soltanto noi avevamo il diritto di portare quel drappo che era il simbolo della libertà, della riscossa contro gli oppressori di tutti i tempi della nostra Patria»1. Anche i partigiani che dalle alture di Omegna segnalano l’avvio dello sciopero generale del primo maggio 1944 sventolano un tricolore2, mentre nella vallata i reparti di Salò marciano con alla testa un drappo del tutto simile3. Vessilli uguali o analoghi richiamano un significato simbolico identico, appreso fin dai primi giorni di scuola, che legittima l’appartenenza alla nazione, ma a cui si rifanno idee contrapposte di patria. Nella memoria di Rastelli si avverte l’indignazione per l’improprio uso della bandiera da parte dei nemici. Sdegno e risentimento misurano l’importanza attribuita al vessillo, un atteggiamento apparentemente irrazionale ma che si mostra ben comprensibile. Chi detiene il simbolo si impadronisce dei caratteri nazionali, espelle l’avversario e legalizza la propria azione4. L’esempio della bandiera sottolinea il rilievo delle simbologie, ma anche dei rituali a esse connesse o meno, nei comportamenti degli individui e delle collettività. Non hanno valore solo le condotte razionali e di chiara interpretazione, anzi, spesso sono proprio i riti e i simboli a dare senso al vivere quotidiano, contribuendo a «orientarci nel caos dell’esperienza umana e a collocarla in una cornice coerente»5. 153
Filippo Colombara
Soprattutto in determinati momenti critici, ad esempio, di fronte a un periodo di belligeranza, essi svolgono il loro compito. È allora, quando si prepara una trasformazione dei valori e si configura l’ingresso «in un mondo psicologico nuovo»6, che il sistema simbolico assume una particolare pregnanza nel rispondere alle condizioni straordinarie della guerra. Dai riti primitivi di iniziazione ai riti di colpevolizzazione del nemico dei feciali romani7 e su fino ai giorni nostri, con le parate militari che evocano danze proprie del carattere di festa della guerra, è un susseguirsi di cerimonie che accompagnano il tempo bellico8. Durante la Resistenza, nonostante la sua breve durata e il difficile affermarsi di una tradizione, vi è un esplicito impiego di rituali e simbologie, sia nelle consuetudini del vivere in banda che nelle azioni simboliche e nei riti di battaglia. Tutti paradigmi che esplicitano e convalidano le visioni del mondo dei resistenti. Il ciclo della vita Le fasi salienti dell’esperienza partigiana sono in molti casi contraddistinte da rituali simili a quelli del ciclo della vita umana. Nascita, matrimonio e morte, snodi di passaggio delle condizioni degli individui, si ripropongono nella vicenda resistenziale. A partire dall’ingresso nella formazione fino al concludersi, talvolta tragico, delle gesta, si muove il percorso di questi uomini e di queste donne, di cui la pubblicistica e le narrazioni orali offrono uno spettro significativo. Primo atto ascrivibile alla procedura simbolica è un rito di separazione. A citarlo è Silvio Nebbia di Ameno (lago d’Orta), il quale, reduce dal fronte occidentale e rientrato fortunosamente a casa dopo l’8 settembre, si era impiegato come operaio presso un’azienda sfollata in zona. Racconta: Ho tirato fino a quando è uscito il bando che bisognava presentarsi di nuovo alle armi. Difatti è arrivata la cartolina di precetto e non si poteva più stare a casa. Allora lì ci siamo radunati, il gruppo del paese che non poteva stare a casa come me, eravamo otto o dieci, e siamo andati in una trattoria a mangiare. E a mangiare abbiamo mangiato un gatto con la polenta. Non c’era nient’altro… un gatto [ride]. C’era un amico che faceva il panettiere e aveva la padrona, una vedova, che aveva ’sto gattone. «Micio, micio», lü gl’ha purtà via e uma fai pulénta e gat e abbiamo festeggiato. Poi ognuno è andato a casa sua […] e «Dumàn ’n viguma ’n piaza». Automaticamente la mattina ci siamo tro154
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
vati lì sul piazzale, ciau qui ciau là, cosa facciamo? «Fiói c’è da scegliere, bisogna essere sbrigativi. La faccenda è questa: chi vuol venire con me andiamo in montagna, se no va a Corconio che c’è la stazione, va a Novara e fa quello che vuole». Mia mamma era andata dal prete, dal farmacista e nessuno sapeva consigliare, ognuno doveva fare quello che si sentiva. Nessuno poteva dare un consiglio, «Suo figlio secondo come la pensa… in afàri sö». E difatti in gniü tüti ’nsèma mi, eh: in montagna9.
Il distacco dalla comunità di paese, compiuto in modo apparentemente improvvisato, avviene in realtà con modalità del tutto simili al tradizionale rito di commiato degli emigranti. Nelle aree alpine, infatti, la partenza stagionale viene ritualizzata mediante una cena collettiva l’ultima sera e spesso completata da visite augurali, scambi di doni, dal «bicchiere della staffa» e da un corteo che saluta gli emigranti accompagnandoli per «un tratto di strada»10 ai confini del villaggio o alla più vicina stazione ferroviaria11. Come per i viaggi di lavoro, questa partenza per la montagna espleta il rito di separazione dalla comunità in modo «che la scissione non sia brusca ma progressiva»12. La fase successiva, la nascita del partigiano, il suo ingresso in un mondo altro (non più la comunità e la famiglia d’origine ma il gruppo guerrigliero) anche se non completamente distinto, è un rito di aggregazione che richiede il conferimento di una nuova individualizzazione (il nome da combattente). L’imposizione del nome di battaglia, spesso per libera scelta del resistente, è l’atto di inizio dell’avventura partigiana. Lo pseudonimo è impiegato per celare la vera identità ma anche per assolvere a «un certo numero di funzioni “espressive”, culturali e simboliche»13. Questi nomi evocano un universo onomastico ispirato e contraddistinto da innumerevoli elementi. Infatti, se si escludono quelli di battesimo, che sono la maggioranza, l’estrosità e la fantasia di parecchi altri fanno supporre, come è stato notato, l’intrusione di una sorta di «carnevalizzazione del linguaggio» venuta a rompere la «mortifera, nera “quaresima” durata vent’anni»14. Ci si trova, in effetti, di fronte a un variegato ed eccentrico repertorio costituito da nomi esotici e avventurosi (Tom, Tarzan, Bill), da altri ispirati ad animali forti e astuti (Lupo, Tigre, Falco), a eventi atmosferici (Fulmine, Lampo, Saetta) o ad armi ed esplosivi (Mitra, Dinamite); da nomi con matrice storica (Spartaco, Garibaldi), mitologica (Ettore, Ulisse), geografica (nomi di città o regioni di provenienza, peraltro sempre adottati dai giovani in servizio militare), ad altri che prendono spunto dalle caratteri155
Filippo Colombara
stiche fisiche della persona (Moro, Biondo, Barba), ad altri ancora derivati dalla cultura di massa: cinema, fumetti, sport (Ridolini, Topolino, Carnera) e via di seguito in una complessa classificazione di tipi15. Questo primo momento di costruzione della nuova identità è talora seguito da un vero e proprio giuramento rituale; una procedura che specie nella fase iniziale della lotta interessa alcuni gruppi del Piemonte nordorientale. Nella formazione Beltrami i nuovi arrivati «prestavano giuramento uno alla volta su formula preparata dal Capitano»16. Guido Weiller, incaricato alla fine del 1943 di sistemare le carte della formazione, ricorda: «C’erano, per cominciare, numerosi “giuramenti scritti”, con i quali il firmatario, in presenza di due testimoni (c’erano le firme anche di questi), s’impegnava a combattere lealmente per il nuovo Stato italiano e a sottostare alla necessaria disciplina che la lotta armata richiedeva»17. Anche la collaboratrice e moglie del comandante rammenta questo modo di vincolare i nuovi arrivati: «C’erano molti sbandati che erano qua senza un obiettivo. Non parliamo di obiettivi politici che allora non ci pensavamo, ma neppure obiettivo di lotta concreta. E allora mi ricordo che abbiamo riguardato il testo assieme e che a me sembrava tutto un po’ strano, il testo del giuramento, le parole»18. In seguito: «La prassi del “giuramento”, peraltro mutuata dal ben noto “giuramento” che sono chiamate a prestare tutte le reclute, era stata abolita» e i documenti bruciati19. Anche Moscatelli, attento agli aspetti rituali, propone al Comando generale delle Garibaldi un giuramento per gli uomini delle formazioni. Il testo, da lui ultimato nel dicembre 1944, recita: «Nel nome della Patria, giuro: di lottare con ogni mezzo in mio potere sino al sacrificio supremo della vita per la totale distruzione del nazi-fascismo, per l’Italia libera, democratica, popolare; di essere fedele al Comando Generale delle Brigate d’Assalto Garibaldi e di non deporre fino al suo ordine le armi e la divisa garibaldina»20. Ma non venne utilizzato per ragioni di opportunità politica21. Altro momento pregnante è il battesimo del fuoco, un evento privo, però, di riferimenti cerimoniali. Nelle guerre moderne la preparazione rituale al combattimento tende a scomparire come se il tutto si risolvesse in una questione privata, in cui ce la si deve cavare da soli, ascoltando i suggerimenti dei commilitoni e osservandone i comportamenti. Mai come in occasioni del genere vale il detto del giovane apprendista operaio, secondo cui ogni mestiere si impara rubando con gli occhi e sperimentando con 156
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
le mani. Il ciclo di vita partigiana non si avvale di un numero elevato di riti, poiché il carattere clandestino e mobile della guerriglia non si addice alle celebrazioni, tuttavia è permeato da fasi proprie del tempo di pace che vi si innestano e mirabilmente ritroviamo. Il matrimonio, ad esempio, uno dei momenti significativi nell’esperienza umana, in qualche caso trova spazio in circostanze così eccezionali e forse decisamente inopportune. La cerimonia nuziale è un rito di aggregazione ricco di senso ed espressioni simboliche che tuttavia non induce alla creazione di una speciale e originale sequenza rituale. In casi del genere, pur avvertendone l’aspirazione, non si adottano particolari norme. Una delle poche disposizioni in materia è una circolare diramata dal Clnai con la quale si consentono le unioni civili in formazione davanti al comandante o al commissario di brigata o divisione22. Nel Piemonte nord-orientale non sono mancati matrimoni in brigata e qualche episodio va ricordato. Nell’ottobre 1944, ad esempio, perviene al Comando di Moscatelli una richiesta, da parte della brigata «Osella», di celebrare le nozze «nel modo partigiano» tra i membri della formazione Olga e Jonson. Il comando rilascia l’autorizzazione, esprime i propri auguri alla coppia, «sicuri che i marmocchi [che verranno] saranno un prodotto di classe», ma demanda alla brigata di stabilire le modalità dell’unione, «non essendoci chiara la frase: “Si chiede che il rito avvenga nel modo partigiano”»23. La cerimonia si svolge il 12 dicembre ed è officiata dal capitano Bruno, il quale dopo aver parlato separatamente con i giovani e con dei loro parenti, dichiara: «non sapendo che sia il rito partigiano col quale voi volete sposarvi (voi siete i primi che fate al Comando tale richiesta) credo che questa cerimonia pubblica possa sufficientemente rendere noto il fatto che siete marito e moglie, oltre a quello già noto, che vi volete bene. Continuate così e quando questa situazione sarà mutata, potrete, se vorrete, legalizzare questa vostra unione che riposa sul vostro consenso, sull’amore e la stima reciproca»24. I giovani, infine, chiedono di comunicare alle altre formazioni il loro avvenuto matrimonio. Sempre in quella giornata, 12 dicembre 1944, a Camandona, nel Biellese, si sposano Vinca Berti e Anello Poma della 2ª brigata Garibaldi «Ermanno Angiono “Pensiero”». Tra le immagini ricordo dell’evento (foto con i commilitoni e con il gruppo partigiano), realizzate da Carlo Buratti «Aspirina», vi è quella che ritrae gli sposi tra gli officianti: tutti ufficiali della formazione in uniforme e con fascia tricolore25. 157
Filippo Colombara
Altra cerimonia nuziale si tiene a Boleto presso la 6ª «Nello» nel marzo 1945. Celebrante è Pippo Coppo, commissario della II divisione Garibaldi «Redi», che unisce l’infermiera partigiana Alba Dell’Acqua e il medico partigiano Pino Rossi. Il rito si celebra in tutta fretta, dato che sono in corso i preparativi per gli attacchi ai presidi di Borgosesia, Romagnano Sesia e Fara. Anche il pranzo è quanto mai frugale: una fetta di carne, due foglie d’insalata e un po’ di vino. Felicitazioni giungono dal comandante militare della I divisione, «Ciro», con gli auguri che dall’unione nascano dei «piccoli battaglieri garibaldini». All’indomani della liberazione, i novelli sposi faticheranno un poco a registrare il matrimonio e risolveranno il problema rivolgendosi alla curia milanese26. Chi si sposa direttamente in chiesa, senza riti civili garibaldini, è invece il partigiano Bernardino Longhetti che, dopo aver prelevato nottetempo il parroco di Roccapietra, si sposa con Ilda, una ragazza di Cilimo, frazione di Varallo Sesia. La cerimonia avviene di notte e Bernadino, esultante, fa suonare le campane: il felice annuncio è appreso dai paesani ma anche dai fascisti, i quali, come regalo di nozze, incendiano la casa della ragazza27. Alcuni matrimoni si celebrano in momenti di relativa sicurezza, come nel caso dei garibaldini Laura e Gianni Gioria. I due giovani si sposano con rito religioso a Bognanco il 17 settembre 1944, durante il periodo della repubblica partigiana. Il giornale della II divisione Garibaldi pubblica le proprie felicitazioni: «Venendo giù dalla montagna Laura e Gianni hanno portato oltre ai segni della libertà anche quelli dell’amore. Vadano ai compagni, sposi novelli, i nostri più vivi auguri»28. A unirli è don Angelo Ferrari, del vicino borgo di San Marco, perché il parroco del paese non ne vuole sapere. Quando usciamo dalla chiesa mi spavento - ricorda Laura Gioria -, ci sono due file di partigiani che per far festa sparano in aria. Poi per fortuna arriva una donnetta con un mazzolino di fiori e mi rincuoro. Ci sono anche i genitori di Gianni venuti da Arona, tutti i partigiani mi fanno festa; è venuto anche Barbis, a tutti i costi ho dovuto sposarmi in divisa, ma mi mancano gli scarponi, me ne infilano un paio del 42. Il pranzo è all’albergo Canelli: risotto e qualche pollo racimolato dai contadini: una miseria, ma siamo tutti allegri. Il pomeriggio all’albergo della Pace, balliamo fino a notte. In viaggio di nozze andiamo a Domo: il giorno dopo ci portano in macchina a Ornavasso, perché Gianni vuole combattere dove conosce meglio i posti. A Gravellona sparano; passiamo per la montagna e arriviamo a Crusinallo; attraversiamo il fiume e di notte saliamo al Mottarone. La sera dopo, sempre camminando, arriviamo a casa di Gianni a Montrigiasco, sopra Arona. Questo è il mio viaggio di nozze29. 158
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
Le condizioni critiche della situazione, però, riducono al minimo il numero dei matrimoni, inducendo a posticipare a momenti migliori desideri del genere. Le vicende di guerra possono spezzare drammaticamente le unioni e gli amori. La storia di Laura e Gianni, infatti, non sopravvivrà al conflitto. Dopo lo sposalizio i due giovani proseguono l’attività partigiana con incarichi diversi, ma sei mesi dopo, attratto in un’imboscata a Montrigiasco, Gianni è ucciso insieme a otto uomini del suo gruppo combattente30. La guerriglia, occorre sottolineare, è un’esperienza contrassegnata dall’essenzialità e i rituali paiono compressi sui poli della nascita e soprattutto della morte. Significative di quest’ultima fase, dal punto di vista cerimoniale, sono le fotografie che documentano i funerali. Le immagini sono numerose e in diversi casi pubblicate sui giornali partigiani: dall’annuncio funebre partigiano datato Borgosesia 19 giugno 194431 a quello di Domodossola dell’11 settembre 194432, stampati durante i rispettivi periodi di zona libera; al feretro di Martin Valanga avvolto dal tricolore33; ai fucilati di Montrigiasco, allineati nelle casse e ricoperti di fiori34; a quelli cui viene posta tra le mani l’arma di combattimento35; al corteo funebre di Borgosesia dei caduti di Gattinara, allineati sul rimorchio di un camion e fiancheggiati dagli armati36; a quello per Mora e Gibin, con i partigiani, fucile a spalla, che trasportano i feretri lungo le vie di Borgomanero all’indomani della liberazione37; a quello di Biella per i cinquanta partigiani e civili trucidati nel Biellese e Vercellese a fine aprile 1945, con armati che accompagnano le salme38. In talune circostanze, la partecipazione dei partigiani avviene durante i mesi del conflitto. A Omegna, il 2 gennaio 1944, ai funerali di uno dei primi caduti39, Beltrami decide di presenziare con un nutrito gruppo armato: è un atto pubblico dal forte impatto emozionale ed è quindi preparato nel modo migliore. Sono gli stessi servizi informativi della Rsi a segnalare che: I funerali sono riusciti grandiosi per l’imponenza della massa operaia e per il numero esagerato di corone. Prestava servizio un reparto di 200 partigiani al comando dello stesso capobanda Filippo Beltrami. Questi ha fatto contemporaneamente affiggere in tutti i paesi del Cusio un manifesto baldanzoso nel quale, in sostanza, è detto che questo sarà l’anno della liberazione della Patria – naturalmente nel senso partigiano – e che conclude con una invocazione di vendetta40.
Nella medesima città, il 5 settembre 1944, durante il periodo in cui è in vigore la convenzione per la zona libera, vengono celebrati i funerali del 159
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tenente Carlo Angelini, ufficiale della formazione cattolica «Valtoce», con grande partecipazione di popolazione e di partigiani. Nelle prime ore del mattino il Comando della Valtoce fa affiggere dai suoi uomini sui muri di Omegna un manifesto semplice ed austero, listato a lutto ed ornato di tricolore, per annunziare al popolo la morte del nostro tenente Angelini. […] Nella camera mortuaria ha subito inizio una processione ininterrotta di persone che vogliono vedere l’eroe… Vicino c’è il cuore angosciato di tutta la popolazione e dei suoi fratelli d’arme. Omegna si stringe tutta intorno a noi per onorare quell’eroe. Dai monti scendono i partigiani armati per scortare il loro fratello e da tutte le case si riversa il popolo per accompagnare all’ultima dimora chi è caduto per la libertà. Chiuse le botteghe, chiusi gli stabilimenti, sospeso ogni lavoro e tutti i cittadini presenti… una fiumana di popolo…41.
Un’attenzione particolare va prestata al carattere religioso o laico delle cerimonie funebri dei partigiani. Se sono plausibili funzioni religiose per caduti che indossano fazzoletti verdi oppure azzurri, come nei due casi citati, cosa avviene per i fazzoletti rossi? La ricerca di identità garibaldina/comunista conduce all’alterità di riti laici? Il progetto politico-militare dei resistenti e dei garibaldini in particolare, impostato su alleanze le più ampie possibili, sembra sacrificare sull’altare dell’unità della lotta antifascista gli aspetti di lotta ideologica. Sono lontani i conflitti di inizio secolo che avevano contrapposto socialisti e laici ai cattolici sulla proprietà delle anime42 e vent’anni di antilaicismo nazionale neppure favoriscono la rottura delle consuetudini. Non pare si verifichino pressioni da parte dei garibaldini sui familiari dei caduti che intendono celebrare riti religiosi; dopo la morte il corpo del caduto non appartiene più al solo gruppo combattente, anzi, la comunità di origine lo riaccoglie e compie i riti dovuti. Il rientro coinvolge la popolazione nell’ultimo saluto alle spoglie di un proprio membro e nel contemporaneo riconoscimento degli ideali per cui è morto. L’11 maggio 1944 nell’Omegnese, si sciopera nelle fabbriche per protesta contro due stragi compiute dai nazifascisti a Forno e Chesio, in valle Strona,43. Nel pomeriggio del medesimo giorno a Crusinallo si svolgono i funerali di Nardino Bariselli, uno dei torturati e fucilati a Chesio. In quell’occasione i fascisti impongono le onoranze funebri in forma strettamente privata e solamente all’interno del cimitero. Ciononostante centinaia di persone si presentano per partecipare alle esequie. Giungono allora i mili160
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ti fascisti e armi alla mano cacciano la popolazione dal cimitero, consentendo a soli quattro familiari di restare. In questo frangente la madre del caduto, Angelina Pazzini, si volge ai fascisti gridando: «E voi sareste quelli che hanno voluto civilizzare l’Abissinia!»44. L’episodio avrà vasta eco e ne darà conto «l’Unità»45. Altro episodio, che invece vede la presenza del gruppo combattente, avviene nell’alto Vergante. Il 18 marzo 1945 si svolgono le esequie dei nove partigiani caduti nell’imboscata di Montrigiasco: otto – tra cui Gianni, il novello sposo di Laura – sono sepolti nel borgo e uno, Pierino Manni, viene trasportato al cimitero del vicino paese d’origine, Ghevio, dove si tiene la cerimonia con la partecipazione dei partigiani. Tutta la gente volle esternare il suo dolore – racconta il comandante della formazione, – nel momento in cui avevamo provveduto ad appostare la X «Rocco» e la «Servadei» sulle strade di accesso a Ghevio. E non fu, quella, una cautela inutile. Il nemico cercò di salire in paese, ma ebbe il fatto suo. Pierino Manni fu sepolto cogli onori militari d’un picchetto d’ordine che, schierato, sparò una salve al cielo. Come per un soldato di un grande esercito, poiché grande esercito era divenuto alfine quello garibaldino46.
Fatti del genere non sono numerosi, tuttavia il significato che assumono è di alto valore simbolico. Con questa azione si rende omaggio al caduto e si opera una momentanea appropriazione del territorio, si rende cioè tangibile la presenza del gruppo combattente come sfida diretta al nemico e promessa di riscatto della comunità. Che poi, come nel caso di Ghevio, siano i combattenti comunisti a rispettare il rituale religioso accresce sensibilmente la loro affidabilità politica nei confronti della popolazione. Quel colore rosso Il senso del rito e il gusto del simbolico percorrono l’intera vicenda resistenziale, non limitandosi a interessare le vicissitudini personali ma tutti gli ordini di relazione e di scontro con l’avversario per la conquista degli spazi pubblici, a cominciare dall’uso politico del colore rosso. Un colore che nel tempo ha assunto il maggiore tratto identitario della classe operaia, il cui passato rimanda al giacobinismo di fine Settecento, al mazzinianismo, ai moti rivoluzionari del 1848, ai garibaldini, alla Comune di Parigi, alle bandiere rosse del socialismo che per anni hanno imperversato nelle città e nelle campagne47. 161
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Durante il Ventennio, si curò attentamente l’inibizione del rosso sotto qualunque foggia si fosse presentato. Conseguenza della sua messa all’indice fu di rafforzarne le valenze simboliche e i caratteri di alterità politica48. Per vent’anni il colore sovversivo si cimentò contro il mortifero colore nero del fascismo. I casi sono numerosi, riguardano l’intero Paese, e anche nel Piemonte nord-orientale, a cavallo tra gli anni venti e trenta, si rilevò una vivace presenza di comportamenti del genere. A Prato Sesia, in bassa Valsesia, un anziano ricorda che: «Quando è passato il duce di qui [da Romagnano Sesia nel 1939] han messo le bandiere rosse di là, a Gattinara, e le han viste tutti, dopo han mandato su i fascisti per tirarle via».49 Le bandiere rosse, in realtà, non apparvero nel 1939 e lo spostamento di data è l’espediente impiegato del narratore per coinvolgere direttamente Mussolini nella lotta simbolica del proprio territorio50. Il fatto accadde il primo maggio 1931, quando sulla collina di San Lorenzo, una sommità sovrastante l’abitato di Gattinara e prospiciente Romagnano Sesia, Cavallirio e Prato Sesia, vennero esposti dei drappi rossi visti fino a due o tre chilometri da centinaia di persone. Lo scandalo tra i fascisti si fece sentire. «Il 1° Maggio – scrive un anonimo alla polizia politica – sin dal levar del sole sventolavano sulle principali alture della collina di Gattinara n. 3 bandiere rosse. Le medesime rimasero esposte sino al pomeriggio e cioè fin tanto che alcuni militi di Romagnano Sesia non si recarono a toglierle. Esse erano fatte di carta che per la sua natura doveva provenire dalla cartiera Vonwiller di Romagnano, paese limitrofo»51. Altra vicenda del tutto simile ebbe luogo nel Biellese nel 1932; in questo caso la notte precedente a una manifestazione fascista venne issata sul monte Cucco una grande bandiera rossa al posto del tricolore che abitualmente vi svettava. Scenografia dal forte impatto simbolico cui si trovarono di fronte l’indomani autorità e pubblico convenuto, procurando inevitabile scompiglio e numerosi arresti52. L’esposizione delle bandiere o di semplici drappi rossi si compì numerose altre volte in occasione della festività laica proibita. A Omegna, ricorda un operaio: «Un Primo Maggio, tra il ’22 e il ’25, di notte legavano delle bandierine rosse con una corda ai sassi, poi le buttavano sui fili della luce e i fascisti il giorno dopo le andavano a togliere. Sempre in quegli anni lì fino al ’25 il Primo Maggio comunisti e socialisti lo festeggiavano assentandosi dal lavoro»53. E un altro: «Quegli anni lì era un gran preparare, na162
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scondere, organizzare qualche cosa per ricordare il Primo Maggio, il mio papà cercava di mettere degli stracci rossi dove capitava e i fascisti diventavano matti... Un anno sono apparsi lungo la Nigoglia e subito sono arrivati i fascisti a toglierli»54. Negli anni successivi, in pieno regime, non mancò un atto simbolico di grande effetto: rivedere la bandiera rossa sulla più alta ciminiera dell’acciaieria Cobianchi, come nel 1920, ai tempi dell’occupazione delle fabbriche. Gli omegnesi furono accontentati: «So che una volta al Primo Maggio han truà la bandiera rossa sül camìn e non sapevano chi era stato [risata]»55. La lotta simbolica delle bandiere, tuttavia, nel corso del tempo subì dei cambiamenti. Durante la prima metà degli anni venti, preoccupazione degli antifascisti fu l’occultamento dei vessilli proletari, per impedire la loro trasformazione in trofei di guerra in mano agli avversari. Trofei che proprio di fronte alla popolazione avrebbero sconfessato il mito dell’inafferrabile drappo rosso, diventando la prova tangibile della sconfitta proletaria. «’N gleu nut. Lè nut qui / Ma ’nca veigla i v’la daria nut»56, recita la vecchia Cichina, bracciante a giornata del basso Novarese, quando una squadraccia di malsignà, di «malsegnati», le mette a soqquadro la casa alla ricerca della bandiera della lega contadina. E a caccia di vessilli proletari i fascisti si mobilitarono per parecchio tempo, consci del valore simbolico di quella cattura. Ciononostante, dalla seconda metà degli anni venti e per un decennio le bandiere rosse si fecero beffa dei fascisti, apparendo indomite il giorno della festa dei lavoratori sulle alture che circondano i paesi, su qualche ciminiera, sui fili della luce o del tram. In seguito, questa prassi di lotta simbolica venne meno e fu sostituita dalle scritte murali. La mutazione di strategia della lotta simbolica non intaccò, però, un’altra consuetudine diffusa: l’impiego del rosso nei capi d’abbigliamento. Fu uno stadio conflittuale del tutto particolare, che i cittadini adottarono per esplicitare il proprio dissenso politico, per protestare contro i divieti e l’oppressione del potere. La vita privata divenne scenario e al tempo stesso soggetto protagonista di questi atteggiamenti. Ogni attimo della quotidianità si poteva trasformare in evento eccezionale. A rischio di botte, olio di ricino e discriminazioni, un numero imprecisato di donne e uomini dichiarò la propria alterità politica al fascismo indossando qualcosa di rosso. L’atto provocatorio fu la piccola battaglia che combatterono le persone di animo antifascista e che distingueranno i numerosi aneddoti tramandati dalle memorie familiari. 163
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Cenisio Girardi : Anche mia madre ha dovuto bere l’olio di ricino, perché con il papà comunista i figli cosa diventano? Diventano sovversivi anche loro. Mia madre era di Gravellona, andava alla Pariani come filatrice e metteva sempre su la camicetta rossa, te puoi solo capire mettere la camicetta rossa in quei momenti lì cosa poteva succedere. L’hanno avvisata due o tre volte: «Guarda Ida che la camicetta rossa a quei tempi qui non si può più, siamo costretti a farti...» Lei rispondeva: «Ma guarda, la camicetta rossa a me piace, io non faccio male a nessuno: è una camicetta! Te la porti nera e io la porto rossa»... E qui bisognerebbe fare dei nomi ma non è bello, ci sono i figli... Mia madre diceva: «Quando mi va di mettere la camicetta bianca metto la bianca, quando mi va la rossa... io ho solo queste qui». È che è arrivato il giorno dell’olio di ricino. Quando ha fatto per entrare in fabbrica con la camicetta rossa c’erano lì quattro fascisti di Gravellona e han detto: «Ida, c’è arrivato il momento che tu lo bevi, così la camicetta rossa non la metti più». E questa povera donna l’ha dovuto bere, gliene hanno dato un quarto, ciò vuol dire che era un bel botticino e per ingoiarglielo giù bene due la tenevano, uno gli tappava il naso, hanno messo dentro l’imbuto e gliel’hanno vuotato giù, l’ha dovuto ingoiare così. Puoi capire cosa è successo dopo mezzora che l’aveva giù, per due o tre giorni è dovuta rimanere al gabinetto. Mia madre era dell’11 e ’sto fatto sarà successo alla fine degli anni venti, lei era giovane57. Gualtiero Caprilei: Io mi ricordo che c’era un certo Ravaioli, lo chiamavano Nìn, ed era uno di quelli a cui il rosso piaceva e ha preso delle belle sberle per quello! Portava sempre un fazzolettino rosso, durante il fascio, e andava a bere il caffè in una trattoria dove andavano anche i fascisti ed era un po’ una provocazione questa. Allora, oltre a dirgli di togliere questo fazzolettino, lo invitavano anche ad andare a casa, perché alle nove lui doveva rientrare, cosa che non succedeva. E lì c’erano poi le battute [veniva malmenato]. Ecco, allora era così. Filippo Colombara: Capitava anche a Villadossola che con la scusa di essere ubriachi, c’era gente che andava in giro a cantare Bandiera rossa? Gualtiero Caprilei: Io so Edmondo Mori, che è stato fermato più di una volta vicino a casa sua, proprio perché fischiava sempre Bandiera rossa. Non poteva farci niente, a lui gli veniva proprio così, spontaneo, il fischiare Bandiera rossa [ride] e lì prendeva delle gran botte, gran botte. Però non ha mai smesso di fischiare Bandiera rossa58. Ivana Dell’Olmo: Una volta mio fratello aveva una maglia rossa e un fascista gliel’ha fatta togliere, perché non si poteva portare niente di rosso. Al primo maggio poi era una cosa incredibile, però proprio la roba rossa non si poteva portare. Figurati che non trovavi neanche la stoffa rossa, era difficile trovare la stoffa rossa, non è che la vendevano. Nel periodo della clandestinità, i partigiani li mettevano i foulard rossi e questa era proprio una provocazione. I fascisti non ti lasciavano portare la roba rossa e se tu volevi qualcosa di rosso dovevi comprare il colorante e tingerlo. Come ha fatto mia mamma quando i partigiani volevano i foulard rossi: ha preso la stoffa, l’ha fatta bollire e c’ha messo il colorante rosso per tingerla. Filippo Colombara: Quindi, voi come ragazze un foulard rosso non potevate portarlo? 164
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Ivana Dell’Olmo: No, non si poteva portare. Oh la roba rossa… non so neanche come ha fatto mio fratello ad avere addosso una maglia rossa. E non dico neanche chi è quello che gliel’ha fatta togliere, perché quello lì è di Villa e c’è ancora, adesso non sembra neanche più fascista, però in quel momento… Gli ha detto: «Tirati giù quella roba» e l’ha mandato a casa a cambiarsi; mio fratello era ancora un bambino, lui è nato nel ’30, figurati un po’ cosa ne sapeva lui59.
Nei paesi, più che nelle città, compiere atti del genere significò essere messi all’indice, rischiare emarginazione sociale, divenire l’esempio negativo da additare all’opinione pubblica e da cui rifuggire. Le comunità locali nel perpetuare i propri codici comportamentali spesso dovettero tener conto delle norme dettate dal nuovo regime, rispettando i dettami e compiacendo le gerarchie del potere. Vi furono però paesi e paesi: in quelli ove si era radicato il verbo socialista si osò forse con maggiore decisione, si vissero minori discriminazioni anche se si pagò il proprio fio. Quando la punizione non giunse dai paesani, ci pensarono quelli del borgo vicino. Fatti di campanile si innestarono in quelli politici e viceversa. C’era una politica diversa... generazioni... Qui [a Piana del Monti] erano già piuttosto rossi che neri. Al circolo venivano a comandare loro [i fascisti di Boleto] e quelli che non avevano la tessera... Poi il Costantini Michele, era del ’15 adesso è morto, una volta ha cantato Bandiera rossa nel circolo e loro sono venuti su. Era il primo anno che andavo a scuola e li ho visti tutti in divisa, era il ’37 circa. Sono venuti dentro nella scuola e gli han dato una sberla. Lui aveva su la cravatta rossa, l’han preso, gli han messo la testa sulla stufa, han levato il coperchio e gli hanno bruciato la cravatta. C’era […], il podestà di […] e tutta la sua ghenga di fascisti, quello di Boleto che chiamavano il mangiagaliñi… Sono venuti in pieno giorno e hanno mandato a chiamare tutti quelli che avevano cantato, erano cinque o sei60.
Inevitabilmente, quindi, che durante la resistenza il rosso assurga a peculiare e potente segno di riscatto morale e politico. In questo periodo, a fianco delle tragedie che la guerra civile trascina con sé, riprendono vigore le sfide e le beffe di dieci, quindici anni prima. La cultura popolare riesuma il valore del comico: la derisione e lo sfottò dell’avversario tornano a essere strumenti di lotta e sventolano nuovamente le temibili bandiere rosse. Sergio Campana: La prima bandiera rossa messa a Gozzano, e parlo del tempo di guerra, l’ho messa io e due altri gozzanesi. Era il mese di ottobre o novembre del ‘44 quando erano tornati i tedeschi e c’era il coprifuoco... Io venivo già da una famiglia di sinistra, dove tu capivi anche se non ti spiegavano chiaramente come la pensavano, e a se-
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dici, diciassette anni già capivi come stavano le cose. A Gozzano c’era sempre un pattuglione di tedeschi di tredici, quindici uomini che perlustrava le strade... e a noi venne in mente di mettere fuori una bandiera rossa. Nota che le donne che facevano dalle sei alle due e dalle due alle dieci [alla Bemberg, azienda di fibre tessili sintetiche] quando passavano davanti ai posti di blocco tedeschi o fascisti, se avevano addosso stringhe rosse o calze di lana segnate di rosso o un gulfìn, le mandavano a casa a cambiarsi. Filippo Colombara: C’era la paura del rosso. Sergio Campana: Allora una sera: «Ma ‘ndua ‘nduma tò ‘na bandéra rusa?» In quel cortile lì c’erano tre sorelle, che tra l’altro distribuivano la «Stella Alpina» quando han cominciato a farla, e ce l’hanno data loro. Non era proprio una bandiera, era uno straccio rosso. Io e ’sti due siamo partiti da ‘n Vila, abbiamo fatto un giro e siamo andati a finire al parco della Rimembranza di allora, che era proprio lì davanti al bar Serenella. E proprio lì dove c’è adesso la fermata della corriera c’erano dei pini e c’era un palo per l’alza bandiera, dove facevano tutte le feste fasciste, quella del 28 ottobre, eccetera. Siamo arrivati lì e abbiamo legato lo straccio al filo di ferro. Facciamo per tirarlo su e senti «quich, quich». Era notte, silenzio assoluto, macchine non ce n’erano a quei tempi, e il rumore del fil di ferro dell’alza bandiera ti sembrava che lo sentissero chissà fin dove. Ad ogni modo l’abbiamo tirato su fino in cima, con calma eh! Il giorno dopo arrivano i tedeschi, vedono la cosa, raddoppiano le guardie e rafforzano il pattuglione notturno. Noi eravamo soddisfatti, però c’era la paura, perché lo sapevamo noi e anche le tre ragazze che ci avevano dato lo straccio, bastava che a uno, anche scherzando, gli scappasse fuori qualcosa e era la fine. I tedeschi non l’hanno tirata giù, è rimasta là, e dopo otto o dieci giorni, un bel giorno qualcuno ha cambiato la bandiera rossa. Ce n’era su una più bella, uno spettacolo... Io non ho mai saputo chi era stato, l’ho saputo tempo dopo, era stato il Quintilio Gioria che comandava un plotone della 6ª «Nello», era venuto giù lui una sera e l’aveva cambiata. Poi quando sono arrivati i fascisti la roba è sparita, ma i tedeschi non l’han tolta...61.
Naturalmente, nelle brigate partigiane un bel po’ di resistenti «vedono rosso» sia nei fronzoli del vestiario che in particolari e singolari circostanze. Una religiosa, suor Lauretta, narra un episodio avvenuto in Ossola: Data la situazione scabrosa di quei momenti (1943) a Domodossola, i Tedeschi e i nostri fascisti vigilavano sui movimenti dei partigiani. Molti di essi erano feriti all’ospedale. Le suore dell’ospedale ci fecero invito per avere aiuto. Suor Carla Francesca e Suor Lauretta validamente, col permesso del Rev. P. Generale Bozzetti, si offrirono. Per confortare quei partigiani feriti, gravi e meno, una suora portò in camerone una statuetta della Madonna, ma quei poveri ragazzi sfiduciati, paurosi perché privi di armi per difendersi ebbero un momento di ribellione, non vollero sapere della statua. Suor Lauretta andò in giardino, scelse dei fiori rossi e con questi presentò ai feriti partigiani la Madonna comunista. Tutti quei ragazzi accettarono la Madonna con un caloroso battimani62. 166
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Il gran successo liberatorio del rosso irradia le brigate garibaldine; il richiamo simbolico è così foriero di paure dispensate da vent’anni di propaganda che la sua proibizione giunge da posizioni inaspettate. «A Domodossola nel periodo della repubblica – ricorda Pippo Coppo – a un determinato momento hanno fatto requisire tutta la carta rossa per paura che le brigate Garibaldi la usassero per stampare i loro comunicati»63. Episodio tra l’altro che manda su tutte le furie Moscatelli. Annota Giancarlo Pajetta nella sua autobiografia: «Al comando dei garibaldini incontrai Cino. Ci abbracciammo, e mi disse: “Bene, sei arrivato in tempo, tra un quarto d’ora c’è una riunione, andiamo a metterli in riga. Ci hanno persino sequestrato i manifestini perché erano rossi, e a me hanno impedito di parlare in piazza”»64. Timori delle forze moderate, o meglio, radicata inquietudine verso il colore sovversivo, che proseguirà nel dopoguerra e ancora oggi ha il suo bel daffare nel recare fastidio al perbenismo nazionale. Scrivete sui muri La lotta simbolica passa poi attraverso l’uso della propaganda; sul palcoscenico della guerra civile i contendenti si affrontano anche con manifesti e volantini, usando i muri di città e paesi come luogo privilegiato del dazibao bellico. La comunicazione pubblica è egemonizzata dalla Rsi65, ma vivace risulta la propaganda partigiana, talvolta affiancata da quella dagli alleati rivolta alle truppe tedesche66. I manifesti a stampa, a parte quelli predisposti dagli uffici centrali (che riguardano essenzialmente la Rsi), si rivelano di particolare efficacia specie quando assumono i tratti della disputa locale, del botta e risposta, della puntigliosa critica alle posizioni avversarie. Alcuni esempi. Il 20 agosto 1944, sui muri di Borgomanero i garibaldini di Moscatelli affiggono un manifesto intitolato «Ultimatum. A tutti gli appartenenti alla Guardia Nazionale Repubblicana», nel quale evidenziano l’approssimarsi della sconfitta dell’Asse, ribadendo l’invito ai saloini di aderire alla Resistenza: «Spezzate le catene che vi legano schiavi al nazi-fascismo e raggiungete le nostre formazioni con quante armi e munizioni potete portare. Sarete fraternamente accolti, sarete anche voi i figli prediletti del nostro Grande popolo». Il tutto intercalato in più parti dallo slogan: «L’ora dell’estrema decisione è giunta!». Dopo una settimana, il 28 agosto, appare il manifesto di risposta, del tutto simile dal punto di vi167
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sta grafico, con il medesimo slogan bene in evidenza e con il titolo che fa il verso al precedente: «Ultimatum. A tutti gli appartenenti alle Divisioni di banditi». Il lungo testo risponde punto per punto e sottolinea le critiche ai resistenti, considerati ladri e dinamitardi al servizio di nuovi padroni, nonché, soprattutto, dei senza patria: «Siete uomini nati in Italia, ma non siete italiani. Bestemmiate la madre. Non siete che gente alla macchia!». Infine, rispetto all’invito a cambiare di campo, dichiarano: «Che onore potete avere se aspettate come “figli prediletti” quelli che dovessero tradire la propria fede e la propria divisa? Soltanto uomini venduti e senza onore possono fare simili patti»67. In altri casi, invece, sono i partigiani ad avere l’ultima parola. Nell’ottobre del medesimo anno, i repubblichini affiggono un manifesto intitolato «Ai patrioti. Tanto per intenderci!!», il cui testo si apre con la frase: «Ci hanno detto che siete ricchi! Infatti avete asportato in questi ultimi giorni…» e continua con l’elenco dei prelievi in denaro effettuati presso uffici postali, banche e aziende per un ammontare di 211.577 lire. Il documento termina con la requisitoria: «È facile essere ricchi con questi sistemi, ma chi ne soffre è la popolazione. Il vostro non è un agire da “patrioti”, ma da banditi, da fuori-legge, da affamatori e traditori del popolo italiano». Rispondono i garibaldini, con medesima impaginazione grafica e facendo, a loro volta, il verso agli avversari. Il titolo muta in: «Ai traditori fascisti! Tanto per essere chiari!!» e il testo gioca sul rapporto antitetico ricco/povero proposto dai fascisti: «Ci hanno detto che siete “poveri”! Infatti dopo ventidue anni di rapine a danno del popolo italiano, avete consegnato ai tedeschi…», cui segue un’elencazione di accaparramenti e danni portati dalle truppe germaniche, evidenziando che: «Noi siamo i “ricchi” delle lire 211.577 che denunciate con tanto clamore. Voi in questo modo dimostrate che i “banditi”, i “fuori-legge”, gli affamatori e traditori del popolo italiano non combattono sostenuti da miliardi rapinati»68. Appare evidente che questi «dialoghi» tra le parti hanno per obiettivo la propaganda delle proprie ragioni e il piano simbolico occupa la tribuna d’onore. Impossessarsi dello spazio pubblico, tenerlo a onta dell’avversario, fornisce un ulteriore senso ad azioni del genere. Sono gesti tesi a suggellare la conquista del territorio i cui risultati migliorano, aumentando la forza suggestiva, con il passaggio al successivo stadio di lotta delle scritture murali: forme espressive dirette e prive di sfumature o mediazioni. «Il muro, come si sa, invoca la scrittura» afferma Barthes, «non c’è niente di più “guardone” di un muro scritto, perché nulla viene guardato o letto con 168
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maggiore intensità»69. Ed è qui, tramite una sorta di battaglia epigrafica e ideologica, fatta di scritte e simboli tracciati sulle pareti delle vie cittadine, che passa un pezzo di storia della guerra partigiana. Durante il Ventennio, alle scritte di regime, che occupavano i luoghi più in evidenza di paesi e città, si opposero scritte murali e graffiti degli antifascisti, regolarmente cancellati per la loro natura trasgressiva. L’antagonismo politico e sociale, escluso dalla possibilità di accedere a canali ufficiali, sviluppò la controinformazione e la presenza «altra» sul territorio. Con l’avvento della guerra il numero di pennellate sui muri si intensifica70 da ambo le parti71 e nei mesi della repubblica sociale si passa alle scritte di guerra. I contenuti differiscono di poco, ma cambiano gli autori: se prima i compiti erano svolti da un antifascismo soprattutto di partito da una parte72 e da incaricati del regime dall’altra, ora si aggiungono i combattenti. Slogan, insulti e dileggi sono diretti, di piccolo raggio, talora individuali. Durante l’azione intimidatoria del 22 dicembre 1943 a Crevacuore, ad esempio, i repubblichini tracciano sui muri di una casa di antifascisti la scritta: «UN GIORNO TI FUCILEREMO. RICORDATI “M”»73. Scritte minacciose, come «VIVA MARTINO74, VIVA LA SQUADRACCIA! P… RE, ecc.», appaiono a Novara nell’autunno del 194475. Dopo i combattimenti di Fara del 16 marzo 1945, che avevano determinato la momentanea sconfitta e fuga dei fascisti, questi, al loro ritorno, tracciano sulla facciata delle case le scritte: «W LA FIDUCIA DEI MATTI»; «IN QUESTA PIAZZA SONO PASSATI I PARTIGIANI-ASSASSINI»; «[ABBASSO] BADOGLIO»; «W DUCE»; «TRADITORI INGLESI MOSCATELLI»; «VIGLIACCHI! SENZA PATRIA E SENZA ONORE! CE LA PAGHERETE!»; «SACH PIOC»; «[ABBASSO] LE DONNE DI FARA W LA BRIGATA NERA»76. Le scritte sono anche provocazioni, sfide a singolar tenzone che talora vengono accolte. In Val Grande, nel maggio 1944, al termine di un rastrellamento i repubblichini scrivono su un muro «LEONI DELLA MONTAGNA, VI ASPETTIAMO A FONDOTOCE!». Dopo qualche giorno risponde un gruppo di partigiani della brigata «Valdossola», che al comando di Mario Muneghina raggiunge il borgo lacuale e cattura i quarantacinque uomini del presidio fascista77. Per parecchio tempo, quando ormai gli eventi sono lontani, una topografia di scritte e graffiti rimangono a segnare il territorio, a scontrarsi e sovrapporsi nella geografia della memoria. Da una serie di fotografie di don Mario Perotti, scattate a Ghemme nei primi anni sessanta, ne compaiono 169
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alcune con le seguenti scritte: «W IL DUCE», sopra alla quale campeggia il profilo di Mussolini realizzato con una maschera di cartone; «W IL CLN»; «W GLI ALLEATI»; «W LA ROSSA BANDIERA»; «W CINO»78. Ancora negli anni novanta, a Pallanza in piazza Garibaldi, angola via Manzoni, affioreranno scritte risalenti al settembre 1943: «[ABBASSO] BADOGLIO, [ABBASSO] I TRADITORI DEL PNF»79. Casi questi in cui la storia stratifica segni e si fa arredo urbano. «È la città che racconta se stessa – ricorda Isnenghi – e le proprie stagioni di vita»80. Sparare cantando Durante gli scontri, il fragore della battaglia non è determinato solo dallo strepitio delle armi, i contendenti lottano anche con il clamore di grida, slogan, canti di guerra: un insieme di atteggiamenti e atti simbolici da cui emergono le forme primordiali di carattere tribale dei conflitti. Il paesaggio di guerra è del resto un paesaggio sonoro; suoni e rumori contribuiscono a scatenare i diversi stati di furia e paura nei combattenti. In queste circostanze emerge un comportamento più volte citato nei racconti partigiani che potremmo chiamare dello «sparare cantando». A citare una simile modalità è, tra gli altri, Pippo Coppo, il quale, nel riferire la fase iniziale dell’ultima battaglia di Beltrami, afferma: «Lui è saltato fuori per primo, cantando, cantando è andato giù all’attacco»81. Più che una descrizione si tratta dell’uso di una figura retorica per sottolineare l’eroismo del partigiano. Lo sparare cantando è un’immagine forte, stilisticamente efficace82, dimostra sprezzo del pericolo anche se probabilmente il Capitano fu più attento alla conduzione dello scontro che non a un comportamento eclatante. Coppo, peraltro, non essendo presente al fatto impiega notizie provenienti da terzi, o meglio, dalle voci di guerra che specie in occasioni del genere trovano materiali su cui lavorare. Tuttavia, il commissario della II divisione Garibaldi non sbaglia nel considerare plausibile un comportamento del genere. Se non proprio in questi termini, canti e slogan sono per l’appunto utilizzati nei combattimenti e rammentati nella memorialistica. Un episodio è ricordato da Bruno Francia e avviene nel settembre 1944, durante l’attacco partigiano di Gravellona Toce: Ci stavamo incamminando seguendo i Georgiani quando Kira rivoltosi a noi disse: «Andiamo a dar loro il “mazzolin di fiori che vien dalla montagna”» e intonò la canzo170
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ne. Kira cantava sempre, con o senza pericolo. Se non avesse cantato non avrebbe potuto essere quel che era. Attraversammo un prato in pendio per prendere postazione. L’attacco dei Georgiani aveva già scatenato un violento fuoco nemico. Kira col mortaio sulle spalle cantava: «È la Guardia Rossa che marcia alla riscoss…» ma non potè terminare la strofa perché uno dei colpi di un mortaio 81 sparato dal nemico esplose a pochi metri più in alto83.
Carattere esuberante Kira84, ma quel giorno non è l’unico a cantare e a lanciare slogan di incoraggiamento. Scrive ancora Francia: «La Volante, i Georgiani, ed il reparto del Fabbri di Giuli e Mario avanzarono da Santa Maria verso il crocevia. Ci si buttò all’assalto gridando: “Viva l’Italia! Morte al fascismo!” Monza in testa, incitò tutti gridando: “O Gravellona o morte!”. Purtroppo nei pressi del crocevia una raffica di mitra lo colpì in pieno ed egli cadde. Fu il primo morto della nostra brigata»85. Finite male quelle ventotto ore di combattimento – ma si trattava di assaltare una cittadina con buone fortificazioni e un nemico bene armato – gli uomini tornano verso nord, all’interno della repubblica partigiana dell’Ossola. Per scrollare di dosso le paure della battaglia, elaborano «una nuova canzone cambiando solo le parole ad un vecchio motivo popolare»: Gravellona Gravellona Traditor della vita mia Ho lasciato l’amante mia Per venirti a conquistare Per venirti a conquistare Ho perduto molti compagni Tutti giovani sui vent’anni La loro vita non ritorna più C’era Barbis86 che lui piangeva Nel vedere tanto macello Oh non pianger o Barbis bello Che l’onore sarà per te87.
Altro episodio ha per protagonisti gli uomini di una pattuglia della 50ª brigata Garibaldi, i quali, durante i combattimenti per la liberazione del Biellese, vengono accerchiati in un casolare da truppe tedesche. I nostri tentano di uscire. Impossibile! Sono già circondati. Ritornano in cascina, si arrampicano sui tetti e sui muri di cinta ed accolgono i tüder col fuoco delle poche armi. Zambo li dispone nel 171
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miglior modo possibile e sono 21! E qui Vladimir, il vice-comandante, grida ai nostri: «Siamo in ventuno, quanti sono stati i fucilati di Biella, di Mottalciata, di Salussola! Ci batteremo sino all’ultimo e dobbiamo essere felici. Noi a differenza dei primi possiamo combattere!». I nostri cantano… «Oh, Italia… Italia bella…» e sparano. Tutti cantano meno quei due dei mitragliatori. Non possono, perché sono laggiù sui portoni d’entrata e tengono a bada le pesanti e le «Seghe di Hitler» loro. I tedeschi sparano furiosamente, i nostri si difendono. «Era bello – ci dice Franco il siciliano – vederci pronti a morire uno dopo l’altro». «Cantavamo contenti di morire da Garibaldini», ci dice un altro! […]. Han sempre sparato i ragazzi di Zambo! E quando si son battuti contro i tedeschi per rompere il cerchio han sospeso il canto. Bisognava non farsi sentire. Lo ripresero appena al sicuro e questo canto li accompagnò sino a noi! […]. Tutti i compagni di Battaglione sono presenti; a uno ad uno si sono avvicinati ed ora assieme cantiamo. Cantiamo le nostre canzoni augurandoci che nei prossimi giorni «Faccia caldo!»88.
I canti, del resto, specificità dei reparti miliari, sono ampiamente usati anche dalle milizie della Rsi. Eppoi c’erano le canzoni – afferma il repubblichino Mazzantini, allora in attività antiguerriglia nel Vercellese e in Valsesia –. Tutte quelle canzoni che avevano popolato di miti e fantasie la tua adolescenza e che avevano il potere magico di ricreare come una nube attorno a te nella quale ti sentivi sciolto da ogni peso. Sì, uccidevamo ma continuavamo a cantare. Lassù fra le montagne facevamo le nostre faccende di sangue, ma al ritorno ce ne scrollavamo di dosso il ricordo col frastuono dei nostri canti che rimbombavano sotto i porticati e s’infilavano nelle strade. […] Traversammo quei diciotto mesi di odi e di sangue, con una gran cantata. Era tutta la nostra cultura, tutto ciò che avevamo imparato in quei venti anni dentro i quali eravamo nati, e il mezzo attraverso il quale avevamo appreso il mondo. Ne trovammo una per ogni occasione, ogni stato d’animo: il nostro modo di esprimerci. Arrivammo in fondo a quella vicenda in una specie di ebbrezza che quei canti invariabilmente rinnovavano a ogni risveglio. Canzoni e canzoni. Che lanciavamo come sfide e come invocazioni, per suscitare in loro echi ormai morti e rimproverarli per quel silenzio. Per chiamarli e insieme colpirli. Esse ti trascinavano fuori di te, in una sfera dove tutto sfumava e si fondeva in qualcosa di impreciso e inebriante: paure, dubbi, ricordi89.
In combattimento il canto diviene una modalità per attizzare lo scontro e rivendicare la propria fede. Durante un’azione in montagna contro i partigiani, ricorda Giose Rimanelli, milite del battaglione «M» di stanza a Vercelli90:
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Di tanto in tanto le mitraglie s’inceppavano; qualcuno pisciava nel carrello perché era finito l’olio. Il capitano Mattei era sempre dietro i soldati, col binocolo e la pistola in pugno come un eroe di celluloide. Gridava: «Cantate, ragazzi! Fate sentire che avete ancora fiato». I soldati attaccavano rabbiosamente: A noi la morte non ci fa paura ci si fidanza e ci si fa all’amor, se poi ci avvince e ci porta al cimitero si accende un cero – e non se ne parla più. Ma la voce del capitano Mattei stimolava sempre e ripeteva: «Ancora, ancora ragazzi. Morite con le canzoni sulle labbra, le canzoni della vostra giovinezza!» Dalla cima del cocomero gli rispondevano risate sarcastiche e scariche che spazzavano il declivio. La voce beffarda gridava dietro al capitano: «Cantate, cantate, coglioni!» […] All’alba del quarto giorno si sentì cantare dalle postazioni lassù. Quelli cantavano una loro canzone sulla musica di un canto russo. Nella canzone nominavano le stelle il cielo e il vento. Quello che faceva la controvoce diceva: «Scarpe rotte eppur bisogna andar…». «Cantate anche voi», disse il tenente Mazzoni. Allora il soldato Danilo, quello che era venuto dalla III compagnia e leggeva di notte, gli rise in faccia senza pudore. Disse: «I moribondi non sanno più cantare. Abbiamo paura di perdere l’ultimo filo di fiato che ci tiene ancora in vita». Mazzoni non rispose, ma corrugò la fronte. Poi il canto cessò e non si udì altro suono venire dalle postazioni nemiche, come se anche lassù fosse scesa la morte91.
Dal racconto di Rimanelli traspare con chiarezza una particolare circostanza d’uso della canzone. I cori non servono solo per dare senso al gruppo e cadenzare il passo lungo le vie cittadine e neppure per rilassarsi in compagnia. Qualsiasi guerra si svolge sia con l’impiego degli armamenti che sul piano psicologico, quindi in un conflitto tra italiani lo scontro ideologico raggiunge efficacia nelle trasposizioni simboliche. Si spara e si canta da entrambe le parti: sono vere e proprie battaglie fatte di proiettili e di voci che cantano e insultano. Tracce dell’uso della canzone e nello specifico di una vera propria lotta di canti emergono anche da documenti scritti del periodo. Durante l’attacco dei garibaldini della Volante «Loss» al presidio di Fara: Ad un certo momento l’indiavolata sparatoria taceva e la voce piena e calma del Vice Comandante di Btg. Bufalo intimava per la prima volta al nemico la resa, a cui i fascisti rispondevano con raffiche di mitraglia e con il solito canto dei corvi moribondi: «Battaglioni del Duce battaglioni...»
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Il combattimento continuava così, con maggiore o minore intensità per più ore. Il nemico non cantava più, erano invece i nostri valorosi garibaldini che, incuranti del pericolo e della morte passata assai vicino a molti di loro, cantavano: «Cosa importa se ci chiaman banditi... Ma il popolo conosce i suoi figli...»92.
È lotta di nervi e di armi, di consapevolezza e di fiducia; l’impiego della canzone è l’antidoto alla rassegnazione, un modo per ravvivare lo scontro, per infondere sicurezza e per confermare la superiorità morale delle proprie ragioni. Le lotte simboliche a suon di canti e slogan, peraltro, non sono certo un’invenzione di questo conflitto, ma sconfinano in un lontano passato. Limitando l’osservazione al Novecento, i precedenti prossimi sono le trincee della Grande Guerra. Canti e slogan, quando le linee del fronte erano vicine e a «portata d’orecchio», fecero parte dello scenario di guerra. In quel conflitto, peraltro, grazie alla possibilità in certe zone di dialogare a distanza, si pervenne a momenti di non belligeranza. Frangenti nei quali, a discapito dell’immagine del nemico da odiare, propria delle condizioni ferine della guerra, prevalse l’esatto contrario. «[Nella loro trincea] – ricorda l’artigliere Olivo Mossotti – c’erano degli austriaci delle parti del Tirolo che sapevano l’italiano eh, e si parlavano con le nostre vedette. Loro dicevano: “Abbiamo fame, dateci qualche pagnotta”. Loro avevano tanto da fumare, ne avevano in abbondanza, allora i nostri ci facevano passare qualche sacchetto di pane e non si sparavano mica, nemmeno un colpo di niente»93. Di quel conflitto rimane celebre l’episodio avvenuto la notte del 24 dicembre 1914, quando in una trincea delle Fiandre alcuni soldati tedeschi iniziarono a cantare Stille Nacht, seguiti da lì a poco da un grande coro e dall’inalberarsi di cartelli con la scritta: «We not shoot, you not shoot». Dalle parte opposta inglesi e francesi, dopo un attimo di perplessità, risposero con canti natalizi. Uscirono allo scoperto, fraternizzarono e, nonostante gli ordini contrari delle autorità militari, concordarono tre giorni di tregua: una piccola pace nella Grande Guerra94. Battaglie sonore sono ricordate nel dopoguerra con gli scontri tra socialcomunisti e squadristi. A Parma, ad esempio, ricorda una camicia nera della prima ora: «La sera del 24 luglio [1921] sette od otto fascisti scendendo per corso Garibaldi si imbatterono in un gruppo di “arditi del popolo” che cantava “bandiera rossa”. I fascisti intonarono allora Giovinezza. Ne nacque un violento tafferuglio»95. Sequenza tipica del periodo, certamente accaduta in numerose località. 174
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Tornando alle trincee, lo scrittore George Orwell, alla guerra di Spagna in veste di giornalista nel campo repubblicano, annotò: «Ovunque le due linee fossero a portata di voce l’una dall’altra, c’era sempre un grande scambio di urla da trincea a trincea. Noi gridavamo: “Fascistas maricones! ”. I fascisti: “Via España! Viva Franco!” – o quando sapevano di avere degli inglesi davanti: “Tornatevene a casa vostra, inglesi! Non vogliamo stranieri qui!”»96. In quel conflitto, la possibilità di scambiarsi invettive dalle trincee venne sfruttata in modo «scientifico» sul piano della propaganda ufficiale. L’organo di stampa del Quinto reggimento repubblicano pubblicò indicazioni precise per i propri combattenti sull’uso psicologico della comunicazione politica a mezzo altoparlanti97. L’efficacia di queste voci è ricordata da un militare italiano inquadrato nelle truppe fasciste: Mentre noi eravamo in linea sentivamo degli altoparlanti dall’altra parte, dalla sponda opposta, che non facevano altro ripeterci: «Fratelli, compagni, fratelli – no compagni, fratelli ci chiamavano – fratelli ma che cosa fate – dice – siete venuti in Spagna perché? Per combattere contro i vostri fratelli? Cercate di ritirarvi, cercate di trovare il mezzo per andare via perché tanto – dice – la guerra la perdete. Anche se non perdete questa, che sicuramente può darsi che la vincerete, avete una forza di più di noi, però perderete tutto il resto, Voi non le capite queste cose» e allora poi ci cominciavano a cantare delle canzoni, insomma ma ci dicevano sempre queste cose in tutti… io ricordo che in tre o quattro fronti che ho fatto sull’Ebro, sul Guadalajara specialmente, e insomma in altre zone ma praticamente quelle che le battaglie più forti son state sull’Ebro, l’Ebro è stata una cosa incredibile proprio, e loro ci ripetevano sempre queste cose qua98.
La guerra a parole, improperi e canti resta attiva fin tanto che persistono le condizioni di un suo impiego. Le competizioni canore, peraltro, assolveranno a nuovi compiti nei contesti artistici del Novecento, prestandosi a un uso teatrale e narrativo. Specie nelle fiction cinematografiche esse offriranno le migliori condizioni per fissare e sottolineare la loro pregnanza allegorica99. Canta che ti passa La canzoni, in questi contesti e più in generale in quelli culturali e identitari della Resistenza, svolgono un compito particolarmente incisivo. Il fatto che in un brevissimo lasso di tempo ogni formazione abbia costituito un proprio repertorio canoro, dimostra l’importanza attribuita ai can175
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zonieri. Non vi è originalità nei canti partigiani, quasi tutti i testi impiegano melodie conosciute e qualche salto nel gusto estetico andrebbe compiuto100; tuttavia, proprio in questi atteggiamenti, l’aver scelto arie note a volte banali ma facilmente ricantabili, si rinviene la loro specificità. Del resto: «Come avrebbe potuto propagarsi in quelle condizioni un canto affidato a una melodia del tutto nuova, quindi sconosciuta ai partigiani? Guerriglia e corsi d’insegnamento musicale sono cose incompatibili»101. Inoltre, altra caratteristica dei canti è la loro creazione anonima. I testi di numerose canzoni, dai moduli musicali eterogenei (militari, popolari, politici, di musica leggera, ecc.), non nascono dalla penna di letterati, ma dagli uomini delle formazioni. Singolarità per la quale «il canto spontaneo si definisce come mezzo d’indagine di un’epoca e di una situazione, più preciso e spietato, forse, di altri strumenti storiografici»102. In effetti, in quel momento maturano repertori codificabili come modelli espressivi di una nuova comunicazione orale, ma, diversamente dal passato risorgimentale, estranea alla tradizione letteraria nazionale. Non differenze dovute a procedimenti stilistici ma vere e proprie modalità alternative di creazione del canto. Anche la stampa partigiana comunista, infarcita dalla retorica del tempo, delinea questi tratti: Son nati i primi canti partigiani fra quelle montagne, quei canti che fanno fremere, quei canti che ricordano un passato, che ricordano il secondo Risorgimento italiano. «Urla in vento, fischia la bufera»; è il Partigiano che la canta, è colui che ha resistito alla tormenta pensando al domani dell’Italia nostra. «Che importa se ci chiamano banditi»103. Sono i veri Italiani che lo gridano da quelle montagne a tutti. Loro sapevano che il popolo italiano conosceva i suoi figli, loro sapevano che a casa la vecchia mamma pregava per loro e diceva con orgoglio: «Mio figlio combatte per la Patria, è lassù sui monti, ma un giorno verrà ad abbracciarmi»104.
I canti hanno poi la particolarità di smuovere gli animi, di far sgorgare forti emozioni nelle occasioni più tragiche, che certo non mancano, come le esecuzioni per rappresaglia. Un episodio fra i tanti: il primo novembre 1944, al porto di Castelletto Ticino vengono condotti sei partigiani prigionieri per essere fucilati come atto di rappresaglia per l’uccisione di un ufficiale della Decima Mas. Sul piazzale del porto vengono tradotti anche sedici ostaggi e tutta la gente del posto trovata. I condannati giungono con un barcone e alla vista della popolazione, ricorda l’unico scampato: «Ci mettiamo a cantare un inno partigiano più con la forza dell’istinto che con 176
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quella della ragione»105. Poi, allineati davanti al plotone di esecuzione intonano «Che importa se ci chiaman banditi, il popolo conosce i suoi figli». Il capitano Ungarelli della Decima Mas legge la condanna a morte, ma incalzato dalla popolazione è costretto a concedere la vita al più giovane del gruppo, Alfonso Boca di diciassette anni. I condannati allora riprendono a cantare accompagnati in coro da diversi paesani e una donna, rompendo il cordone della milizia, si butta verso i prigionieri incitandoli a continuare il canto. Viene dato l’ordine di fuoco e i partigiani muoiono gridando: «Viva l’Italia, Viva i Partigiani»106. Il valore intrinseco del canzoniere partigiano sta anche in questo: essere capace, in momenti di intensa partecipazione emotiva, di accompagnare i condannati nel loro ultimo atto della vita. «Canto – scrive Soreghina, cantiamo tutti ed a un tratto una commozione profonda mi prende l’anima e sento qualcosa che mi fa male al cuore: sono le parole, sono i motivi di questi canti fioriti tra una battaglia e l’altra»107. Sarà l’afflato poetico che colpisce ma se, come aggiunge la staffetta garibaldina, vi sono ragazze nelle città «che attendono con ansia il testo d’una canzone partigiana per impararla», di sicuro biglietti e fogli con riportati canti partigiani sono minuziosamente ricercati dai fascisti. La Teresina da ragazza lavorava [a Omegna] alla Lagostina o in una di quelle fabbriche lì dopo il Molinetto. Tutte le mattine, con altre due compagne, doveva passare il posto di blocco che c’era vicino alla Cobianchi e una volta un milite l’ha fermata e gli ha frugato nella borsa. La Teresina ha detto: «Cosa cercate?». Cerco foglietti con le canzoni partigiane». «Noi le canzoni partigiane le abbiamo in testa e non scritte». Ha avuto quel coraggio lì, di dire una cosa del genere108.
Questo si racconta di Teresina, mentre la staffetta partigiana «Biancaneve», ricorda che al momento del secondo arresto, introdotta nel locale comando di Boleto, le si fa ascoltare al pianoforte la melodia di Fischia il vento e le viene rivolta la domanda: «Le piace questa canzone?»109, come avvio a una serie di sevizie e brutalità che subisce la giovane donna prima di essere incarcerata a Torino. Ma accade di peggio: per un biglietto che riporta il testo di una canzone partigiana, trovatogli in tasca, il sedicenne Glauco Bergamotti di Romagnano Sesia è fucilato dai repubblichini nel luglio 1944110. Le canzoni partigiane si assumono come monito e sprone alla lotta, anzi, le musiche e i testi di questi brani rientrano nella sfera della sacralità, 177
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cui va prestato il dovuto rispetto. Per motivi del genere, per la capacità che hanno i canti di toccare le corde dei sentimenti e di trasfondere idealità e convincimenti, non è possibile banalizzarne l’uso. Ci dicono alcuni garibaldini, che in molte serate danzanti le varie orchestrine suonino «Scarpe rotte», la canzone dei partigiani d’Italia, e che i ballerini si affrettino a danzare al suono di questa canzone. Checché ne dicano gli intenditori, «Scarpe rotte» non è un ballabile. Lo potrà essere per musica e ritmo, ma non lo può e non lo deve essere per ragioni sentimentali. «Scarpe rotte», che ricorda i morti, i torturati, i feriti, non deve essere affidato al movimento più o meno sincopato di piedi in moto, ma al palpitare del cuore che ritorna a rivivere ore e momenti della vita partigiana. Si suoni prima o dopo il ballo, se la serata è in onore dei partigiani, ed anche senza salutare e o mettersi sull’attenti, ma ascoltando in silenzio, intimamente: non si sciuperà la memoria di Chi è caduto con la canzone «Scarpe rotte» sulle labbra insanguinate111.
Usanze di morte, trofei di guerra Finite le grida, terminati i combattimenti, si compie l’ultima arcaica consuetudine: il vilipendio del cadavere del nemico112 e la sua rituale spoliazione. Il vilipendio del cadavere è un tema ricorrente e più volte affrontato negli studi sulla Resistenza113. Protagonisti d’eccellenza sono i militi di Salò e le truppe naziste, coloro che detengono il formale controllo del territorio; la guerriglia partigiana, invece, attestata nelle vallate alpine con parziali e temporanei momenti di contropotere, solo con l’insurrezione dell’aprile 1945 esibirà la propria egemonia. Il predominio nel territorio dei nazifascisti è sancito in sostanza dal potere di vita o di morte che essi esercitano. Del resto, attraverso questa potestà, ultima tra le opzioni possibili, passerà la legittimazione della Rsi in quei venti mesi114. Fucilazioni e morti violente divengono per i cittadini monito dell’orribile sorte imposta al nemico. Guida alla didattica funeraria sono gli effetti prodotti dall’esposizione dei cadaveri, una truce rappresentazione che deve impaurire la popolazione e renderla inoffensiva. In numerose circostanze, quindi, all’eliminazione dell’avversario, solitamente mediante fucilazione115, segue l’ordine di lasciare i corpi inanimati come pubblico ammonimento. In alcuni casi anche i caduti in combattimenti di montagna sono trasportati in paese ed esposti, come capita il 22 ottobre 1944 ai dieci partigiani, tra cui una don178
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na in stato di gravidanza, uccisi dai tedeschi all’alpe Meccia, in valle Anzasca, e fatti trasportare a Macugnaga. Agli occhi degli abitanti, l’immagine di quel mesto corteo di corpi legati mani e piedi a lunghe pertiche e portati a spalla da venti valligiani precettati, evoca gli esiti di un safari, piuttosto che un atto di pietas del vincitore. Infatti, anziché essere deposti al cimitero per la sepoltura, vengono allineati come trofei di caccia all’ingresso del paese e lì lasciati bene in vista116. La pratica di segnare il territorio con l’esposizione di cadaveri, non pare però una norma codificata e l’atteggiamento muta a seconda delle circostanze e degli umori degli esecutori. Ciò vale per i dieci fucilati di Ghemme il 6 marzo 1945: «Portare via subito i corpi – ordina il comandante tedesco –. Portarli al cimitero con un carro. Provvedere le bare. Sotterrarli immediatamente, senza lacrime, senza rito, senza preghiere e senza nessun accompagnamento», altrimenti, «in caso di trasgressione, impiccheremo dieci persone al balcone del Municipio»117. Anche per i sette uccisi in combattimento a Casalino il 30 marzo ’45, viene ordinato al segretario comunale: «Adesso provvedete al seppellimento dei morti ma senza fare alcuna cerimonia. Ne va della vostra vita e di quella del prete, se fate diversamente»118. Un’altra consuetudine di carattere pedagogico adottata durante le esecuzioni, quella di far presenziare la popolazione al fatto, è in qualche caso disattesa. Prima della fucilazione degli otto partigiani e del personale medico catturato a Forno, il tenente De Filippi della «Tagliamento» ordina al parroco: «Ora chiami la popolazione che venga ad assistere all’esecuzione». Al rifiuto del curato, l’ufficiale ribatte: «Allora assista lei per tutti»119. Anche le conclusioni del macabro rituale, l’inumazione dei cadaveri, non si attiene a identiche procedure. In occasione di questo eccidio, a fucilazione avvenuta, il comandante dell’operazione, tenente Fabbri, ordina di lasciare esposti i cadaveri fino a sera e dopo di darvi sepoltura. Don Zolla annota sul suo diario: «Dal tenente Fab[b]ri ottenni di far loro un semplice funerale che poi fu solenne. Alle mie insistenze per i funerale il Fab[b]ri dissemi: “Dei cadaveri non mi curo”»120. Altra cerimonia funebre che si cerca di celebrare in forma solenne, con numerosa folla nonostante il divieto, è quella, già citata, per Nardino Bariselli, uno dei caduti di Chesio. Solo l’intervento all’ultimo momento del repubblichini impedisce l’accesso della popolazione al cimitero di Crusinallo per le esequie. Altri episodi testimoniano la riottosità verso le prescrizioni. I corpi dei dodici trucidati di 179
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Borgoticino del 13 agosto 1944, rimossi dai parenti dopo la fucilazione, vengono fatti riportare in piazza dagli uomini della Decima Mas. Occorre attendere il giorno seguente perché si autorizzi il trasporto delle salme al cimitero: «L’ordine era di caricarle tutte in una volta su di un carro e di inumarle così com’erano, senza neanche una bara», ma ancora una volta i parenti si ribellano e li seppelliscono in casse singole121. Si infrangono le norme anche per i dieci fucilati di Rozzo di Borgosesia il 19 luglio 1944. Annota il giornale garibaldino: «Le salme dei giovani colpiti a tradimento dal piombo nemico vennero tumulate il giorno seguente in disobbedienza all’ordine e alla mesta cerimonia intervenne un prete in cotta e stola e gli altri in nero»122. Così pure accade per i trucidati alla Garella, nella pianura vercellese a metà marzo 1945. Dopo la fucilazione: «Furono sepolti nel cimitero di Buronzo, ma mezzora dopo i dodici martiri con le membra dilaniate ed ancor calde di sangue, con l’aiuto della popolazione, venivano caricati su di un automezzo partigiano e portati via»123. Da questi esempi appare chiaro che il protocollo delle esecuzioni non segue un copione preciso. I quattro momenti in cui è suddivisibile l’evento: adunata della popolazione; lettura della condanna ed esecuzione; esposizione dei cadaveri, inumazione senza esequie pubbliche, risultano spesso privi di qualche loro parte. Valgono invece le linee generali, la dimostrazione del potere e l’esercizio della forza attraverso l’uccisione del nemico e il vilipendio del cadavere. Un disprezzo che alla fine dei combattimenti si trasforma in accanimento con la pratica dei militi fascisti di infierire all’arma bianca su moribondi e cadaveri. Gli episodi sono numerosi e il comportamento pare quasi seriale. Limitandoci a considerare il Borgomanerese, una piccola area del medio Novarese, si può redigere un triste elenco: il 5 settembre 1944 lungo la provinciale Cressa-Bogogno vengono uccisi e straziati i corpi di quattro civili con i pugnali124; il 18 novembre 1944 a Invorio Inferiore una pattuglia della Gnr, grazie a una delazione sorprende e uccide a colpi d’arma da fuoco un garibaldino del battaglione «Bariselli», ma non soddisfatti si avventano sul corpo «massacrandolo a pugnalate»125; il 23 febbraio 1945 a Cressa sono trucidati e seviziati con pugnali i partigiani della Volante «Loss» Mora e Gibin126; il 28 marzo 1945 a Invorio Superiore, ultimo del gruppo di undici garibaldini sorpresi in una cascina e massacrati, il sedicenne «Matteotti» è trucidato a colpi di pugnale127. Fine simile tocca a tre partigiani della «Beltrami» una decina di giorni prima dell’insurrezione, il 12 aprile sopra 180
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Omegna. I tre giovani vengono rinvenuti colpiti da proiettili di mitra, ma «mostruosamente pugnalati in viso e per tutto il corpo»128. Brutalità del genere, sostenute dalla disumanizzazione dell’avversario come condizione esiziale della guerra, si annoverano in quella sorta di «esaltazione da campo di battaglia», presente su tutti i fronti che induce i soldati, frustrati ed esasperati dal conflitto, a vendicarsi sul nemico e sulle sue spoglie129. Oltraggi ai cadaveri si possono enumerare in un’ampia casistica: dall’irriverenza del comandante della brigata nera «Cristina», che mentre consuma un panino dà il colpo di grazia a uno dei due disertori fucilati a Biandrate il 23 ottobre 1944130; agli sputi delle ausiliarie novaresi sui corpi dei partigiani trucidati in piazza Cavour il 24 ottobre 1944; alle pedate e ai colpi d’arma da fuoco di tedeschi e fascisti ai quarantadue fucilati di Fondotoce il 20 giugno 1944131; alla brutalità con cui viene trattato il cadavere del partigiano Peppino Beldì, ucciso con due compagni in un’imboscata a Nebbiuno il 16 luglio 1944 e secondo alcune voci decapitato132. Un’efferatezza del genere, in quella circostanza, non dovrebbe essere avvenuta133, ciononostante spiccare teste dei nemici è una pratica usata dagli italiani nelle guerre fasciste e documentata dai souvenir fotografici134. Durante la Resistenza si annoverano altri casi del genere come quello del novarese Pier Angelo Parzini, il quale, catturato dai tedeschi in provincia di Savona il 23 novembre 1944, per due ore viene «sottoposto alle torture più atroci, poi gli hanno troncato il capo e hanno portato in giro, su una picca, la testa mozza, come un trofeo»135. Fatti veritieri o spesso voci di guerra che si propagano – incutendo quell’orrore e quel timore voluti da chi li pone in atto – rendono più terribile la guerra e il suo ricordo. «La testa al Peppino Beldì non è stata tagliata… Una storia tremenda che ho sentito dire è successa vicino a Invorio; a un partigiano gli hanno tirato fuori il cuore e gli hanno messo dentro una scarpa… Poi i genitori sono andati su a vedere. […] Ricordo poi quella notte che hanno ammazzato gli ebrei nel lago, da qui sopra sentivamo le urla»136. Ultima fase dei combattimenti è la spoliazione dei cadaveri. Depredare i corpi, impossessarsi di armi, indumenti e oggetti del nemico, quale dimostrazione del proprio valore e scherno della vittima, appartengono ai ben noti riti di guerra. In epoche antiche per i guerrieri era disonorevole lasciare spogliare delle armi i propri caduti e non difenderne il cadavere. Nell’Iliade, Sarpedonte, re di Licia e alleato dei troiani, colpito a morte da Pa181
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troclo si rivolge a Glauco, altro comandante dei lici, per spronarlo alla lotta, chiedendogli di proteggere le proprie spoglie: Caro Glauco, – gli disse – or t’è mestieri buon guerriero mostrarti, e oprar le mani audacemente. Te dell’aspra pugna, se magnanimo sei, l’incarico assumi: corri, vola, e de’ Lici i capitani alla difesa del mio corpo accendi. Difendilo tu stesso, per l’amico combatti: infamia ti deriva eterna, se me dell’armi mie spoglia il nemico, me pel certame delle navi ucciso137.
Sottrarre armi ed effetti personali ai cadaveri è in uso anche nella guerra civile italiana: dall’abitudine, consolidata da ambo le parti, di trafugare le calzature dei morti, all’esibizione degli oggetti. A Megolo, «gli squadristi Possenti e Poletti si accontentano di vilipendere i cadaveri, di togliere la giacca di pelle di pecora e lo zucchetto bianco-blu al morto Beltrami. I due nel tardo pomeriggio si vanteranno, all’albergo “Sempione” di Gravellona, della loro partecipazione all’eccidio mostrando quei trofei, prova che il capo partigiano è morto»138. E così, al commissario politico della Volante «Loss», Santino Campora, ucciso in combattimento il 16 marzo 1945: «Mani avide e di persone, che non capivano nemmeno la Causa per cui combattevano, gli strapparono mostrine e gradi, gli tolsero le armi, il portafoglio, la borsa e gli scarponi. Credevano di disonorarlo, non sapendo che Santino era già entrato nella Legione degli Eroi, mentre loro si rilevarono come miserabili ladri»139. Altro episodio accade una mattina alla fine dello stesso mese nei pressi di Casalino, dove i militi della «Muti» sorprendono un gruppo di partigiani della «Loss» e ne uccidono sette in combattimento. Al dopopranzo: Verso le tredici alcune di quelle autentiche belve ritornarono sul luogo del delitto per compiervi nuove e crudeli atrocità: fra essi era un criminale di 16 anni. Raggiunsero i cadaveri, li spogliarono di quanto avevano indosso di prezioso, quindi li sfregiarono e li seviziarono coi pugnali. «Per vincere ci vogliono i leoni» dicevano in una delle loro orribili canzoni. Ed altro non erano che iene e sciacalli. Tirarono di pugnale all’occhio destro e al collo di Poletti; a Destefano squarciarono il ventre e vi introdussero una pipa; il viso di Roncaglione e di altri era deturpato, e al medesimo Roncaglione non si 182
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
peritarono di togliere scarponi, calzettoni e un orologio d’oro che recava al braccio. Anzi colui che seppe compiere tale prodezza, non trovò di meglio che vantarsene, poi, in paese, ostentando l’orologio. «Questo – diceva – è del vostro studentello. Adesso è laggiù il vostro studentello... Andatelo a trovare»140.
Infine, vi è quell’abitudine «moderna» del tempo di guerra di conservare le fotografie di eccidi, fucilazioni e altre crudeltà. Scrive Gershon Taffet nel 1945: «Questi criminali avevano una predilezione speciale, molto caratteristica per comprendere la loro mentalità, di assicurarsi degli “affascinanti” ricordi delle loro imprese criminali e sanguinose. Essi tendevano soprattutto a eternizzare le loro azioni nel momento stesso in cui si compivano con l’aiuto della fotografia. È a questo comportamento che noi dobbiamo una fonte documentaria di primario valore»141. Tedeschi, come nel caso di Taffet, ma anche italiani e più in generale soldati di tutti gli eserciti, sono stati e sono ancora fruitori di una notevole produzione di immagini atroci della guerra. Oggi, ben disposte negli album familiari, paiono discutibili souvenir del tempo che fu, ma allora svolsero la macabra funzione di esorcizzare il pericolo e lo spettro della morte142. Se come trofeo non si possiede un oggetto del nemico o persino una parte del suo corpo143, l’immagine che lo ritrae definitivamente sconfitto infilata nel portafoglio può bastare. Si tratta di fotografie realizzate dai possessori, oppure acquistate al fiorente mercato delle immagini come quelle famose dei cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi a piazzale Loreto. Immagini diffuse in migliaia di copie a livello semiclandestino e finite persino negli album ricordo degli alleati144, che diventeranno per tutti le tragiche icone della fine del regime145.
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Filippo Colombara
Note al testo 1
PIETRO RASTELLI, Battaglie della «Strisciante». Azioni di guerriglia in Valsesia dell’84ª Brigata Garibaldi «Strisciante Musati» nel diario del suo comandante, Millenia, Novara 1998, p. 12.
2
ACS, Rsi, Guardia nazionale repubblicana, 1943-1945, b. 33, f. 4, Carteggi Legione Intra, nota del primo maggio 1944.
3
Dal 28 gennaio 1944 la bandiera tricolore delle forze combattenti della Repubblica sociale italiana reca lo stemma di un’aquila nera poggiata su fascio littorio.
4
Su aspetti del genere, studiati ad esempio per l’esperienza statunitense, cfr. ALESSANDRO PORTELLI, Con inni e bandiere. Il conflitto culturale nello sciopero di Harlan (1931-32), in La cultura delle classi subalterne fra tradizione e innovazione, atti del convegno di studi, Alessandria, 14-16 marzo 1985, a cura di Roberto Botta, Franco Castelli e Brunello Mantelli, Isral-Edizioni dell’Orso, Alessandria 1988, pp. 151-168.
5
DAVID I. KERTZER, Riti e simboli del potere, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 17. Come per i riti della politica studiati dall’antropologo Kertzer, quelli della Resistenza mettono in atto un processo simbolico al di fuori del sacro (cfr. EMILE DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa [1915], Edizioni di Comunità, Milano 1963), ma parimenti prescrivono le regole di comportamento degli individui.
6
FRANCO FORNARI, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 1970, p. 40.
7
Rituale attivato per evitare il senso di colpa e segnare la rottura del tempo di pace con l’avvento della guerra.
8
FRANCO FORNARI, Psicoanalisi della guerra cit., pp. 40-41.
9
Silvio Nebbia (1921), operaio; intervistato da Virginia Paravati e Filippo Colombara a Omegna il 22 ottobre 2002; brano edito in Il pane e le parole. Testimonianze orali sugli usi alimentari nel Cusio (1900-1950), a cura di Virginia Paravati, Casa dell’Anziano «Massimo Lagostina», Omegna 2002, pp. 57-58 (dispensa in offset). Traduzione delle parti dialettali: «Micio, micio», lui l’ha portato via e abbiamo fatto polenta e gatto […]. «Domani ci vediamo in piazza». […] «… sono affari suoi». E difatti sono venuti tutti insieme a me, eh: in montagna.
10
ARNOLD VAN GENNEP, I riti di passaggio [1909], Bollati Boringhieri, Torino 1981, p. 30.
11
Cfr.: PAOLA CORTI, Paese d’emigranti. Mestieri, itinerari, identità collettive, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 148-153; FILIPPO COLOMBARA, Pietre bianche. Vita e lavoro nelle cave di granito del lago d’Orta, Alberti libraio, Verbania 2004, pp. 186-187.
12
ARNOLD VAN GENNEP, I riti di passaggio cit., p. 31.
13
FRANCO CASTELLI, Miti e simboli dell’immaginario partigiano: i nomi di battaglia, in Contadini e partigiani, Atti del convegno storico (Asti, Nizza Monferrato, 14-16 dicembre 1984), Edizioni dell’Orso, Alessandria 1986, p. 287.
14
Ibid., pp. 308-309. L’autore rimanda all’importanza della categoria del carnevalesco nella storia della cultura, presente in MICHAIL BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979.
15
Cfr.: Ibid., pp. 285-309; ID., Antropologia linguistica della Resistenza: i nomi di battaglia partigiani, «Rivista italiana di dialettologia», Bologna, 10, 1986, pp. 161-218; ID., Dai ruolini della ”Pinan-Cichero”: i nomi di battaglia della brigata Oreste, «Quaderni di storia contemporanea», Alessandria, Isral, 1, 1987, pp. 101-116; ID., Maschere, simboli, miti: note sull’immaginario partigiano, in Con le armi, senza le armi. Partigiani e resistenza civile in Piemonte (1943-1945), catalogo della mostra a cura degli Istituto storici della resistenza del Piemonte e dell’Archivio na-
184
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
zionale cinematografico della resistenza, Agorà libreria, Torino 1995, pp. 28-33; CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, vol. II, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 1995, pp. 271-299; PAOLO ZURZOLO, Onomastica partigiana nel Bolognese, «Bibliomanie. Ricerca umanistica e orientamento bibliografico», 4, 2006, http://www.bibliomanie.it. 16
MARIO MARCHIONI, Filippo Maria Beltrami «il Capitano». La resistenza nel Cusio dal novembre 1943 al febbraio 1944, Mursia, Milano 1980, p. 107.
17
GUIDO WELLIER, La bufera. Una famiglia di ebrei milanesi con i partigiani dell’Ossola, Giuntina, Firenze 2002, p.117.
18
Giuliana Gadola Beltrami, intervistata da Franco Antonicelli in Ancr-Isrn, Non c’è tenente né capitano... li chiamavano briganti, documentario di Claudio Cormio, Torino, I Quaderni del Nuovo Spettatore, 1994, p. 24.
19
GUIDO WELLIER, La bufera cit., pp. 118-119.
20
Isrsc Bi-Vc, Comando raggruppamento, Al Comando Generale delle brigate “Garibaldi”, oggetto: Giuramento, 9 dicembre 1944; documento citato in CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia cit., vol. I, t. 2, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia, 2000, p. 328.
21
Meglio sarebbe stato, secondo il Comando generale, che la formula in unica versione fosse adottata da tutte le formazioni, anche non garibaldine, evitando di «richiedere giuramenti che potrebbero apparire di parte» (Isrsc Bi-Vc, Comando generale delle brigate d’assalto «Garibaldi», Al Comando raggruppamento divisioni «Garibaldi» Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, prot. 514, 20 dicembre 1944; documento citato in CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia, vol. I, t. 2 cit., p. 328.
22
Isrsc Bi-Vc, Anpi, Comitato provinciale di Biella ai ministeri di Giustizia e degli Interni, lettera del 17 gennaio 1946.
23
Isrsc Bi-Vc, Comando della I divisione alla brigata «Osella», lettera del 29 ottobre 1944. Questo e gli altri documenti sui matrimoni partigiani che seguono sono citati in CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia, vol. I, t. 2, cit., p. 530-532.
24
Isrsc Bi-Vc, Comando della I divisione al Comando di raggruppamento, relazione del 12 dicembre 1944.
25
Cfr. Partigiani a colori nelle diapositive di Carlo Buratti, a cura di Alberto Lovatto, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 2000, p. 58.
26
Le informazioni sono desunte dall’intervista ad Alba Dell’Acqua, realizzata da Cesare Bermani a Milano il 6 marzo 1971. La lettera di felicitazioni di Ciro, datata 21 marzo 1945, è conservata dalla testimone, cfr. CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia, vol. I, t. 2 cit., p. 531-532.
27
Ibid., p. 532.
28
«Unità e Libertà», giornale della 2ª divisione garibaldina, Villadossola, 22 settembre 1944.
29
LAURA GIORIA, Ci sposiamo nella chiesa di Bognanco Fonti, in PAOLO BOLOGNA, Il prezzo di una capra marcia. Voci di resistenti ossolani, Giovannacci, Domodossola 1976², pp. 114-115.
30
Cfr. «La Squilla Alpina», 13 gennaio 1946.
31
Il testo recita: «Con l’impeto dei 20 anni, nella Gloria degli Eroi, sono caduti in combattimento, i partigiani Antinoro Michele e Berni Mario. Due nuovi partigiani hanno raccolto e impugnato l’arma dei compagni caduti. I funerali avranno luogo oggi Lunedì alle ore 18 partendo dalla Piazza del Teatro. Nel contempo sarà pure traslata la salma del Patriota Vallacchi Carlone» (cfr. CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, vol. I [1ª ed.], Sapere, Milano 1971, p. 918, fig. 17).
185
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La parte conclusiva del testo recita: «Ai tre valorosi combattenti dell’Ossola libera [Luigi Gatti, Carlo Merli, Giuseppe Locatelli], alle tre vittime della barbarie fascista che vengono ad aggiungersi alle altre innumerevoli, ai tre nuovi Martiri della libertà italiana, sono stati decretati solenni funerali, cui si invita a partecipare tutta la popolazione commossa e riconoscente» («Liberazione», Giornale della Giunta Provvisoria di Governo e delle Formazioni Militari dei Patrioti dell’Ossola, Domodossola, 16 settembre 1944).
33
Cfr. Anpi sezione di Grignasco, Immagini di guerra partigiana. Grignasco, Valsesia, Novarese, Millenia, Novara 1999, p. 22.
34
Cfr. ADOLFO MIGNEMI, 400 immagini della Resistenza, mostra realizzata dall’Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara «Piero Fornara», 1985, pannello 4.4, in «Novara», notiziario economico della Cciaa di Novara, 1, 1995.
35
Cfr. Storia fotografica della Resistenza, a cura di Adolfo Mignemi, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 134.
36
Cfr. CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia, vol. I [1ª ed.] cit., p. 919, fig. 19.
37
Cfr.: ADOLFO MIGNEMI, 400 immagini della Resistenza, cit., pannello 4.3; ARRIGO RIGUCCIO GRUPPI (Moro), Guardando il gran carro. Racconto autobiografico, Viterbo, Nuovi Equilibri, s.d., p. 172.
38
Cfr. Partigiani a colori nelle diapositive di Carlo Buratti cit., pp. 99-106.
39
Il partigiano deceduto, Franco Rossari, della banda Beltrami, venne colpito per errore da uomini della formazione di Di Dio, mentre percorreva in automobile, con Filippo Maria Beltrami e Giuliana Gadola, la strada del lago d’Orta (cfr. GIULIANA GADOLA BELTRAMI, Il Capitano [1946], Sapere, Roma 2000, 1994, pp. 78-83).
40
Archivio-Biblioteca «Luigi Micheletti», GNR, Notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubblicana, Notizia del 15 gennaio 1944, p. 5. Il testo del manifesto citato è riportato in GIULIANA GADOLA BELTRAMI, Il Capitano cit., p. 92; una copia del medesimo è conservata nell’Archivio di deposito del Comune di Omegna, VI, 2-6-1-1, Manifesti del Governo militare alleato e di enti vari, 1939-1945.
41
Testimonianza di don Antonio Vandoni, uno dei cappellani della formazione, riportata in EN-
RICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese. Uomini ed episodi della guer-
ra di liberazione, Tip. Grafica Novarese, Novara 1984, pp. 341-342. 42
Cfr. FILIPPO COLOMBARA, La proprietà delle anime. Il ciclo della vita nei riti socialisti, in CESARE BERMANI e FILIPPO COLOMBARA, Cento anni di socialismo nel Novarese, Vol. I, Dalle origini alla prima guerra mondiale, Duegi editori, Novara 1992, pp.138-155.
43
Sui due episodi che avvengono il 9 maggio 1944, cfr. ibid., pp. 218-222.
44
Cfr. PASQUALE MAULINI, Omegna cara, Valstrona, rivista «Lo Strona», 1977, p. 251.
45
«Tutta Omegna e dintorni parteciparono al funerale, mentre ogni attività veniva sospesa. I fascisti occuparono il paese e fecero oltre 200 arresti senza riuscire ad impedire il corteo. Riuscirono solo a contenere la folla fuori del cimitero, dove, come si seppe in seguito, imbestialirono frustando la Madre di uno dei caduti colpevole di piangere il figlio e di aver reagito agli sgherri che ne insultavano la memoria dicendolo un delinquente» («l’Unità», 8 giugno 1944, edizione dell’Italia Settentrionale).
46
LEOPOLDO BRUNO CARABELLI, Memorie di un “ribelle”. I partigiani dell’alto e basso Vergante, Tipolitografia Piumatti, Magnano Biellese 1987, pp. 115-116.
47
Cfr. ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Una lettura delle bandiere operaie, in Un’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori: simboli e cultura dall’Unità d’Italia all’avvento del fascismo, Centro studi
186
Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
Piero Gobetti-Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Torino 1980. 48
Cfr. LUISA PASSERINI, Torino operaia e fascismo. Una storia orale, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 120-127.
49
Luigi Rinolfi (1905), operaio; intervistato da Filippo Colombara e Gisa Magenes il 6 ottobre 1984; brano edito in FILIPPO COLOMBARA, La terra delle tre lune. Classi popolari nella prima metà del Novecento in un paese dell’alto Piemonte: Prato Sesia. Storia orale e comunità, Vangelista, Milano 1989, p. 205.
50
Quella dell’intervistato è un tipo di descrizione nota con il nome di ucronia: narrazione di un evento plausibile e coerente basato però su dati irreali, spesso rinvenuto nei racconti orali.
51
ACS, 1927-1944, K 22, b. 101, fasc. Primo Maggio.
52
Episodio narrato da Luciano Sereno di Andorno Micca a Luigi Moranino il 6 dicembre 1994 e citato da ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, La bandiera rossa, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 19982, pp. 307-308.
53
Antonio Parmigiani (1905), operaio; intervistato da Filippo Colombara e Gisa Magenes a Omegna il 30 aprile 1987; brano edito in Gisa Magenes, Solidarietà operaia. La Soms di Omegna, Milano-Novara, Istituto Ernesto de Martino-Magia Libri, 1992, p. 75.
54
Libero Diaceri (1908), operaio; intervistato da GISA MAGENES a Omegna il 2 maggio 1987; brano edito in ibid.
55
Carlo Giacomini (1929), operaio; intervistato da Filippo Colombara a Omegna il 5 novembre 1998; brano edito in FILIPPO COLOMBARA, Uomini di ferriera.Esperienze operaie alla Cobianchi di Omegna, Verbania, Alberti libraio, 1999, p. 45.
56
Dalla poesia di Ettore Piazza, Falispi lusenti mè steli, [Faville lucenti come stelle], in ID., Poesie in dialetto piemontese, Novara, «Quaderni de La Lotta», 1, 1954, p. 36. Trad.: «Non l’ho. Non è qui. / Ma anche l’avessi non ve la darei».
57
Cenisio Girardi (1932), operaio; intervistato da Filippo Colombara a Miasino il 18 gennaio 2000.
58
Gualtiero Caprilei (1921), operaio; intervistato da Filippo Colombara e Gisa Magenes a Villadossola il 28 settembre 1984.
59
Ivana Dell’Olmo (1924), operaia e poi impiegata comunale; intervistata da Gisa Magenes e Filippo Colombara a Villadossola il 28 settembre 1984.
60
Remo Perolio (1931), operaio; intervistato da Filippo Colombara a Piana dei Monti il 18 luglio 1991; brano edito in FILIPPO COLOMBARA, I paesi di mezzo. Storie e saperi popolari a Madonna del Sasso, Milano, Istituto Ernesto de Martino, 1993, p. 174.
61
Sergio Campana (1927), operaio; intervistato da Filippo Colombara a Gozzano il primo febbraio 1991; brano edito in Memoria del quotidiano. Fascismo e resistenza a Gozzano, a cura di Filippo Colombara, Proposte, Gozzano 1991, pp. 44-45. Trad.: «Ma dove andiamo a prendere una bandiera rossa?».
62
Isrn, lettera di suor Lauretta Ines Buffotto, datata Rovereto 21 settembre 1994, citata in MAUBEGOZZI, La società civile nell’Ossola: il bisogno di normalità, «Asti contemporanea», Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della provincia di Asti, 5, 1997, p. 208. RO
63
Testimonianza orale pubblica di Pippo Coppo a Gravellona Toce il 19 settembre 1972; brano edito in Pippo Coppo, op. cit., p. 86. Con carta rossa si stampano i primi sette bollettini della Giunta provvisoria (dal 18 al 27 settembre 1944), mentre i rimanenti nove (dal 28 settembre
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Filippo Colombara
al 13 ottobre 1944) sono stampati su carta bianca. 64
GIANCARLO PAJETTA, Il ragazzo rosso va alla guerra, Mondadori, Milano 1986, p. 75.
65
Sul versante dell’azione di propaganda con l’uso di manifesti e opuscoli nel Piemonte nord orientale, cfr.: ADOLFO MIGNEMI, La Repubblica sociale nel Novarese: alla ricerca di un consenso, «Novara», 3, 1991, pp. 69-169; ID., La propaganda RSI in una realtà territoriale: il caso di Novara e La distribuzione dei materiali propagandistici durante la RSI in Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa tra fascismo e democrazia, a cura di Adolfo Mignemi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, pp. 276-335, 340-342; Sui muri del Vercellese. Settembre 1943aprile 1945, catalogo della mostra a cura di Piero Ambrosio e Gladys Motta, Borgosesia, Isrsc Bi-Vc, 1985; Sui muri della Valsesia. Settembre 1943-aprile 1945, catalogo della mostra a cura di Piero Ambrosio e Gladys Motta, Isrsc Bi - Vc, Borgosesia 1986; Sui muri del Biellese. Settembre 1943-aprile 1945, catalogo della mostra a cura di Piero Ambrosio e Gladys Motta, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 1989.
66
Cfr.: EGIDIO CLEMENTE, Moral Operations, in Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa, cit., pp. 150-164; LORENZO PEZZICA, ADOLFO MIGNEMI, Il fondo MO della Fondazione «Anna Kuliscioff» di Milano, ibid., pp. 165-176. Alla distribuzione dei materiali partecipano occasionalmente i partigiani. Uno di questi casi, riguardante dei fogli «Luftpost» lanciati dagli aeroplani, è citato dalla pubblicistica garibaldina: «E i partigiani trasformatisi in un vero esercito di propagandisti per l’occasione, dagli a raccogliere dove erano caduti mancando il segno per farli giungere numerosi a destinazione a quelle canaglie di plufer che non la volevano mollare non ostante andasse loro tutto di traverso. Il mattino, nelle vicinanze dei presidi la «Luftpost» faceva un figurone sui muri dove i ragazzi l’avevano incollata di soppiatto la notte a costo della vita e i plufer ci mordevano amaro» («La Stella Alpina», Milano, 8 luglio 1945).
67
I manifesti sono riprodotti in ADOLFO MIGNEMI, La Repubblica sociale nel Novarese cit., pp. 80-81.
68
Ibid., pp. 82-83.
69
ROLAND BARTHES, Variazioni sulla scrittura [1973], Graphos, Genova 1996, p. 64.
70
È questo il caso di città come Torino, rispetto alla quale si possono confrontare gli studi sulle scritte antifasciste degli anni 1928-1932 (cfr. GIULIO SAPELLI, Macchina repressiva, «sovversivismo» e tradizione politica durante il fascismo, «Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica», 2, 1976-1977, pp. 107-160) con quelli sui primi tre anni di guerra (cfr. BRUNO MAIDA, Le forme «povere» della protesta. Scritte murali a Torino 1940-43, «Rivista di storia contemporanea», 3, 1991, pp. 400-422).
71
I fascisti, già dal 1939, avevano avviato una pianificazione di scritte nelle case del fascio, fabbriche e sedi sindacali onde «ridar forma agli italiani come unità di popolo e Stato» e prepararli alla guerra (MARIO ISNENGHI, La guerra degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Mondadori, Milano 1989, p. 67).
72
Nel Novarese si hanno singolari casi di propaganda come quello portato avanti da alcuni giovani comunisti, i quali non solo affiggono manifesti e tracciano scritte sui muri ma ritagliano e inchiodano sugli alberi dei boschi grossi simboli con falce e martello, così da «segnare» anche le campagne oltre alle città (cfr. Federazione novarese del Pci, Il Partito comunista a Novara (1921-1945), a cura di Giorgio Colorni e Giovanna Scarpa, Tip. Paltrineri, Novara 1945, pp. 45-46).
73
Cfr. ALESSANDRO ORSI, Un paese in guerra. La comunità di Crevacuore tra fascismo, Resistenza, dopoguerra, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 1994, p. 46. L’immagine fotografica è in appendice al libro.
74
Vincenzo Martino era il comandante della squadra speciale di PS detta «la squadraccia». Sul-
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Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
le sue vicende, cfr. la sentenza pronunciata dal tribunale di Novara nel 1946, in ADOLFO MIGNEMI, Le vicende della RSI e della lotta armata nel Novarese attraverso le carte della Corte d’Assise straordinaria, «Ieri Novara Oggi», Novara, Isrn, 4-5, 1996, pp. 237-241. 75
NINO BAZZETTA DE VEMENIA, 19 mesi di dominazione tedesca e fascista a Novara (dal diario di un cittadino), «Il Corriere di Novara», 18 luglio 1946.
76
Cfr ARRIGO RIGUCCIO GRUPPI (Moro), Guardando il gran carro cit., p. 206.
77
Cfr. MARIO MANZONI, Partigiani nel Verbano, Vangelista, Milano 1975, pp. 58-59.
78
Cfr. ADOLFO MIGNEMI, Muro scritto. Vecchie iscrizioni murali, in Bellinzago e Ghemme. Documenti e immagini sugli eventi che unirono due realtà territoriali nella lotta armata contro il nazifascismo, a cura dei Comuni di Bellinzago Novarese e Ghemme, 1995, scheda 10.
79
L’immagine con le scritte è pubblicata in ADOLFO MIGNEMI, La Repubblica Sociale nel Novarese cit. p. 72.
80
MARIO ISNENGHI, La guerra degli italiani cit., p. 321.
81
Pippo Coppo intervistato da Saverio Maggio a Domodossola nel maggio 1965; brano edito in PIPPO COPPO, Conversazioni sulla guerra partigiana, materiali di lavoro a cura di Filippo Colombara, Fogli Sensibili, Verbania 1995, pp. 23-24.
82
Rappresentazioni del genere sono spesso presenti nella retorica di destra sia coeva che odierna. Sul bollettino telematico socialnazionale «Gerarchia senza censura», per esempio, Stelvio Dal Praz, descrivendo la difesa del ridotto di Culqualber (Etiopia) dagli assalti delle truppe britanniche, avvenuta nel novembre 1941, dichiara: «Emblematico il comportamento del caposquadra della 4ª compagnia CC.NN. che, ferito gravemente, rifiuta di essere trasportato all’ospedaletto e aggrappatosi alla mitragliatrice, continua a sparare cantando: “Ma la mitragliatrice non la lascio!”». A proposito dei canti di guerra, più avanti precisa: «Alle tre del mattino del 21 novembre grossi nuclei nemici iniziano l’avvicinamento alle posizioni italiane. Prima dell’alba, nel buio delle trincee e delle postazioni, si era sollevato sommesso e accorato e per l’ultima volta il Canto di Culqualber: erano le CC.NN. del CCXL battaglione che davano l’estremo saluto alla Patria e alla vita». La canzone citata, composta dal comandante della 1ª compagnia del medesimo battaglione, recita: «Contro l’inglese, contro l’Etiopia tutta, / Italia mia, da sol combatterò per te; / mangerò l’angherà e la burgutta, / soffrirò, lotterò, morirò per te; / pur se la vittoria è una chimera / io non mi arrenderò, / alzo la mia bandiera / e per l’onore sol combatterò» (http://www.socialismonazionale.net/gerarchia/opinioni.html).
83
BRUNO FRANCIA, I Garibaldini nell’Ossola, Saccardo, Ornavasso 1977, p. 61.
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Il garibaldino Giovanni De Monte di Cimamulera è decisamente un personaggio originale e la scelta di un nome di battaglia come Kira, derivato presumibilmente dalla protagonista femminile di un film di Alessandrini del 1942, Addio Kyra, la dice lunga. Sulla figura del partigiano ossolano, cfr. GIOVANNI DE MONTE, Prendi i tuoi uomini e vattene, in PAOLO BOLOGNA, Il prezzo di una capra marcia cit., pp. 78-94.
85
BRUNO FRANCIA, I Garibaldini nell’Ossola cit, pp. 62-63.
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Nome di battaglia di Dino Vicario di Varallo Sesia, comandante del gruppo.
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BRUNO FRANCIA, I Garibaldini nell’Ossola cit, p. 65.
88
«Baita», 30 maggio 1945. Testo redatto dal comandante militare della brigata, Danda (Annibale Giachetti).
89
CARLO MAZZANTINI, A cercar la bella morte, Mondadori, Milano 1986, pp. 95-97.
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L’episodio che segue, però, si riferisce alle fasi conclusive della guerra, quando il reparto del
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Filippo Colombara
protagonista combatte in val Camonica. 91
GIOSE RIMANELLI, Tiro al piccione, Einaudi, Torino 1991, pp. 202-203, 212-213.
92
Relazione sull’attacco al presidio di Fara, stesa dal Comando della 81ª brigata Volante «Loss», 21 marzo 1945 (Istituto Gramsci Archivio delle Brigate Garibaldi, 08315), citata da ARRIGO RIGUCCIO GRUPPI (Moro), Guardando il gran carro cit., p. 200 e da CLAUDIO PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 242.
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Olivo Mossotti (1898), coltivatore diretto; intervistato da Filippo Colombara e Gisa Magenes a Carpignano Sesia il 10 novembre 1979.
94
Cfr. MICHAEL JÜRGS, La piccola pace nella Grande Guerra. Il fronte occidentale, 1914: un Natale senza armi, Il Saggiatore, Milano 2006.
95
GIUSEPPE STEFANINI, Fascismo parmense. Cronistoria, La «Bodoniana», Parma 1923, p. 46; brano citato in DIANELLA GAGLIANI, Spazio, simbolo, lotta politica. Alcune riflessioni a partire dal caso parmense, «Storia e documenti», Istituto storico della Resistenza di Parma, 1, 1989, p. 45.
96
GEORGE ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano 1948, p. 46.
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«La propaganda orale, tramite altoparlanti, ha dato buoni risultati. Per renderla più efficace, dobbiamo differenziare il nostro comportamento col nemico. Per esempio: quando i fascisti rispondono insultandoci, noi dobbiamo mettere in evidenza questo fatto spiegando ai combattenti che gli insulti corrispondono alla mancanza di argomenti. Quando il terreno lo permetta, si deve usare la propaganda personale, tramite volontari che, sotto varie spoglie, si avvicinino alle file nemiche per parlare ai soldati» («Milicia Popular», Madrid, 15 settembre 1936; ora in VITTORIO VIDALI, Il Quinto reggimento. Come si forgiò l’Esercito Popolare spagnolo, La Pietra, Milano 1976, p. 81).
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Francesco Panedigrano di Nicastro, intervistato da Alberto Negrin nel 1974; brano edito in Destinazione ignota. Testimonianza di Francesco Panedigrano, in Sì e no padroni del mondo. Etiopia 1935-36. Immagine e consenso per un impero. Interventi e materiali, a cura di Adolfo Mignemi, Regione Piemonte-Comitato comprensoriale di Novara-Isrn, Torino-Novara 1983, p. 93. Anche Orwell ricorda questo tipo d’impiego: «Dalla parte del Governo, nelle milizie di partito, le urla di frasi di propaganda per minare il morale del nemico erano state sviluppate in una vera e propria tecnica. Là dove ogni posizione si prestasse, agli uomini, di solito mitraglieri, veniva ordinato di uscire in servizio di propaganda e si affidavano loro dei megafoni […] L’uomo che urlava le frasi di propaganda dalla postazione del P.S.U.C. alla nostra destra era un vero artista. A volte, anziché gridare slogan rivoluzionari diceva semplicemente ai fascisti quanto meglio mangiassimo di loro. La sua descrizione delle razioni governative peccava forse un po’ troppo di fantasia: “Pane e burro” si sentiva echeggiar la sua voce per la valle solitaria. “Ci sediamo a mangiare i nostri panini imburrati, qua da noi! Delle magnifiche fette di pane e burro!” Non dubito che al par di noi non vedesse burro da settimane e mesi, ma nella gelida notte quelle informazioni a base di pane e burro dovevano mettere l’acquolina in bocca a più di un fascista. Veniva anche a me, l’acquolina in bocca, e si che io sapevo che l’amico le sballava grosse» (GEORGE ORWELL, Omaggio alla Catalogna cit., pp. 46-47). In periodi più recenti è proseguito l’uso di questa forma di propaganda. Durante la costruzione del muro di Berlino nell’agosto 1961, ad esempio, dai due settori della città gli altoparlanti trasmetteranno musica: canzoni alla Kurt Weil a est e musiche di orchestre swing a ovest. Su questo argomento la radio italiana trasmise, pochi giorni dopo l’erezione del muro, un servizio di Antonello Marescalchi con la registrazione delle musiche irradiate dai due settori (cfr. Radio d’annata. Voci e suoni dall’archivio della radio, a cura di Arrigo Quattrocchi e Guido Barbieri, Radiotre, trasmissione del 14 marzo 1998).
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In Casablanca di Michael Curtiz (Usa, 1942), ad esempio, la scena avviene in una locanda: ad
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Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
un gruppo di tedeschi inneggianti canti nazisti rispondono dei locali e dei francesi con La Marsigliese. Analogamente in O thiasos (La recita) di Thodoros Anghelopulos, (Grecia, 1975), durante il capodanno del 1946 giovani monarchici e di sinistra si affrontano in una sala da ballo. La battaglia, della durata di ben dieci minuti, si svolge a colpi di canzoni: i primi, tutti maschi, cantano inni nazionalisti e concludono ballando un tango; i secondi, di ambo i sessi, rispondono con canti di segno opposto e terminano al suono di un boogie woogie con testo rivoluzionario. In Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (Usa, 1979/2001) non vi è una competizione canora ma si evidenzia – forse con eccessiva trasposizione filmica – l’uso terrorizzante della musica in battaglia. Il fanatico colonnello Kilgore, prima di bombardare un villaggio vietnamita, annuncia il suo arrivo irradiando La cavalcata delle valchirie di Wagner attraverso grossi altoparlanti montati sugli elicotteri della propria squadriglia. «A parte il loro contenuto ideologico che è senza dubbio nobile, le canzoni fiorite negli anni della resistenza al fascismo non offrono nella media, grandi ragioni di interesse né musicale e neppure poetico» (ROBERTO LEYDI, Osservazioni sulle canzoni della Resistenza italiana nel quadro della nostra musica popolaresca, introduzione a TITO ROMANO, GIORGIO SOLZA, Canti della Resistenza italiana, Milano, Avanti 1960, p. 22). Il giudizio severo, tuttavia, è giustificato dallo stadio iniziale delle ricerche. Per nuovi studi e riflessioni, cfr.: «Il de Martino», Canto sociale e Resistenza, a cura dell’Istituto Ernesto de Martino, Sesto Fiorentino, 8, 1998; Canzoni e Resistenza, atti del convegno nazionale di studi, Biella 16-17 ottobre 1998, a cura di Alberto Lovatto, Consiglio regionale del Piemonte-Isrsc Bi-Vc, Torino-Borgosesia 2001.
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CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia cit., vol. III, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 1996, p. 17.
Canti della Resistenza italiana 1, a cura di Roberto Leydi, Milano, I Dischi del Sole, EP, DS 2, 1960.
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Sulla genesi di questo canto, cfr. CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia, vol. III cit., p. 36. Si noti la parafrasi nel testo di un paio di righe della canzone: «Che importa se ci chiaman banditi / ma il popolo conosce i suoi figli». Una versione audio da me raccolta all’Alpe Quaggione in Valle Strona (Cusio) il 18 settembre 1983, eseguita da un gruppo di ex partigiani di Omegna, è edita in Fischia il vento. Canti della resistenza in Italia 2, a cura di Cesare Bermani e Istituto Ernesto de Martino, Roma, «l’Unità», CD, 2005.
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«Baita», Foglio dei Garibaldini della 12ª Divisone d’Assalto «Nedo», Biella, primo maggio 1945.
104
Testimonianza di Alfonso Boca riportata in GIAN ANTONIO FORTINA, Uomini liberi, Bellinzago, La Grafica, s.d. [ma 1965], p. 30.
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Cfr. ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., pp. 422-423. Prima di morire uno dei partigiani chiede a Ungarelli di non sparagli al volto, in modo da essere riconosciuto dopo morto. E il capitano fascista proprio in volto esploderà il colpo di grazia (cfr. ZARA ALGARDI, Processi ai fascisti. Anfuso, Caruso, Graziani e Borghese di fronte alla giustizia, Parenti, Firenze 1958, p. 171).
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«La Stella Alpina», 28 febbraio 1945.
Giampiero Zanoia (1941), operaio; intervistato a Filippo Colombara a Omegna il 3 aprile 2006. La protagonista dell’episodio raccontato è Teresa Bani (1928), operaia di Omegna.
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Maria Luigina Vinzia (1920), operaia, intervistata da Filippo Colombara a Madonna del Sasso il 19 luglio 1991; la vicenda è narrata in FILIPPO COLOMBARA, I paesi di mezzo cit., pp. 177180.
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Cfr. FILIPPO COLOMBARA, La terra delle tre lune cit., pp. 272-274, 308-312.
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«Baita», 24 settembre 1945.
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Filippo Colombara
Questo atto non contempla una pratica rituale, essendo mancante l’elemento simbolico, ed è quindi un’usanza (cfr. DAVID I. KERTZER, Riti e simboli del potere cit., p. 18.).
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Cfr.: SANDRO PELI, La morte profanata. Riflessioni sulla crudeltà e sulla morte durante la Resistenza, «Protagonisti», Belluno, 53, 1993, pp. 41-49; MARIO ISNENGHI, L’esposizione della morte, in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di Gabriele Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 330-352; SERGIO LUZZATTO, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Einaudi, Torino 1998; MIRCO DONDI, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 1999; GIOVANNI DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006.
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Cfr. GIOVANNI DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso cit., p. 160.
La fucilazione è il metodo maggiormente seguito nel Piemonte nord-orientale per l’eliminazione del nemico, superiore all’impiccagione.
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116
ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., pp. 399-400.
117
«La Stella Alpina», 22 luglio 1945.
Ibid., 15 luglio 1945. L’operazione è condotta da militi della «Muti» e da SS. L’ordine di sepoltura è dato dal comandante tedesco.
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Dal diario del parroco Don Giulio Zolla, parzialmente riportato in PASQUALE MAULINI, Omegna cara cit., p. 233.
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Ibid.
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«La Stella Alpina», 8 luglio 1945.
122
Ibid., 5 agosto 1945.
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«La Squilla Alpina», 6 gennaio 1946.
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«La Squilla Alpina», 21 ottobre 1945.
AGOSTINO ROSSI (Ago), Il cammino di un battaglione. Trenta eroi tra le stelle alpine, Lega per le Autonomie e i Poteri locali, Milano 1975, p. 62.
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ARRIGO RIGUCCIO GRUPPI (Moro), Guardando il gran carro cit., pp.169-173.
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Cfr. ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., p. 505.
128
«La Squilla Alpina», 10 febbraio 1946.
Cfr. CHRISTOPHER R. BROWNING, Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, nuova edizione, Einaudi, Torino 1999, pp. 165-168. L’autore rimanda esplicitamente a JOHN W. DOWER, War Without Mercy: Race and Power in the Pacific War, Pantheon, New York 1986.
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Cfr. ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., p. 406.
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Cfr. «La Stella Alpina», primo luglio 1945.
Racconta una delle due sorelle del caduto: «L’imboscata ha il suo epilogo… I fascisti sfogano i loro istinti bestiali. Dalla chiesa escono alcune vecchiette e dei bambini; vengono costretti a sputare sui corpi agonizzanti e ad assistere a feroci sevizie. La testa di Peppino viene staccata dal corpo e una canaglia fascista mette fra le labbra esangui un mozzicone di sigaretta proferendo queste parole: “Vediamo, Comandante, se ora sei capace di fumare”» (testimonianza riportata in ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., p. 293).
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È quanto sostiene una testimone del fatto, allora bambina, la quale afferma che neppure in paese è mai circolata una voce del genere. «Quel giorno ci hanno fatti uscire dalla chiesa, sare-
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Riti e simboli della guerra partigiana nel Piemonte nord-orientale
mo stati una cinquantina, e ci hanno costretti a vedere cosa faceva a quei tre partigiani moribondi. Eravamo a quattro o cinque metri, io ho cercato di abbassare la testa per non guardare, ma un fascista mi ha schiaffeggiata… La cosa più terribile è stata vedere che a uno di ’sti ragazzi levavano i denti d’oro con il pugnale… Io per tre giorni…» (Maria Teresa Ferretti, nata nel 1933, operaia; intervistata da Filippo Colombara e Michele Beldì a Nebbiuno il 25 agosto 2006). In Etiopia, nel settembre 1937, viene tagliata la testa del degiac Hailù Chebbedè; viene prima infilata in una scatola di biscotti Lazzaroni per il trasporto e poi appesa a un palo in una piazza di Quoram (cfr. ADOLFO MIGNEMI, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, foto 13-17); in Jugoslavia viene spiccata la testa del comandante partigiano Andrej Arko-Jemej, infilzata su un palo e fatta sfilare dai fascisti nei villaggi sloveni nei pressi di Obloški (cfr. ID., La seconda guerra mondiale 1940-1945, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 96-97; riprodotta anche in ID., Lo sguardo e l’immagine cit., foto 22-23).
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ENRICO MARTINI (Mauri), Partigiani, penne nere, citato in ENRICO MASSARA, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese cit., p. 438. Altro macabro rituale è riservato al cadavere del comandate partigiano Eolo Boccato, operante nel Veneto, la cui testa, dilaniata in un’esplosione, ricucita, viene decapitata ed esposta in una vetrina del Consorzio agrario di Adria (cfr. MARIO ISNENGHI, L’esposizione della morte cit., p. 350).
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Maria Teresa Ferretti, intervista citata.
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Iliade, libro Decimosesto, trad. di Vincenzo Monti, Torino, Sei.
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PAOLO BOLOGNA, La battaglia di Megolo, Isrsc Bi-Vc, Borgosesia 1979, p. 64.
EDOARDO SPAGNOLINI, Per Santino Campora. Ricordando il 16 marzo 1945, «Resistenza unita», Novara, 3, 1998. Secondo altra fonte: «Tutto quanto il Commissario Santino aveva con se [erano: un] portafoglio con documenti personali, borsa da ricognizione contenente la somma di L. 12.000 circa, rimanenza cassa Brigata, più una somma imprecisata da inviarsi alla “Stella Alpina”, “all’Unità” ed alla “Lotta” ammontante a circa 30.000 lire, pistola, pugnale. Venne rinvenuto sulla sua salma solamente un cinturone, un coltello, una borsa per il tabacco e un fazzoletto. La Salma era senza mostrine, senza distintivo del grado e senza scarpe. Ignoriamo se queste inumane spogliazioni siano dovute alle truppe nazi-fasciste oppure a sciacalli civili» (documento redatto dal comandante Arrigo Gruppi e inviato al comando della I divisione Garibaldi il 23 marzo 1945, riportato in ARRIGO RIGUCCIO GRUPPI (Moro), Guardando il gran carro cit., p. 207).
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«La Stella Alpina», 15 luglio 1945. I caduti citati sono: Giovanni Poletti, ventunenne di Cressa; Francesco Destefano, perito industriale ventenne originario di Reggio Calabria ma residente a Casalino; Ezio Roncaglione, studente diciottenne di Orfengo.
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Zaglada Zydostwa Polskiego. Album Zdjec, vol. I, introduzione e note esplicative di Gershon Taffet, Lodz, Centralnej Zydowskiej Komisji Historycznej, 1945, p. [XXI], citato in MONICA DI BARBORA e ADOLFO MIGNEMI, Dov’è tuo fratello Abele? Le immagini dello sterminio, postfazione a Joe J. Heydecker, Il Ghetto di Varsavia. Cento foto scattate da un soldato tedesco nel 1941, Giuntina, , Firenze 2000, p. 150.
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Cfr. ADOLFO MIGNEMI, La rappresentazione fotografica delle stragi, in Crimini e memorie di guerra.Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, pp. 158-160.
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Il riferimento è soprattutto alla guerra d’Etiopia, alla diffusione che ebbero immagini di soldati etiopi e italiani evirati o quella ancor più famosa di genitali appesi ad un palo come trofei di guerra tratta dal volume Memoria del Governo Italiano, presentato dal regime alla Società
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Filippo Colombara
delle Nazioni (cfr. ADOLFO MIGNEMI, Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936, Gruppo Editoriale Forma, Torino 1984, pp. 207, 212, 215, 242). Ma le pratiche sono proprie delle condizioni di guerra: dai contingenti americani impegnati nel Pacifico che collezionano parti del corpo di soldati giapponesi (JOHN W. DOWER, War Without Mercy cit., menzionato in CHRISTOPHER R. BROWNING, Uomini comuni cit., p. 166), all’ultimo conflitto in Bosnia dove un capo banda croato «si aggirava a cavallo per il proprio villaggio con il teschio dell’imam locale appeso al cappuccio come ornamento» (GIOVANNI DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso cit., p. 56). 144
Cfr. ADOLFO MIGNEMI, Lo sguardo e l’immagine cit., p. 130.
Le fotografie sono pubblicate in molti volumi, per una esemplificazione, cfr.: ADOLFO MIGNE400 immagini della Resistenza cit. pannello 4.20; SERGIO LUZZATTO, Il corpo del duce, cit., figg. 6-11. La loro grande diffusione nel giugno 1945 porteranno a un atto censorio da parte del prefetto di Milano (cfr. ADOLFO MIGNEMI, La costruzione dell’immagine della lotta di resistenza, «Novara», 1, 1995, p. 41).
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MI,
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Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese di Mario Giovana
Dalle urne delle consultazioni popolari del giugno 1946 per il referendum istituzionale, uscì nel Cuneese una maggioranza del 56,2 per cento a favore della monarchia. Il risultato dell’estrema provincia occidentale del Piemonte faceva spicco nel pur non esaltante quadro del consenso raccolto nella regione dalla prospettiva repubblicana: lo scarto di voti tra monarchia e repubblica vedeva infatti vincente il secondo corno del dilemma per circa 300.000 suffragi, situando il Piemonte all’ultimo posto tra le regioni del Nord Italia nelle quali aveva prevalso l’indirizzo repubblicano, con il capoluogo e la provincia di Torino alla retroguardia della province piemontesi nelle quali si era affermata una maggioranza di consensi per la nuova forma istituzionale (58,2 per cento contro il 61,8 per cento in provincia di Alessandria, il 63,6 per cento in provincia di Novara, il 61,7 per cento in provincia di Vercelli). La provincia di Asti era stata a ridosso della provincia di Cuneo nell’attribuire la maggioranza dei consensi alla monarchia con il 52 per cento dei suffragi a quel simbolo. Il responso delle urne avvertiva che il sentimento monarchico, nella culla sabauda, era ancora forte; ma, letto in profondità, specie per le due province a netta caratterizzazione agricola, il voto dava conto di radicate ansie conservatrici forse oltre una devozione inconcussa alla corona: era il segnale della preoccupata ansia per temute negazioni dell’ordine secolare legato al regno e per l’incedere di pretese di sconvolgenti novità negli assetti della società nazionale e locale. La consultazione politica aveva anche posto in rilievo due dati: da un lato la sconfitta dei partiti che erano stati i maggiori promotori della guerra partigiana nel contesto Cuneese, cioè il Partito Comunista Italiano ed il Partito d’azione (il primo con le unità delle Garibaldi, il secondo con le formazioni di Giustizia e Libertà), l’uno gravemente penalizzato, il secondo sull’orlo della pratica scomparsa; dall’altro lato aveva dato con risalto il 195
Mario Giovana
successo della Democrazia Cristiana, rimasta del tutto assente dalla creazione e dalla conduzione di bande della guerriglia e praticamente inesistente durante il periodo della clandestinità antifascista. Le urne sancivano la progressiva scomparsa del Partito Liberale, decrepita congregazione di notabili conservatori (da cui, non a caso, l’autentico liberale che era il cuneese Luigi Einaudi si era sempre tenuto a debita distanza e dalla quale, viceversa, era uscito per approdare ai lidi fascisti l’esponente locale della compagine, l’antigiolittiano e clerico-conservatore avvocato Tancredi Galimberti, premiato dal regime con un seggio senatoriale dopo una indecorosa ed enfatica capitolazione). Nell’insieme, comunque, il quadro degli orientamenti politici della maggioranza dell’opinione cuneese si presentava come premio ad una DC intesa quale presidio di conservazione e garanzia di continuità prefascista, al riparo da tutti i messaggi innovatori collegati alle posizioni più avanzate del moto resistenziale e dalle prospettive non solo di profondi mutamenti dell’assetto socio-economico ereditato dal passato bensì di radicali sovversioni. Attorno al potere democristiano si creava un fitto ed attivo tessuto clientelare, forte di colleganze economicamente redditizie, di primazie politiche astute e fattive (sebbene spesso di mediocri levature intellettuali nei personaggi che le incarnavano), di contiguità che garantivano un tessuto di consensi e di appoggi al di là della sfera propria del partito che le alimentava e le forniva assicurazioni di lungo periodo. Tutto ciò accadeva all’interno di quello che definiremmo un «orizzonte di cascina»; intendendo per tale una visione delle iniziative e delle conquiste da realizzare che non esulasse mai dal presidio di fondamenti conservatori locali, che non intaccasse nella sostanza i ritmi lenti e particolaristici della comunità, che non introducesse fratture culturali lesive dei tradizionalismi paesani più vieti, di una religiosità formale e accomodante ma utile per mantenere nelle sue appartate diffidenze e dimensioni casalinghe, sotto controllo parrocchiale, le genti del luogo. Un tessuto del genere si sarebbe protratto nel tempo. anche dopo il tramonto della DC unitaria e lo spezzettarsi del fronte di centro-destra: alle elezioni politiche del 2006, il non trascurabile successo della Lega bossiana - attorno al 10 per cento dei suffragi complessivi - indicherà l’esistenza diffusa di una versione becera e antinazionale del localismo, al di sotto di ogni parametro di decoro conservatore ed in una cifra peggio che plebea della protesta qualunquistica. L’«orizzonte della cascina», insomma, alla stregua di un recinto di difesa quieta e per quanto possibile appartata dagli scarti modernizzatori dei pen196
Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese
sieri e dei costumi, dalle intromissioni moleste di idee «foreste » che minacciassero gli antichi pilastri della convivenza senza strappi e senza impennate di koiné contadine ripiegate su sé stesse a difesa di uno spazio di garanzia di vita e di sopravvivenza nel mezzo dei tormenti del mondo. Quanto di fattivo vi si realizzava (ed una pratica indefessa e gravosa del lavoro era da sempre nel conto e veniva svolta con sudata caparbietà) non doveva essere insidiato da teoremi avveniristici, da pulsioni verso egualitarismi idealistici o da ipotesi di traguardi che oltrepassassero i benefici subito tangibili degli abitanti di quello spazio e si ponessero fuori dalle logiche praticone dei suoi occupanti. Nel rifiuto quasi fisiologico dei temi e delle mobilitazioni fasciste, parecchio di questi depositi secolari aveva avuto una funzione decisiva e forniva spiegazioni corrette alla estesa estraneità cuneese ai richiami ed alle imposizioni del regime. Il rigetto del fascismo È fuori di dubbio che appelli, metodi, obiettivi ed eccitazioni aggressive del regime mussoliniano caddero su gran parte dell’universo cuneese incontrandovi dissensi taciti ma diffusi, risultando nulla più che vani tentativi di accalorare cervelli ed animi, rimanendo sulla superficie di una società aliena dall’assimilarli e dal farsene banditrice. Se ne lamentava con rancore e disprezzo il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi e ne riferiranno a getto continuo durante il ventennio le fonti fiduciarie delle spionaggio politico della dittatura, come si ricava dai depositi archivistici. Un Cuneese senza slanci guerreschi, senza prosopopee imperiali, sordo ai doveri di marciare impettito dietro le parole d’ordine truci e muscolari dei «radiosi destini» nazionali da perseguire. Un Cuneese ripiegato sulle proprie cure produttive, con celati rimpianti per l’età giolittiana (la stagione illustre di una «grande compaesano» antibellicista - anche quando era stato promotore dell’avventura tripolina -, civilmente e borghesemente alieno dai clamori di piazza, dimesso quanto accorto gestore dei consensi locali). L’esplorazione degli organigrammi politici e amministrativi del ventennio rivela la quasi assenza di squadrismi da sciarpa littorio, di emuli dei Brandimarte e ancor più degli Arconovaldo Bonaccorsi, attesta la miseria degli inquadramenti gerarchici di partito: i federali in camicia nera sono per lo più camerati dell’ultima ora, i podestà dei comuni provengono in larga misura dal vecchio notabilato, arresosi, per spirito di servizio verso la comunità o per 197
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tutelare interessi di bottega, ai meccanismi del sistema, ma pochissimo incline a schierarsi in prima fila nei fasti del regime (anche perchè ha piena consapevolezza degli umori del contesto). Assente un forte movimento di rivendicazioni e di maturità di classe operaia - ultra minoritaria nel tessuto agricolo -, assenti le spinte di protesta di masse di salariati delle campagne perchè manca un proletariato di massa (soltanto il centro di Bra sembra essere stato protagonista di repressioni antiproletarie di una certa rilevanza, ma gli autori erano soprattutto esterni alla città), assente pertanto un’iniziativa antifascista sindacale e delle forze di sinistra capace di incidere nella mobilitazione consistente di forze avverse, il fascismo è calato sul Cuneese come una soprastruttura posticcia, «foresta», intrisa di digrignamenti faziosi e, soprattutto, di appelli incomprensibili per obiettivi e glorie da guadagnare a prezzo di leve di guerra (da epoche ben anteriori al ducato sabaudo, le più aborrite dai contadini), di rovina e di sangue. L’espansionismo imperiale, la visione militaresca dell’esistenza, il «credere, obbedire, combattere» della perversa morale fascista, urtano contro le cinte delle cascine e l’acrimonia di un clero grezzo e povero ma vigile e avvertito, che scorge bene il rischio di perdere la propria egemonia a favore dei nuovi venuti: risuonano fanfare e appelli roboanti che lasciano indifferenti, quando non attoniti, i destinatari di quei clamori e li fanno via via sempre più timorosi dell’intrusione di tante scalmane a bucare la coltre risaputa delle proprie invalse abitudini, dei propri commerci, delle proprie relazioni con il potere statale e locale, della soggezione nutrita di terrori pagani alle penitenziali intimazioni chiesastiche. Durante tutto il ventennio mussoliniano, il Cuneese pare subire silenziosamente qualcosa che non gli appartiene, a cui si piega senza sussulti a che accetta supinamente ma senza convinzione. Tutto ciò, tuttavia, bisogna guardarsi dal catalogarlo come reazione antifascista. La quale rimane, nella sua corretta accezione di militanza attiva e non di inerte riserva di coscienza o inespresso dissenso, testimoniata da pochi esempi: sparuti nuclei comunisti, con alcuni militanti che pagano in anni di carcere la loro fede, talune emigrazioni di netta origine politica (il caso dell’avvocato Carlo Bava di Garessio), la sparsa diaspora di uomini quali l’avvocato Duccio Galimberti di Cuneo, l’avvocato radicale Manlio Vineis di Saluzzo, l’avvocato Piero Allemandi di Dronero (con una piccola cellula liberale di inconcussa fedeltà alla causa dell’opposizione), entrambi, questi ultimi, destinati a perire nei campi di sterminio nazisti. Si afferma invece una forma di 198
Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese
afascismo diffuso, connotato essenzialmente dalla evidente distanza tra gli infuocati clamori del regime e le fredda atmosfera della terra cuneese, dalla mancata evidenza fascista dell’insieme delle espressioni di vita del comparto e dalla marginalità che appunto le fonti di censimento degli indirizzi dell’opinione pubblica sotto il regime annotano a carico del consenso nella provincia. Retroguardia dell’Italia in orbace, il Cuneese scivola pertanto con le sue allergie politiche verso il dramma della guerra e l’inimmaginabile prezzo che dovrà pagargli. È appunto questo varco a spezzarne i silenzi e le estraneità nelle quali sembra ricantucciato. Le tristi e folli avventure di Grecia e di Russia, in cui l’arma militare classica della provincia montana, gli appartenenti al corpo degli alpini, subisce perdite ingenti, operano la frattura insanabile con il regime dislocando l’opinione di maggioranza del Cuneese su di un fronte di irrimediabile rifiuto palpabile del fascismo e preparando la ribellione che scaturirà dagli eventi dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Il corpo alpino, specie l’Armir, dislocato nella pianura russa, sono attori di tragedie che decimano la popolazione, soprattutto delle zone montane, mettono allo scoperto le falle di una Italia fascista demagogica e bluffista, scardinano l’apparato propagandistico sul quale si è retta la dittatura. Il disastro opera il passaggio da un clima di scontento e di distacco ad una atmosfera di ribellione. Il tenente effettivo degli alpini Nuto Revelli, poi figura alta del partigianato locale, partito volontario di convinzioni fasciste verso la pianura del Don, nel dramma della ritirata dei suoi reparti (dove si guadagna due medaglie d’argento al valore) scopre la vergogna del regime e gli giura un’avversione che non conoscerà attenuanti, che non ammetterà indulgenze, con risvolti di ira vendicativa irrefrenabile (la prima formazione partigiana cui apparterrà, da lui organizzata, porterà il titolo di «Rivendicazione caduti»). La prima, publica chiamata alle armi contro i tedeschi del popolo italiano si leva da Cuneo: è il mazziniano Duccio Galimberti, dalla terrazza della sua casa, nel centro cittadino, a proclamarne, l’indomani dell’armistizio, l’urgenza e l’inderogabile necessità. La guerra partigiana e la Resistenza popolare conoscono, nella provincia delle cascine e dei forti sedimenti conservatori, uno sviluppo immediato e corale; certo favorito dallo sbandamento sul territorio della IV Armata - che semina di uomini ed armi le campagne - e dall’accorrere da ogni parte della regione verso quelle montagne, ma si radicano e si estendono in virtù di un ambiente che fa loro da supporto generalizzato, che non offre al nemico fascista e tedesco angoli di sicuro ri199
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paro e non cesserà mai di sostenerne, nell’insieme, comunque, lo sforzo, malgrado il genere di guerra con il quale si trova alle prese costelli la sua vicenda di crude prove e non escluda complesse e spesso tese relazioni con la gente in armi (una storia ampiamente disattesa dai ricercatori, specie per le carenze di iniziative ed i limiti di concorso scientifico dell’Istituto storico, sovente come intimidito dal clima di permanente restaurazione conservativa che pervade ogni pubblica autorità - non escluse quelle elettive che si ammantano di propositi di sinistra - e tiene quasi ovunque la realtà culturale cuneese in rarefatte atmosfere di asettiche o ambigue rievocazioni, di folklore paesano e di opportunistiche trascuratezze). Le falle della ricerca storica È trascorso un sessantennio dai giorni della vicenda che suscitò la Resistenza ed i resoconti della storia hanno irrobustito l’accertamento dell’ampiezza, dello slancio e della portata complessiva del fenomeno partigiano nella provincia cuneese. Dunque, un blocco di forze tutte egualmente contrassegnate da indefessa operatività, tutte accreditabili di venti mesi di lotta senza pause, prive di zone d’ombra nei comportamenti politico-militari dei capi? Qui sarebbe dovuta intervenire sui trionfalismi e le enfasi celebrative, anzitutto, l’indagine puntuale e autorevole dell’Istituto citato, preposto per sua finalità a ricostruire il più esattamente possibile anche il quadro interno - organizzativo, di incidenza militare e di armonia dei procedimenti bellici - con la direzione centrale del moto. Il che è mancato, ripiegando invece sulle cronache del tempo, sulle memorie dei protagonisti acriticamente accolte, su di una spesso statica osservazione dei fatti. Da quietismo rinserrato negli «orizzonti di cascina», alieno dal selezionare nel corpo variegato e complesso del fenomeno le parti attive da quelle scadenti o di mera e pubblicitaria apparenza guerrigliera, per lo più addebitabili ad intenti propagandistici delle centrali politiche od alle fregole di protagonismo a basso prezzo di singoli esponenti locali dalle iniziative. Un esame anche superficiale mette in luce amplificazioni fuori di luogo e meriti combattentistici quanto meno disinvoltamente riconosciuti. Alcuni casi, per esemplificare: la fantomatica esistenza di una Brigata «Carando» delle formazioni Garibaldi (presentatasi come un’arruffata leva dell’ultima ora, a Savigliano, nei giorni della liberazione guidata da un comandante che indossava ridicolmente l’uniforme da ufficiale sommergibilista 200
Fascismo, afascismo, Resistenza nel Cuneese
- stivali di gomma compresi -, improbabile tenuta di qualsivoglia combattente della guerriglia in qualsivoglia terreno; l’esistenza effettiva delle X e XXI Brigata GL di pianura, tenue e male individuabile rete di appoggio casalingo alle unità alpine; una Brigata Matteotti di Valle Varaita, mai comparsa nelle vicissitudini e battaglie locali (ed il cui pseudo-comando verrà disarmato, senza la minima resistenza, nei giorni seguenti l’insurrezione, sulla via del paese di Piasco, dai giellisti della 2a Divisione); infine, il caso più vistoso di incongruenze resistenziali, quello inerente il maggiore di Stato maggiore in servizio effettivo Enrico Martini Mauri. Questo caso ha rilevanza speciale, perchè il Mauri fu il promotore ed il comandante delle Divisioni Autonome delle Langhe e del Monferrato e gli venne assegnata una medaglia d’oro al V.M. L’intero percorso dell’avventura del maggiore è intanto costellato da pacchiani errori tattici ed irresponsabili azioni propagandistiche; a cominciare dalla rovinosa difesa su posizioni precostituite della Valle del Casotto, nel marzo del 1944, per arrivare all’occupazione della città di Alba, nell’autunno di quello stesso anno, occupazione effettuata contro le disposizioni del Comando Regionale e contro il parere del comando della formazione Garibaldi che operava nella zona (e con l’aggiunta di personali assicurazioni del Martini al Vescovo della diocesi che la difesa del centro sarebbe stata condotta fino all’estremo sacrificio, quando era palese che i partigiani non avrebbero potuto se non accennare sensatamente nulla più di una breve resistenza di fronte ad un attacco in forze: e, infatti, i comandi di Salò concentrarono sufficienti unità per ridurre la tenuta degli occupanti a poche ore di fuoco e riconquistare la città: conseguendo così l’unico, scontato successo - salutato con clamore dalla stampa fascista - delle truppe repubblichine nel periodo). Le disposizioni del centro di comando degli Autonomi era andate pressoché costantemente in controtendenza a quelle del CLN piemontese e del comando unitario regionale, compresa la disposizione emanata dalla centrale maurina per la creazione presso i suoi comandi di Delegazioni Civili mere proiezioni dei comandi militari – in sostanziale contrapposizione alle Giunte popolari da eleggere nei comuni liberati. A mezzo secolo dal fatto, uno storico serio ed addestrato quale Emilio Gentile (non un cultore di economicamente lucrose incursioni editoriali a detrimento della Resistenza alla stregua di quelle operate dal giornalista Giampaolo Pansa) ha scoperto negli archivi tedeschi le prove che l’Enrico Martini Mauri, catturato (?) dai tedeschi durante un rastrellamento, barattò la propria liberazio201
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ne con l’impegno a non recare loro alcun disturbo. Il che, in linguaggio da codice penale di guerra, si configura come alto tradimento. Enrico Martini Mauri perirà in un non ben definito incidente aereo (dopo che, in epoca precedente, era incappato in un controllo doganale alla frontiera elvetica mentre, in compagnia di un esponente dell’amministrazione della DC, tentava di esportare clandestinamente 50 milioni di lire. Cifra astronomica, all’epoca: tuttavia, delle eventuali e prevedibili conseguenze di tanta infrazione non verrà reso pubblico alcunché). Al tirare delle somme, in ogni modo, una figura non limpida, sia nel ruolo di capo di unità di resistenti (le cui magagne, ovviamente, non intaccano minimamente onestà di intenti, coerenza e valore di comportamenti di singoli comandanti e di combattenti delle formazioni Autonome prese in considerazione. E ce ne furono di ottimi), sia nella posteriore qualità di cittadino. depositario di un blasone che sembra essere stato tutt’altro che degnamente rappresentato. e va in ogni caso indagato nei suoi risvolti concreti, mentre si tende a non portarne alla luce le ombre quanto mai dense. Rintuzzare appropriatamente l’ondata revisionista che si abbatte sulla storia della Resistenza non significa unicamente opporre ai detrattori - nostalgici postfascisti o di conio di una destra mascherata - le irrefutabili ragioni e le carte testimoniali di un fenomeno di lotta popolare che ha riscattato il Paese dalla vergogna fascista e spalancato le porte alla democrazia: significa anche mettere le attenzioni e la riflessione critica al servizio di verità che concernono la Resistenza medesima e che non possono godere di coperture per remore di parte, né essere taciute per cattivi pudori dai quali finiscono di prendere corpo facili equiparazioni tra la menzogna antistorica ed il suo contrario. Si potrebbe incominciare proprio da una realtà resistenziale così massiccia ed onorevole quale quella Cuneese per fare chiarezza dove sussistono oscurità ed equivoci cui ovviare.
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La questione della politica partigiana di Davide Ventura
Uno dei nodi storiografici più controversi riguardante l’enorme mole di studi compiuti in Italia sul complesso periodo storico etichettato con il termine «Resistenza», può essere riassunto in queste domande: è esistita una politica partigiana? Se è esistita, quali sono state le caratteristiche che l’hanno distinta dalla politica dei partiti? Se lo ha fatto, in che modo ha influenzato il destino del nostro paese in quella fase storica segnata dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla transizione da una dittatura ventennale ad una repubblica democratica? Messo a confronto con i sacrifici, le tragedie e gli orrori di quel periodo l’argomento può sembrare di importanza secondaria, eppure il ruolo dei partigiani nella guerra di liberazione e il lascito dalla Resistenza nella forma di riscatto di un popolo intero e di valori fondativi traghettati nella neonata Repubblica italiana1, sono ancora oggetto di animate discussioni, che recentemente hanno inasprito il dibattito politico in sede istituzionale a livelli preoccupanti. Questo breve lavoro cercherà di dare una risposta, che a nostro avviso deve essere comunque positiva e aperta, alle domande poste in partenza ripensando la sequenza 1943-1945 con nuovi strumenti. Per raggiungere questo obiettivo adotteremo un approccio metodologico nuovo, che predilige lo studio della storia della politica dall’interno, che vede nel fare, nel dire e nel pensare della politica intesa in senso «alto» l’invenzione di qualcosa che prima non c’era e che porta con sé la possibilità di aprire orizzonti impensati. Nel corso dell’esposizione, vedremo con un esempio concreto come queste riflessioni si possano applicare alla storia di una formazione partigiana emiliana, la brigata «Stella Rossa»2. Ripensare la storia della politica: brevi cenni metodologici La risposta alle domande poste in precedenza deve passare necessaria203
Davide Ventura
mente attraverso un nuovo taglio metodologico e categorie del pensiero ancora inutilizzate per capire i movimenti partigiani dal punto di vista politico. Nostro punto di riferimento in questa ricerca saranno due lavori3, da considerare come una «lente d’ingrandimento» che ci ha permesso di vedere meglio e con uno sguardo diverso l’argomento di cui ci occupiamo. Vediamo come. Nel primo libro viene riletta la storia d’Italia dalla fine del Settecento alla metà del Novecento evidenziando quanto, come e quando la politica abbia avuto un ruolo decisivo per le sorti del paese. La definizione di ciò che gli autori intendono per politica è molto importante per capire perché, a nostro avviso, è esistita una politica partigiana: la politica, considerata in senso alto, «si da principalmente per situazioni […] ben localizzabili nel tempo e nello spazio, fondate ciascuna su una propria singolarità: la singolarità risultante da un rapporto tra pensiero e azione, tra un dire e un fare, che non si conclude mai a favore dell’uno o dell’altro, ma che crea una tensione collettiva. La politica, in questo senso, non è che un rapporto eventuale e circostanziato tra un dire e un fare, di cui la ricerca storiografica non deve cercare una qualche coerenza o una qualche logica, ma la reciproca rincorsa: il dire di una politica degna di questo nome è sempre una direttiva, o meglio una prescrizione che anticipa l’azione; la quale a sua volta crea un ’non detto’, su cui la politica daccapo è convocata a dire qualcosa di nuovo. Finché tale rincorsa avviene, avviene anche una politica che si presenta così come un tragitto soggettivo singolare. È l’insieme delle condizioni di un simile tragitto ciò che chiamiamo situazione politica» (p.25). Per gli autori le situazioni politiche «esistono quindi solo nelle possibilità endogene aperte dai suoi soggetti che elaborano e rielaborano le proprie condizioni di partenza» (p.26), non sono riferibili alla logica dei sistemi politici come vengono studiati dalle scienze politologiche. dove il sistema qualifica la politica: nel nostro caso solo la politica, ovvero, il dire e il fare dei soggetti configura la situazione, e non viceversa. La politica non viene inoltre intesa «né come riflesso o rappresentanza di interessi, né come gestione di Stato, né come realizzazione di forme di coscienza, di teorie o filosofie, né risponde ad alcun destino o logica globale, quali lotta di classe e rivoluzione, opposizione amico/nemico o esigenza fondamentale di pluralismo; e, tantomeno, è analizzata come parte o insieme di relazioni dì un sistema politico» (p.28). La storia della politica , insomma, non viene sempre vista come sto204
La questione della politica partigiana
ria di potere e non è quindi sempre strumentale alla conquista o al mantenimento del potere: la politica in senso proprio gestisce in modalità singolari e irripetibili le proprie possibilità. Le situazioni politiche così intese vanno indagate esaminandone: 1. Tempi: l’inizio e la fine della situazione, quello che è cambiato e come è cambiato rispetto allo stato delle cose iniziale. 2. Luoghi: luoghi collettivi, che sono il banco di prova del pensiero e dell’azione della soggettività collettiva. 3. Pensiero: interno alla situazione, pensato da uno o più individui, separato da religione, filosofia o cultura in generale e «che esiste nella situazione e ne offre una intelligibilità immanente, interna a ciò che sta accadendo, nel corso del suo accadere e che dunque lo prescrive, lo anticipa più o meno pertinentemente» (p.30-31). L’unità di misura del pensiero è la categoria, intesa come parte o frammento di un discorso: non è il discorso o la logica del pensiero ad interessare ma «l’insistenza o la ricorrenza, o, viceversa, l’irruzione inattesa di certe parti o frammenti di discorso che rend[ono] accessibile alla storia il pensiero interno all’accadere di una situazione politica» (p.31). 4. Azione: il non detto che mette in relazione gli altri aspetti appena citati, riconoscibile nelle classiche figure dell’azione politica (dibattiti, scioperi, insurrezioni, promulgazione di leggi, rivolte, guerra ecc.) 5. Personaggi: il punto d’incontro di pensiero e azione, nei luoghi e tempi nei quali quel pensiero e quella azione si svolgono. Va inoltre messo in evidenza come nel libro la fase storica che ci interessa, la guerra partigiana dal 1943 al 1945, venga denominata come «situazione politica della politica», intendendo con questa definizione una situazione politica «chimicamente pura», in cui vengono inventati «nuovi luoghi e categorie del collettivo prima inesistenti, irriducibili a qualsiasi loro rappresentazione coeva fissatasi nella cultura, nel sapere, nello Stato» (p.34). II secondo volume può essere considerato un proseguimento ed ampliamento del primo: il centro del discorso non è più la storia d’Italia ma l’analisi di politiche storicamente esistite, tra cui naturalmente la politica partigiana, volta ad approfondire e a capire i problemi, e le relative soluzioni, inerenti alle questioni dell’organizzazione in politica. Se nel primo libro la domanda era «quando (e come) si è fatto politica in Italia?», in questo lavoro la domanda centrale è «come si sono organizzate le soggettività politiche?». L’interesse è rivolto alle condizioni e alle risorse interne della politica: al dire e al fare in rincorsa tra loro di cui abbiamo già parlato in precedenza, che danno vita ad un tragitto all’interno del 205
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quale possiamo reinterpretare le categorie di movimento e partito politico; un dire e un fare mai sintetizzati in un’unica dialettica, capaci di mettere in movimento soggettività molteplici prive di potere e di solito ben lontane da esso, ma che possono produrre effetti di potere senza per questo ridursi ad essi o alla loro gestione. Sarà importante capire quanto il dire è condizionato dal fare o viceversa, senza per forza ricercare una corrispondenza, una coerenza intrinseca tra i due poli al centro dell’analisi, anche perché ogni membro di una molteplicità attribuisce al suo dire e al suo fare significati diversi e personali. Ne consegue che il linguaggio è una parte fondamentale di questa ricerca sull’organizzazione in politica. Le problematiche dell’organizzazione in politica vengono suddivise in: 1. Luoghi: una politica prende vita e si svolge nei rapporti interni ad un luogo o più luoghi. 2. Cronologia: il percorso dall’inizio alla fine della politica organizzata, «la dichiarazione o il fatto che innesca in più luoghi una rincorsa tra dire e fare e [...] la dichiarazione o il fatto che esaurisce la rincorsa tra dire e fare e quindi anche i luoghi in cui questa rincorsa avveniva» (p.91). Va ricercato il carattere endogeno, soggettivo e singolare della nascita e della fine dell’organizzazione di una politica, senza partire dalle condizioni esogene o esterne ad essa. 3. II dire e il fare nelle relazioni tra diversi luoghi: studiare «i modi in cui si sono attivati i rapporti tra i diversi luoghi d’organizzazione» (p.92) attraverso i documenti e le azioni, «la rete di relazioni tra i diversi luoghi politici« (p.92). 4. I rapporti tra l’organizzazione politica e i suoi interlocutori esterni: possono essere amici, nemici o concorrenti dell’organizzazione. La categoria d’organizzazione si deve trattare in chiave storico-politica, considerandola come una categoria politica tra le altre possibili e quindi diversamente dall’interpretazione delle teorie sociologiche o economiche che ne valutano l’efficacia in termini di sistema, funzioni o strutture. Tenendo a mente queste linee-guida, nel prossimo paragrafo tenteremo di descrivere gli elementi costitutivi della politica partigiana. Caratteristiche della politica partigiana «Che cosa era la politica in quei venti mesi? Era le cose concrete della vita, come la ricerca del potere, la rivalità delle formazioni, l’occupazione del territorio, il rapporto con i parroci, con la popolazione, con la sussistenza, con la ricerca delle armi ma come in un sogno, il sogno in cui tutto 206
La questione della politica partigiana
è possibile e coesistente, una società liberale dentro una rivoluzione buona e virtuosa, economia di mercato e socializzazione, democrazia per tutti ma solidarietà e vigilanza partigiane. Ognuno poteva parlare, mettere assieme i diversi: tanto le verifiche venivano rimandate alla fine della guerra […] anche loro [i democratici e i comunisti] erano convinti che la guerra partigiana avrebbe aperto una nuova storia, perché anche loro vivevano in quell’eccitante sospensione della vita reale, della storia reale come capita quando si apre una nuova utopia. […] La nostra politica intransigente con il nemico tedesco o fascista era nelle nostre formazioni tollerante e ottimista. […] Lo spirito di corpo era scambiato spesso per una scelta politica ma a nessuno di noi veniva in mente di interrogarci, di confessarci sulla scelta di una formazione»4. Le parole con cui Giorgio Bocca ricorda la sua esperienza di partigiano contengono molte delle caratteristiche che riteniamo tipiche della politica partigiana e che la differenziano dalle politiche dei partiti coinvolti nella guerra di liberazione. Abbiamo scelto come testimone del periodo un protagonista illustre, ma se si leggono i libri di memorie partigiane o le storie locali delle formazioni, si riscontreranno delle corrispondenze quasi univoche5. Le osservazioni di Bocca fanno riferimento a categorie proprie del pensare partigiano: l’intransigenza, la possibilità, l’ottimismo, la speranza, l’utopia, il rinnovamento che vuole preservare il meglio della tradizione. La prima categoria, l’intransigenza, è gia di fatto un programma politico, incarnato nella forma più estrema dal Partito d’Azione6: la volontà di recidere ogni legame con il fascismo, non considerandolo solo una «parentesi« nella storia del paese, con la politica del governo Badoglio e del Regno del Sud, assieme alla lotta armata e al sostegno incondizionato al CLN dell’Alta Italia perché diventi governo nazionale ed espressione di un rinnovamento radicale nella politica e nell’organizzazione dello Stato, rappresentavano l’apertura di nuove possibilità che, a ragione, potevano apparire utopiche. Ma fu proprio questa la molla che mobilitò i primi gruppi di partigiani, a cui fecero poi seguito altre ragioni più contingenti, come ad esempio i bandi della Repubblica Sociale. Nelle numerose testimonianze dei partigiani della «Stella Rossa»7 ritroviamo lo stesso impulso ad agire senza riserve: «L’antifascismo mi nacque dentro, prima come delusione, poi come ironia, infine come rabbia. […] Venne anche per noi il momento della prova del nove [raggiungere i partigiani in montagna]: la decisione era improrogabile e tanto più cocente quanto meno coatta. Quando la207
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sciai mio padre ero più angosciato di quanto mai mi fosse capitato in occasione delle numerose partenze degli anni precedenti. Non mi ero mai sentito così obbligato, mai come questa volta che non c’era nessuna cartolina di mezzo»8. Anche nel linguaggio dei comunicati non c’è spazio per concessioni o ripensamenti: «Vi avvertiamo che le nostre contromisure saranno terribili e senza via di mezzo», minaccia un comunicato della brigata diretto ai fascisti repubblicani di Monzuno, «La nostra rappresaglia vi raggiungerà ovunque e nessun rifugio, né guardia del corpo, varrà a salvarvi»9. Quindi intransigenza, ma anche speranza in un nuovo ordine statale che apre delle possibilità. Questa spinta verso il nuovo, a nostro avviso, preparerà il terreno e le condizioni a livello politico per la Svolta di Salerno dell’aprile del 1944 all’interno del Partito Comunista. Togliatti inaugurerà una politica di segno diverso da quella propriamente partigiana, della quale non tutti i combattenti compresero subito il significato e la portata, una politica statale che a sua volta dischiuderà possibilità ed obiettivi più realizzabili nello scenario dell’immediato dopoguerra: collocare il partito comunista più importante d’Europa, e conseguentemente l’influenza sovietica, all’interno di un paese inserito nella sfera degli interessi americani, in una posizione strategicamente importante durante gli anni della «guerra fredda». Seguendo la metodologia che abbiamo delineato nel paragrafo precedente, i tempi della politica partigiana e la cronologia dell’esperienza partigiana come situazione politica unica ed irripetibile seguono quindi un percorso che va dall’armistizio, con la formazione spontanea10 di piccole unità di uomini, fino alla Svolta di aprile, quando alla politica partigiana se ne sostituisce un’altra, impensabile senza la prima ma con obiettivi completamente diversi, in linea con una continuità dello Stato che non lascia spazio a rotture decisive o rinnovamenti radicali nel modo di pensare e realizzare la gestione del paese. Scelta morale o scelta politica? La nascita di un movimento partigiano in Italia, col beneficio di sessanta anni di retrospettiva, oggi viene considerato da molti come un fatto scontato, come un destino ineluttabile per una nazione stremata da venti anni di dittatura. A nostro parere così non fu: quello che Ferruccio Parri ha chiamato «il carattere dichiarato e manifesto d’insurrezione nazionale»11, si 208
La questione della politica partigiana
proponeva come un fatto inedito e importantissimo per l’antifascismo italiano, tale da coinvolgere più di duecentomila militanti in bande armate. La presenza di un partito innovativo come il Partito d’Azione e di un dibattito sulla rifondazione dello Stato italiano su basi completamente nuove e in rottura decisiva col passato recente, rendevano la politica partigiana una presenza a tratti ingombrante per gli alleati e per chi in Italia desiderava una ripresa della vita istituzionale priva di discontinuità estreme. La lungimiranza politica dimostrata dal Partito Comunista in occasione della Svolta era mancata ai quadri dirigenti del partito al momento di organizzare i gruppi che stavano nascendo a livello locale all’indomani della catastrofe dell’8 settembre. I primi passi furono spesso opera di singole personalità, antifascisti di vecchia data che nelle rispettive zone di provenienza coagulavano attorno a sé i giovani privi di direzione dopo lo sbando dell’esercito nazionale; per raggiungere un coordinamento omogeneo nazionale (soprattutto, ovviamente, nelle zone ancora occupate dai tedeschi e dai repubblichini) si dovettero attendere diversi mesi12, ma la scelta decisiva dei primi «ribelli», prima dei bandi della RSI che nei mesi a venire spinsero molti uomini ad allargare le fila partigiane, avvenne in maniera istintiva e rappresentò un fatto inedito e affatto scontato13. Dopo il crollo della dittatura, che apre la strada a progetti e ad aspettative, il desiderio di rottura diventa scelta civile, politica e militare, una spinta che nei protagonisti più colti di quella stagione deriva da «un’urgenza antiretorica vissuta, ancor prima che come progetto politico, come irrinunciabile vocazione etica»14. Vale la pena soffermarsi brevemente su questo aspetto, affidandoci alla storiografia esistente per cercare di capire meglio l’unicità di questa scelta. Al centro degli studi sull’esperienza partigiana vi è sicuramente la ricerca delle motivazioni e degli stimoli di varia natura che hanno spinto molti giovani a formare una banda o ad unirsi ad una già esistente per combattere il nemico interno ed esterno. La vastissima bibliografia a disposizione si è interessata da subito a questo tema, anche per il peso politico che quella scelta, e tutto ciò che ne ha fatto seguito, avrebbe giocato negli anni del dopoguerra: i partiti e gli intellettuali hanno strumentalizzato e usato l’eredità dell’esperienza partigiana a loro piacimento, cercando di assecondare il clima politico e culturale del paese ma soprattutto piegando un tema così delicato e complesso alle linee di pensiero degli schieramenti e dell’elettorato a cui essi fanno riferimento, dando vita così a quella che è stata de209
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finita «storiografia di partito». Conseguentemente, il tema della guerra partigiana ha vissuto stagioni alterne, e, come ha giustamente osservato Claudio Pavone, «fra l’uso “pubblico” o, se si preferisce, “civile” e l’uso “dotto” della Resistenza si è venuto creando un fitto gioco di reciproci rinvii non sempre piani e pacifici»15. Nell’opera di Roberto Battaglia e Giuseppe Garritano16, viene approfondito il tema della scelta e si cerca di delinearne i tratti principali: la prima fase affidata alla spontaneità, poi la presa di coscienza dei gruppi antifascisti che abbracciano la lotta armata e, grazie all’apporto dei contadini e degli operai dei quali essi si sentono «coscienza storica», formano le prime bande in Veneto e in Emilia-Romagna; in seguito, la lotta all’attesismo, nato dopo il fallimento delle prime azioni partigiane e combattuto da Longo, Secchia, Parri in nome di uno slancio popolare contro il nazifascismo. Battaglia riassume la scelta partigiana come sbocco inevitabile per una gioventù che aveva sopportato il peso di una dittatura e che ora avrebbe dovuto combattere a fianco dei tedeschi. Vedremo come nella storia della brigata Stella Rossa questa analisi sia vera per molti uomini ma, come abbiamo già fatto notare, non concordiamo sull’inevitabilità di quella scelta. Una distinzione simile a quella sottolineata da si può ritrovare nella celebre opera di Guido Quazza17, che per primo ha tentato di inserire la vicenda partigiana nell’ambito della storia italiana passando dal primo dopoguerra fino all’affermarsi dell’egemonia democristiana, analizzando il fenomeno a livello locale e settoriale ma anche in relazione alla situazione internazionale di lungo periodo. Secondo l’autore la scelta della lotta armata avviene grazie all’incontro tra due tipi di antifascismo: il primo, definito �politico’, è quello più organizzato, di vecchia data, cresciuto all’interno del regime fascista. Il secondo, che l’autore chiama «spontaneo» o «esistenziale», di cui fanno parte i ceti medi, gli operai e i contadini, nato dalle continue delusioni derivanti dalla politica del ventennio e dalle sue disfatte. A queste due spinte propulsive Quazza affianca un terzo antifascismo, detto «l’antifascismo dei fascisti», ovvero l’atteggiamento di quei poteri che hanno reso possibile l’ascesa del fascismo ma che poi sono saltati sul carro dei vincitori condizionando e annullando le istanze più innovatrici della Resistenza. Ci sembra importante sottolineare come questo schema, utilizzato peraltro anche da Bocca, sia valido anche per le vicende che ci interessano, soprattutto con riferimento alle aspettative partigiane ampiamente disattese nell’immediato dopoguerra. 210
La questione della politica partigiana
Il tema della scelta è trattato anche nel celebre libro di Claudio Pavone18 e, come ben si intende dal titolo dell’opera, si sviluppa all’interno di una sistemazione organica della questione morale all’interno della lotta partigiana. L’autore sottolinea giustamente come dietro ad ogni scelta si nascondano motivazioni di diverso spessore ma anche, elemento cruciale per il nostro lavoro, di come il carattere di disobbedienza critica sia assente nella scelta operata dai sostenitori della RSI: chi decise di diventare partigiano, seguendo i più svariati percorsi, approdò a un’organizzazione spontanea che pensava e perseguiva, con i mezzi umani e materiali disponibili, una politica fondata da azioni e pensieri, spesso lontani, fisicamente e mentalmente, dalle indicazioni provenienti dalle forze politiche a capo del movimento, mentre chi rispose ai bandi repubblichini, per entusiasmo militante o per timore di disobbedire ad un ordine, entrava a far parte di un governo condizionato politicamente da una potenza straniera e ad essa soggiogato militarmente. Questa differenza è fondamentale per la nostra analisi, che vuole mettere in evidenza il carattere unico e innovativo della politica partigiana in Italia. Contrariamente a Pavone, però, sosteniamo che vi sia una distinzione netta tra questione morale e questione politica e che la seconda non possa essere ridotta alla prima, soprattutto nell’ambito della scelta iniziale di chi non aveva né il lusso né i mezzi intellettuali per potersi soffermare su divagazioni di tale portata. Mentre sul piano morale troviamo una pluralità di motivazioni reversibili anche su altre sequenze storiche, è sul piano politico che emergono tutte le singolarità della scelta partigiana e della sequenza 1943-1945. La guerra a cui fa riferimento Dante Livio Bianco19, prima di confluire nel celebre trittico guerra di liberazione/lotta di classe/guerra civile, è soprattutto partigiana: autoctona, inventiva, dentro e contro la seconda guerra mondiale20, una guerra che contiene i modi di agire e pensare della politica partigiana. Nella storia della brigata «Stella Rossa», i percorsi che portano alla scelta partigiana hanno tratti in comune ma anche sfumature che li rendono diversi21. Non siamo in presenza di scelte obbligate o di grandi ripensamenti ideologici, anzi, la maggior parte delle persone che prenderanno parte alla formazione (a parte Umberto Crisalidi, il commissario politico) è lontana dalla politica dei partiti o dei giornali. Dalle testimonianze scritte non emerge neppure un richiamo di tipo etico o morale, ma piuttosto la presa di coscienza che lo stato delle cose poteva essere ribaltato da quel tipo di scelta. Tutti confluiranno in una visione politica unica, perseguiran211
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no uno stesso scopo, approderanno a un «dire», riassunto simbolicamente nelle parole «Morte all’invasore tedesco! Morte al traditore fascista!» che appaiono nei comunicati, che a sua volta rincorrerà un «fare», l’organizzazione di un gruppo di lotta armata clandestino coordinato a vari livelli. La politica partigiana e il mito della Resistenza La definizione di politica partigiana come di una «ricerca del potere» proposta da Giorgio Bocca è compatibile con la nostra analisi solo a patto che, come riteniamo sia il caso, l’autore si riferisca alla progressiva conquista quotidiana di piccoli spazi di potere all’interno dello scenario di lotta e non alla ricerca di quel potere che potremmo definire «dei potenti», ovvero, del potere istituzionale, dei partiti o dell’apparato militare. Nella nostra ottica, infatti, le situazioni politicamente più significative si svolgono proprio lontane da esso, inventate da soggetti che non hanno potere. I partigiani infatti erano spesso distanti dalle logiche e dai contrasti interni ai partiti che presiedevano i CLN e estranei alle posizioni discordanti presenti nello schieramento alleato22, circostanza che contribuì a creare non pochi dissidi tra i Comitati, gli alleati e le brigate partigiane. Per anni questi scontri, come gli attriti tra le diverse bande impegnate sul campo, sono stati nascosti dietro al mito della Resistenza vista come «fenomeno unitario e nazionale»23, un mito che non ha più ragione di esistere dopo che numerose opere hanno fatto luce su questi contrasti24. Il caso della brigata «Stella Rossa» è rappresentativo del ritardo, almeno a livello locale, della politica del PCI sugli avvenimenti in corso. Essa rappresenta la prima formazione partigiana sorta in Emilia-Romagna dopo l’armistizio (in questo caso i tempi/cronologia della politica si interrompono il 29 settembre del 194425) e la sua stessa esistenza smentiva le previsioni fatte dai politici antifascisti riguardo la possibilità di poter portare avanti la lotta partigiana nella zona bolognese dell’Appennino tosco-emiliano. A testimonianza di questo iniziale scetticismo vale un documento del dicembre del 1943 in cui si prende atto dell’inadeguatezza dell’Appennino ad accogliere la guerriglia partigiana concludendo che la cosa migliore che si potesse fare nella zona bolognese era concentrare tutte le attività di supporto verso i GAP di città e provincia26. Questo documento, redatto dal segretario della federazione comunista Giuseppe Alberganti, segui-
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La questione della politica partigiana
va una linea, definita «restrittiva», che poneva dei limiti all’azione di massa nell’organizzazione della guerra di liberazione e che quindi esprimeva riserve sul possibile contributo di contadini e montanari alla lotta partigiana27, ipotizzando l’ingaggio di forze dal Veneto. La genesi di questa brigata racconta una storia completamente diversa, che si sviluppa in direzione opposta a quanto avevano previsto gli autori del documento sopraccitato. Oltre a rappresentare un elemento di diversità per il fatto di essere composta da elementi autoctoni, a differenza delle formazioni del Bolognese formate da partigiani della campagna e della pianura, la «Stella Rossa» è singolare anche perché riesce a creare da subito una struttura abbastanza solida che si espanderà notevolmente nel giro di pochi mesi, grazie al lavoro di Umberto Crisalidi, prima fondatore della sezione di Vado del Partito Socialista poi antifascista convinto e infine primo commissario politico della brigata. Questo fu possibile soprattutto grazie al rapporto profondo che intercorreva tra gli uomini che la fondarono e i luoghi in cui si svolsero le azioni. Il nucleo iniziale era formato da elementi originari delle zone comprese tra Monzuno e Marzabotto e una comprensione delle origini e del carattere autonomo28, autoctono e stanziale di questa brigata, non può prescindere dal considerare come decisivo il retroterra geografico, oltre che culturale e sociale, da cui provengono gli uomini che ne faranno parte29. La costruzione della tratta ferroviaria Bologna-Firenze, la cartiera di Marzabotto e altri insediamenti industriali contribuiranno a cambiare lo scenario prettamente rurale ed infatti la componente operaia locale assieme agli uomini che giungeranno da Bologna renderanno la categoria dell’operaio dell’industria la più rappresentata all’interno della brigata, anche se la componente contadina sarà sempre alta. La rete di solidarietà che da sempre è esistita in queste zone aiutò i partigiani a guadagnarsi anche l’appoggio incondizionato dei parroci. Alcuni di essi, antifascisti della prima ora, prenderanno persino parte attiva alla vita in brigata, a testimonianza del carattere inclusivo della politica partigiana. In questa sottovalutazione si avverte già la distanza tra la politica partitica e quella partigiana. Il comandante della «Stella Rossa» e molti degli uomini presenti nel nucleo iniziale della brigata avevano osservato la nascita dei CLN con indifferenza e consideravano il conseguente inserimento all’interno delle bande partigiane di commissari politici come un ostacolo alla lotta. Si erano sempre considerati autonomi e slegati da qualsiasi connotazione politica, met213
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tendo sempre in primo piano l’obiettivo finale e l’organizzazione sul terreno di battaglia. Musolesi era convinto che il fascismo avesse conquistato il potere proprio grazie alle divisioni presenti nella compagine antifascista e non voleva che l’indottrinamento politico da parte dei commissari dividesse i suoi uomini o li distogliesse da quello che per lui era lo scopo principale, la lotta contro i nazifascisti. Inoltre la valutazione erronea da parte del CLN riguardo la possibilità di dare vita alla lotta partigiana nelle montagne che abbiamo già sottolineato (il CLN ebbe i primi contatti operativi con la brigata solo in primavera) e la decisione di non rafforzare le formazioni che già vi operano, aveva screditato questo organo agli occhi del comandante, che lo riteneva capace di operare solo in situazioni libere da qualsiasi tipo di impedimenti iniziali. Questa posizione antagonistica cederà solamente davanti a scelte pragmatiche dettate dalla mancanza di munizioni e di armi, situazione che pesava sul progressivo aumento numerico degli effettivi della brigata. Tornando per un attimo al nostro percorso metodologico, possiamo comunque affermare che i CLN sono stati in molti casi uno dei luoghi della politica partigiana, specialmente per la lotta che si svolgeva al di fuori delle città, con funzione informativa e di raccordo tra le varie unità. Altri luoghi sono stati i rifugi, le reti di appoggio fornite dalla popolazione, il Partito d’Azione, che più di ogni altro incarnava lo spirito della politica partigiana, i giornali clandestini, le «repubbliche» partigiane sorte nelle zone liberate, i comitati nelle fabbriche. Non entreremo nel merito dell’azione, o se si vuole, del fare, partigiano: il materiale disponibile su questo argomento è vastissimo30 e una disamina degli eventi della guerra di liberazione o delle azioni della brigata «Stella Rossa» non rientra nei compiti di questa breve dissertazione. Vorremmo invece soffermarci a riflettere sul valore che quella straordinaria esperienza ha avuto ed ha tuttora per il nostro paese, senza cadere in facili retoriche e a distanza dal mito che ragioni ideologiche hanno tenuto in vita per lungo tempo. Ci teniamo a sottolineare che non è nelle nostre intenzioni relegare i fatti della sequenza 1943-1945 al rango di mito, come se non fossero accaduti o, peggio, fossero stati inventati da qualcuno. Riteniamo, invece, che è proprio «scrostando« le categorie totalizzanti che il mito costruito attorno alla Resistenza porta con sé31 che si possano far emergere le radici più profonde e vitali di quel periodo storico. Lo storico Gianni Perona, esaminando numerosi documenti relativi 214
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alla guerra partigiana, ha constatato l’assenza della parola «Resistenza»32. Usata da De Gaulle a Radio Londra per spronare l’esercito francese sconfitto ma anche dai repubblichini, non viene mai utilizzata dai partigiani per autodefinirsi e quindi difficilmente può rappresentare, come etichetta storiografica, l’intero arco della lotta di liberazione dal 1943 al 1945. L’esistenza di questa discrepanza ci è stata confermata da diversi ex-partigiani che abbiamo intervistato, come ad esempio Franco Fontana, staffetta della «Stella Rossa»: «È vero, tra di noi eravamo una banda, la banda dei partigiani. “Resistenza” è una parola che è venuta fuori dopo, è una parola vecchia riemersa dopo la guerra. Noi non ci definivamo “resistenti”, semmai partigiani o ribelli. Eravamo giovani, poi siamo stati ribelli, poi siamo diventati uomini liberi. Ma nelle lapidi c’è scritto ribelli»33. L’uso di questa parola negli anni a venire34, inoltre, ha sortito l’effetto di appiattire l’esperienza partigiana ad un livello prettamente militare, aspetto sicuramente importante e vero ma che, come stiamo tentando di dimostrare, non esaurisce il significato di quella stagione. Il fermento di attività e idee che agitava il paese parallelamente alle azioni militari, non ci sembra integrabile nel concetto classico di Resistenza da parte di un esercito contro un nemico esterno o interno. Ed è proprio in questo ambito aggiuntivo che si inseriscono la politica partigiana e la politica dei partiti. La vera novità per molti dei protagonisti della sequenza 1943-1945 è costituita invece dall’uso della parola «partigiano», che Beppe Fenoglio, nei pensieri di Johnny, ha descritto come «quella parola nuova, nuova nell’acquisizione italiana, così tremenda e splendida nell’aria dorata»35. Le prime parole utilizzate per riferirsi ai combattenti erano state «ribelli» o, come nell’omonimo romanzo di Pietro Chiodi, «banditi»36, ma è «partigiano» l’appellativo che qualifica definitivamente questa nuova figura di combattente come soggetto unico e inedito nella storia d’Italia. Conclusioni La singolarità e l’inventività dei partigiani ci conducono alla conclusione del nostro discorso. Non riteniamo assolutamente chiusa la questione storiografica riguardante l’esistenza o meno di una politica partigiana e proprio per questo le brevi riflessioni conclusive che vogliamo apporre all’argomento trattato vanno considerate anche come precisazioni di metodo e spunti per approfondimenti futuri, che questo breve articolo non può 215
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pretendere di aver esaurito completamente. Innanzitutto vogliamo ribadire che, dato l’approccio metodologico scelto, l’esposizione dei fatti riguardanti la brigata va sempre considerata all’interno di una ricerca più ampia riguardante la storia della politica, ovvero, dei modi di fare politica e dei modi in cui la politica si è organizzata. Per questo abbiamo privilegiato una ricostruzione delle vicende della «Stella Rossa» che desse risalto alle singolarità che riteniamo costitutive della politica partigiana, nodo problematico al centro della nostro lavoro. La storia di questa formazione ci è servita come esempio per tentare di dimostrare l’esistenza e l’importanza di un pensare politico autoctono, inedito e singolare che conviveva accanto ad altre istanze politiche portate avanti, con mezzi e fini differenti, dagli altri protagonisti della sequenza 19431945. Nostro auspicio è che nuovi studi propongano analisi simili riguardanti altre brigate partigiane, così da poter avere uno sguardo d’insieme più complesso e articolato della questione storiografica affrontata. Per una storia della brigata nel senso classico del termine rimandiamo alla letteratura esistente, che si è già occupata più volte di questo argomento da molteplici punti di vista e con sfaccettature diverse37. Partendo da queste considerazioni è utile soffermarsi sull’efficacia della lotta partigiana all’interno della guerra di liberazione e sul lascito del pensare partigiano nella politica della Stato dopo il 1945. La guerra partigiana va necessariamente inquadrata nell’ottica più ampia e articolata dello scenario della seconda guerra mondiale e nelle decisioni strategiche degli alleati al riguardo, che, come sostiene giustamente Elena Aga-Rossi38, erano spesso dettate da necessità militari oltre che da pregiudiziali di tipo politico. Eppure, osservando lo svolgimento delle azioni, riesce difficile pensare che le forze angloamericani non siano state avvantaggiate dalle iniziative partigiane, soprattutto nelle zone ritenute decisive per l’evolversi del conflitto. Il caso della «Stella Rossa» è esemplare a riguardo. Attiva già dal novembre/dicembre del 1943 a ridosso della Linea Gotica oltre l’Appennino, questa brigata usufruì, tramite un ufficiale dell’OSS, di ben due lanci di viveri e munizioni39 da parte degli alleati, merce rara se come sostiene Elena Aga-Rossi i mezzi di cui disponeva il quartier generale alleato non erano molti40. Evidentemente il numero di effettivi e l’incisività delle azioni portate a termine dalla brigata avevano fatto sentire il loro peso nelle decisioni strategiche anglo-americane: gli alleati, pur controllandolo e indirizzandolo verso le loro esigenze politiche e militari, ave216
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vano sicuramente bisogno del movimento partigiano41. Per quanto riguarda il transito della politica partigiana nel modo di fare politica e nella società negli anni successivi al 1945, possiamo affermare che l’uscita dell’Italia dal fascismo e dall’alleanza con il nazismo in maniera rispettabile agli occhi della comunità internazionale, da cui il richiamo alla «repubblica nata dalla Resistenza» che nasce anche da questo bisogno di rispettabilità, è certamente scaturita dall’armistizio badogliano e dalla politica di Togliatti, ma soprattutto dal riscatto guadagnato sul campo dall’impegno e dall’intransigenza della politica partigiana. L’inizio di una politica partecipata, di un’azione collettiva che scuote la politica partitica in momenti diversi nell’arco degli ultimi sessant’anni (soprattutto tra gli anni cinquanta e sessanta, in maniera evidente nei movimenti studenteschi del Sessantotto ma perfino nel rinato interesse per la politica dopo la crisi di credibilità del sistema dei partiti successivo all’inchiesta «Tangentopoli»), rappresenta, a nostro avviso, anche solo a livello simbolico, una delle eredità più preziose che la stagione partigiana ha lasciato alla storia del nostro paese. Riteniamo sia doveroso sottolineare come la questione della politica partigiana rimanga aperta anche per altri motivi. La storia della guerra di liberazione, da sempre al centro di polemiche politiche strumentali ma anche di reali difficoltà in sede di ricostruzione storica dovute alla mancanza di una memoria collettiva condivisa a livello locale e nazionale sui fatti accaduti, rappresenta un delicato e arduo terreno d’indagine. La vicenda della «Stella Rossa», per esempio, è legata indelebilmente all’eccidio di Marzabotto, ma la memoria pubblica di quel tragico evento si è divisa da subito tra «luogo della memoria» (Marzabotto, dove hanno luogo le celebrazioni ufficiali) e «luogo della storia»42 (Monte Sole, dove si sono svolti i fatti), dando vita a elaborazioni molto dissomiglianti tra loro: se da una parte viene riconosciuto il valore e l’importanza dell’operato dei partigiani dall’altra sono nati sentimenti di rancore e rabbia verso gli stessi, creando una memoria antipartigiana che, ancora oggi, individua nelle azioni degli uomini della «Stella Rossa» la causa principale della strage43. Anche la politica si è inserita più volte in questo dibattito: nei primi anni ottanta, dopo un periodo di oblio durante il quale i luoghi dell’eccidio vennero abbandonati al degrado, il Partito Socialista ingaggiò una polemica con il Comune di Marzabotto a maggioranza comunista sulla memoria di Monte Sole e sul ruolo della «Stella Rossa» nelle vicende di 217
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quel periodo: i socialisti accusavano il PCI di avere deliberatamente rimosso la brigata dalla memoria pubblica della strage a causa dei dissidi che si erano creati tra Musolesi e il comandante comunista del CUMER Ilio Barontini e denunciavano il disconoscimento, presente nelle interpretazioni delle motivazioni dell’eccidio di tipo comunista ma anche di tipo cattolico, dello stretto legame tra popolazione filo-partigiana e brigata e quindi di un rapporto causa-effetto tra Resistenza e strage44. La strumentalizzazione politica più evidente fu invece portata avanti dal deputato missino Giorgio Pisanò. In un articolo apparso il 10 novembre del 1961 sul settimanale «Gente» e in pubblicazioni successive45, Pisanò rivelava che il comandante della «Stella Rossa» non era stato ucciso dai nazisti ma da un suo compagno partigiano, più precisamente dal vice comandante della brigata Giovanni Rossi, il quale, d’accordo con esponenti comunisti, avrebbe deciso di eliminare Musolesi poiché non si era adeguato alle direttive del PCI inerenti la lotta partigiana e perché non voleva consegnare il fantomatico «tesoro» della brigata al partito. Inoltre Pisanò dimostrava che la strage era stata provocata dai partigiani, accusandoli di avere poi strumentalizzato l’evento in loro favore. Nel 1972 queste affermazioni, supportate da testimonianze orali delle quali però non vengono citate le fonti, vennero portate come prova in tribunale col sostegno di Bruna Musolesi, sorella del «Lupo», che in seguito alla visione di un film sulla storia della brigata46, chiese che a ventisette anni di distanza venisse riesumato il corpo del fratello per fare chiarezza sulla sua morte. Il 21 ottobre del 1975 una sentenza assolutoria nei riguardi di Rossi smentì il castello accusatorio di Pisanò47 e la vicenda si chiuse senza seguito. Questa breve digressione mostra come fin dal primo dopoguerra la questione della guerra partigiana sia stata terreno di scontro a livello politico, ma le stesse divisioni sull’interpretazione della guerra di liberazione e sulla memoria ad essa legata si possono riscontrare anche nei dispute istituzionali apparse recentemente sui giornali48. La tensione che si è venuta creando all’interno del dibattito culturale su questi argomenti spesso non ha consentito, o ha rifiutato, la proposta di nuovi suggerimenti di indagine e di ricerca ad integrazione di studi già assimilati. La questione della politica partigiana non è certo un soggetto nuovo all’interno delle discussioni storiografiche ma viene sovente uguagliata alle decisioni dei partiti che partecipavano alla lotta di liberazione e, di conseguenza, ad una politica di tipo istituzionale. In questo articolo abbiamo invece tentato di evi218
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denziare il carattere singolare, innovativo e inventivo della politica partigiana e di far emergere la novità rappresentata dal partigiano come soggetto inedito nella storia italiana. Ci auguriamo che altri lavori contribuiscano ad investigare una questione storiografica aperta e ricca di spunti di approfondimento.
Note al testo 1
La visione della Resistenza e della genesi della repubblica da parte dei partiti e dei movimenti di tutti gli orientamenti, e l’utilizzo politico che essi ne hanno fatto, hanno subito notevoli oscillazioni nel corso degli ultimi sessant’anni, dando vita a numerose definizioni per descrivere il contenuto delle rispettive visioni: la definizione di Resistenza come «secondo Risorgimento« diffusasi dopo il 1945, connotato di elementi patriottici e unitari; il riferimento alla «Resistenza tradita« da parte dei movimenti studenteschi e operai della fine degli anni Sessanta come critica al Partito Comunista Per l’argomento trattato, ci interessa sottolineare come a partire dai primi anni Sessanta, l’inizio della distensione tra Est ed Ovest e la nascita di governi formati da coalizioni di centro-sinistra consentano l’affermarsi di una visione celebrativa della Resistenza come elemento che legittima moralmente ed eticamente la Repubblica: la Repubblica «nata dalla Resistenza«. Per maggiori approfondimenti rimandiamo al saggio di Claudio Pavone La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile da «Rivista di storia contemporanea», XXI, 1992, nn. 2-3, pp. 456-480.
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Per approfondimenti sulla brigata «Stella Rossa»: GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa a Monte Sole, Ponte Nuovo, Bologna 1989; MIRCO DONDI, Marzabotto: la Stella Rossa in BRUNELLA DELLA CASA, ALBERTO PRETI, La montagna e la guerra. L’Appennino bolognese fra Savena e Reno 19401945, Aspasia, Bologna 1999; GIORGIO OGNIBENE, «Dossier Marzabotto», Ape, Bologna 1990; LUCIANO BERGONZINI, La resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, V, Istituto per la storia di Bologna, 1980.
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VALERIO ROMITELLI e MIRCO DEGLI ESPOSTI, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni pubbliche, Rubbettino, Catanzaro 2001; VALERIO ROMITELLI, Storie di politica e di potere, Cronopio, Napoli 2004. Tutti i riferimenti usati in questo paragrafo sono tratti da queste opere e ci riteniamo responsabili per ogni possibile interpretazione erronea del loro pensiero.
GIORGIO BOCCA, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni «Giustizia e Libertà» del Cuneense, Feltrinelli, Milano 2005.
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Abbiamo trovato un accenno alla politica partigiana anche in un manuale di Storia, con particolare riferimento al coinvolgimento contadino nella lotta: «L’azione della Resistenza diviene in tal modo, oltre e più che militare, fatto politico. Ma non si tratta di una scelta politica generale, di “semplice” (per quanto dura e dolorosa) contrapposizione ai nazi-fascisti. Si tratta di opzioni politiche quotidiane: quando e dove proclamare uno sciopero; quale «campagna di massa« avviare; scegliere gli obiettivi militari in base a esigenze belliche ma al tempo stesso di crescita della coscienza antifascista collettiva» (ROBERTO FINZI, MIRELLA BARTOLOTTI, Corso di Storia. L’età contemporanea, vol. III, Zanichelli, Bologna 1994) Queste osservazioni si applicano anche alla vicenda della «Stella Rossa»: nel novembre del 1943, per esempio, venne organizzata l’apertura forzata dell’ammasso di Vado da parte della brigata, con la successiva distribuzione di grano alla popolazione, GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa cit.
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L’intransigenza azionista va comunque considerata vera e valida per la nostra analisi soprattutto sul piano dei principi, ovvero, come intransigenza nel portare avanti la lotta per il raggiungimento degli obiettivi e convincimento della validità degli obiettivi stessi. Sul piano pratico tutte le formazioni politiche si dovevano confrontare con una realtà molto più complessa ed in continuo sviluppo e anche gli azionisti adottarono strategie flessibili, per esempio inquadrando i militari senza curarsi troppo della loro fede monarchica, concessione notevole per un partito repubblicano. Anche altri aspetti dell’azionismo partigiano risentono di contraddizioni, per un approfondimento rimandiamo a GIOVANNI DE LUNA, Storia del Partito d’Azione. La rivoluzione democratica (1942-1947), Feltrinelli, Milano 1982.
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Nel nostro percorso, lo ricordiamo, le testimonianze e i documenti rappresentano il dire, (i «frammenti del discorso») che va messo in relazione al fare (l’azione, i fatti accaduti); una situazione politica nasce dal percorso tracciato dalla continua rincorsa tra un dire e un fare e il loro mettersi in relazione descrive «i modi in cui si sono attivati i rapporti tra i diversi luoghi d’organizzazione».
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Testimonianza di Giorgio Stermini, commissario politico nella brigata «Stella Rossa» e 7ª brigata GAP, contenuta in LUCIANO BERGONZINI, La resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Vol. III, Istituto per la storia di Bologna, 1970, pp.526-527.
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Archivio della Deputazione Emilia-Romagna per la storia della Resistenza di Bologna, Fondo ANPI; anche in GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa cit.
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GIORGIO BOCCA, Partigiani della montagna cit., pp.26-27. Come fa giustamente notare Giorgio Bocca, il contributo dei vecchi antifascisti fu fondamentale come «l’intuizione« di molti soggetti che presero l’iniziativa singolarmente. Le due componenti erano assolutamente indispensabili e solo la sinergia di questi elementi ha reso possibile la lotta partigiana.
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FERRUCCIO PARRI, Il movimento di liberazione e gli Alleati, in «II movimento di liberazione in Italia», I, Milano, 1949, p.512.
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Nel dicembre 1944, un accordo con le autorità militari alleate e il governo Bonomi attribuì al Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) la direzione politica di tutte le formazioni partigiane, e assegnò il comando delle operazioni militari al generale Raffaele Cadorna. La presenza del CLNAI, però, non evitò i contrasti, peraltro emersi da tempo, sul modo di gestire la lotta di liberazione tra i CLN (sorti clandestinamente dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 per dirigere e coordinare la lotta, nel caso dell’ Emilia-Romagna del CLNER costituitosi il 16 settembre 1943), il CUMAI, (in Emilia-Romagna CUMER costituito all’inizio del giugno 1944) e le varie bande partigiane dislocate sul territorio dove la funzione e l’azione dei commissari politici e le direttive di cui erano portatori venivano valutate in maniera diversa a seconda dell’angolazione ideologica e del temperamento dei combattenti.
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Il peso di quella scelta emerge chiaramente nelle parole di Federico Chabod, autore di quel-
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lo che ormai viene considerato un classico della storiografia e che forse per primo ha dato un posto preciso e argomentato in maniera lucida alla Resistenza all’interno della storia dell’Italia contemporanea. Definendo l’epopea partigiana come «guerra senza coscrizione», Chabod mette in risalto il carattere innovativo di questa esperienza per gran parte del popolo italiano: «Ess[a] indica che la partecipazione attiva, decisa, delle masse alla vita politica, alla vita della collettività, è ora un fatto definitivo, il che non era stato per il periodo intercorso tra la realizzazione dell’unità italiana e la prima guerra mondiale. E questo basterebbe a spiegare perché la vita politica italiana dell’Italia dopo il 1945 è diversa da quella dell’Italia di prima del 1914» (FEDERICO CHABOD, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, pp. 130-131). 14
SANTO PELI, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004. L’autore fa riferimento a protagonisti illustri quali Luigi Meneghello, Emanuele Artom, Nuto Revelli, Livio Bianco, Primo Levi e Beppe Fenoglio.
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CLAUDIO PAVONE, La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile, in «Rivista di storia contemporanea», XXI, 1992, nn. 2-3, pp. 456-80.
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ROBERTO BATTAGLIA, GIUSEPPE GARRITANO, Breve storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1955.
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GUIDO QUAZZA, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Feltrinelli, Milano 1976.
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CLAUDIO PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
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DANTE LIVIO BIANCO, La guerra partigiana, Torino, Einaudi, 1954.
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Come ha fatto giustamente notare Giulio Guderzo, la scelta consisteva nel «fare la guerra per non doverla fare». (GIULIO GUDERZO, L’altra guerra: neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana: Pavia. 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2002). Non a caso nei luoghi maggiormente coinvolti dall’eccidio di Marzabotto è sorta la «scuola di pace» di Monte Sole.
Vediamo tre esempi a riguardo tratti da GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa cit.: Mario Musolesi, comandante della brigata Stella Rossa, nasce a Monzuno nel 1914 figlio di un minatore costretto a cercare lavoro in Germania per mantenere la famiglia numerosa. In giovane età assistette alle lotte agrarie del 1920 e, in seguito, alla nascita del fascismo e ai primi episodi delle violenze squadriste, nelle quali non fu mai coinvolto direttamente e che rimasero ricordi sbiaditi nella sua memoria. Musolesi trascorre gli anni che lo separano dalla chiamata alle armi svolgendo diversi lavori, dal manovale al macellatore di bestiame, e quando questa arriva spera di evitarla grazie ad una ferita alla mano subita durante i lavori di scavo della galleria di Monte Adone, speranza che svanisce con la partenza per il fronte africano con incarico di meccanico-carrista. Non si hanno molti dettagli della sua esperienza militare, tanto che persino il fratello lo vede solo due volte prima dell’8 Settembre, quando torna al paese in licenza. Durante la seconda visita, in piena guerra, Musolesi esprime al fratello la fiducia in una sicura vittoria fascista, ma il destino darà ragione al fratello, fermamente convinto che «la guerra si perde». Quando torna a Vado a metà del settembre del 1943, Musolesi conquista un ruolo di rispetto nel paese che gli proviene dall’esperienza in guerra, dal suo atteggiamento sicuro, dal prestigio economico assunto dalla sua famiglia e dal rilassamento dell’organizzazione fascista. Questo gli permette di discutere con esponenti del fascismo locale senza essere fascista, di girare armato, di proteggere e aiutare i propri concittadini. È in questo periodo che, assieme all’amico Olindo Sammarchi, comincia a raccogliere armi abbandonate lungo le gallerie della Direttissima che vengono nascoste in case disabitate o nella macchia. Giovanni Rossi, vice comandante della brigata Stella Rossa, nasce a Gardelletta nel 1923 e ben presto viene a contatto con la violenza fascista: mentre frequenta le scuole elementari assiste al pestaggio del padre capoma-
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stro da parte di una squadra di fascisti locali. Alla fine del 1942, dopo aver svolto diversi lavori, viene chiamato alle armi e imbarcato a Venezia sul cacciatorpediniere Alpino. Rimane ferito in seguito all’affondamento dell’imbarcazione a La Spezia nel maggio del 1943 e, nonostante le condizioni fisiche precarie, viene destinato ad una nave-officina ma il perdurare delle ferite subite gli fanno ottenere un prolungamento della convalescenza a casa. L’8 settembre del 1943 Rossi decide che è giunto il momento di vendicare il padre e di cominciare a lottare. Alfonso Ventura, comandante di battaglione nella brigata Stella Rossa, nasce a San Benedetto Val di Sembro nel 1923 da una famiglia di contadini, ed è proprio per fuggire da questo mondo che si arruola nell’esercito diventando sottufficiale istruttore alla scuola di cavalleria di Pinerolo. Le notizie che arrivano dal fronte lo convincono che la guerra è ormai persa e che nemmeno a Pinerolo si può combattere alla pari con i tedeschi. Con l’armistizio e la successiva incertezza sul da farsi matura la decisione di tornare a casa e di intraprendere la lotta armata contro fascisti e tedeschi. Giunto a Marzabotto il 16-17 Settembre 1943, riesce a liberarsi dai Carabinieri che lo cercavano e nei giorni successivi conosce Mario Musolesi, Gianni Rossi e Umberto Crisalidi. 22
Si veda, ad esempio, il lungo dibattito interno tra i due centri dirigenti del PCI sulla gestione della lotta partigiana in LUIGI LONGO, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1973.
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ELENA AGA-ROSSI La politica anglo-americana verso la Resistenza italiana in L’Italia nella Seconda Guerra Mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Ferrantini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani, Franco Angeli, Milano 1988, p.142
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Per un quadro dei dissidi esistenti all’interno dello schieramento partigiano rimandiamo a MIRCO DONDI, La Resistenza tra unità e conflitto. Vicende parallele tra dimensione nazionale e realtà piacentina, Mondatori, Milano 2004.
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Data della tragedia di Marzabotto.
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Le motivazioni che stavano alla base di questo giudizio erano: «1° conformazioni geografiche delle nostre montagne. Non si prestano all’esistenza di forti bande, perché le nostre montagne hanno un retroterra profondo; sono invece messe come una schiena d’asino e da un crinale all’altro vi sono pochi chilometri, per cui solo esigui gruppi potrebbero resistervi; 2° le nostre montagne sono completamente sprovviste di boschi, eccettuato qualche castagneto, che d’inverno con la caduta delle foglie non serve a nulla; 3° da qui l’impossibilità: ciò che rappresenta un vantaggio enorme per l’avversario che può arrivare sulle cime dei monti con gli automezzi, impedisce ai partigiani di potersi garantire le spalle. La sola tattica possibile è quella della grande mobilità e di restare fortemente divisi gli uni dagli altri. Ciò presuppone però l’aiuto effettivo della popolazione montana; 4° mentre per contro la situazione politica nella zona di montagna della nostra provincia è ancora fortemente arretrata, sul resto della provincia il fascismo ha potuto imporsi di nuovo ed è in montagna ove conta le sue maggiori forze. Da parte delle masse della montagna non vi è stata nessuna reazione politica, né agli avvenimenti del 25 luglio né dopo all’8 settembre, per cui si può concludere che la pressione del vecchio fascismo è rimasta intera e tale da terrorizzare quelle popolazioni. Qui non è la paura di un singolo, ma è una forma di terrore, di panico collettivo per cui era impossibile poter trovare quell’aiuto per la vita dei partigiani; 5° l’estrema povertà delle zone montane fa sì che quelle popolazioni temevano la presenza dei partigiani in quanto esse avevano timore che dovessero mantenerli; 6° infine la presenza di importanti forze tedesche sulle montagne; poiché dai primi giorni i nostri Appennini sono diventati una base di probabile resistenza per i tedeschi i quali presidiano tutti gli sbocchi, li fortificano rendendo la circolazione, e quindi un rifornimento, estremamente difficile.» (Da «Bologna. Rapporto del Triangolo dal settembre al dicembre 1943», in PIETRO SECCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945.Ricordi, documenti ine-
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diti e testimonianze, Istituto Giangiacomo Feltrinelli di Milano, Annali, XIII, 1971, pp. 128130, riportato anche in LUIGI ARBIZZANI, Habitat e partigiani in Emilia-Romagna 1943-1945, Brechtiana Editrice, Bologna 1981). 27
Differente sarà la posizione assunta dai vertici politici nei riguardi della situazione nel ravennate, dove si attuerà la cosiddetta «pianurizzazione».
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La brigata aderirà formalmente al CLN e al CUMER ma l’atteggiamento del suo comandante (Mario Musolesi detto «Lupo») nei loro confronti sarà non privo di contraddizioni, a volte all’insegna della collaborazione ma spesso in totale contrasto.
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La storia della «Stella Rossa» copre un arco di 334 giorni (dall’inizio di novembre del 1943 al 29 settembre del 1944, data d’inizio del tragico eccidio di Marzabotto), di cui ben 269 giorni vengono trascorsi nelle zone d’origine.
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Abbiamo già evidenziato quali siano le opere fondamentali sull’argomento nel paragrafo Scelta morale o scelta politica?
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Abbiamo gia visto alcuni temi ricorrenti attorno al mito della resistenza: l’unità di azione e di intenti, l’adagio sulla «Repubblica nata dalla Resistenza« e, come conseguenza, l’appello alla «Resistenza tradita».
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GIANNI PERONA, La Resistenza come problema storiografico in «Quaderno dell’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio», n. 4/5, marzo 1993, p. 5.
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Testimonianza orale di Franco Fontana (staffetta nella brigata «Stella Rossa«) rilasciata all’autore in risposta alla domanda: È vero che tra di voi non usavate la parola «Resistenza»? Secondo studi recenti non appare mai nei documenti partigiani originali ma solo nel dopoguerra.
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Dal dopoguerra in avanti, l’uso della parola è stato così insistente che perfino i protagonisti del periodo 1943-1945 hanno poi cominciato ad usarla e la usano tuttora.
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BEPPE FENOGLIO, Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi, 1970.
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Parola che appare anche in I piccoli maestri di Luigi Meneghello (Milano, Feltrinelli, 1964).
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Alle opere già citate nel corso della trattazione aggiungiamo: REMO SENSONI, VINICIO CECCAMarzabotto, un paese, una strage, Teti, Milano 1981; NAZARIO SAURO ONOFRI, Marzabotto non dimentica Walter Reder, Grafica Lavino, Bologna 1985; LUCIANO GHERARDI, Le querce di Monte Sole: vita e morte delle comunità martiri tra Setta e Reno 1898-1944, Il Mulino, Bologna 1987; MARGHERITA JANNELLI, Solitarie passeggiate a Monte Sole, Ape, Bologna 1990; ROMANO GUALDI, Viaggio fotografico a Monte Sole: 29-30 settembre/1-2-3-4-5 ottobre, Arteambiente, Modena 1994; LUIGI ARBIZZANI, Prima degli Unni a Marzabotto, Monzuno, Grizzana, Grafis, Bologna 1995; CHIARA GHIGI, La nube ardente: autunno 1944 a Monte Sole, Pendragon, Bologna 1996; BEATRICE MAGNI, Monte Sole: film, documentari, servizi televisivi, Consiglio di gestione Parco di Monte Sole, Bologna 1999; BEATRICE MAGNI, Lotta di liberazione ed eccidi nazifascismi nell’altopiano di Monte Sole: saggi e documenti su Marzabotto, Monzuno e Grizzana, Consiglio di gestione Parco Monte Sole, Bologna, 2000. RINI,
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ELENA AGA-ROSSI, La politica anglo-americana verso la Resistenza italiana cit.
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In data 26 e 30 aprile 1944, GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa cit.
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ELENA AGA-ROSSI , La politica anglo-americana verso la Resistenza italiana cit., p.148. Gli aiuti alleati saranno più consistenti solo a partire dall’estate del 1944, quando la lotta partigiana diventerà strategicamente importante per le operazioni angloamericane. Non sempre le azioni andavano a buon fine: nell’inverno 1944-45 di 150 missioni programmate solo 20 arrivarono a destinazione.
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Davide Ventura 41
Fatto messo in evidenza anche in, LUCIANO CASALI, GAETANO GRASSI, Liberazione, all’interno del Dizionario della Resistenza, a cura di Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, Einaudi, Torino 2000.
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Queste osservazioni sono tratte dalla tesi di laurea di DAVIDE BERGAMINI, Monte Sole: la memoria della strage, pubblicata sull’ «Annale dell’Università di Bologna - Discipline storiche», anno 1998-1999.
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I testi più rappresentativi di questo tipo di memoria sono il già citato Marzabotto e dintorni 1944, di Dario Zanini (Ponte Nuovo, Bologna 1994), ANGELO CARBONI, Elia Comini e i confratelli martiri di Marzabotto, Alfa-Beta, Bologna 1988 e GIORGIO PISANÒ, Sangue Chiama Sangue. Le terrificanti verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di dire sulla guerra civile in Italia, Ed. Pidola, Milano 1965. Anche giornali e riviste nel corso degli anni hanno pubblicato articoli molto critici verso la brigata: in un articolo apparso su «Avvenire», si lodano i libri sopraccitati perché dimostrerebbero che «le azioni partigiane e il sacrificio di tante vittime innocenti, che ne furono la diretta conseguenza, non obbedirono ad alcuna necessità strategica né servirono ad affrettare la sospirata liberazione da parte degli Alleati.» (M. TRAINA, «Via le croci? Eh, no!», in «Avvenire», 18 maggio 1986).
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La polemica venne originata da Giorgio Ognibene, esponente della federazione socialista di Bologna. Per approfondimenti rimandiamo al suo libro Dossier Marzabotto. I sotterranei di Bologna, Ape, Bologna 1990.
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In particolare due articoli apparsi sul settimanale «Candido»: Marzabotto: il «Lupo« è stato assassinato («Candido Settimanale del sabato», nuova serie, anno V, n. 7, 17.02.1972) e Un’indegna speculazione per nascondere l’atroce verità («Candido Settimanale del sabato», nuova serie, anno V, n. 9, e marzo1972). La vicenda è trattata anche in LUIGI PASELLI, Marzabotto, 29 settembre 1944 Leggenda e tragedia di una brigata partigiana, «Archivio Trimestrale. Rassegna storica di studi sul movimento repubblicano», n. 2, anno IX, aprile-giugno 1983, in particolare alla nota 12.
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La lunga ombra del Lupo. Purtroppo il film non è presente nell’archivio video del centro documentazione presso il Comitato regionale per le onoranze funebri ai Caduti di Marzabotto.
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La sentenza è pubblicata in GIAMPIETRO LIPPI, La Stella Rossa a Monte Sole, Ponte Nuovo, Bologna 1989, pp. 289-295.
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Ci riferiamo, per esempio, alle polemiche nate in seguito alle dichiarazioni del presidente del Senato Pera sulla Resistenza in una intervista rilasciata a Pierluigi Battista, su «La Stampa» il 17 dicembre del 2004.
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La lotta di liberazione delle donne partigiane di Marina Addis Saba
Nella storiografia europea solo negli anni ottanta si è usciti dall’ambito ristretto in cui la lotta contro gli invasori nazisti era stata ridotta e si è giunti al concetto di resistenza civile, nella quale tuttavia stentavano ad apparire le donne, con il loro ruolo specifico. A questo ruolo mi rimandava invece la mia intenzione di fare una storiografia di genere. Un’altra ragione mi spingeva alla ricerca, ed era quella di rispondere alla domanda che l’amico Enzo Santarelli aveva posto nel suo saggio su «Passato e presente» del 1976: se le donne durante il fascismo erano rimaste nella passività e nel privato, come da secoli, perché mai furono tante e così valide nella Resistenza? La storiografia maschile si limitava a fare delle lodi generiche alle donne che avevano partecipato alla lotta, solo nell’opera di Claudio Pavone, Una guerra civile, si accennava a qualche episodio in cui le donne avevano agito, ma senza dare loro alcun particolare rilievo, né motivazione. Così iniziai a ricercare le fonti e trovai che le partigiane avevano lasciato memoria del loro passato in libri pubblicati in provincia, presso piccole case editrici che non avevano avuto alcuna diffusione. Io stessa avevo letto solo Diario Partigiano di Ada Gobetti e L’Agnese va a morire e pochi altri. Trovai moltissimi libri di memorie, racconti appassionanti, pieni di forza e anche di allegria, ogni fatto era «dolce nella memoria», soprattutto nelle autrici più giovani. Feci anche un’altra scoperta, anche perché parlai con alcune partigiane «militanti», tra cui Giancarla Codrignani, Marisa Musu, Maria Teresa Regard e partecipai con una relazione alla commemorazione della Resistenza delle donne in Campidoglio nel marzo del 1995. In essa Marisa Conciari Rodano e altre si accusarono del loro silenzio, allertate da ciò che succedeva nel campo politico. In realtà le donne, tornate a casa, individuarono subito il punto scabroso, quella loro «promiscuità» con i maschi partigiani: 225
Marina Addis Saba
un solo sorrisetto poteva rendere sporca e colpevole la loro vicenda di lotta e di consapevolezza, così esse smisero di raccontare, o forse non raccontarono mai, nemmeno in famiglia, ciò che avevano fatto come resistenti: un esempio per tutte è Il silenzio dei vivi (1997), libro di memoria in cui la viennese Elisa Springer, sposata ad un italiano e vissuta a Manduria, racconta la sua storia di ragazza ebrea reduce dai campi di concentramento solo dopo la morte di suo marito, che le aveva imposto un silenzio assoluto, persino con suo figlio. Ma le partigiane non tacquero per una imposizione, tacquero anche, come i prigionieri reduci dai campi, perché nessuno aveva più voglia di sentire racconti di morte e di paura, e in particolare mariti, padri, fidanzati, figli avevano una ragione di genere in più. Non solo i familiari, ma anche le istituzioni, associazioni partigiane o istituti della Resistenza o singoli studiosi non sollecitarono la memoria storica delle donne, anche perché Anpi e altre associazioni erano composte soltanto da partigiani e non si dimentichi che le commissioni per riconoscere il «titolo» di partigiani o patrioti erano soltanto maschili e la regola era di avere partecipato almeno a tre scontri a fuoco! Le donne resistenti non andarono nemmeno a richiedere quel riconoscimento, tanto assurde dovettero apparire loro le disposizioni. Il silenzio dunque fu la regola e pesò sulla memoria storica, non ci fu una esclusione voluta, ma l’abitudine alla dimensione privata delle donne, che era stata rotta durante gli eventi drammatici ed era tornata nel dopoguerra costume e regola del mondo al maschile, che le donne stesse avevano introiettato. Vennero i movimenti femministi degli anni settanta e le giovani femministe, nella loro riflessione sulla soggezione secolare delle donne, fatta tra di loro in gruppi di autocoscienza, tagliarono i fili col passato e ripudiarono le madri, partigiane, costituenti, fondatrici della nostra repubblica, e affermarono, con grande stoltezza storica, che prima di loro il femminismo era stato emancipazionista, cioè volto a «penetrare nella cittadella maschile», e solo il loro era femminismo della liberazione, che era soprattutto del corpo e della sessualità femminile e per la valorizzazione della differenza di genere. Anna Kuliscioff, tre volte cancellata, come dimostro nella mia biografia (Mondatori 1993), dal fascismo prima, dal comunismo nel dopoguerra in quanto socialdemocratica e infine dalle neofemministe degli anni settanta, aveva già affermato, alla fine del XIX secolo, che le donne «con tutte le lo226
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ro differenze» non erano né migliori né peggiori dei maschi, erano diverse e non avevano mai avuto il maschio come modello e, quasi presaga, parlava non di eguaglianza ma di equivalenza dei due sessi. Avvenne allora una sorta di rivolta delle ex partigiane che non sopportarono di non essere riconosciute proprio dalle giovani sessantottine, e che quindi si diedero a raccogliere testimonianze orali dalle loro compagne ed amiche con cui avevano lottato nella Resistenza: cosi tra la metà degli anni settanta e i primi degli ottanta furono dati alle stampe libri che mi hanno permesso la ricerca e fornito gran quantità di testimonianze, citerò solo Compagne, di Bianca Guidetti Serra, uscito nel 1977, La Resistenza taciuta, dell’anno precedente, e L’altra metà della Resistenza di Lidya Franceschi e Isotta Gaeta, del 1978, e ma i testi sono tanti e in genere regionali, Marche, Toscana, Lazio; le donne ricercarono e fecero tesoro delle storie di partigiane che finalmente riprendevano voce. Anche la celebrazione della Resistenza, nel 1995, fu una spinta a narrare e a tramandare la memoria delle donne partigiane. Sentii i racconti di Tina Anselmi e, come ho detto, quelli di Marisa Conciari Rodano, che si doleva di non avere parlato prima e esortava amiche e compagne a lasciare memoria di sé e delle loro azioni. Fu così che mi misi al lavoro, ma c’era un altro ostacolo da aggirare: nei loro racconti le donne non parlano mai di date, possono descrivere i luoghi, i fiori che riempivano i prati o le nevi che ostacolavano il loro cammino, ma solo le intellettuali, come Bianca Ceva o Ada Gobetti lasciano qualche traccia temporale, per esempio dicono che il proclama di Alexander fu nel novembre del 1944. Di fronte a questa caratteristica delle testimonianze femminili, ho dovuto dividere i racconti per «mestieri», ho parlato cioé di infermiere, staffette, fattorine, donne con le armi, ragazze dei Gap, ma bisogna stare attenti, lo dico agli storici e in genere ai lettori, occorre pensare alla vita reale delle donne, le nostre, le loro donne cosa fanno in casa? Sono cuoche, o cameriere, spazzine o madri, infermiere o amanti; fanno e facevano allora di tutto e di più; ecco, le donne parteciparono alla lotta della Resistenza per lo più facendo tutto ciò che c’era da fare, cioè tutto quel che al momento occorreva, tranne qualche ragazza che fu solo staffetta, cioè ufficiale di collegamento addetta a un capo partigiano o qualche altra che era nella formazione partigiana ed era capace di radiotrasmettere, ma per la maggior parte le donne fecero la Resistenza esercitando soprattutto il loro solito la227
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voro di cura, come si chiama ora il lavoro domestico: domus è solo la casa, centro e luogo di tutti gli incontri e rifugio per eccellenza, lavoro di cura è termine più adatto perché comprende anche la cura dei bambini, dei vecchi, dei malati, dei mariti, della casa e dei cibi e rende meglio l’incessante e necessario lavoro in casa fatto dalle donne che presiedono al focolare, lavoro proporzionale al numero dei figli, che allora era ancora abbondante. I sette fratelli Cervi non erano un’eccezione. A a casa di mio padre erano sette, di cui una morta giovinetta, a casa di mia madre erano cinque, ma due erano morti in fasce. Prigioniere Prima della guerra ci furono, come è noto, alcune donne che fecero anni di prigione per antifascismo, Adele Bei, comunista, fu in carcere per quasi diciotto anni, Camilla Ravera, Cesira Fiori, Barbara Allason, Bianca Ceva, anch’esse fecero anni di carcere fascista e, uscite di galera nell’agosto del 1943, molte guidarono la lotta di resistenza, come Adele Bei a Roma o Bianca Ceva. Quest’ultima fu partigiana vicino a Piacenza nella formazione del comandante Fausto Cossu, di Tempio Pausania. Tra tutte scelgo di narrare brevemente di Bianca Ceva, insegnante di Voghera. Con il fratello Umberto fu tra le prime aderenti del movimento di GL, amica personale di Bauer, Parri, Ernesto Rossi; suo fratello, catturato e carcerato, si uccise in carcere nell’inverno del 1930. Bianca Ceva, dopo l’8 settembre, fu tra le prime ad attivare una rete di resistenza a Voghera, dove abitava con i genitori e la sorella e iniziò quasi per caso: incontrò infatti sul treno due soldati fuggiaschi che volevano raggiungere Genova, li condusse a casa sua, li assisté, li vestì in borghese e li rimise sul treno per Genova. Nella sua prima azione in montagna rintracciò due australiani fuggiti dal campo di prigionieri e li guidò perché si unissero ad un gruppo di giovani che stavano formando una banda partigiana, ma essi furono catturati e la indicarono alla polizia fascista. La donna si rifugiò a Milano, poi tornò a Voghera e là venne presa e carcerata nel castello di Voghera dove era tormentata dal freddo e dalle cimici; le altre detenute le cantavano la loro storia, ma Bianca non aveva la forza di rispondere, venne interrogata dal famigerato colonnello Alfieri e solo nel marzo del 1944 incontrò sua sorella che andò a trovarla in carcere. In giugno fu trasferita a Milano per il processo, rivide i genitori, alla fine di agosto venne 228
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alla fine processata e rinviata al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Trasferita a Pavia, d’accordo con la sorella finse un attacco di appendicite e si ritrovò in una bianca stanza d’ospedale, dove la trattennero in vista di un’operazione. L’8 di ottobre di sera entrò nell’infermeria sua sorella e la fece fuggire, con la complicità di medici e suore. In proposito occorre affermare che molte sono le testimonianze della complicità di suore, infermiere, medici alle Molinette o negli ospedali di Milano, o nella clinica privata Pinna Pintor in Piemonte. E in altri ospedali. Una casa amica fu la prima tappa, la due donne si avviarono verso i monti in bicicletta, elusero i posti di blocco e videro le prime bande in formazione di cui nel suo libro di memorie Tempo dei vivi (1954) ci lascia una colorita descrizione. Vide «uomini vestiti con strane fogge, giubbe militari, camicie rosse, giacche borghesi ornate di fazzoletti, portavano copricapi d’ogni genere, dal cappello di alpino al berretto garibaldino al basco militare, molti erano giovani, parecchi ragazzi». Per il seguito del racconto ho avuto la testimonianza di Fausto Cossu, il comandante «Fausto», che da Piacenza, città dalla quale a guerra finita non si è più allontanato, nel febbraio 1995 mi scrisse che la Ceva fece parte a Bobbio della sua formazione: «Fu una bella figura di patriota e di combattente, con la penna e con l’azione, e ha lasciato di sé un ottimo ricordo in quanti l’hanno conosciuta». Il comandante e Bianca si incontrarono ancora a Milano presso l’Istituto della Resistenza e dopo la scomparsa della donna il primo lamentava: «la sua scomparsa ha lasciato molto rimpianto tra gli uomini della Resistenza (BIANCA CEVA, Storia di una passione 1919-1943, Garzanti, Milano 1948). Altre prigioniere furono madri o sorelle carcerate perché i loro parenti non avevano obbedito alla leva della repubblica sociale. Con questi atti di arbitrio le autorità di Salò volevano seminare il terrore. In Umbria, ad esempio, dove la diserzione era più alta, i registri carcerari del carcere femminile di Perugia registrarono solo nell’inverno 1943-44 ben novantadue donne trattenute in ostaggio, molte delle quali contrassero in carcere malattie polmonari per il terribile freddo che pativano. A Perugia erano anche Camilla Ravera e Felicita Ferrero. Di umile condizione, le donne ostaggio, ammassate al piano alto del carcere, si unirono tra loro e, poiché vivevano la reclusione come un violento sopruso, anche se erano tenute isolate dalle politiche, presero a odiare i fascisti e acquisirono una coscienza politica che non avevano. Usci229
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te poi dal carcere, spesso furono resistenti partigiane (Le donne condannate dal Tribunale speciale recluse nel carcere di Perugia, a cura di Mario Mammucari e Anna Miserocchi, La Pietra, Milano 1979). La guerra, con le sue violenze, i bombardamenti, la fame, la perdita di ogni sicurezza, rese chiara alle donne e alle ragazze la colpa del regime, la guerra nella quale esse non restavano più a sferruzzare sul fronte interno, ma erano esposte a tutti i pericoli assieme ai loro figli bambini. Se mai ci fu quello che fu detto «consenso» femminile, che era solo adattamento e sudditanza, abituale nel genere femminile, fu perduto completamente dal fascismo già nei primi anni di guerra, tanto che il 25 luglio fu festa grande anche per le donne che scesero nelle piazze in massa, così come le operaie delle fabbriche del Nord furono le prime a muoversi negli scioperi del marzo 1943. «La guerra ci tiene annidati come bestie, ci fa azzannare tra di noi», scriveva Alba de Céspedes che pubblicò i suoi ricordi di guerra e quelli di molte altre scrittrici già su «Mercurio», rivista il cui primo numero fu pubblicato sotto la sua direzione nel dicembre del 1944, a Roma già liberata. Sulla stessa rivista Maria Bellonci coglieva le opportunità femminili. «Essere donne è più che mai difficile, un sollievo occuparsi degli altri», scriveva. E questo fu vero dopo l’8 settembre. Armistizio Di fronte alle città violate dalla brutale occupazione dei tedeschi le donne «entrarono in massa nella storia» afferma Anna Bravo, ruppero la passività secolare e parteciparono alla lotta di liberazione esercitando il loro specifico ruolo di cura, costituendo non un appoggio assistenziale, ma la rete di supporto necessaria e insostituibile, rischiando spesso la vita. Anzi furono le donne a dare inizio alla trama resistenziale: infatti, quando videro i carri armati tedeschi nelle città entrare nelle caserme, sparare sui nostri soldati, quando videro la marea dei soldati italiani che, senza ordini e senza speranza, scorrevano come un fiume lungo le strade per tornare «tutti a casa», compresero che quei poveri giovani erano in pericolo: così offrirono vesti civili, cibo, rifugio, poi alcuni li accompagnarono là dove i gruppi di sbandati con alcuni ufficiali antifascisti iniziarono la costituzione delle bande. L’azione di queste prime fu spontanea, in quel primo momento, la patria era per le donne in quei poveri ragazzi ridotti quasi a mendicare, che 230
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L’immagine della donna in un volantino della Repubblica sociale italiana
avevano bisogno di aiuto. Le donne, le giovani, allora iniziarono a costituire una organizzazione, dividendosi i compiti, le madri a casa cucinavano il cibo, che altre erano andate a procurare, cosa assai difficile per cui occorreva battere le campagne e le case dei contadini, le ragazze con mille sotterfugi lo portavano alle postazioni che si formavano; le sartine intanto insegnavano alle altre donne, mentre alcune intrattenevano i bambini e insieme facevano la guardia: così cibo, vestiti, giacche, calzettoni, maglie e maglioni erano confezionati e, poiché stava venendo l’inverno, occorreva portarli nelle postazioni assieme a medicine, armi, munizioni, informazioni, radio riceventi e trasmittenti, quanto richiesto dai resistenti ed era necessario al231
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la loro sopravvivenza: mille erano le iniziative, mille sono le testimonianze, e mille furono i rischi e i pericoli che le partigiane corsero volontariamente scegliendo, giorno per giorno, la loro resistenza. Del resto già lo aveva detto Parri: «Quei giorni affannosi di fughe disperate segnano il primo ingresso delle donne nel momento della lotta ...». Che cosa le muoveva? Perché affrontavano la morte per partecipare alla grande resurrezione? Una di loro, la partigiana detta Trottolina, sostiene che l’amore di patria, insegnato nella scuola fascista, la spingeva. «La patria deve essere libera, indipendente e lo straniero se ne deve andare…», scrive in Compagne; oppure è stata l’abitudine, tutta femminile, alla responsabilità e alla cura a portare le donne a rivestire, a nascondere e ad aiutare in seguito i soldati sbandati, lontani dalle loro case, privi di tutto. I Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti per la libertà Nel mio ultimo libro (La scelta, 2005) faccio una ipotesi nuova: concludo i miei quaranta anni di studi sul fascismo femminile con l’ipotesi che il fascismo negli anni trenta fu per una «modernizzazione autoritaria» delle donne, sport, manifestazioni, gare, marce, leva fascista, per prepararle alla guerra, obiettivo primo del regime. Solo nel novembre del 1943 i partiti avvertirono l’importanza della partecipazione femminile e, chiamate alcune donne vicine ai CLN a Milano, le comuniste Giovanna Barcellona, Giulietta Fibbi e Rina Picolato, le azioniste Elena Drehr e Ada Gobetti, le socialiste Lina Merlin e Laura Conti formarono i Gruppi di difesa della donna. Si cercarono anche cattoliche e liberali. Furono molte le donne che rifiutavano una scelta partitica, tanto che la Gobetti racconta che non tutte venivano informate di questa organizzazione esterna perché molte non accettavano legami con partiti per timore di essere strumentalizzate, ma altre comprendevano che era necessario un riconoscimento «ufficiale» per ottenere i soldi necessari. I Gruppi si diffusero in Alta Italia, sino all’Emilia, tra l’inverno 1943 e la primavera del 1944 e solo allora vennero riconosciuti dai partiti dei CLN e finanziati. Entravano così tra le donne valori maschili, di gerarchia, obbedienza, preparazione politica ai quali però la maggior parte delle resistenti restarono estranee, anzi diffidenti. Le cattoliche, poche, che fecero parte dei Gruppi, nel tardo autunno del 1944 vennero invitate dal risorto partito popolare o democristiano e 232
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dagli ecclesiastici a formare un raggruppamento di sole cattoliche, che fu il CIF, Centro italiano femminile. Era nata, o stava per nascere, avrebbe poi detto Pietro Scoppola, la repubblica dei partiti (La Repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991). Infermiere Poco dirò delle infermiere, ruolo tipico delle donne, crocerossine o professionali, oppure semplicemente donne o madri abituate alla cura dei malati. Così moltissime furono le infermiere che aiutarono le partigiane negli ospedali, come nel caso di Lisa Giua, non ancora Foa, che aspettava un figlio e fu catturata e trasferita a Milano, là soccorsa dalle infermiere e poi con la loro complicità liberata da partigiani guidati dalla sua amica Gigliola Spinelli. Interessante la storia di Maria Rovano, Camilla come partigiana. Era ostetrica a Barge, vicino a Cavour. Sapeva che molti dei giovani che vedeva in farmacia erano «gli antifascisti». Un giorno essi le chiesero di mettere a loro disposizione la sua casa, dove viveva da sola: così conobbe Pompeo Colajanni, Antonio Giolitti e i loro compagni (A.GIOLITTI, Lettere a Marta. Ricordi e riflessioni, Il Mulino, Bologna 1992 e La Resistenza taciuta, testimonianza di Maria Rovani,1977). Gruppi di Azione Patriottica e Squadre di Azione Patriottica Le ragazze più giovani fecero parte anche dei GAP e dei SAP, Gruppi di Azione Patriottica e Squadre di Azione Patriottica. Non furono molte, a Milano a Bologna, a Roma, ho conosciuto alcune delle ragazze romane ormai anziane signore e purtroppo ora quasi tutte scomparse, Maria Teresa Regard, Marisa Musu, Carla Capponi. È viva Lucia Ottobrini. Esse parteciparono ad azioni di attacco improvviso ai tedeschi che occupavano Roma, accettarono di usare le armi e uccidere convinte che era una necessità della lotta, ma non amarono parlarne. In particolare Lucia Ottobrini che ancora potrebbe darci la sua testimonianza dice che ha molto sofferto a dovere usare le armi, e infatti si ritirò nella santabarbara dei GAP, in via Giulia, dove fabbricava gli ordigni esplosivi: il suo nome da partigiana era Maria, e ,forse per quel nome comune, i nemici non riuscirono a trovarla. A questo proposito mi fermo un momento a fare notare che mentre i partigiani vestivano in modo eccentrico e con fazzoletto al collo, in qual233
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che modo alludendo ad una divisa, a rischio di farsi riconoscere, le donne accentuavano la loro femminilità, talvolta imbottite di fogli clandestini sotto le gonne o nelle borse della spesa per non essere sospettate e mentre i maschi si diedero nomi «importanti», Falco, Lupo, oppure Robespierre, le ragazze o le donne si cambiavano semplicemente nome, Lucia in Maria e Carla in Piera. Taluna si chiamò Katiuscia, in onore della Russia sovietica, o Alba, o Fiamma, ma senza nessuna pretesa di ricordare eroi o animali feroci. Ada Gobetti fu chiamata Ulisse per la sua pervicacia e Bianca Ceva Nadir, ma in genere le donne non si davano nessuna importanza, come era nel loro costume. Fattorine Molte delle partigiane si occuparono di stampa clandestina, non perché scrivessero sui giornali dei partigiani, ma solo perché battevano a macchina gli articoli, li portavano dal tipografo incaricato, ritiravano fogli e giornaletti stampati e li diffondevano, li distribuivano porta a porta, oppure li gettavano dal tram in corsa, o li lasciavano sulle panchine e sulle sedie dei caffè. A Roma Maria Odone, medaglia di bronzo, radunò alcune giovani collaboratrici per distribuire quarantottomila manifestini contro la leva della repubblica di Salò. Due di esse gettavano i manifestini dalla piattaforma posteriore della circolare sino a che il tranviere non gridò: «Mò basta, è mejo che smammiate!» (Mille volte no! Testimonianze di donne della Resistenza, a cura di Mirella Alloisio, Carla Capponi, Benedetta Galassi Beria, Milla Pastorino, Unione donne italiane, Roma 1965, pp.227). Queste ragazze le ho chiamate fattorine. Partigiane armate Le ragazze non fecero però solo lavori di tipo femminile. Non poche usarono le armi e fecero vita di brigata come tutte le giovani sognavano di fare perché spesso esse dissero la loro passione di combattere in armi i nazifascisti assieme ai compagni. La condizione femminile tuttavia obbligò per lo più le donne sposate a restare a casa. Ma anche le ragazze per lo più rimasero a casa e alcune fecero le partigiane senza che la famiglia lo sapes234
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Una donna partigiana con le armi nei giorni della liberazione di Novara
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se, aiutate dai tempi in cui ogni regola era sovvertita e si poteva andare anche lontano di casa per cercare cibo. Solo alcune ebbero la connivenza delle mamme, donne ancora giovani, dai quaranta ai cinquanta anni . Respinte dalla vita pubblica, relegate nel privato, non fu mai diritto-dovere delle donne di difendere la patria in armi nemmeno nelle guerre dichiarate dagli stati, la cittadinanza infatti era nata tradizionalmente maschile e solo ai maschi era riservato il diritto-dovere di essere chiamati in guerra. Così era stato anche nella Rivoluzione francese. Si deve quindi prestare grande attenzione alle non molte donne che presero le armi e combatterono nella Resistenza. Si trattò certamente per loro di una scelta particolarmente difficile e l’uso delle armi ebbe, nella consapevolezza che queste donne iniziavano ad avere, un forte significato simbolico, una affermazione della volontà di essere a pieno titolo cittadine a difesa della patria comune: e infatti la partecipazione alla Resistenza fu tra gli elementi che provocarono finalmente la concessione del voto, prima ancora che la guerra fosse finita, il 1° febbraio del 1945. Nelle formazioni partigiane ci fu il problema del rapporto tra i due sessi, talvolta i ragazzi tentarono di ridurre le donne al loro servizio, altre volte cercarono di ottenere favori di tipo erotico; ma le ragazze imposero una forma di severo cameratismo, non fecero mestieri di servizio, tranne quello di curare i partigiani che avevano la scabbia o la rogna o pidocchi cimici e pulci, che erano frequenti. Un altro compito tipicamente femminile fu accettato dalle partigiane: esse ricevevano le confidenze dei compagni d’arme, leggevano le lettere delle loro fidanzate o madri lontane, confortavano, offrivano amicizia e tenerezza. Ma ogni attività di tipo sessuale era vietata; nacquero naturalmente nella lotta simpatie e amori che si conclusero con le nozze, ma secondo le regole tradizionali, di fronte al sindaco o di fronte al prete: così Carla Capponi sposò Sasà Bentivegna, Lisetta Giua sposò Vittorio Foa, Franco Venturi sposò Gigliola Spinelli, per non ricordare che le coppie più note. Armi, esplosivi, sabotaggi, tutto fecero le partigiane, persino le paracadutiste. Le commissioni maschili le hanno contate e divise in partigiane e patriote, alcune della quali ebbero la medaglia d’oro, di solito alla memoria perché morirono in combattimento. Come Lidia Bianchi, caduta a Cimavalsolda «virilmente impugnando le armi ..con leonino valore» si dice nella motivazione della medaglia, sulla quale vi risparmio i commenti. Allo stesso modo mi rifiuto di parlare di numeri: quante furono le partigia236
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ne? E veramente vi furono partigiane e patriote? Classificazioni e gerarchie sono strumenti del mondo maschile, che ha fatto i conti: bastano quelli di Renzo De Felice basati su ipotesi assurde. Staffette Le staffette: ecco un nuovo mestiere, non più solo femminile, che rese visibili le ragazze, poiché la staffetta è un ufficiale di collegamento e per l’organizzazione dei movimenti di bande, divisioni, brigate il collegamento è necessario, così la staffette devono avere buone gambe per camminare a piedi o in bicicletta per chilometri e chilometri, per arrampicarsi, per nascondersi; è un mestiere che regala alle ragazze una libertà che non hanno mai avuto, esse vanno in giro, sole o appaiate per villaggi e pianure, si arrampicano sulle montagne, discendono a valle, cercano e trovano rifugi per la notte. Esse sono le uniche ben consapevoli di ciò che fanno, poiché conoscono postazioni, spostamenti, portano ordini, informazioni, scelgono tutti i giorni di rischiare la vita. La reputazione, questo bene sacro per il genere femminile, l’hanno già perduta. Se incontrano pattuglie fasciste o tedesche rischiano violenze, torture, una morte atroce, ma nella scelta che ogni giorno compiono è la loro libertà. Esse fanno parte della Resistenza organizzata, sono addette presso i comandi di brigate o divisioni, compaiono in gran numero nelle testimonianze e nella letteratura partigiana. Le troviamo citate in Fenoglio, Spinella, Dante Livio Bianco. Il loro numero? Incalcolabile e incalcolato, per la sua tesi sulle donne della Resistenza a Firenze una mia laureata (Paola Rutelli, Università di Sassari, 1992) ha trovato presso l’Istituto della Resistenza toscana un elenco, con nome cognome, indirizzo di ben quattrocento staffette. Allora ne parlai con amici e dirigenti di istituti della Resistenza. Si sarebbero forse, una ventina d’anni fa, potute ritrovare, ma ci voleva tempo e denaro. Non avevo né l’uno né l’altro. Le staffette sono le uniche partigiane che narrano con spavalda baldanza le loro imprese. Sembrano essersi divertite a rischiare e ad imbrogliare, erano vestite in modo molto femminile e talvolta nascondevano sotto le vesti, le pancere o i reggiseno, fogli e ordini. «Ad Alessandria una volta mi sono fatta accompagnare in macchina dai fascisti. Era un giorno dopo i bombardamenti e i treni non andavano. Pioveva, io dovevo girare e mezzi non ce n’erano». Un’altra: «Ho avuto più paura per i bombardamenti che 237
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per il lavoro che facevo. Ero molto spericolata nel lavoro». Spesso le staffette non hanno detto neanche in famiglia cosa facevano: «Dicevo di lavorare a Torino, ogni tanto andavo a trovare mia madre a Chieri, mia madre era un po’ alla buona, non sapeva niente di ciò che facevo», racconta Cecilia, ma quando la arrestano si accorge che la madre sa tutto e tutto nega. Spesso tra la generazione delle madri e quella delle figlie scoppiavano contrasti e liti, ma la ragazze non si davano per vinte. Talvolta invece le mamme sono fiere: «Avevo tre figlie, ma una era piccola, quella di quattordici anni e quella di sedici erano staffette, una nella Val Sangone e l’altra invece nella Brigata in Val di Manzo», racconta una testimonianza; in un treno pieno di tedeschi una staffetta ha la pancia gonfia di manifesti e finge di essere incinta e di avere le nausee da gravidanza, un’altra a Milano incontra Curiel, che ricorda con affetto, poi ha fame e si siede in una trattoria con alloggio: entra, mostra le tessere annonarie e una donna le indica una scala: «Quando avevo fatto due scalini vidi una camera con la porta aperta e un uomo che aspettava». Attraverso i racconti delle partigiane si capisce che si è riaperto quel dialogo tra generazioni che il regime aveva impedito, poiché molti padri e madri non fascisti non parlavano con i figli ragazzi per non farne degli spostati nel regime (i miei cugini maggiori, maschi e femmine, figli dei fratelli maggiori di mio padre e antifascisti come lui non si aprivano con i figli, che erano tutti giovani fascisti e ho constatato che ciò è avvenuto quasi sempre nella generazione che ho chiamato del Littorio) (Gioventù italiana del Littorio, Feltrinelli, Milano 1973). Ancora un’altra ipotesi è confermata da molte testimonianze: le partigiane avevano il favore delle popolazioni, soprattutto delle donne, che davano loro asilo, cibo, tazze di bevande calde. Le anziane combattevano in questo modo restando nelle loro case, le giovani andavano per le strade in un mondo popolato da maschi nemici, perché gli altri, se non erano vecchi e bambini, erano nascosti. Bene lo dice Elsa de Giorgi che parla di un mondo tutto popolato di donne, mentre gli uomini erano in un mondo sotterraneo; la tesi defeliciana della «zona grigia», se ci si riferisce alle donne, mi pare non regga, anche se in molte vinse la paura o l’egoismo o la tradizione di riservatezza. Troppo grave era l’oltraggio che le popolazioni subivano per restare indifferenti. Ma il silenzio imposto o scelto dalle donne pesa ancora sulla storia femminile, le cose più intime e, per esempio, le violenze sessuali subite, le don238
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ne non le hanno raccontate. Teresa Mattei, la partigiana toscana eletta poi Costituente, ha raccontato della violenza subita dai tedeschi solo nel 1997 (Una vita partigiana, «Il Manifesto», 7 marzo 1997), dichiarando che ormai poteva dirlo perché i suoi genitori e suo marito erano morti. L’educazione di tutta una vita, quella dei secoli che ci hanno preceduto hanno un peso che non è facile eliminare del tutto. Perciò sarebbe dovere degli uomini, ex partigiani e studiosi della Resistenza ricercare testimonianze, valutarle e dare coraggio a chi è abituata per cultura a tacere in pubblico, ad essere riservata, a non esporsi, a non pubblicarsi. Ma né le associazioni partigiane né gli istituti della Resistenza, sempre «governati» da elementi maschili, lo hanno fatto e ormai è tardi; però sarebbe giusto che si smettesse di avere della presenza femminile nella storia una «concezione ancillare»; e anche gli storici che abbiamo conosciuto e ci sono o ci sono stati amici, qualunque sia la oro età, sembrano non interessati a comprendere i nostri studi di genere. Anzi a volte sembrano provare fastidio per chi rivendica spazi propri, e problemi diversi da quelli comunemente presi in considerazione dalla storiografia: e questo mi pare non solo un ritardo culturale, ma si traduce in un atteggiamento politico che ancora vuole in sostanza escludere le donne dalla storia politica e quindi anche dalla storiografia.
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Le riforme democratiche sacrificate al miraggio dell’Armata Rossa di Giovanni Ferro
Le operazioni militari che si erano svolte sul nostro territorio nazionale avevano sconvolto l’intero apparato produttivo. Uno dei meriti, spesso ignorato, della Resistenza fu quello di aver salvato gli impianti industriali dalla distruzione da parte dei tedeschi in fuga. Quando si arrivò al traguardo della pace, l’industria italiana era la sola europea in stato di efficienza. Una classe politica avveduta, e preoccupata dell’interesse nazionale, avrebbe saputo approfittare in maggior misura di quanto abbia fatto la nostra, in questa eccezionale circostanza. Salvata, di fatto e di diritto, dall’applicazione conseguente del principio della «continuità dello Stato» - implicitamente accolta dalla sinistra con la «svolta» di Salerno - la vecchia classe politica fascista riprese - se pur mai l’aveva abbandonato - il dominio delle istituzioni economiche, burocratiche, giudiziarie e militari, utilizzando in modo calcolato quel provvidenziale «passe-partout» che era la tessera di uno qualsiasi dei partiti di massa. Infatti è in base al numero degli iscritti che furono da allora schierati i partiti secondo un ordine di priorità. È perciò che la Democrazia Cristiana fu giudicata più importante del Partito d’Azione, dal Partito Comunista e da quello Socialista, uniti da un patto di azione comune. Malgrado l’esiguità dei suoi iscritti, il Partito d’Azione rappresentava la cultura laica militante ed era in grado di fornire alla sinistra operaia tutte le competenze tecniche necessarie, consentendole di sottrarsi ai condizionamenti dei fascisti e dei clericali. L’alleanza con questo partito di opinione, ma squisitamente antifascista e democratico, avrebbe reso possibile la formulazione e la realizzazione di tutte quelle riforme democratiche, giudicate indispensabili ad una moderna democrazia per spianare la via alla partecipazione attiva dei cittadini nella vita pubblica, premessa di una società socialista democratica e liberale. Esso riuniva in sè quella meravigliosa schiera di intellettuali liberaldemocratici e radicalsocialisti che aveva combattuto il regime fascista sen241
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za esitazione e senza compromessi lungo tutto il ventennio della dittatura, sopportando dignitosamente ed eroicamente persecuzioni e condanne. La caduta del governo Parri fu per gli antifascisti di ogni orientamento politico il segno premonitore di quel processo di decadimento morale e politico che - come un piano inclinato - avrebbe portato al completo fallimento il nostro Stato repubblicano. I dirigenti dei grandi partiti operai non si resero conto del fatto che, indipendentemente da ogni altra considerazione, il governo Parri rappresentava l’antifascismo e la Resistenza e pertanto la sua difesa ad oltranza giustificava una battaglia politica senza esclusioni di colpi e non doveva consentire il ricorso a tatticismi o a valutazioni d’ordine quantitativo come quella che poteva derivare dalla comparazione del Partito d’Azione con la Democrazia Cristiana. La responsabilità storica di un tale errore di valutazione rimarrà a carico di coloro che se la sono assunta, secondo un’ottica classista superficiale. Un giudizio severo di tale atteggiamento fu emesso dallo stesso Parri in una lettera da questi inviata al giornale «Avanti» e da questo pubblicata il 26 febbraio 1948: Caro Direttore… sono in obbligo di ricordare al suo giornale che non fui io in quell’ora a peccare d’incertezza. Proprio per quello che rappresentavo credetti allora mio dovere di resistere alle intimidazioni liberali attirandomi una ben violenta tempesta di accuse e di invettive. Mi sostennero le spontanee dimostrazioni popolari: non mi sostennero i partiti di sinistra. E la responsabilità di aver allontanato dalla direzione del Governo la Resistenza antifascista va equamente ripartita fra tutti i partiti allora al Governo.
La bussola dell’antifascismo e della Resistenza venivano ancora una volta sacrificate al principio della «continuità dello Stato» espresso dal successivo governo De Gasperi che, passo dopo passo, avrebbe finito con l’estromettere i partiti della classe operaia dal governo del paese, rispondendo così alle sollecitazioni del potere economico che aveva saputo trarre già cospicui vantaggi dalla collaborazione con i nazifascisti. Il nuovo governo predispose la sua totale riabilitazione di fronte all’opinione pubblica moderata ponendo fine al burlesco processo di epurazione ancora stancamente in atto. È giocoforza riconoscere che le forze sociali conservatrici dimostrarono una forte volontà politica e una grande compattezza nell’azione rivolta a riconquistare quel potere reale che era stato loro sottratto prima dalla caduta del fascismo poi dalla sconfitta militare. 242
Le riforme democratiche sacrificate al miraggio dell’Armata Rossa
L’incapacità politica dimostrata dal Fronte della sinistra, egemonizzato dal Partito Comunista, derivava in gran parte dal prevalere in esso di dirigenti provenienti dal «fuoruscitismo» che li aveva staccati dalla realtà nazionale. Essi avevano perduto ogni fiducia nelle qualità umane e politiche dei lavoratori italiani. Frasi come quelle comunemente usate: «fratelli in camicia nera!» e l’altra: «gli italiani sono tutti fascisti», erano l’indice di una intima convinzione che li induceva al pessimismo sulle loro capacità di autogoverno e ciò malgrado la Resistenza e il Movimento dei Comitati Nazionali di Liberazione. Forse tale pessimismo era una comoda giustificazione per la loro mancanza di fantasia politica e di spirito creativo. Infatti la collaborazione governativa dei partiti di sinistra, nei primi governi di coalizione era giustificata unicamente dalle esigenze della ricostruzione senza avanzare prospettive sociali e politiche per il prossimo avvenire. Nessuna delle più modeste riforme che avrebbero potuto avviare il rinnovamento dello stato fu avanzata. Come si poteva spiegare questo atteggiamento, se non con la speranza inespressa di una modificazione a breve scadenza dell’equilibrio internazionale? Gli antifascisti rappresentavano il diritto e pertanto i partiti che si richiamavano al popolo avevano il «dovere» di trarre da esso la forza necessaria ad operare le dovute trasformazioni! Ma gli uomini politici provenienti dal «fuoruscitismo» erano degli «sradicati» e, come capita a tutti coloro che vivono a lungo lontani dal loro paese, ignoravano la nuova realtà nazionale che si era venuta formando durante la loro assenza. Essi erano perciò travagliati da un senso d’impotenza e di sfiducia. Ciò spiega l’inclinazione a considerare la forza come la sola fonte del diritto. Gli uni confidavano nelle armate americane, gli altri riponevano tutta la loro fiducia e speranza nell’Armata Rossa. Questo in sintesi il grande dilemma che riuscì a neutralizzare l’immensa forza rinnovatrice espressa dal popolo italiano con la lotta antifascista combattuta senza tregua durante tutto il ventennio del regime fascista e successivamente con la guerra partigiana cui hanno concorso tutte le componenti sociali e politiche del popolo. È veramente grottesco che taluni di quegli uomini politici provenienti dal «fuoruscitismo» e che hanno diretto la vita politica italiana in questi trenta lunghi anni, sia pure dai numerosi banchi dell’opposizione parlamentare, montino in cattedra per distribuire patenti di viltà e di inettitudine a quella minoranza di antifascisti della «lunga marcia», ch’essi si affrettarono ad emarginare allorché, tanto tardivamente, tornarono a calpestare 243
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il suolo della patria, per ricorrere invece ai pellegrini di quel «lungo viaggio» che li aveva portati «dal fascismo alla democrazia», elevandoli poi, per cooptazione al rango di mentori delle nuove generazioni per le quali, quello che un tempo era considerato un appellativo spregevole: «voltagabbana», doveva diventare sinonimo di illuminazione e preveggenza. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 tutta l’Italia settentrionale e in parte quella centrale avevano sperimentato un tipo di autogoverno, quello del Cnl. Era stata un’esperienza storica di conduzione democratica della vita politica ed amministrativa quale nessun programma di propaganda politica avrebbe potuto fornire. Il Clnai aveva creato al suo fianco una Commissione economica, presieduta da Cesare Merzagora, in grado di trovare una soluzione adeguata a tutti i problemi economici e strutturali che si presentavano. È stata questa Commissione che, cessata la guerra – presieduta prima da Roberto Tremelloni e poi da Virgilio Dagnino – diventò il solo organo dello Stato, per riconoscimento degli stessi Alleati, dotato della capacità di distribuire le materie prime, fornite in base al Piano Marshall e poi al piano Unrra, alle industrie. È in questa occasione che una classe politica preveggente avrebbe potuto avviare l’economia italiana verso un processo di programmazione democratica, che avrebbe potuto garantire lo sviluppo equilibrato del paese col concorso delle classi interessate alla produzione, favorita in questo compito dall’esistenza dei «consigli di gestione» allora universalmente accolti. Uno dei primi atti di governo dell’Italia libera fu quello di promuovere l’epurazione dei fascisti, dagli organi superiori dello Stato e delle aziende pubbliche, che avevano collaborato con le truppe di occupazioni tedesche. Ma come era possibile avviare seriamente un tale procedimento, quando la più alta e rappresentativa carica dello Stato era ancora ricoperta da colui che aveva affidato a Mussolini il governo del paese? Tuttavia questa non era la sola ragione che ostacolava l’azione di bonifica morale e politica intrapresa. Un episodio valga per tutte. Mi trovavo ad operare, con funzioni organizzative, presso il Clnai. E seguivo con molta attenzione la realizzazione del programma di epurazione. Per sostituire gli industriali e i dirigenti epurati disponevamo di esperti messi a disposizione dai partiti politici. Mi erano sorte delle perplessità sulla identità morale di questi esperti. Decisi pertanto di interpellare, per un incarico di grande prestigio, l’avvocato Nello Venanzi, un principe del Foro milanese, padre del senatore Mario Venanzi, caro amico e già mio collaboratore nell’attività antifascista nel 244
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1936, condannato dal Tribunale Speciale con Rodolfo Morandi per aver organizzato il Fronte Popolare a Milano nel 1937. Mi rispose con queste parole: «Ti ringrazio per la considerazione e la fiducia che ti ha indotto a farmi questa proposta di collaborazione, ma se io dovessi accettarla dovrei chiudere il mio studio professionale, perché riterrei incompatibile l’esercizio contemporaneo di un’attività privata e di una pubblica. Tenuto conto però che l’attività pubblica è compensata col metro del pubblico impiego, oggi valutato in modo inadeguato al costo della vita e al deprezzamento della moneta, ciò significherebbe per me ridurre il mio tenore di vita. Dopo tanti sacrifici sopportati per la mia nota avversione al fascismo e per le conseguenze che mi derivarono dall’attività politica di mio figlio Mario, di cui sono orgoglioso, anche se non condivido le sue idee, ti renderai conto che non posso accettare la tua proposta di cui apprezzo la generosa intenzione». Confesso che queste parole, pronunciate con evidente intimo travaglio, mi richiamarono alla realtà di cui non avevo fino allora percepito l’esistenza. Avendo vissuto idealisticamente fin dalla mia prima giovinezza non mi ero mai trovato fino a quel momento di fronte agli aspetti concreti della vita quotidiana. Non appena mi si presentò l’occasione feci presente a Parri, allora presidente del Consiglio dei ministri, l’opportunità di adeguare le indennità dei «Commissari» da noi designati a dirigere gli enti pubblici perché, diversamente, si sarebbe verificato, come di fatto si verificò, che i professionisti consideravano la gestione di tali Enti come una pingue succursale dei loro studi professionali da cui trarre clienti ed incarichi per sé e per i loro collaboratori. La gestione delle industrie appartenenti ad industriali collaborazionisti costituiva un incontro fiduciario quanto mai redditizio, in quanto lo stesso industriale epurato rimaneva titolare del conto corrente bancario per norma del codice civile. L’impossibilità di emanare nuove leggi, particolarmente del tipo di quelle inerenti al diritto di proprietà, senza l’unanimità richiesta in un governo di Cln e la mancanza di un organo legislativo, che soltanto nel 1948 fu possibile ottenere, frustrarono le migliori intenzioni e consentirono l’affermarsi di quel malcostume che dilagherà poi nello Stato e nei partiti. Un altro episodio che dimostra quanto sia, o possa essere diverso, il modo in cui possono essere interpretati i fatti che noi riteniamo semplici ed eloquenti è il seguente. Nella mia qualità di vice presidente del Cnl della Lombardia fui invitato dal commissario del settore bancario ad un incontro con una grande personalità del mondo economico americano di paes245
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saggio per Milano. Si trattava di Amedeo Giannini, fondatore e presidente della Banca d’America e d’Italia accompagnato dal presidente della Camera di commercio di New York, Ercole Laurance Sozzi. La conversazione si svolse in maniera animata e raggiunse toni alquanto accesi. Giannini mi apostrofò, con una certa aggressività, con l’accusa rivolta alla nuova classe politica da me rappresentata, di mancanza di senso comune per il fatto che noi ci accingevamo ad epurare la classe imprenditoriale nel momento in cui le esigenze della ricostruzione del paese avrebbero dovuto indurci alla massima collaborazione. Gli replicai che noi epuravamo taluni industriali per il trattamento da essi perpetrato dell’interesse nazionale, collaborando con i tedeschi, ma non perché essi erano degli industriali. E tale atteggiamento riservavamo a tutti i cittadini che avevano collaborato in qualsiasi forma con i nemici della patria. Egli non sembrava molto persuaso delle mie argomentazioni considerando gli industriali una categoria di cittadini che ha l’unico compito di arricchirsi, non importa come, nell’interesse del paese. Con la fine della guerra e con la liberazione del paese dalle diverse amministrazioni militari che avevano emesso moneta a propria discrezione, si presentò l’improrogabile esigenza di procedere al cambio della moneta. Provvedimento cui avevano ricorso, e con successo, tutti i governi europei. Questa operazione, se realizzata con tempestività, avrebbe consentito di individuare e colpire le illecite accumulazioni di ricchezza dei collaborazionisti. Al tempo stesso avrebbe regolamentato la circolazione monetaria, riducendo il ritmo incalzante dell’inflazione. Il binomio ministeriale Scoccimarro-Corbino, rispettivamente ministro delle Finanze di parte comunista e ministro del Tesoro di parte liberale, funzionò talmente a senso unico che quest’ultimo riuscì ad imporre il seppellimento del cambio della moneta. Naturalmente lo appoggiò, in questa determinazione, il Governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi. Antonio Gambino, nella sua documentata Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere DC così si esprime sull’argomento: La vera obiezione al cambio della moneta è di carattere politico. Ciò che i gruppi tradizionalmente dominanti temono è la precisa e concreta perdita di potere derivante dal trasferimento nelle mani dello Stato di una notevole capacità di spesa. Ma la sua parte propriamente politica finisce qui, con la piena vittoria di Corbino e della destra. E tutto quanto, negli anni seguenti, avviene in Italia in campo economi246
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co, appare direttamente collegato a questa scelta. Fallita infatti la politica indirizzata a ridurre drasticamente la quantità di liquidità disponibile, e specialmente la possibilità dei singoli individui e gruppi di usarla per fini speculativi, non solo l’intero processo di ricostruzione rimane nelle mani di privati, con tutte le distorsioni sociali che da ciò derivano, ma, cosa non meno importante, una forte spinta inflazionistica diventa la conseguenza inevitabile dei primi sintomi di ripresa dell’attività produttiva. Una volta messa in moto una simile spirale, la misura successiva, cioè il tentativo di arrestarne lo sviluppo con una stabilizzazione restrittiva, diventerà almeno in parte una strada obbligata. Lo scontro politico sul cambio della moneta si presenta, insomma, oltre che simbolicamente (per la denuncia, che contiene, delle debolezze della sinistra) anche concretamente come un bivio. La sua mancata effettuazione giustificherà, un anno e mezzo più tardi, la politica di Einaudi, la cui applicazione, a sua volta, contribuirà a fissare per molti decenni i lineamenti essenziali dell’economia italiana. Chi esamina il dibattito economico del tempo, rimane colpito dallo squilibrio che esiste tra l’atteggiamento degli esponenti dello schieramento conservatore e quello dei rappresentanti della sinistra. Mentre i primi esprimono con perentorietà, perfino con la violenza, le proprie convinzioni e le proprie richieste, i loro avversari appaiono costantemente impacciati ed incerti. La battaglia tra coloro che, volendo conservare, e possibilmente rafforzare, le strutture sociali esistenti, sanno esattamente ciò che vogliono, e coloro che, volendo rinnovarle, non sanno (o non sanno o non hanno il coraggio di dirlo apertamente) non si svolge ad armi pari.
Nelle note a fondo pagina è riportata una amena notizia di cronaca che conferma il giudizio dell’autore sull’inettitudine degli esponenti la sinistra estrema: Riccardo Lombardi racconta un episodio che si svolse nello studio di Mauro Scoccimarro, Ministro delle Finanze, durante la crisi di governo della fine gennaio 1947. L’esponente comunista, parlando della possibilità di dover lasciare il suo incarico vuole spiegargli i vari progetti di riforma che aveva preparato. Aprendo un cassetto mostrò al suo interlocutore una pila di grossi fascicoli dicendogli: «Vedi, le riforme erano ormai tutte pronte, non bastava che metterle in atto». Lombardi, allora segretario del Partito d’Azione gli rispose che, avendo avuto i comunisti per quasi tre anni il Ministero delle Finanze, avrebbero avuto tutto il tempo per farlo; se avessero voluto veramente varare leggi fiscali più giuste e più efficaci. I capitali che così sarebbero passati nelle mani dello Stato avrebbero potuto essere investiti in iniziative favorevoli alle classi meno abbienti: case, ospedali, scuole.
Se spostiamo la nostra attenzione, dal settore economico a quello relativo al rinnovamento delle strutture burocratiche, non ci mancheranno elementi di riflessione. 247
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Su sollecitazione del Partito liberale furono eliminati tutti i prefetti nominati dal Cln e l’esecuzione di questa misura involutiva fu affidata, con malcelata compiacenza, al socialista Giuseppe Romita, nella sua qualità di ministro degli Interni. A questa azione cosiddetta normalizzatrice fece seguito la decisione di abolire l’Alto Commissariato per l’epurazione. L’emanazione del decreto di amnistia coronò l’opera di restaurazione. Ora se l’amnistia era un atto di clemenza che avrebbe potuto anche essere interpretato come una dimostrazione di forza e di magnanimità da parte del governo, espressione della volontà popolare, e pertanto incline alla pacificazione degli animi, esso però non avrebbe dovuto essere affidato per l’esecuzione ad una magistratura ancora emanazione del vecchio regime in tutte le sue istanze più elevate. Le conseguenze, vergognose e demoralizzanti che ne derivarono, dovevano essere previste. Esse pesarono per tutti gli anni avvenire. Con le elezioni del 18 aprile 1948 ebbe inizio la restaurazione che premiò le «vittime innocenti» del cosiddetto oltranzismo rosso. La burocrazia, gli enti statali, le società a partecipazione statale, accolsero a braccia aperte questi fedeli servitori dello Stato e li ricompensarono poi con laute pensioni. La stessa Donna Rachele Mussolini reclamò ed ottenne una pensione adeguata al suo stato di vedova del servitore dello Stato di grado più elevato. Con il referendum del 2 giugno 1946 era nata la Repubblica italiana e alla fine di quello stesso anno furono pronunciati due discorsi memorabili: quello di Churchill a Fulton contro l’espansionismo sovietico, che diede inizio alla cosiddetta «guerra fredda», e quello del pontefice Pio XII, che costituì il grido d’allarme contro i nemici della Chiesa, individuati nei militanti dei partiti comunista e socialista. I cattolici furono perentoriamente invitati a scegliere: «O con Cristo o contro Cristo» - «Per la sua Chiesa o contro la sua Chiesa». Nei giorni 9 e 10 gennaio 1947 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi era stato invitato, con altri statisti europei, a Cleveland, dove si era riunito «Il Consiglio per gli affari del mondo». In tale occasione era stato ricevuto dal presidente degli Stati Uniti Truman, che concesse all’Italia il primo prestito americano. Nel frattempo, la scissione di Palazzo Barberini, se da un lato scongiurava il pericolo latente sull’Italia di precipitare nell’orbita sovietica dall’altro provocò le dimissioni di Giuseppe Saragat dalla presidenza dell’Assemblea costituente e quelle di Pietro Nenni da ministro degli Esteri. 248
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In questa e alle pagine seguenti: Dallo schedario della polizia fascista
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Contemporaneamente il prestigioso Partito d’Azione decideva la propria liquidazione. Il fronte di tutta la sinistra si andava sempre più disgregando. Il mondo della cultura laica si era polarizzato attorno ad alcune riviste di grande prestigio, come «Il Ponte» diretto da Piero Calamandrei, «Stato Moderno» diretto da Mario Paggi, «Il Mondo» che sarà la tribuna di alcuni grandi comprimari della scena politica italiana: Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi, Riccardo Bauer, Leo Valiani, Ugo la Malfa; «Il Politecnico» di Elio Vittorini e degli intellettuali marxisti «non conformisti». Togliatti, incurante come di consueto della sensibilità prevalente in tutta l’area della sinistra democratica per i valori civili della libertà di coscienza e della laicità dello Stato, fece votare dal gruppo parlamentare comunista, quasi al completo, l’art. 7 della Costituzione che introduce i Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica, attribuendo a questa un carattere confessionale. Piero Calamandrei nell’articolo Storia quasi segreta di una discussione e di un voto - pubblicato sulla rivista «Il Ponte» del maggio 1947 - scriveva: «L’on. Togliatti in un articolo dedicato al Partito d’Azione («L’Unità» del 2 aprile) ha espresso l’opinione che la fondamentale debolezza di questi “ultimi moicani” consiste nella mancanza del “senso delle cose reali” che dovrebbe invece essere ed è la qualità prima di chi vuole impostare e dirigere un’azione politica. Ma quali sono le cose reali? Qualcuno pensa che anche certe forze sentimentali e morali che hanno diretto e dirigeranno gli atti degli uomini migliori, come potrebbe essere la lealtà, la fedeltà a certi principi, la coerenza, il rispetto della parola data e così via, siano “cose reali” di cui il politico deve tener conto se non vuole, a lunga scadenza, ingannarsi nei suoi calcoli». Rileggendo queste parole dopo quanto è accaduto nel 1989, esse assumono il valore di una profezia! Malgrado le tante manifestazioni di arrendevolezza, che volevano essere tanti capolavori di arte diplomatica, il 30 maggio 1947 De Gasperi licenziò il generoso amico e costituì il suo nuovo governo escludendo in modo definitivo i due partiti di massa della classe operaia. Il 15 maggio 1943 era stata sciolta l’Internazionale comunista, allo scopo dichiarato di favorire l’adeguamento dell’azione dei singoli partiti comunisti alle rispettive esigenze nazionali, ma soprattutto per evitare l’accusa rivolta ad essi dagli Alleati, di favorire l’estensione dell’influenza sovietica nei paesi occidentali. 252
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Proclamata la «guerra fredda» l’Urss intendeva riprendere, senza accorgimenti tattici, il suo ruolo di Paese-guida. Pertanto convocò dal settembre 1947, a Szklarska Poreba in Polonia, la prima conferenza costitutiva dell’Ufficio d’informazione dei partiti comunisti, denominato Cominform. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una di quelle diagnosi catastrofiche ricorrenti, presentate come rivelazioni divine che escono come tante Minerve dal cervello di Giove del Kremlino. Avendo queste ricevuto sempre delle regolari smentite dai fatti, non si può non pensare ad una loro intenzionale artificiosità, dettata da obiettivi di politica interna alla quale dovevano, come di consueto, essere sacrificati gli interessi della classe operaia internazionale, secondo quella costante che caratterizzò tutta la politica staliniana. La politica rinunciataria seguita da Togliatti e da Thorez non poteva essere certo dovuta ad una loro valutazione particolare, ma doveva rispondere a delle direttive precise del Kremlino il quale voleva, con un tale atteggiamento, assicurarsi tutti i risultati positivi che gli erano riservati dagli accordi di Yalta. Raggiunti questi, giudicò opportuno approfittare della fluidità della situazione determinatasi in Europa per serrare le fila del proprio comparto e ridurre all’obbedienza gli alleati più recalcitranti, per poter esercitare una maggiore pressione sull’area occidentale approfittando dei successi militari conseguiti dall’Armata Rossa Cinese che consentiva un alleggerimento sul fronte asiatico. Il dramma shakespeariano che si svolse, a porte chiuse, nel tenebroso romitaggio polacco, così come emerge dalla lettura degli appunti di Eugenio Reale, destinati alla direzione del Pci, fa parte di un grande disegno impostato e diretto da un grande e diabolico regista. I rappresentanti dei partiti comunisti italiano e francese furono di fatto processati e condannati per viltà e tradimento della solidarietà internazionale dai più audaci ed autonomi alfieri della guerra rivoluzionaria: i rappresentanti del partito comunista Jugoslavo. Non si resero conto gli ignari che la loro fierezza nazionale dimostrava uno spirito d’indipendenza che non sarebbe stato gradito allo Stato-guida e che essi, umiliando gli esponenti italiani e francesi, avrebbero predisposto l’animo di questi al ruolo di giudici spietati delle divergenze ch’essi stessi avevano con l’Unione Sovietica, quando queste sarebbero esplose, secondo un piano predisposto da Mosca, per ristabilire l’ordine gerarchico giudicato essenziale al mantenimento dell’equilibrio del mondo comunista. 253
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Il comunismo nazionale doveva essere liquidato sul nascere e a questo fine dovevano concorrere tutti i partiti comunisti, come ad un’esigenza imprescindibile dell’internazionalismo proletario, secondo l’interpretazione sovietica. Sta di fatto che i condizionamenti esterni subiti dal Partito Comunista Italiano sfuggivano all’osservatore politico il quale non era in grado di valutarli. Le mancate riforme democratiche erano comunque alla base generale del malessere, riconosciuto e denunciato dalle personalità più rappresentative dell’antifascismo. Leo Valiani, in un articolo pubblicato su «Stato Moderno» del 5 giugno 1947 così giudicava la situazione: Ricordiamo piuttosto che la crisi non era e non è solo del governo, ma di tutto lo Stato, della sua struttura, delle sue leggi, della sua burocrazia, della sua presenza morale negli uomini politici e nei cittadini tutti.
E più oltre: Non aver saputo sostituire allo Stato fascista altro che la restaurazione, e più ancora lo sviluppo di quella superiorità dei partiti di massa rispetto allo Stato, che aveva caratterizzato l’altro dopoguerra - questo è il vizio che è inutile camuffare…
Guido Dorso, noto per la sua pubblicazione Rivoluzione meridionale, Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Mario Vinciguerra, Vincenzo Calace, clienti del Tribunale Speciale, avevano capeggiato, con scarso successo elettorale una formazione politica della Campania: «L’Alleanza repubblicana». Tutti gettarono grida di allarme sul pericolo di una situazione che minacciava di incancrenirsi. La continuità dello Stato e Trasformismo sempre vivo sono i titoli di due articoli pubblicati da Dorso sul quotidiano di Napoli: «L’Azione». Già nella sua Rivoluzione meridionale il Dorso aveva denunciato il compromesso trasformista che, impedendo le radicali riforme di struttura e mantenendo il protezionismo doganale a vantaggio del Nord, costringeva il Sud ad un lento e incessante processo di depauperazione e di arretramento. È in fondo partendo da questa stessa diagnosi che Antonio Gramsci aveva affrontato la sua «Questione meridionale» per la cui soluzione aveva prospettato l’alleanza fra i contadini del Sud e gli operai del Nord. Dorso scomparve inascoltato nella sua Avellino a un anno dalla proclamazione della Repubblica nel 1947. Come è possibile non riflettere sui fatti che hanno illuminato il nostro 254
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cammino ed hanno contribuito a formare le nostre convinzioni? Nell’anno 1938 mi trovavo confinato a Girifalco, in provincia di Catanzaro, quando nel vicino Comune di Cortale fu organizzato un Convegno eucaristico. Il basso clero ne approfittò per inscenare una manifestazione della Croce cristiana contro la Croce uncinata, destando la costernazione delle autorità fasciste che si videro avvolte dalla manifesta ostilità, oltre che del clero, di quella degli stessi rappresentanti dello Stato: carabinieri e Podestà, i quali ostentarono la loro solidarietà con la Chiesa dei poveri. Un contrasto analogo, forse più acuto, lo ritroverò nell’esercito, quando sarò richiamato alle armi nel 1941, fra questo e la milizia fascista. Ebbi già occasione di affermare che gli uomini politici provenienti dal «fuoruscitismo» non avendo potuto seguire l’evoluzione interna del paese durante il corso della dittatura fascista si erano fatti la convinzione che gli italiani erano diventati tutti fascisti e pertanto non valeva la pena di studiare un procedimento differenziato per l’acquisizione dei consensi. Premiare l’antifascismo dei pochi militanti perseguitati e creare una graduatoria di responsabilità fasciste poteva significare alienarsi il favore degli italiani tecnicamente più preparati, perciò impoverire le proprie file e fare del reducismo improduttivo. Aver consentito alle forze politiche moderate, nell’illusione dell’arrivo dell’Armata Rossa, di protrarre la data delle elezioni politiche a tre anni dalla Liberazione ha offerto a queste la possibilità di poterle affrontare in un clima di demoralizzazione e di esautoramento dei partiti democratici. Alfine la forma di concentrazione in «Fronte unico» per affrontare la prima competizione elettorale, presupponeva una condizione di forza che non esisteva e gli faceva assumere tutto l’aspetto di una sfida: «o con noi, o contro di noi» che richiamava alla memoria l’altra: con Roma o con Mosca! Come spiegare tanta mancanza di sensibilità politica da parte dei due partiti della classe operaia che tanto contribuì ad isolarli dalle formazioni politiche che rappresentavano i ceti medi? Evidentemente le accuse del Cominform hanno concorso non poco ad irrigidire l’atteggiamento politico del Pci; le nostalgie di Nenni per le esperienze inebrianti dei Fronti Popolari di Francia e di Spagna hanno fatto il resto. Non altrettanto facile è trovare una spiegazione valida per l’adesione di Rodolfo Morandi a quell’impostazione unilaterale ed assolutista. Avendo conosciuto Morandi nel lontano 1936 non ho ancora saputo trovare una spiegazione logica della sua posizione «suivista» nei confronti del 255
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Pci. Il suo sincero orientamento verso l’austro-marxismo - che lo aveva portato a coltivare l’illusione di arrivare alla formazione di un partito unico della classe operaia italiana, equidistante dal riformismo giudicato tendenzialmente capitolardo e dello stalinismo dispotico - non giustificavano la sua adesione ad un’impostazione tanto schematica della lotta politica. Forse la sua inclinazione verso l’autonomia era frenata dalla sua ferma concezione classista della storia. L’unità di classe era sempre stata la sua bussola, ad essa sacrificò l’originalità del suo pensiero politico. L’ammirazione verso il senso dell’organizzazione dei comunisti, del tutto assente nei socialisti, lo trattenero da qualsiasi iniziativa che potesse incrinare la stretta alleanza raggiunta. Alla «politique d’abord» di Nenni e al filosovietismo dei comunisti egli cercò di opporre quel senso di concretezza nazionale che gli derivava dalla sua conoscenza approfondita della realtà economica italiana. Credette forse che il «Fronte popolare» avrebbe facilitato la formazione delle nuove strutture necessarie per realizzare la nuova società. A tale scopo promosse la costituzione de «L’Associazione dei tecnici socialisti» guidata da Henry Molinari e da Carlo Arnaudi. Al primo convegno nazionale di quell’associazione, tenutosi a Milano dal 27 al 29 giugno 1947 egli tracciò un quadro quanto mai realistico dell’economia italiana e definì il ruolo che nello sviluppo di questa avrebbero dovuto svolgere i tecnici socialisti. Il discorso di Morandi in quell’occasione si distinse per sobrietà di linguaggio e una chiarezza di concetti che conserva tuttora una grande attualità. Egli affermava: la regolazione dell’economia, la pianificazione dell’attività, sono un portato necessario del progresso e della tecnica, sono la caratteristica saliente di quest’ultimo quarto di secolo. Esse costituiscono la migliore dimostrazione della necessità storica del socialismo anche se, appunto per questo, alla pianificazione si sono visti costretti talvolta gli stessi antisocialisti. Compito dei tecnici socialisti deve essere, non la pura e semplice utilizzazione delle energie attuali con la ricerca del massimo rendimento di lavoro, ma qualcosa di più vasto: valorizzare la personalità di chi lavora, eccitare l’iniziativa e lo spirito inventivo, promuovere e suscitare un’educazione nel lavoro. In altri termini è necessario selezionare qualitativamente gli elementi della produzione - superando il limite strettamente quantitativo del lavoro - per schiudere energie nuove, per attingere direttamente alle qualità individuali di intelligenza, di volontà, di senso di responsabilità. Ogni lavoratore deve avere la coscienza del contributo ch’egli dà allo sviluppo e all’incremento della produzione: coscienza che è preparazione alla formazione dei nuovi 256
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quadri dirigenti. È un’illusione quella di voler soppiantare la vecchia, anche se screditata, classe dirigente, se non si formano prima gli elementi della nuova classe.
Queste parole denotano un pensiero conseguente e rappresentano una chiara direttiva di azione rivolta ad una categoria di specialisti cui spetterà il compito di tradurre in realizzazioni concrete le direttive formulate dai partiti politici per il futuro programma di governo. Enunciazioni così articolate e puntuali in materia di pianificazione non saranno più pronunciate nel corso degli anni successivi, dimostrando con ciò il decadimento subito dai partiti operai, che si andranno sempre più identificando con i loro apparati, a loro volta impoveriti dalla mancanza di un processo di ricambio. I socialisti s’illudevano di poter offrire all’opinione pubblica dei ceti medi la garanzia, che la loro presenza nel «Fronte popolare» non avrebbe consentito ai comunisti, in caso di vittoria, di ricorrere ai metodi autoritari di governo. La loro conclamata equidistanza dall’America e dall’Unione Sovietica si traduceva di fatto nella rinuncia degli aiuti previsti dal Piano Marshall e non offriva certezze contro l’espansionismo sovietico. Il quadro interno della società italiana era configurato dalle masse operaie e piccolo-borghesi del Nord orientate in senso democratico, mentre quelle dei contadini e dei ceti medi del Sud, ancora costrette in una struttura feudale, erano orientate verso una rottura rivoluzionaria dell’equilibrio esistente che manteneva la società in stato di assoluta arretratezza. Le popolazioni meridionali non potevano giustificare l’avversione all’America e alle sue elargizioni e nello stesso tempo rinunciare alla lotta radicale contro il sistema mafioso e clientelare di gestione in atto. Al contesto internazionale sfavorevole si aggiungeva una verticale frattura sul piano interno. A queste che furono le cause obiettive principali dell’insuccesso del «Fronte popolare» si aggiunsero delle concause che concorsero a creare un clima da vigilia tragica e furono: gli avvenimenti di Praga che, con l’estromissione «manu militari» dei socialdemocratici dal governo da parte dei comunisti, prefigurarono un’eventualità analoga anche per noi; la solidarietà della Chiesa cattolica con il partito della Democrazia Cristiana; l’intervento a vele spiegate dell’America nella campagna elettorale con l’invio di aiuti e di lettere esortative a cittadini italiani da parte di parenti americani di origine italiana ecc. ecc. Il 18 aprile 1948 ebbe così inizio quel regime che il politologo Giorgio 257
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Galli ha definito del «bipartitismo imperfetto». Il partito della Democrazia Cristiana procedette rapidamente all’occupazione totalitaria dello Stato, mentre la sinistra si rifugiò in una posizione di opposizione inerte e conservatrice da cui assisterà, rassegnata e senza fantasia, ad una gestione tracotante del potere in stato di sospensione della Costituzione. A completare il quadro fallimentare della sinistra italiana giunse - il 18 giugno - la notizia della scomunica emessa dal Cominform contro la Lega dei comunisti jugoslavi, creando un clima da Inquisizione. Ogni parvenza di tolleranza e di distensione scomparve all’orizzonte. Le manifestazioni d’indipendenza e di autonomia dei comunisti jugoslavi non erano tollerati dallo Stato-guida. Questi non potevano ammettere interpretazioni ideologiche diverse dalle proprie, e tanto meno esperimenti sociali originali, come l’autogestione operaia. I comunisti italiani, come del resto quelli degli altri paesi, per il solo fatto di essere membri del Cominform, dovettero accettare la propria corresponsabilità per tale condanna, sacrificando quella credibilità che avevano tanto faticosamente conquistato, specialmente presso i socialisti, i quali da questo momento inizieranno una sia pur lenta marcia che li porterà verso la completa autonomia, che sarà sanzionata in modo irreversibile nel congresso di Venezia. Il frazionamento delle forze politiche progressiste era anche la conseguenza della polarizzazione che era stata operata dal «Fronte popolare», presentato agli elettori sotto l’effige di Garibaldi che era di per sé stessa un’intonazione anticlericale, quindi imprudente in un paese cattolico. I risultati elettorali del 18 aprile furono commentati da Vittorio Capraris nel suo articolo del 5 maggio 1948 dal titolo: Il dono di Garibaldi sulla rivista «Stato Moderno» con queste parole: Carlo Levi ha ragione: Garibaldi ha incontrato l’on. De Gasperi a Teano e gli ha consegnato l’Italia. Consegnata? - Meglio dire: donata. Quando alla fine del 1944 Pietro Nenni cominciò ad accennare ad una sempre più intima collaborazione del P.S.I.U.P. col P.C.I., collaborazione che poteva finire in una fusione, fu ammonito dalle colonne de «L’Italia libera», il defunto giornale del Partito d’Azione, che uno scivolamento dei socialisti verso l’estrema sinistra avrebbe provocato lo slittamento verso posizioni di destra di gran parte dei ceti medi, che sono l’ossatura dell’opinione pubblica italiana. Si rispose allora che noi poveri intellettuali, per innata deformità mentale non si comprendeva la grande realtà del proletariato. […] quando dicevamo agli amici indipendenti che votavano per il «Fronte»: voi votate contro la scuola laica, contro il socialismo, contro la democrazia - non era certo per
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timore di dittature bolscevizzanti, ma perché ci rendevamo conto dei pericoli gravissimi che una politica di «Fronte popolare» avrebbe fatto correre a tutti. A tutti, dico, e non ai socialisti soltanto: perché chi esce sconfitta da queste elezioni è proprio la democrazia laica e socialista.
Il 14 luglio un attentato a Togliatti commuove l’intera nazione. Uno sciopero generale spontaneo paralizza il paese e si presenta come il preludio di un moto insurrezionale. La Direzione del Pci decide però di rispettare la legalità democratica e inaugura il suo lungo, ma sterile, cammino di opposizione costituzionale. Da questo momento il Partito comunista e quello socialista da un lato e il partito della Democrazia Cristiana dall’altro si allontanano sempre più dalla realtà storica del paese, convertendosi di fatto in forze organizzate di conservazione sociale e politica, ispirate da pregiudizi ideologici che hanno in comune l’avversione alla società capitalistica e al suo spirito imprenditoriale. La produttività del sistema che aveva strappato a Marx parole di grande riconoscimento per l’effetto rivoluzionario del suo sviluppo venne combattuto dalla sinistra per ottenere una ripartizione più favorevole alla classe lavoratrice della ricchezza prodotta - e alla destra, rappresentata dalla Democrazia Cristiana, per garantire la sopravvivenza dei ceti parassitari, sui quali si basa in gran parte il suo elettorato. Fece così l’apparizione quel «capitalismo assistenziale» che abbiamo conosciuto, generatore del «consumismo» prima e «terrorismo» poi. L’opposizione si limitò ad approvare, senza approfondire, tutto ciò che era rivolto al potenziamento del settore statale dell’economia, accorgendosi troppo tardi, che questo sarebbe diventato il più solido supporto della dominazione totalitaria dello Stato da parte della Democrazia Cristiana. Il 2 giugno 1949 si terrà a Venezia il primo congresso della Democrazia Cristiana, in una atmosfera trionfalistica. Scelba, ministro degli Interni, novello Brenno, pronunciò il suo: «Vae victis!»: «Gli italiani dovranno abituarsi a ritrovare i democristiani in tutte le posizioni chiave dello Stato e del parastato». La cronistoria dell’ «occupazione del potere» da parte democristiana è stata recentemente descritta da Ruggero Orfei. La Chiesa poteva ben dirsi soddisfatta. Dopo le amarezze procuratele dalla «breccia di Porta Pia», aveva raccolto le generose offerte di Mussolini dell’11 febbraio 1929, ora poteva provare la soddisfazione di assistere all’umiliazione degli eredi di Garibaldi, che vedrà allontanati dallo Stato per un lungo periodo, quello Stato che era stato difeso con tanto eroismo dalle formazioni par259
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tigiane. Non contenta di questa innegabile vittoria - obbedendo al fanatismo cattolico - tanto lontano dall’umiltà cristiana e dall’amore del prossimo - il Sant’Uffizio emise una bolla di scomunica contro i partiti marxisti perché l’odio così suscitato ne completasse l’isolamento. Anche coloro che non nutrivano per quei partiti soverchia simpatia, non poterono non rilevare che un trattamento del genere non era stato riservato né a Mussolini, né a Franco, né a Hitler. Ad alimentare le speranze tramontate delle sinistra, sopraggiunse l’annuncio che l’Armata Rossa cinese - dopo aver sconfitto l’esercito di Chan Kai Shek - passava di vittoria in vittoria ed entrava trionfante a Pekino, dove il 21 settembre 1949 Mao Tse Tung proclamava la Repubblica popolare cinese. Quarant’anni dopo, nel fatidico 1989, i comunisti italiani si sono resi conto dell’illusorietà delle loro speranze e dell’inutilità delle loro aspettative, riposte nell’internazionalismo di marca sovietica. Essi hanno intrapreso un’affannosa ricerca di nuovi percorsi per costruire una società più giusta, più democratica, più umana, secondo le intramontabili aspirazioni dell’animo umano. Perché non riprendere il cammino a fianco di coloro che non hanno mai abbandonato l’ideale del socialismo democratico, che ha già fatto i primi passi nella giusta direzione, sotto la guida di uomini di specchiata moralità, animati da un grande spirito di sacrificio e dotati di solida competenza tecnica, acquisita in forma sperimentale? Tutta la legislazione sociale esistente è stata opera loro, così come tutte le istituzioni sociali che ancora oggi sostengono l’architrave della solidarietà: le camere del lavoro, le cooperative, le biblioteche comunali, i circoli culturali ecc. Riconoscere i propri errori non deve essere considerato una diminuzione di prestigio. Solo perseverando in essi, quelli possono convertirsi in colpe meritevoli del disprezzo dei propri concittadini.
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Che cos’è il Premio Omegna. Dialogo tra Massimo Bonfantini e Mauro Begozzi
Massimo Bonfantini. Le istituzioni culturali, riflettono, e a volte rilanciano, i movimenti e i mutamenti di clima ideologico e sociale nella Storia. Certo nella storia locale. Ma anche nella storia nazionale e addirittura universale. Credo che questo si possa dire per il Premio internazionale della Resistenza Città di Omegna, la cui istituzione viene deliberata in consiglio comunale a Omegna dalla maggioranza comunista e socialista il 27 maggio del 1959. Mauro Begozzi. Data riportata anche nel libro sulla storia del premio, scritto da tuo figlio Carlo, che abbiamo sott’occhio in bozze. E che in apertura ricorda e conferma la tradizione più accreditata, scritta e orale, sulla nascita del Premio. Voluto e progettato dal giovane sindaco partigiano, operaio e maestro, Pasquale Maulini, con i due «Marii di Corconio», Mario Bonfantini e Mario Soldati, e il «mitico» Cino Moscatelli. E certo questa nascita si radica nella storia locale, omegnese e novarese, del Cusio, dell’Ossola e del Verbano, partigiana, politico-sociale e culturale Massimo Bonfantini. Ma io volevo sottolineare la data, l’anno. Il 1959 vede una situazione politica ancora molto bloccata, reazionaria, in Italia. Ma è l’anno della Rivoluzione a Cuba e della lotta di liberazione nazionale in Algeria. Mauro Begozzi. E, infatti, quell’anno, il primo, il premio è assegnato ad Henri Alleg, per la sua terribile denuncia della Tortura, subita a opera delle forze coloniali francesi. Il Premio Omegna prende così subito la sua originale impronta. Innovativa e nobilmente ‘militante’. La Resistenza non è solo quella europea e italiana, dei popoli nella seconda guerra mondiale contro il nazifascismo. È anche quella anticoloniale e antimperialista in atto. Massimo Bonfantini. Sì. Quasi tutti i giurati, oltre a essere fra i più illustri intellettuali progressisti del tempo, avevano «fatto la Resistenza». La 261
Che cos’è il Premio Omegna
consideravano «guerra di popolo», e avevano voglia di condurre con il Premio una battaglia culturale e civile per la liberazione dei popoli e delle persone. In difesa e in rilancio dei tre immortali principi dell’89, della Rivoluzione francese. Il premio dato ad Alleg e l’anno dopo a Sartre «per l’intera opera», al libertario Sartre, segnano questo impegno a coniugare libertà e democrazia: non come valori astratti da invocare, ma come abiti morali e civili di pratica di lotta e di liberazione. Un premio militante e illuminato, che entra nella storia nel suo farsi. Certo più in sintonia con il Luglio ’60 delle magliette a strisce, con le sinistre dei partiti delle grandi tradizioni popolari antifasciste, con le nuove sinistre dei gruppi e dei movimenti studenteschi, con le lezioni dei primi anni sessanta dei professori universitari progressisti, come il mio maestro Enzo Paci: invece che con gli equilibri dei vertici dei partiti e dei governi, nazionali e omegnesi. Mauro Begozzi. Il premio Omegna ebbe, soprattutto dopo la premiazione di Sartre, una grande visibilità e un grande impatto di comunicazione. Sui giornali e presso i circoli culturali e politici. Primo fra tutti la Casa della Cultura di Milano, diretto allora dalla dinamica e già autorevole organizzatrice di cultura Rossana Rossanda. Che, come vivace componente della giuria, aveva stabilito una sorta di gemellaggio fra la Casa della Cultura e il Premio Omegna. Ma io vorrei sottolineare due cose: innanzi tutto che i quattro inventori del Premio e i loro amici fanno una scelta singolare. Perché si pongono non come testimoni e ‘reduci’ della Resistenza. Ma come protagonisti e continuatori. Dopo quindici anni, vogliono dire: «La Resistenza continua in Italia e nel mondo». In secondo luogo che tale scelta, sicuramente di rottura nel panorama anestetizzato dei premi letterari, inevitabilmente suscita diffidenze e provoca dure reazioni politiche Massimo Bonfantini. E avevano ragione! E direi che hanno avuto ragione per tutto il quindicennio dal 1959 al 1974 in cui, pur tra alti e bassi, tra polemiche a non finire e con la significativa interruzione nel triennio intorno al ’68, dura il premio. Mauro Begozzi. Sì, nel 1967 e nel cosiddetto «secondo biennio rosso» il Premio non viene assegnato per... difficoltà amministrative. Massimo Bonfantini. Maulini va a Roma, deputato, e a Omegna si fa il centrosinistra.... Mauro Begozzi. Sì, ma io vorrei toccare un’altra questione. E fare l’avvocato del diavolo. E cioè: non è che questa giuria di intellettuali, partigia262
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ni e antimperialisti, ha un po’ esagerato nel suo impegno? Ha fatto un errore? Mi spiego. Risulta manifesto dalle scelte della giuria che si è ritenuto urgente lavorare sull’attualità Massimo Bonfantini. Ma questa è stata la grande originalità e incisività del Premio! Mauro Begozzi. Sì, d’accordo. Ma non è che così facendo si è un po’ trascurato di lavorare sulla nostra storia, della nostra Resistenza, della nostra Lotta di Liberazione? Si sono dati forse per scontati, e quindi si sono implicitamente un po’ abbandonati all’oblio o alla celebrazione rituale e superficiale, le esperienze di democrazia diretta delle zone liberate e il legame fra lotta, democrazia, Costituzione? Massimo Bonfantini. Insomma, vuoi dire che, malgrado i premi alla memoria, del 1964 a Roberto Battaglia e del 1973 a Pietro Secchia, non è stato sufficientemente sottolineato il senso importante della Resistenza come evento storico... Mauro Begozzi. ...Come evento di rottura nella nostra storia. Forse era dato per scontato, perché vissuto sulla propria pelle, forse non si avvertiva abbastanza l’esigenza di respingere per tempo, in anticipo, gli oscuramenti revisionisti. Massimo Bonfantini. Questo lavoro antirevisionista si sarebbe probabilmente reso manifestamente necessario nel ventennio fra il 1975 e il 1994. Ma questo ventennio, che ha chiaramente ai nostri occhi il senso complessivo di una crescente restaurazione in Italia e direi anche nel mondo, di segno liberista e antidemocratico, vede, non certo per caso, l’azzittirsi di questa straordinaria voce intellettuale, fuori dal coro che era stato il Premio Omegna. Anche a Omegna, e certo anche per giochi politici locali, ma anche a Omegna come ovunque, il Pci approfitta dei grandi successi elettorali, anzitutto alle amministrative del 15 e 16 giugno del 1975, per cercare di acquisire poteri nelle varie stanze dei bottoni, cedendo alle esigenze del compromesso, cosiddetto storico, le istanze di contestazione più radicale, di piena realizzazione di una democrazia antimperialista e anticapitalista. Del resto esistono analisi al riguardo, fra cui quella di Giorgio Galli, che mi sembrano meritevoli di attenzione Mauro Begozzi. Sì, il clima era quello, ma forse ci sono ragioni anche più banali, meno «politiche», della fine di quella stagione del premio. Certo, come risulta anche dal capitoletto della storia di tuo figlio Carlo, capi263
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toletto intitolato «Una fine inaspettata e un po’ misteriosa», nel 1975, dopo l’ultima assegnazione, l’anno prima, ad Alexandros Panagulis, per il libro, stampato da Rizzoli, Vi scrivo da un carcere in Grecia, il Premio Omegna e il suo fondatore, il sindaco Maulini, vengono insieme, con dolcezza, tolti di mezzo. Massimo Bonfantini. Se ne riparlerà vent’anni dopo. Con altri moschettieri. Voglio dire con altri giurati Mauro Begozzi. A me pare un’altra storia, vent’anni sono vent’anni, seppure lo spirito per molti versi è analogo. C’è ancora l’attenzione all’antimperialismo. Ma forse con un’attenzione più mite per il dolore degli innocenti e per la rilevanza di un radicale pacifismo. Oltre che per la verità della nostra storia. Massimo Bonfantini. Tu, Mauro, tendi giustamente a sottolineare certi limiti, si potrebbe dire di scarsa consapevolezza e preoccupazione storiografica, o addirittura storica, della politica culturale della prima giuria del Premio. Vorrei fare presente che non erano i soli, che avevano la responsabilità di custodire e chiarire la verità e i valori della nostra storia più recente. Secondo il documento del 1959, la Giuria risulta composta da: Flora, Bonfantini, Antonielli, De Grada, De Vita, Piovene, Rossana Rossanda, Salinari, Seroni, Spinella, Vergani, Zavattini, Frassati (segretario). Risulta certo composta da intellettuali di chiara fama, ma da nessuno storico (a parte, Frassati). I giurati hanno fatto un lavoro che, puntando sull’attualità dell’impegno sociale, civile, politico, teneva la nostra Resistenza come presupposto, un po’ come mito fondativo. Io credo che sia servito. Erano gli anni, i primi anni settanta, in cui i giovani insegnanti delle medie spiegavano passo a passo gli articoli della Costituzione. In cui a Milano i cortei per il 25 aprile del Movimento erano più folti di quelli ufficiali, governativi. E in essi suonavano i cori: «La Resistenza è rossa e non democristiana», che naturalmente non volevano affatto essere anticattolici... Quei premi, assegnati nel 1971 a George Jackson, alla memoria, per I fratelli di Soledad, stampato da Einaudi, e nel 1972 a Camilla Cederna per Pinelli: una finestra sulla strage... Mauro Begozzi. ...Mentre Dario Fo recitava Morte accidentale di un anarchico. Massimo Bonfantini. Appunto. Sono state scelte contro il moderatismo e di grande coraggio. Che sicuramente hanno lasciato un segno nella storia della cultura e nell’immaginario dei giovani d’allora. 264
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Mauro Begozzi. Ah, non c’è dubbio. La giuria era in sintonia con i tempi. Tempi che andrebbero riletti criticamente oggi con gli strumenti della storia e che invece vengono spesso banalizzati se non criminalizzati tout court. Massimo Bonfantini. ... già, il quindicennio movimentista nel mondo. Del resto, la nuova giuria è in sintonia con i nuovi tempi dal 1995 a oggi. Mauro Begozzi. Massì. Nel mondo un nuovo movimento più mite, contro il nuovo colonialismo economico e il nuovo spirito imperiale dell’unilateralismo americano post ’89, è cresciuto dalla resistenza del Subcomandante Marcos sino all’emergere a Seattle dei no global e poi negli anni successivi... naturalmente con nuove banalizzazioni e criminalizzazioni Massimo Bonfantini. E le nuove amministrazioni di sinistra a Omegna hanno raccolto il nuovo slancio antagonistico, democratico, costituzionale approfittando del cinquantenario della Resistenza per fare risorgere per così dire il Premio Omegna, chiamando anche te e me a fare parte della giuria. Mauro Begozzi. Sì, anche se, come spesso accade, furono una serie di circostanze più o meno occasionali a far decollare l’iniziativa. Onestamente, occorre dire che del premio s’era persa memoria e il suo ricordo a Omegna evocava più le divisioni politiche locali che non il suo significato culturale. Ma i tempi erano mutati e ci fu quella prima edizione, che avrebbe dovuto restare tale, diciamo celebrativa, con una giuria formata da una ventina di persone, per ricordare lotta di liberazione e premio. Solo l’anno dopo, visto il successo, si formò una vera giuria con Marziano Guglielminetti, che poi sì è dimesso, l’italianista Alba Andreini, il giornalista de «l’Unità» Oreste Pivetta e lo scrittore Sebastiano Vassalli..... Massimo Bonfantini. ...che l’anno dopo fu sostituito dallo scrittore Dario Voltolini. Nel 2003, poi, sono entrati in giuria anche la scrittrice Laura Pariani e Michele Beltrami, figlio del Capitano. Mauro Begozzi. Nella composizione di questa giuria, del Premio Omegna vent’anni dopo, salta agli occhi, anzitutto e naturalmente, che non ci sono più ex-partigiani... Massimo Bonfantini. Anche se ci sono due figli e un direttore di Istituto di storia della Resistenza. Mauro Begozzi. Che forse sono più attenti a premiare il valore storico o civile, o comunque saggistico, delle opere candidate... Massimo Bonfantini. Così sembra qualche volta, nella discussione con i colleghi e le colleghe della giuria, più interessati a difendere, per così dire, 265
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le ragioni della letteratura... Mauro Begozzi. Dunque, il nuovo premio, anche in virtù della composizione della sua giuria, avrebbe una maggiore attenzione, rispetto al premio, per la storia della Resistenza, anche prima della fase guerreggiata ’4345, e per certe qualità letterarie e originalità dei mezzi espressivi e comunicativi impiegati. Massimo Bonfantini. Mah?! Io credo che queste tre attenzioni, alla scrittura, alla verità e all’interpretazione della Storia, all’impegno civile per il presente e il futuro, si bilancino o si integrino bene nelle nostre scelte, a partire da quella celebrativa, per i freschissimi e inediti Appunti partigiani di Fenoglio, curati da Lorenzo Mondo, sino a quella dell’anno scorso, soprattutto per il Premio Scaffale assegnato a quella breve ma entusiasmante autobiografia di una donna dei nostri paesi, tra fine Ottocento e Novecento, Carolina Bertinotti, Ma la fortuna dei poveri dura poco, riscoperta e curata da Gianni Cerutti. Mauro Begozzi. Con l’edizione 2000 abbiamo istituito una sorta di secondo premio, rispetto al principale, appunto il Premio Scaffale, che consente un più preciso articolarsi di una sorta di funzione di indirizzo e consiglio, per lettori e insegnanti, per scrittori e studiosi, di questa nostra istituzione così singolare, e così genialmente inventata da Pasquale Maulini. Ma credo che dobbiamo avvertire che questa seconda serie del Premio ha preso la sua linea, il suo stile un po’ per volta. Con il contributo di tutti e nostro in particolare che abbiamo creduto nel progetto e nella sua crescita. Massimo Bonfantini. Ah sì! Perché l’edizione del cinquantenario, dico del 1995, si presentava come rinascita contingente ed effimera. Mauro Begozzi. Celebrativa, una specie di una tantum. C’è stato il successo di pubblico alla proclamazione, la presenza della sorella di Fenoglio... Si è visto che il Premio Omegna era ancora un richiamo culturale forte. Sprofondato nella memoria della città aveva solo bisogno d’essere riscoperto. E c’è stato il nostro caldeggiare e consigliare la regolare istituzione di un Premio annuale, meno grandioso, ma nel solco preciso indicato da Maulini e dai fondatori. Massimo Bonfantini. Sì. Il Sindaco Teresio Piazza e l’assessore, il nostro amico Gualtiero Pironi, si sono mossi. Con decisione e capacità crescente, anche nello stabilire il giusto clima di cordialità e collaborazione. Senza sovrapporsi alla giuria. Come ha intitolato uno dei suoi meravigliosi libretti Bruno Munari, Da cosa nasce cosa. Così gli Appunti partigiani hanno certo 266
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contribuito a farci considerare in modo meno sacrale e ideologico la Resistenza, e a guardare alla concretezza della vita partigiana, e a nuovi modi di rappresentazione e comunicazione, premiando nel 1996 la Storia fotografica della Resistenza, di Adolfo Mignemi. Mauro Begozzi. Il ‘nostro’ Premio si caratterizza senz’altro rispetto allo stile del suo papà, dico del premio di Maulini, per l’attenzione ai nuovi modi di fare storia e di condurre le storie, le narrazioni, modi meno seriosi e solenni. Così, audaci e popolari, abbiamo premiato nel 1998 Cerami e Benigni, per il testo della Vita è bella. Massimo Bonfantini. Che io ho vissuto come un riconoscimento del contributo anche attivo dato dagli Ebrei alla Resistenza e alla Liberazione mondiale nell’ultima guerra, nella tradizione di quel meraviglioso romanzo storico di Primo Levi, Se non ora quando? Mauro Begozzi. Sì, certo. Quell’edizione fu memorabile. Vinse il Premio anche Tahar Ben Jalloun per il suo Il razzismo spiegato a mia figlia. Era il cinquantenario della «vergogna» delle leggi razziali in Italia e riuscimmo a suscitare grande dibattito su un tema che stava tristemente diventando di stringente attualità, con lo strisciante e preoccupante ritorno di forme di razzismo e antisemitismo..... Massimo Bonfantini. ...tra ricordo e impegno civile. Mauro Begozzi. Mentre il premio assegnato l’anno prima a Gherardo Colombo, per Il vizio della memoria, robusta ed elegante detection delle più profonde motivazioni dei crimini di Tangentopoli, fa in un’Italia meno cruenta da parallelo rispetto al premio assegnato a Camilla Cederna nel 1972 per il libro sulla mortale caduta di Pinelli. Massimo Bonfantini. Secondo uno stile più agile di comunicazione, rispetto ai nostri maggiori, abbiamo colpito l’imperialismo americano, non premiando ponderosi volumi, alla Sweezy e Huberman, ma agili instant book, come quello, un po’ scritto e un po’ fotografato e disegnato, di Chiesa e Vauro con Strada: Afghanistan anno zero del 2002 Mauro Begozzi. Ma io credo che nelle nostre scelte, nelle scelte della giuria dei ‘moderni’, ci sia un buon equilibrio fra l’impegno di denuncia e proposta sui grandi temi attuali della resistenza alla sopraffazione e allo sfruttamento, sulle lotte per la liberazione e la democrazia dei popoli e dell’umanità più debole, e l’impegno a salvare la memoria, dei dolori e dei sacrifici, degli orrori e delle imprese. Massimo Bonfantini. Forse, rispetto alla giuria degli ‘antichi’, con una 267
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maggiore passione per le storie che restituissero vissuti e quotidianità. Andassero magari a ricercare il tempo perduto e le vite perdute con una ricerca proustiana, quasi, ma dialogica e collettiva, come nel bellissimo libroinchiesta di Theo Richmond, premiato nel 1999, dedicato a quella prima cittadina ebrea polacca interamente annichilita dai nazisti: Konin. La città che vive altrove, pubblicato in Italia a Torino da Instar Libri Mauro Begozzi. Un altro libro premiato, questo nel 2001, notevole per la restituzione dei caratteri, quasi alla Plutarco, e per la resa delle atmosfere, attraverso un montaggio sapiente di testimonianze pubbliche e private, è Preferirei di no, il volume einaudiano dedicato da Giorgio Boatti ai professori universitari che «preferirono dire di no» al giuramento di fedeltà... Massimo Bonfantini. Di fedeltà al fascismo. Ritrovare le memorie credo che voglia dire ritrovare anche le radici della linea di crescita democratica della nostra storia patria, per usare con compiacimento quest’espressione volutamente risorgimentale Mauro Begozzi. Risalendo, ad esempio, dai tempi di Carolina Bertinotti alla Storia di Italia Donati, la maestrina il cui sacrificio è stato raccontato in quello che definirei un ‘romanzo storiografico’ per la sua veridicità, da Elena Gianini Belotti, nel 2004. Massimo Bonfantini. Noi siamo certo molto più attenti a fonti e forme di comunicazione più varie e più coinvolgenti, per i giovani. Basti pensare, oltre al cinema, premiato nel film di Benigni, alla canzone popolare e di protesta, vedi il Premio Scaffale a Cesare Bermani per il suo libro, rigoroso e godibile, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese, oppure al fumetto, vedi, premiato anch’esso quello stesso 2003, il magnifico romanzo storico... Mauro Begozzi. Molto dotto e realistico... Massimo Bonfantini. Sì: di Jeson Lutes, Berlin, la città delle pietre. Mauro Begozzi. Facciamo un passo indietro, perché mi sembra stiamo dimenticando alcune edizioni e alcune indicazioni della giuria che, in questo nostro ragionare sul significato culturale e di promozione del Premio, sono importanti. Massimo Bonfantini. Forse ti riferisci alla poesia, alla poesia di Giovanni Giudici per il suo Eresia della sera nell’edizione del 1999... Mauro Begozzi. Sì, ma anche a Kapuscinski per quella sua straordinaria narrazione dell’Africa sfruttata e perduta nel romanzo Ebano o ai Ricordi tristi e civili di Cesare Garboli, premiato con Boatti, nel 2001. Massimo Bonfantini. Credo che analizzando tutti i libri vincitori, sia del 268
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‘Premio’ che dello ‘Scaffale’, ci sarebbero ancora molte cose da dire, molti spunti che meriterebbero di essere approfonditi. Mauro Begozzi. Aspettiamo di leggere le conclusioni di Silvia Fronteddu che, come tuo figlio per la prima parte, quella ‘antica’, sta scrivendo la seconda parte della storia del Premio, quella che ci riguarda più da vicino. Massimo Bonfantini. Già, perché bisogna ricordare che nel frattempo c’è stato un cambio d’amministrazione a Omegna, e al duo Piazza-Pironi, senza mutamenti di colore politico, nel 2002 sono subentrati il Sindaco Alberto Buzio e l’assessore Francesco Pesce. Mauro Begozzi. Che hanno voluto che il premio continuasse e possibilmente si rafforzasse.... Massimo Bonfantini. Va detto della bellissima e purtroppo ultima intervista fatta da Laura Pariani a Nuto Revelli, vincitore dell’edizione 2003 con la raccolta delle sue lezioni all’Università di Torino, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana curati da Michele Calandri. Mauro Begozzi. Quel libro e quell’intervista sono davvero un testamento morale che andrebbe riproposto periodicamente nelle scuole... Massimo Bonfantini. Come i racconti e le storie delle «quattro donne» dell’edizione 2004: la Sontag del Davanti al dolore degli altri, impegnativa riflessione sull’immagine e sul suo uso strumentale nella società mediatica; Tina Anselmi e Gina Lagorio con la «loro» Resistenza e la menzionata Elena Gianini Belotti. Mauro Begozzi. Per finire con l’ultima edizione, quella dello scorso anno, assegnata a Guido Crainz de Il dolore e l’esilio, essenziale proposizione del tema delle memorie divise d’Europa e in particolare sul confine orientale d’Italia, contro ogni strumentalizzazione e ogni appropriazione indebita, politica, della storia collettiva. Massimo Bonfantini. Anche di quella difficile da affrontare o semplicemente lasciata «marcire» nell’oblio della scomodità politica, vedi L’armadio della vergogna di Franco Giustolisi Mauro Begozzi. Una prima notazione di bilancio, a conclusione di questa nostra conversazione, può proprio essere che noi rispetto al premio antico abbiamo premiato la varietà comunicativa e la capacità dialogica degli autori, dei personaggi e delle opere. Massimo Bonfantini. Potremmo quasi dire la capacità di comunicazione democratica. In sintonia del resto con una tematizzazione della Resistenza come lotta di liberazione, anche non violenta, delle energie di una costru269
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zione sempre più diffusa e capillare di una nuova democrazia dal basso. Mauro Begozzi. Adesso siamo 11 pari con il vecchio premio, per numero di premi assegnati. E possiamo anche essere contenti per la folla di libri che gli editori, soprattutto i maggiori, in questi ultimi anni ci inviano al giudizio in una decina di copie rispondendo al bando spontaneamente. Il premio non è patrocinato da nessun partito, corrente di partito o lobby politico-culturale. Massimo Bonfantini. Siamo così autonomi da essere, se non emarginati, marginalizzati. Mauro Begozzi. Come a poco a poco è stata marginalizzata la stessa Resistenza, nelle scuole e università, nei partiti, nelle stesse amministrazioni. Manca anche a sinistra una vera preparazione culturale, di coscienza storica, all’agire politico Massimo Bonfantini. Ma io credo che il nostro Premio della Resistenza possa dilatare, in questa Italia postberlusconiana, una funzione culturale profonda, pedagogico-comunicativa, infittendo i contatti con le istituzioni e i circoli culturali. Il dialogo si è tenuto a Novara, nella sede dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara», il 9 maggio 2006, prima dunque che la Giuria assegnasse l’edizione di quest’anno, edizione vinta dall’animatore e direttore di questa rivista, Angelo Del Boca, per il suo Italiani brava gente, fondamentale richiamo alle responsabilità che la storia ci ha consegnato. Di più, nel clima arroventato della campagna referendaria per contrastare le modifiche costituzionali del centrodestra, la Giuria ha voluto assegnare una menzione speciale al Presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per il libro La mia Costituzione, affiancandosi così alla sacrosanta battaglia per il «No» in difesa della Costituzione del 1948. Il «Premio Scaffale» è stato invece assegnato a: Ornela Vorpsi, Il paese dove non si muore mai, Einaudi Editore; Gualtiero Morpurgo, Il violino rifugiato, Mursia Editore; Micheal Tregenza, Purificare e distruggere, Ombre Corte Editore
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Albo d’oro dei vincitori del Premio Omegna 1959 1960 1961 1962 1963 1964 1965 -
1966 1970 1971 1972 1973 -
1974 -
Henri Halleg per La tortura, Einaudi, Torino. Jean Paul Sartre per l’intera opera. Gunther Anders per Essere o non Essere, Einaudi, Torino. Franz Fanon per I dannati della terra, Einaudi, Torino. Blas de Otero per l’intera opera. Roberto Battaglia (alla memoria), per Risorgimento e Resistenza, Editori Riuniti, Roma. Paul M. Sweezy e Leo Huberman per i volumi Cuba, anatomia di una rivoluzione, Il presente come storia, Teoria della politica estera americana, editi da Einaudi, Torino e Teoria dello sviluppo capitalistico, edito da Boringhieri, Torino. Il premio è assegnato ai lavoratori della «Cobianchi» di Omegna in lotta per la difesa del posto di lavoro. Il premio è assegnato ai lavoratori della Rodhiatoce di Verbania in lotta per la difesa del posto di lavoro. George Jackson (alla memoria) per I fratelli di Soledad, editore Einaudi, Torino. Camilla Cederna per Pinelli: una finestra sulla strage, editore Feltrinelli, Milano. Pietro Secchia (alla memoria) per Il PCI e la guerra di liberazione, editore Feltrinelli, Milano; La Resistenza accusa, editore Mazzotta, Milano; Lotta antifascista e giovani generazioni, editore La Pietra, Milano. Alexandros Panagulis per Vi scrivo da un carcere in Grecia, editore Rizzoli, Milano.
Nuova edizione 1995 - Beppe Fenoglio, per Appunti partigiani, curati da Lorenzo Mondo per l’editore Einaudi, Torino. 1996 - Adolfo Mignemi per Storia fotografica della Resistenza, editore Bollati-Boringhieri, Torino. 1997 - Gherardo Colombo per Il vizio della memoria, editore Feltrinelli, Milano.
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1998 - Tahar Ben Jalloun per Il razzismo spiegato a mia figlia, editore Bompiani, Milano e Vincenzo Cerami e Roberto Benigni per la sceneggiatura del film La vita è bella, editore Einaudi, Torino. 1999 - Giovanni Giudici per Eresie della sera, editore Garzanti, Milano e Theo Richmomd per Konin. La città che vive altrove, editore Instar Libri, Torino. 2000 - Ryszard Kapuscinski per Ebano, editore Feltrinelli, Milano. Con l’edizione 2000 è stato istituito il «Premio Scaffale» assegnato al Diario di David Rubinowicz, edito da Einaudi, Torino; mentre la Giuria ha voluto rendere omaggio a Giuliana Gadola Beltrami, vedova del Capitano Filippo Maria Beltrami caduto a Megolo il 13 febbraio 1944, per la riedizione, a cura della rivista «Le Rive», del suo Il Capitano. 2001 - Giorgio Boatti per Preferirei di no, editore Einaudi, Torino e Cesare Garboli per Ricordi tristi e civili, editore Einaudi, Torino. «Premio Scaffale»: Massimiliano Griner, La «Banda Koch». Il reparto speciale di Polizia 1943-44, editore Bollati-Boringhieri, Torino; Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, editore Einaudi, Torino; Francesco Giannantoni e Fabio Minazzi (a cura di), Il coraggio della memoria e la guerra civile spagnola (1936-1939). Studi, documenti inediti e testimonianze, con la prima analisi storico-quantitativa dei volontari antifascisti italiani, Amici del Liceo scientifico di Varese, Arterigere editore, Varese. 2002 - Giulietto Chiesa e Vauro con Gino Strada per Afghanistan anno zero, editore Guerini e associati, Milano. «Premio Scaffale»: Giannino Piana, I tempi e luoghi della politica, Centro Natale Menotti, Verbania; Maria Adele Garavaglia, La colpa di una madre. Un processo di fine medioevo, editore Interlinea, Novara. 2003 - Nuto Revelli per Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, a cura di Michele Calandri, editore Einaudi, Torino. «Premio Scaffale»: Eraldo Affinati, Un teologo contro Hitler, editore Mondadori, Milano; Cesare Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese, editore Odradek, Roma; Jason Lutes, Berlin, la città delle pietre, editore Coconino Press, Bologna.
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2004 - Susan Sontag per Davanti al dolore degli altri, editore Mondadori, Milano. «Premio Scaffale»: Tina Anselmi, Zia, cos’è la Resistenza?, editore Manni, San Cesario di Lecce; Elena Gianini Belotti, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, editore Rizzoli, Milano; Gina Lagorio, Raccontami com’è andata, editore Viennepierre, Milano. 2005 – Guido Crainz per Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, editore Donzelli, Roma. «Premio Scaffale»: Carolina Bertinotti, Ma la fortuna dei poveri dura poco, (a cura di Giovanni A. Cerutti), editore Interlinea, Novara; Franco Giustolisi, L’Armadio della vergogna, editore Nutrimenti, Roma; Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, editore Einaudi, Torino. Componenti la Giuria del Premio nelle edizioni 1959-1974 Pasquale Maulini e Angelo Boldini (Sindaci), Cino Moscatelli, Mario Bonfantini, Mario Soldati, Guido Piovene, Sergio Antonielli, Carlo Salinari, Corrado De Vita, Enrico Emanuelli, Adriano Seroni, Mario Spinella, Paolo Spriano, Gianni Rodari, Cesare Zavattini, Rossana Rossanda, Orio Vergani, Raffaele De Grada, Filippo Frassati, Italo Calvino, Franco Fortini, Mario Gozzini, Arturo Carlo Jemolo, Francesco Flora, Furio Jesi, Ruggero Orfei, Carlo Betocchi, Carlo Bo. Componenti la Giuria del Premio dal 1995 Alba Andreini, Mauro Begozzi, Massimo Bonfantini, Marziano Guglielminetti, Oreste Pivetta, Sebastiano Vassalli (nella sola edizione del 1996), Dario Voltolini. Dal 2003, dimessosi Marziano Guglielminetti, sono entrati in Giuria, Laura Pariani e Michele Beltrami.
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Verso i quarant’anni. L’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara»
L’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara» sta entrando nella piena maturità, essendo giunto infatti alla vigilia dei suoi «primi» quarant’anni e per informazioni più ampie su origini, sviluppo, sui fondatori, sugli organi istituzionali, statuto, programmi e relazioni di attività, settori di ricerca e servizi si rimanda al sito web www.isrn.it. Nato come centro di documentazione della resistenza novarese nel ventennale della Liberazione, l’Istituto conobbe un periodo di incubazione fino al marzo 1967 quando iniziò la propria attività pubblica presso la Biblioteca Civica e Negroni di Novara sotto la direzione di Mario Pacor, partigiano triestino giornalista e storico. Nel 1968 per volontà dei resistenti novaresi, che in quel frangente davano vita, caso forse unico in ambito nazionale, al Raggruppamento Unitario della Resistenza, si decise di costituire un Consorzio per la sua gestione formato dall’Amministrazione provinciale, dal Comune di Novara e dai Comuni della Provincia. Contemporaneamente si associò all’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia – allora presidente Ferruccio Parri – in base alla Legge del 16 Gennaio 1967, n. 3, entrando a far parte della rete federativa degli Istituti della Resistenza oggi dislocati in oltre sessanta sedi in Italia. Fautori di quella iniziativa furono i protagonisti della lotta di Liberazione nella provincia di Novara e in Valsesia, e della riorganizzazione della vita democratica nel dopoguerra: Natale Menotti, allora presidente della Provincia, Piero Fornara, Eraldo Gastone, Cino Moscatelli, Alberto Jacometti, Enrico Massara, Albino Calletti, Fausto Del Ponte e molti altri. Il 14 Dicembre 1968, l’Assemblea dei delegati eleggeva le prime cariche direttive. Presidente fu nominato Piero Fornara, con Vicepresidenti Eraldo Gastone e Mario Manfredda. Consiglieri vennero eletti: Alberto Jacometti, Enrico Massara, Iginio Fabbri, Carluc275
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cio Alberganti, Albino Calletti e Fausto Del Ponte. Il Comitato scientifico venne insediato nelle persone di Guido Quazza (a quale subentrò Massimo L. Salvadori) e Gianfranco Bianchi, docenti di storia rispettivamente all’Ateneo torinese e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nonché di Carla Nosenzo Gobetti, direttrice dell’Istituto piemontese per la storia della resistenza, capostipite dei consimili istituti italiani. Per comodità di analisi i quarant’anni di vita dell’Istituto possono essere suddivisi in quattro periodi che vengono quasi a coincidere con ciascuna delle quattro presidenze succedutesi: di Piero Fornara, Eraldo Gastone, Enrico Massara e Francesco Omodeo Zorini. Reperimento e pubblicazione delle fonti L’Istituto sorge dunque sul fondamentale lungimirante presupposto dell’incardinamento giuridico-amministrativo nelle civiche istituzioni del territorio allo scopo di conferire carattere pubblico e civile al patrimonio storico e ideale di cui è custode, propugnatore e valorizzatore. Il periodo per così dire «delle origini» durante la presidenza Fornara (1968-1975) è caratterizzato dall’esigenza del reperimento e pubblicazione delle fonti documentali che si congiunge inscindibilmente con quella della costituzione delle basilari strutture: archivio e biblioteca, essenziali per l’avvio degli studi e della loro pubblicazione, della consulenza e dell’assistenza a studiosi e studenti prevalentemente universitari. La richiesta del distacco, a norma di legge, da parte del Ministero della Pubblica Istruzione di un insegnante di ruolo «comandato», avanzata da Fornara e Parri fin dal 1967, si concretizza nel 1970, sicché l’Istituto può avvalersi della prestazione a pieno tempo di Francesco Omodeo Zorini, il quale svolge mansioni di ricercatore e curatore dell’attività didattica. Il qualificato e partecipato Convegno internazionale di studi di Domodossola del settembre 1969 sulle Zone libere della Resistenza italiana ed europea, nel 25° anniversario della «Repubblica dell’Ossola» e la relativa pubblicazione degli Atti nel 1974, accanto alla pubblicazione della prima monografia di Enrica Andoardi e Carla Barlassina Tagliarino sulle formazioni cattoliche e «azzurre» in provincia, degli studi di Mario Giarda e Giulio Maggia sulle istituzioni e sugli organi di stampa della libera repubblica partigiana, sulla liberazione della città di Novara riflettono il fervore pionieristico di quella stagione d’esordio. 276
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Per la divulgazione si dà vita dall’inizio del 1969 a «Resistenza Unita», notiziario mensile del Raggruppamento e dell’Istituto, con Pacor responsabile del comitato di direzione. Il notiziario, per quanto dimesso, diventa, grazie alla sapiente regia di Pacor, utile palestra di dibattito spesso vivace tra protagonisti e giovani. Anche in relazione al piano di ricerca generale dell’Istituto nazionale, in quegli anni sul bollettino trovano spazio repertori di documenti, testimonianze sulla resistenza locale e ricerche di base sia sulla realtà socio-economica e politica pre e post resistenziale, sia sull’antifascismo. L’insegnante comandato avvia nel contempo quel depistage di testimonianze orali dei protagonisti maggiori e minori della vita politica, sociale e culturale non solo locale a partire dalla fine dell’Ottocento, che è stato opportunamente salvaguardato prima dalla duplicazione e schedatura delle audiocassette e poi, recentemente, grazie a Piero Beldì, per mezzo del riversamento digitale, di cui si rende conto nel catalogo dell’archivio sonoro La memoria invisibile (2005). Di quel periodo sono anche le originali e inusitate «missioni» nelle comunità italiane all’estero, in Francia come in Istria, nonché gli interventi nelle scuole e i primi corsi di aggiornamento per insegnanti. Le «nuove fonti» e la questione propaganda-comunicazione Alla morte di Fornara la presidenza è affidata a «Ciro» Gastone (19751986) e il Comitato direttivo delibera l’intitolazione dell’ente all’illustre pediatra capo carismatico della Resistenza novarese. Nel 1976 si realizza il trasferimento dell’Istituto dal palazzotto Medici Tornaquinci di via Canobio, dov’era ubicato dal 1971, in Casa Fornara. Il dinamismo manageriale del neo-presidente, già comandante a fianco di «Cino» Moscatelli dei garibaldini della Valsesia, consente l’ingresso nell’équipe dell’Istituto (che perde però per quiescenza l’inestimabile apporto del direttore) di due valenti neo-laureati già collaboratori esterni la cui cooptazione è caldeggiata dall’insegnante comandato: Mauro Begozzi e Adolfo Mignemi. Si apre così nella seconda metà degli anni Settanta un’appassionata fruttuosa fase di ricerca rivolta in maniera specifica alla storia socio-economica e politico-culturale del territorio che sfocia nella creazione del provvidenziale strumento della rivista «Ieri Novara oggi». Attorno ad essa si coagula un invidiabile collettivo di giovani anche di calibro nazionale che vi fanno confluire molteplici contributi. L’attenzione è focalizzata alla tripli277
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ce dimensione dialettica locale/nazionale, scritto/orale/iconografico/materiale, storia/scuola. L’esito è di suscitare un dibattito non puramente elitario attorno alla poliedrica attività dell’Istituto né esclusivamente ristretto all’ambito provinciale. Fuori dall’accademia, al confine con «storici scalzi» militanti. E’ una stagione esaltante di ricerca e dibattito, di crescita complessiva dell’Istituto che in pochi anni triplica il patrimonio documentario e bibliografico custodito. Sono gli anni delle «missioni» negli archivi che finalmente aprono le proprie porte alla consultazione delle carte della storia contemporanea. Così, si intensificano, numerose, le incursioni nei più importanti giacimenti locali e nazionali, mentre emerge pionieristica l’attenzione per le «nuove» fonti con l’acquisizione di importanti archivi fotografici. Dall’acquisizione allo studio il passo è breve, sì che l’Istituto da vita ad un importante stagione di mostre e di riflessione sul tema della comunicazione non solo o, meglio, non più solo sulla Resistenza. E’ il caso delle esposizioni sul paesaggio industriale, sul manifesto politico di Albe Steiner, sulla guerra d’Etiopia 1935-36, la realizzazione della sala storica di Domodossola. Si moltiplicano in senso bidirezionale le occasioni di scambio con l’universo universitario e scolastico non più limitato alle tipicità del monitoraggio delle tesi di laurea o per altro verso ai corsi di aggiornamento. Anche stavolta, pionieristici sono i viaggi-studio nei luoghi della memoria della deportazione, così come innovative sono le ricerche-didattiche (è il caso delle analisi sulla cartiera Vonwiller di Romagnano Sesia svolte in collaborazione con l’Istituto Cobianchi di Intra) con archetipi di approccio all’informatica, piegata alla storia, e di riflessione sulla storia quantitativa e sulla storia della scuola. Questo ruolo e queste funzioni vengono sancite e riconosciute dalla Legge Regionale n. 28/1980. Per un prismatico laboratorio pre-politico e di organizzazione culturale Il decennio della presidenza di Enrico Massara (1986-1998) e della direzione di Rosario Muratore, coincide con una nuova e per molti aspetti diversa stagione di studio e impegno dell’Istituto. Muta il clima culturale, entra in crisi il mestiere dello storico e la funzione della storia e della storiografia nella formazione civile delle nuove generazioni. L’Istituto affronta 278
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la congiuntura non senza difficoltà, ma con nuove idee e soprattutto con una nuova progettualità. Da semplice centro di ricerca l’orizzonte si allarga alla costruzione di un laboratorio di formazione, «prepolitico» come viene definito da un brillante Assessore alla cultura della Regione Piemonte. Non si dimentichi che è il periodo della crisi del sistema politico italiano, della cosiddetta «Prima Repubblica». La tutela e la valorizzazione del patrimonio custodito diventano prioritari e si accentua la funzione di servizio e di organizzazione culturale. Una dura battaglia per mantenere pubblica tale funzione (soprattutto dopo l’approvazione della riforma delle autonomie locali) vede l’Istituto impegnato in prima persona accanto ai confratelli Istituti piemontesi. Mentre da un lato proseguono gli studi (torna a uscire «Ieri Novara oggi» dopo un decennio di silenzio), si organizzano convegni e mostre, si aprono importanti «cantieri» di ricerca, dall’altro l’Istituto è promotore di alcune fondamentali realizzazioni culturali, come la ripresa del Premio letterario della Resistenza «Città di Omegna» e l’inaugurazione della «Casa della Resistenza » di Fondotoce di Verbania. Muta anche la «ragione sociale», registrando la «storia contemporanea» non solo nella pratica di studio ma anche nel nome dell’Istituto e si apre una lunga e per certi versi non ancora conclusa stagione di difesa della Resistenza, dei suoi uomini e dei suoi valori contro l’oblio, il negazionismo e il revisionismo. Al proprio interno l’Istituto conosce una pericolosa crisi di «passaggio», crisi non solo generazionale. Le opzioni per il futuro sono inevitabilmente diverse e contrastanti, mentre emerge improcrastinabile l’esigenza di un nuovo progetto complessivo per l’Istituto che abbisogna di aprirsi ulteriormente al territorio, alla società, all’Università locale, che muove i suoi primi passi. Riassetto consorziale e nuovi «sponsor»: Novecento e contemporaneità a tutto campo Nel 1998, al compimento dei suoi bellissimi ottant’anni, Enrico Massara lascia la presidenza, che viene assunta da Francesco Omodeo Zorini. Per la prima volta la carica non è ricoperta da un protagonista della Lotta di Liberazione, anche se lo spirito dei fondatori è ben presente nel documento di programma che porta all’elezione del Consiglio d’Amministrazione. Pian piano le norme e gli organi previsti dallo Statuto vanno a regime con le nomine del direttore scientifico, di quello amministrativo, del 279
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Comitato scientifico e della Commissione didattica. Il riassetto istituzionale indubbiamente consente di guardare al futuro con minori apprensioni, ma anche con nuove e maggiori responsabilità: la nascita, ad esempio. della Provincia del Verbano Cusio Ossola rende l’impegno ancor più importante e gravoso. La «riforma» purtroppo non è indolore e l’Istituto deve rinunciare a importanti professionalità, così come a diversi strumenti (tra cui proprio la rivista). Il piano di rilancio prevede di agire su diversi piani: 1. il rafforzamento del Consorzio e la diversificazione delle fonti di finanziamento; 2. i problemi strutturali e funzionali dell’Istituto (sede, personale, strumentazione, ecc) 3. la collaborazione alla vita federativa sia a livello regionale che nazionale; 4. il sostegno alla ricerca e alla divulgazione dei risultati della stessa; 5. la valorizzazione delle attività nel settore didattico; 6. l’efficienza dei servizi di biblioteca e archivio. Per ognuno dei punti del piano vengono approntati specifici progetti e in solo otto anni l’Istituto conosce una nuova significativa evoluzione. Gli enti aderenti al Consorzio salgono a ben 81 unità (con le due Province, 76 Comuni e tre comunità montane), mentre altri Enti, Fondazioni bancarie e Associazioni sostengono economicamente la nuova progettualità. Svanisce il «sogno» di una nuova e più adeguata sede, ma si da vita all’allargamento di quella attuale grazie al sostegno dell’Azienda ospedaliera di Novara, proprietaria dello stabile di Corso Cavour. L’attività si fa ricca e complessa, segnata da nuovi cantieri di ricerca, da nuove collaborazioni e professionalità in tutti i settori in cui l’Istituto è impegnato. Impossibile citare qui tutte le realizzazioni, tutti i complessi progetti di ricerca in cui l’Istituto si è fatto o è promotore. Come detto per chi volesse saperne di più vi è a disposizione il portale web www.isrn.it. Tuttavia è importante sottolineare sia la strategia culturale complessiva (al centro della quale vi è la collaborazione costante e diversificata con tutte le principali realtà istituzionali e associative locali, nazionali ed internazionali) sia alcune fondamentali realizzazioni legate a specifici progetti, quali la valorizzazione della biblioteca-archivio Mario Bonfantini, l’adesione al Servizio Bibliotecario Nazionale, la costituzione di un’efficiente mediateca, l’informatizzazione e la digitalizzazione di interi settori dell’archivio, 280
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i progetti «Memoria del lavoro», «Novecento di carta» e «Spazio archivi» volti all’acquisizione, tutela e valorizzazione del patrimonio documentario ed in specie di quello legato alla società locale nel secolo scorso; la partecipazione a progetti europei come l’Interreg III «La memoria delle Alpi» e le specifiche realizzazioni del sistema ecomuseale italo-svizzero; il rilancio del settore editoriale e della comunicazione con la pubblicazione di decine di ricerche e studi e l’apertura del sito; la razionalizzazione dell’intervento nel settore didattico con una molteplicità di proposte legate non solo a specifiche scadenze quali il giorno della memoria e il giorno del ricordo, bensì ad un organico intervento a favore dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola e all’educazione alla cittadinanza. Per questo l’Istituto non si è sottratto, ma anzi è stato protagonista, di fondamentali battaglie in difesa dei valori della resistenza e dei principi costituzionali. Ora, la ricerca torna la centro della sua attività e l’immediato futuro è segnato da nuovi progetti relativi alla storia del Novecento e alle problematiche culturali del presente. Un segno, importante e significativo, di questa nuova stagione è senz’altro la collaborazione a questa rivista, significativamente titolata «I sentieri della ricerca», non solo perché riapre un discorso di divulgazione dei risultati, appunto, della ricerca e delle riflessioni scientifiche che nell’istituto si svolgono, ma perché sancisce la collaborazione tra centri-studi e perché si fa palestra per le nuove generazioni. Come allora, come quasi quarant’anni fa.
Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «P. Fornara» C.so Cavour, 15 – 28100 Novara Tel 0321/39.27.43 - Fax 0321/39.90.21 e-mail:
[email protected] - web: www.isrn.it 281
La «Casa della Resistenza» di Fondotoce. Un centro-rete per la storia del ’900 nel Verbano Cusio Ossola
Premessa Fin dal 1976, anno in cui si cominciò a «sognare» e a parlare della costruzione di una struttura da affiancare al Sacrario di Fondotoce per accogliere i numerosi visitatori, tale struttura venne immaginata come un «museo» ove raccogliere e valorizzare i documenti, le testimonianze, i materiali storici relativi alla lotta di liberazione locale e in particolare al sacrificio dei Caduti partigiani delle province di Novara e del VCO. Esattamente dieci anni fa, con l’edificazione della Casa della Resistenza di Fondotoce, costruita grazie alla Legge Regionale n. 30 del 1992, su progetto dell’arch. Cesare Mercandino, partigiano combattente nel Vergante, andò a compimento un importante impegno di valorizzazione di uno dei luoghi della memoria più noti e amati dell’intero Piemonte, oggi chiamato Parco della Memoria e della Pace. Il Parco comprende diverse strutture tra cui il Sacrario dei 42 caduti fucilati il 20 giugno 1944, la complessa area monumentale (con i monumenti eretti nel corso di quasi sessant’anni: il muro che reca i nomi dei 1200 Caduti della Resistenza delle province di Novara e del VCO; l’urna con le ceneri provenienti dal campo di sterminio di Mauthausen; la lapide per gli ebrei trucidati sulle sponde del Lago Maggiore; il bronzo dedicato ai Georgiani combattenti nelle fila della Resistenza italiana e infine l’omaggio agli Internati militari nei lager nazisti che non fecero ritorno), l’ulivo della pace proveniente da Israele e, appunto, la Casa. Da quel «sogno» degli anni settanta alla realizzazione della struttura trascorsero, dunque, molti anni, un periodo lungo in cui, tra le altre cose, molto è cambiato nella storiografia e da essa anche nel modo di concepire un «museo», non più o non solo semplice e statico contenitore di oggetti e cimeli, ma centro dinamico, vivo e vitale, di conservazione, elaborazione e 283
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divulgazione della memoria storica. La possibilità di accesso a nuove fonti documentarie, la diversità di tali fonti (non più solo cartacee o materiali, bensì fotografiche, audiovisive e ora virtuali), la disponibilità di nuove tecnologie al servizio della ricerca e della divulgazione storica, hanno spinto, quindi, a immaginare la Casa della Resistenza come un vero e proprio centro storico multimediale, polivalente, aperto e aggiornabile, in grado di offrire servizi diversi e soddisfare una crescente domanda culturale (dalla semplice accoglienza dei visitatori alla capacità di sostenere e suscitare un turismo, scolastico ma non solo, etico-civile). Recentemente e in campo storico, si è poi sviluppata l’idea dei musei diffusi, ovvero l’idea di valorizzare i segni e i simboli storici sparsi sui diversi territori mettendoli in relazione tra loro. Nel nostro caso la valorizzazione e la connessione dei cosiddetti «luoghi della memoria», dei «sentieri della libertà», nel tentativo di creare percorsi e sistemi integrati sia sul piano locale, poi regionale e infine transfrontalieri ed europei. Il Parco della memoria e della pace e la sua Casa della Resistenza rappresentano in un simile contesto un punto di riferimento di straordinario significato e di enorme potenzialità. L’Associazione L’anno successivo l’inaugurazione (che vide la presenza dell’allora Presidente della Repubblica on. Oscar Luigi Scalfaro e di Tina Anselmi), si costituì l’Associazione Casa della Resistenza per la gestione del Parco. Formata dai rappresentanti delle organizzazioni della Resistenza (fra partigiani, deportati politici, internati militari, Comunità ebraiche, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel VCO «Piero Fornara») ottenne dalla Provincia del VCO, di recente costituitasi e divenuta proprietaria dell’area, il comodato d’uso e pose tra i propri scopi statutari: la diffusione della conoscenza delle diverse opportunità turisticoculturali del territorio del Verbano Cusio Ossola a partire dalle esposizioni di Ornavasso, Villadossola e Domodossola per arrivare alla individuazione e valorizzazione di veri e propri «itinerari della Resistenza»; la predisposizione di servizi culturali (mostre, schede informative, libri, filmati, eccetera) necessari a far conoscere la storia della Resistenza locale e il significato universale di pace e fratellanza tra i popoli che i monumenti rappresentano; l’organizzazione di convegni di studio, seminari, lezioni, incontri che consentano uno scambio 284
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culturale e un approccio critico al tema della lotta di liberazione e più in generale alle problematiche storiografiche relative al Novecento; la promozione di forme di gemellaggio e interscambio informativo con analoghe strutture e luoghi simbolici esistenti in Italia e all’estero. Un primo bilancio Capita di incontrare visitatori, anche stranieri, i quali ebbero l’occasione di recarsi alla Casa dieci anni fa, quando la struttura era un semplice contenitore praticamente vuoto e che, oggi, tornati, hanno avuto l’opportunità di constatare, ammirati, lo straordinario lavoro svolto. A volte capita anche di incontrare «anziani» che ricordano quando l’area era semplicemente un luogo di pellegrinaggio privo di qualsiasi servizio e che stupiscono per quanto è stato fatto, per come il Parco è mantenuto, per l’amore e il rispetto che lo contraddistinguono, per le scelte e le realizzazioni compiute. Un primo bilancio di questi dieci anni dimostra il pieno successo dell’iniziativa, il cui merito va ripartito equamente tra tante persone di generazioni diverse, protagoniste tutte, lungo l’arco degli oltre sessant’anni trascorsi dalla Liberazione, di un impegno grande e disinteressato. Una memoria viva, non solo «conservata», ma vitalissima, utilizzata nel presente, nelle pieghe dei temi e dei problemi di un «oggi» quanto mai inquieto e privato di punti di riferimento e di valori. Allora occorre dire, poiché stiamo parlando di un «luogo della memoria» ovvero di un luogo mèta di visitatori interessati, dell’andamento delle presenze, valutabili complessivamente, nei dieci anni, tra le 150mila e le 200mila unità. Di più, è possibile affermare che negli ultimi tre anni, in concomitanza con l’apertura di spazi e servizi culturali dedicati, il numero dei visitatori si è praticamente raddoppiato. Un trend di crescita che non si ferma e che ha portato la media annuale a circa 25-30mila visitatori, poco meno della metà dei quali rappresentato da studenti e insegnanti. 1. Diffondere la conoscenza delle diverse opportunità turistico-culturali del territorio. È qui importante ricordare il progetto europeo «La memoria delle Alpi. I sentieri della libertà». Affermatasi da tempo in alcuni Paesi europei fra cui la Francia e, negli ultimi tempi, anche l’Italia - la tendenza a dar vi285
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ta a grandi progetti «ecomuseali» per valorizzare la memoria storica di una comunità, legandola direttamente al contesto ambientale territoriale e, in particolare, a quei «luoghi della memoria» che hanno fatto da sfondo ad avvenimenti significativi o che sono ancora in grado di evocare una situazione o un particolare stato d’animo, è venuta maturando una nuova capacità di guardare al territorio e alle tracce del suo passato ed è nata una nuova concezione di comunicazione museale. L’«ecomuseo» è un museo all’aperto, diffuso sul territorio, nel quale il contesto ambientale e il paesaggio consueto (le vie e le piazze cittadine, i sentieri di montagna e il paesaggio, i monumenti e gli edifici) si trasformano sotto i nostri occhi nel teatro vivo della storia, rendendo manifesta l’infinita rete di collegamenti che unisce la realtà attuale a un passato più o meno recente. All’interno di questa tradizione europea di «ecomusei», si è collocato il progetto triennale La memoria delle Alpi, che il Consiglio Regionale del Piemonte, d’intesa con la Giunta Regionale e gli Assessorati alla Cultura e all’Economia Montana, ha deciso di sviluppare in una cornice non solo piemontese, ma pluri-regionale e transfrontaliera, nell’ambito dei programmi comunitari «Interreg» Italia-Francia e Italia-Svizzera. Il progetto ha inteso realizzare una rete transfrontaliera di «ecomusei» e altre strutture museali (fra cui anche un museo «virtuale», accessibile attraverso un «portale» Internet), dedicate al territorio alpino (compreso fra Italia, Francia e Svizzera) e alla sua storia. In questo ambito la Casa della Resistenza, valorizzando le iniziative ecomuseali già realizzate o in corso d’opera in sede locale (ad esempio i sentieri montani dedicati ai partigiani Chiovini e Beltrami) ha sviluppato nuovi percorsi tematici in una prospettiva transprovinciale e transfrontaliera con la vicina Svizzera. Si sono così individuati alcuni possibili percorsi relativi alla Repubblica partigiana dell’Ossola; alla persecuzione razziale e alle vie di fuga verso la Svizzera di ebrei, militari, antifascisti, prigionieri alleati e profughi; al passaggio sulle sponde del Lago Maggiore di militanti europeisti e federalisti, poi rifugiatisi in Svizzera. Per la realizzazione di questi progetti, oltre al collegamento con i centri di ricerca e gli enti amministrativi della vicina Svizzera (Canton Ticino e Vallese), sono stati coinvolti gli enti territoriali locali, gli apparati museali già esistenti, come i musei partigiani di Ornavasso (che ha realizzato una sua guida), Domodossola (che ha ristrutturato la sua sala storica) Villadossola. In particolare, la Casa della Resistenza di Fondotoce si è posta come 286
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centro di raccordo di tutti i diversi percorsi ecomuseali in via di realizzazione nel territorio del Novarese e del VCO, trasformandosi in un centro poli-funzionale di accoglienza e in un centro multimediale di documentazione al servizio delle scuole, degli studiosi e del turismo etico-culturale. Per meglio affrontare questa scelta è stato altresì presentato e sta per partire il progetto «Visitare la storia», accolto dalla Provincia del VCO e destinato ai serviziocivilisti, per la formazione di personale volontario da destinare al sostegno del turismo etico-civile. 2. La predisposizione di servizi culturali. Una delle più importanti realizzazioni in questo senso è stata la costruzione del Centro storico multimediale organizzato in servizi diversi quali la grande sala attrezzata per l’organizzazione di eventi culturali, la «galleria della memoria» e il «laboratorio didattico». La «galleria della memoria» situata sul lato sinistro della Casa, suddivisa in cinque «stanze» è dedicata alle vicende del rastrellamento del giugno 1944 in Valgrande e all’eccidio dei 42 partigiani del 20 giugno. Pensata come un viaggio virtuale e multimediale nella memoria e nella storia, la visita inizia di fronte ad una gigantografia della famosa immagine del corteo dei «43» (come è noto uno di loro riuscì miracolosamente a salvarsi) sotto il cartello Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono i banditi?. Fisicamente, dunque, il viaggio comincia entrando nell’immagine. La sala del Novecento: ci si ritrova in una stanza al buio accompagnati dalla voce di Carlo Suzzi, il sopravvissuto, che ricorda i momenti terribili della fucilazione. Poi un breve, intenso filmato sfida la nostra memoria presentandoci il Novecento della violenza, delle guerre contro i civili, del prezzo pagato per la libertà. La sala del territorio e della storia: la luce della seconda stanza ci consentirà di decantare l’emozione e riprendere la riflessione. Grandi pannelli riportano, grazie a citazioni, poesie, ricostruzioni storiche e suggestioni letterarie, i temi essenziali riguardanti quel giugno del 1944. Una grande carta geografica ci ricorda il territorio teatro degli eventi. Parole chiave ci spingono a volerne sapere di più. È la stanza della montagna, del nemico, delle stragi, dei deportati, delle donne, in una parola del contesto e dei protagonisti. Due di loro, intanto, ci donano la loro testimonianza La sala del ricordo: nuovamente al buio nella terza stanza, là dove scorrono gli occhi di alcuni degli uccisi, occhi che ci guardano e ci interrogano. 287
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Chi erano i 42 uccisi? Di molti di loro non sappiamo nemmeno il nome, di altri solo qualche breve annotazione su un documento ingiallito. La sala delle proiezioni: nella quarta stanza siamo accolti da una nicchia di proiezione e potremo sederci e soffermarci a guardare immagini dell’epoca in bianco e nero, preziose e poco conosciute, oppure documentari, testimonianze... approfondire la nostra conoscenza sul territorio e la sua storia. La sala della memoria: oltre la nicchia una nuova sala ci permette infine nuove ricerche, nuove risposte ai tanti interrogativi che la visita alla «galleria» ha naturalmente suscitato: in particolare ci offre uno sguardo sui luoghi della memoria che i territori del Verbano Cusio Ossola e del Novarese conservano e che disegnano la geografia della storia della resistenza. Proprio accanto alla «galleria della memoria» è stato allestito il «laboratorio didattico». Attrezzato con dodici notebook e collegato alla rete interna e a internet, il laboratorio consente di svolgere lezioni e incontri, approfondire argomenti, svolgere ricerche. Nel laboratorio è a disposizione anche una piccola biblioteca didattica e strumenti come lavagne, lavagne luminose, fotocopiatrice, ecc. Ma tra le realizzazioni di servizi culturali non vanno dimenticate: le schede e le guide a disposizione dei visitatori, le numerose pubblicazioni; il periodico «Nuova Resistenza Unita»; il sito web: www.casadellaresistenza. it; gli opuscoli e le schede storiche a disposizione dei visitatori, i DVD e i Cd-rom tematici e d’approfondimento predisposti e a disposizione del laboratorio didattico; le numerose mostre temporanee allestite. 3. L’organizzazione di Convegni di studio, seminari, lezioni, incontri, ecc. Impossibile citare i tanti, tantissimi momenti di incontro e di riflessione culturale svolti nei dieci anni, grazie alla sala convegni, che opportunamente attrezzata ha consentito di svolgere una costante attività di incontro, studio e promozione culturale. Vale forse la pensa di ricordare alcuni momenti particolarmente significativi quali le visite del Presidente della Repubblica, i congressi quali quello nazionale della Fiap o provinciali dell’Anpi e dell’Anei, i convegni di studio organizzati soprattutto in occasione del giorno della memoria, del giorno del ricordo, degli anniversari del 20 giugno, dell’8 settembre e del 25 aprile, i concerti, le rappresentazioni teatrali; e poi ancora i corsi d’aggiornamento per insegnanti e più in generale di formazione professionale nei più 288
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svariati campi della cultura, della ricerca e della didattica della storia. 4. La promozione di forme di gemellaggio e interscambio. Sono quattro i livelli di questa forma di interscambio. a) I rapporti con gli enti locali per i quali la Casa della Resistenza svolge un intenso servizio di organizzazione e di coordinamento di manifestazioni, iniziative, incontri, ecc. b) I collegamenti con gli altri «luoghi della memoria» locali, nazionali e internazionali, sia quelli contigui sparsi sul territorio provinciale (Ornavasso, Villadossola, Domodossola), sia con quelli piemontesi (Benedicta, Colle del Lys, Museo diffuso di Torino), sia anche con la rete che va costituendosi in tutta Italia. c) I rapporti con i diversi centri di ricerca locali e l’organico rapporto di lavoro con l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel VCO «P. Fornara» d) I progetti di interscambio con Enti e Associazioni su specifici temi quali quelli della pace e dell’educazione alla cittadinanza. In sostanza, le linee di indirizzo e sviluppo indicate dallo Statuto non solo sono state tutte rispettate, ma nel contempo la Casa della Resistenza è riuscita a dar vita a un complesso di iniziative e realizzazioni che segnano il suo futuro. Le linee di evoluzione Gli indirizzi di sviluppo delle attività vanno, infatti, nel segno del completamento delle opere in cantiere, dei progetti presentati e del potenziamento di tutti i settori di servizio. In particolare si segnalano per importanza le opere di risanamento del Parco, che necessita di interventi di tutela ambientale e di manutenzione straordinaria; il completamento delle strutture monumentali, con la posa di una stele dedicata al ruolo delle donne nella Resistenza; la realizzazione dello spazio-biblioteca ove accogliere e valorizzare il notevole fondo bibliografico custodito e in particolare quello depositato dalla Fiap; la ristrutturazione dello spazio per le mostre temporanee e la predisposizione di un piano di esposizioni tematiche; la definizione di un piano di comunicazione sui servizi offerti dalla Casa e dal territorio alla scuola e in generale al 289
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turismo etico-civile; lo studio per l’organizzazione di un convegno internazione dei «luoghi della memoria» europei; la partecipazione a un nuovo progetto interregionale dedicato sempre alla Memoria delle Alpi, ma declinato sui temi del lavoro e dell’emigrazione; la realizzazione di nuovi strumenti a supporto dei visitatori (quali pubblicazioni, DVD, cd-rom tematici, ecc.); la predisposizione di un centro-informazioni al servizio del territorio e di promozione degli altri luoghi della memoria presenti.
Associazione Casa della Resistenza Via Turati 9 – 28924 Verbania Fondotoce Tel. 0323 58.68.02 - Fax 0323 58.66.49 Sito web: http://www.casadellaresistenza.it/ e-mail:
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rassegna bibliografica
Il mondo e gli uomini di Giustizia e Libertà nella ricostruzione di Mario Giovana di Andrea Beccaro Nel volume uscito con la Bollati Boringhieri qualche mese fa Giustizia e Libertà in Italia. Storia di una cospirazione antifascista 1929-1937 Mario Giovana affronta il tema con piglio, decisione e precisione riguardo sia alle indagini sia alle fonti. Ne scaturisce così, nonostante il suo appunto introduttivo sull’impossibilità di reperire materiale su determinati aspetti, momenti e personaggi, un testo lungo, complesso, particolareggiato ma scorrevole e ricco di particolari. Il libro ripercorre la storia di GL dal 27 luglio 1929 giorno in cui Rosselli, Lussu e Nitti riuscirono a fuggire dal confino sull’isola di Lipari giungendo a Parigi, fino al giugno-luglio 1937 quando, con la morte di Rosselli e i 37 arresti di Cremona, l’Ovra, la polizia segreta del regime, riuscì a stroncare l’ultimo gruppo organizzato in Italia. Tra questi due punti estremi il libro analizza, con dovizia di particolari, l’evolversi di GL e dei personaggi che a vario titolo ne facevano parte. Sono messi subito in rilievo i punti centrali che caratterizzarono la lotta di GL: la ripresa dell’antifascismo in modo frontale e deciso e le modalità in cui questa lotta doveva essere condotta ovvero con un nuovo impulso slegandosi dall’esperienza dell’Aventino, conducendo una battaglia serrata su base unitaria (abbandonando le divisioni partitiche e le pregiudiziali ideologiche). L’obiettivo non era solo di abbattere il regime ma di creare un’Italia democratica e di superare i vizi non risolti dal Risorgimento e da cui il fascismo aveva tratto linfa vitale. È così evidenziato un duplice problema che GL dovrà affrontare sino alla fine: quello con la Concentrazione antifascista che alla volontà di agire di Rosselli e degli altri oppose un’attesa quasi letargica del crollo del regime. Come fu scritto sul primo numero di «Giustizia e libertà» l’unità d’azione deve basarsi sul trinomio di «libertà, repubblica e giustizia sociale». GL quindi appare fin da subito una nebulosa piuttosto che un movimento unitario, «uno spazio di libero intervento» in cui intellettuali delle più diverse estrazioni potevano dialogare e 291
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collaborare senza però un capo dirigente. Ciò che li univa era la condivisione di una visione della politica come azione verso un’opzione etica. Questo aspetto, il più originale di GL, fu però uno dei problemi principali di divisione al suo interno e permetterà alla polizia di infiltrarsi più facilmente oltre a rendere più difficile il lavoro dello storico di tracciare una mappa precisa del movimento in Italia. Il libro dopo aver introdotto le linee guida di GL, le modalità della sua nascita, i movimenti che la precedettero, come la Giovane Italia, inizia un percorso puntuale per descrivere i diversi gruppi che hanno agito in Italia da Milano a Torino a Roma descrivendo le loro attività approfondendo le biografie dei personaggi più importanti e facendo emergere anche le differenze sociali nella composizione dei diversi gruppi. Il tutto condito dai rapporti che sempre si avevano col gruppo degli esuli a Parigi e con le indagini della polizia. Si vengono così a delineare le diverse linee di pensiero interne a GL e le relative strategie. Infatti, risulta evidente come il gruppo di esuli a Parigi spingesse per azioni di propaganda condite però da atti violenti sul campo, mentre in generale i gruppi operanti sul territorio nazionale furono più restii alla violenza sia perché più rischiosa e poco redditizia, come dimostrarono i molteplici progetti di attentati mai portati a termine che il libro ricostruisce, sia perché, forse, si rendono conto dell’esiguità del movimento. Questa spaccatura risulta evidente dall’analisi che Giovana conduce sulle due edizioni dei «Consigli sulla Tattica» che nella prima, per opera di Rossi e Salvemini, indicavano due piani di azione: una resistenza passiva che poteva essere condotta dalla moltitudine e una attiva per pochi. L’azione quindi appariva più frutto di impegno metodico e quotidiano che di attentati. Nella seconda edizione, rivista da Parigi, si delinea una struttura più paramilitare in preparazione di un’insurrezione. Un altro elemento di diversità che appare subito evidente è la maggiore attenzione posta all’Italia da parte di chi operava sul territorio nazionale rispetto all’accento più internazionalista degli esuli. Si passa così dall’analisi del gruppo di Milano di Bauer e Rossi il più attivo nel primo periodo di GL, tramite cui si riesce a far circolare in Italia un gran numero di pubblicazioni. Per poi analizzare quello di Torino più influenzato dalle idee di Gobetti e Gramsci e quindi più vicino a posizioni socialiste e al mondo della fabbrica da cui invece il gruppo di Milano, in special modo Rossi, si erano tenuti alla larga sposando idee più liberaldemocratiche. Dopo gli arresti dell’ottobre 1930 Torino diventa il centro 292
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propulsivo del movimento in Italia con molti più giovani rispetto a Milano e con la pubblicazione «Voci d’Officina» che ben rappresenta i motivi profondi e la piattaforma su cui questi personaggi si muovevano. Centrali da questo punto di vista sono le figure di Levi, Garosci (i cui testi sono ampiamente utilizzati dall’autore per ricostruire l’intera vicenda di GL) e Ginzburg solo per citarne alcuni. Queste tendenze portarono GL ad alcune spaccature interne e a contrasti con il PCI che non gradì l’intromissione nelle fabbriche. Ciò non toglie, come nota Giovana, che tra i due esistesse una collaborazione più forte che in altre città. Questi primi gruppi furono però colpiti duramente dagli arresti effettuati grazie a diverse spie (precisissima la ricostruzione del lavoro di spionaggio condotto da Del Re che stroncò GL a Milano) che riescono ad infiltrarsi facilmente non solo grazie alla loro abilità, ma anche alla poca attenzione che i diversi affiliati prestavano alle indagini sul passato dei nuovi arrivati, alla fiducia spesso troppo precipitosa concessa a questi personaggi. La continua preparazione di attentati e l’affidarli a persone di dubbia capacità e fedeltà fu certo un punto debole di GL e di Rosselli in particolare ma, come nota l’autore, deriva dalla forte volontà di agire che accomuna tutti i membri. Il libro alterna così puntuali ricostruzioni delle idee e dei metodi dei singoli gruppi e personaggi alle vicende investigative dell’Ovra e ai successivi processi sfruttando la lettura dei rapporti dei questori, delle spie, delle sentenze e degli interrogatori. Dal 1931-32 l’Ovra stringe ancor di più i suoi tentacoli intorno all’organizzazione e non permette a GL di svilupparsi sul territorio, fu così troncato il tentativo di Chiaromonte a Roma, aumentarono le infiltrazioni in Italia ma anche a Parigi dove la spia Odin fu un uomo di fiducia di Rosselli. Così che gli arresti si susseguirono decapitando i diversi gruppi e rendendo sempre più difficile la propaganda e la diffusione di materiale. L’autore non lesina pagine sulla descrizione dei metodi dell’OVRA e sull’ampiezza delle infiltrazioni, ne scaturisce così un quadro dettagliato da cui però emergono ancora centri propulsivi di GL come Torino che solo un ennesimo giro di vite della polizia, dovuto all’avvicinarsi dell’avventura imperiale in Etiopia, decapiterà quasi definitivamente. Con la retata del maggio 1935 GL fu colpita a morte, ma Giovana pone l’accento sul fatto che la colpa non sia solo da attribuirsi all’attività investigativa della polizia ma anche alle troppe spaccature interne ormai insanabili che portarono anche all’addio di Lussu. Un punto che distanzia il 293
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libro di Giovana dalla storiografia ufficiale di GL è quello relativo alla cronologia poiché con questa serie di arresti normalmente si riteneva conclusa l’esperienza di GL, ma l’autore nota come in realtà ci siano ancora almeno tre gruppi attivi dopo il 1935 uno legato a Bertolini; un altro a Scala, che riprende contatti con vecchi collaboratori di «Voci d’Officina», e infine l’ultimo a cadere nel luglio del 1937 a Cremona. Il libro si presenta estremamente complesso e puntuale nelle sue ricostruzioni basate su fonti numerose e varie (da libri, alle riviste dell’epoca per finire con i rapporti di polizia). Riesce così a creare un quadro preciso delle vicende, della filosofia politica che ha animato sia GL sia i singoli personaggi che si incontrano nelle pagine. Ne scaturisce un’immagine complessa e variegata del mondo di GL così come un atlante di personaggi centrali della cultura italiana anche negli anni a venire.
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Giovanni Pesce, garibaldino in Spagna di Franco Giannantoni
Sono rimasti in due dei quasi 5 mila volontari che a partire dal 1936 lasciarono l’Italia o i paesi nei quali erano emigrati, spinti dalla fame e dalla dittatura fascista, per difendere la fragile repubblica spagnola aggredita dall’alzamiento dei generali traditori. Uno dei due è Giovanni Pesce, allora diciottenne. L’altro è Vincenzo Tonelli, più anziano di un paio d’anni, che vive a Tolosa, il rifugio obbligato dopo le asprezze resistenziali nella sua terra friulana. Entrambi comunisti, due dell’esercito dei 1.819 comunisti che rischiarono ogni giorno la loro vita fra Madrid e l’Ebro. Essezeta-Arterigere, una piccola casa editrice varesina, impegnata nella difesa della memoria storica, ha ristampato nel 70° anniversario della guerra civile 1936-1939, ad oltre mezzo secolo dalla prima edizione per i tipi degli Editori Riuniti (agosto 1955), l’ormai introvabile Un garibaldino in Spagna riproponendo tale e quale il racconto che Pesce fece di quella epica pagina di sacrifici e di lotta. In tempi come questi di revisionismo incalzante è stata opera meritoria e saggia. Il libro trabocca, datato qual’è, di passione e di speranza. Non poteva essere altrimenti. Del resto quella era la stagione attraversata da alti ideali e dalla voglia di cambiare il mondo. Contiene pagine di una disarmante ingenuità politica eppure avvince ancora per la sua freschezza, testimoniando la ragione per cui uomini e donne di diverso censo, cultura, fede politica e religiosa accorsero agli appelli lanciati da ogni parte del mondo per battersi contro quel mostro reazionario che di lì a poco avrebbe assalito l’Europa trasformando la Spagna, come ebbe a commentare il filosofo liberale Miguel de Unamuno, «in uno stupido regime di terrore». Giovanni Pesce ha la Spagna nel cuore, è la sua patria di riferimento. Questo malgrado sia vissuto dalla prima infanzia in Francia, alla Grand’ Combe, un borgo delle Cevennes minerarie, con il padre piemontese, socialista, minatore, la madre veneta, cattolica, casalinga, avvicinati dal desti295
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no della prima guerra mondiale, un pezzetto se si vuole di Italia post-giolittiana che la miseria e la persecuzione politica avevano spinto al di là delle Alpi, quell’Italia che Giovanni Pesce avrebbe conosciuto solo nella matura giovinezza attraversando da «eroe nazionale» e da medaglia d’oro al valor militare la stagione della Resistenza alla testa dei Gap (i Gruppi d’azione patriottica) a Torino e Milano. Ma la Spagna per Pesce viene per prima, in quella storia avverte ancora malgrado gli anni trascorsi solidarietà e fratellanza. Lì conosce coi propri occhi «quel fiume di gente che arrivava da ogni angolo della terra dopo aver abbandonato casa, lavoro, famiglia per affrontare a viso aperto ogni giorno la morte». Lì conosce paradossalmente il suo Paese, nelle pause di guerra studia la lingua madre, il Risorgimento, il fascismo. Suoi maestri sono gli antifascisti italiani, gente umile che come lui hanno contribuito «a fare l’Italia». La testimonianza incalzante delle sue gesta, poco più che un ragazzo, mantiene, malgrado gli anni trascorsi, una forte dignità: afferma come per la libertà si possa mettere in gioco la propria esistenza, senza condizioni, in circostanze estreme come furono quelle, in un Paese e per un Paese straniero. Uomo d’azione e non di pensiero, un livello di istruzione modesto, con candore disarmante ripercorre una per una le tappe della sua militanza con lo stesso entusiasmo e la stessa nettezza morale che gli fecero prendere la decisione di lasciare la Francia dove era giunto a 6 anni nel 1924, dove a 14 anni per la prima volta era sceso, ribattezzato Jeanu, «apprendista minatore» nelle viscere della terra con tanto di tessera della Jeunesse Communiste e dove maturò il seme della coscienza di classe, la certezza che la sola strada fosse quella di unirsi a chi si stava misurando con un ostacolo al di là del quale c’erano giustizia e libertà. «Capii in quel momento - scrive infatti Pesce - che non era sufficiente quello che noi minatori stavamo facendo: raccogliere denaro, medicinali, indumenti, coperte per i repubblicani spagnoli. Era necessario impugnare le armi, combattere. Non era più il tempo di indugiare». Con parole semplici Pesce descrive le tappe della sua scelta interventista, un cammino irto di ostacoli, segnato dall’incertezza dell’età, dalle pene della famiglia alla prese con un magro bilancio finanziario, dalle pressioni sui responsabili della Bourse du Travail per fare accettare la sua adesione al «grande viaggio» al di là dei Pirenei. È uno degli squarci più commuoventi del libro. La figura dominante nel microcosmo de la Grand’Combe perennemente avvolta nei fumi neri della miniera è Paul Artigues, segretario della locale sezione comunista. Il Fronte popolare aveva 296
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vinto in quei giorni le elezioni politiche. Spirava in Francia un’aria di rivoluzione. «Artigues - scrive Pesce - faceva appello a tutti i democratici perché si sviluppasse un’opera di solidarietà e metteva in luce come solo l’Urss non avesse abbandonato il popolo spagnolo nella lotta. Inoltre denunciava la politica francese di Léon Blum che metteva sullo stesso piano le vittime dell’aggressione ed i ribelli». Era l’ottobre del 1936. In Spagna la lotta era già iniziata da oltre due mesi, a luglio le vittime su entrambi i fronti nella cinta di Madrid si contavano già oltre le 100 mila. Il giovane Pesce va a Parigi, raccoglie dall’oratoria travolgente di Dolores Ibarruri «la Pasionaria» l’invito di arruolarsi nelle brigate Internazionali, ascolta i comizi di Thorez, Duclos, Cachin, i padri del comunismo francese, riflette sugli appelli di Nenni, Pacciardi, Amendola, Carlo e Nello Rosselli riuniti nel Comitato unitario antifascista italiano perché fosse costituito un battaglione di volontari nel nome di Garibaldi. A Barcellona erano già presenti il comunista Nino Nannetti, l’anarchico Camillo Berberi, il repubblicano Mario Angeloni, Francesco Leone, un altro comunista che aveva costituito la seconda colonna Gastone Sozzi. «Des canons et des avions pour l’Espagne» è la parola d’ordine che corre per ogni città. Quando Pesce torna alla Grand’Combe la decisione di partire per la Spagna è matura, contrabbandata alla madre (il padre Riccardo si era trasferito in Marocco per cercare di migliorare il salario) come una scappatella d’amore. È il 17 novembre 1936. Il viaggio da Alés a Perpignano è in treno in compagnia di Carlo Pegolo, un altro giovane minatore italiano. Alla frontiera Pesce manifestamente «troppo un ragazzo» viene respinto dalle guardie spagnole. L’impresa riesce ad un secondo tentativo, il volto alterato da una manciata di carbone e i documenti falsificati. Poi il trasferimento a Figueras, l’incontro con Luigi Longo, Leo Valiani, Giuseppe Di Vittorio e il coordinatore delle brigate internazionali Andrè Marty, quindi, tra il tripudio della popolazione, l’arrivo ad Albacete, sede dell’addestramento militare e della preparazione politica di Antonio Roasio e di Felice Platone e luogo di nascita del battaglione Garibaldi. Pesce che non ha avuto in vita sua in mano un’arma comincia a sparare, a marciare, a scavalcare gli ostacoli, a scavare trincee, a leggere le carte topografiche. L’imberbe giovanotto diventa un soldato. È a contatto con altri italiani, operai in prevalenza, ma anche insegnanti, medici, avvocati, commercianti, artigiani, studenti, vecchi militanti usciti dalle carceri fasciste o reduci dal confino. L’ora del fronte batte alle porte. Il libro non nasconde niente. Pesce 297
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ha un ricordo incancellabile di quella prima parentesi di guerra, è la «cifra» indicativa di quell’esperienza, uno dei più barbari massacri della storia moderna e, nello stesso tempo, anche qualcosa di mitico fissato nella memoria dei democratici di tutto il mondo, «l’illusione lirica» per Malraux, «la guerra dei prati» per Bertoldt Brecht, «la romantica morte» nei versi di Wystan Hugh Auden. È la tragedia che scuote il giovane Pesce, quella vissuta da Pietro Jacchia, 52 anni, cattedra universitaria a Trieste, fondatore del partito fascista della sua città, sansepolcrista che, deluso dalla politica del duce, va in Spagna, fa parte della Colonna italiana, entra nel battaglione Garibaldi, corre in prima linea, combatte e cade a Majadahonda. Una meteora, un esempio illuminante della metamorfosi di un intellettuale attraverso il regime sino al sacrificio finale. Sono trascorsi quattro mesi da quando Radio Ceuta l’emittente dei nazionalisti ha lanciato il messaggio fatale «Cielo sereno su tutta la Spagna» che Giovanni Pesce debutta in battaglia, vestito come era il giorno della partenza dalla Francia senza neppure il fucile, in attesa di poterlo ottenere da un compagno che fosse caduto. Avvenne così a Boadilla del Monte il 17 dicembre. Uno scontro imponente per contenere l’accerchiamento di Madrid da parte delle truppe di Franco che aveva preferito evitare lo scontro frontale. Così per Pesce giorno dopo giorno, a Casa del Campo, alla Ciudad Universitaria, a Cerro de los Angeles, a Mirabueno, a Pozuelo de Alarcon. Battaglie dopo battaglie al grido di «no pasaran», i corpi dei compagni sul terreno abbandonati, molti morenti ma anche la scoperta di un concetto ancora sfumato, quello di «patria». «Seppi nel modo più vero che ero un italiano - racconta Pesce - perché se in Spagna si combatteva per la libertà di quel Paese questo valeva anche per l’Italia. Oggi in Spagna, domani in Italia, era stato l’appello di Carlo Rosselli». L’11 febbraio il fronte cambiò. L’attacco a Madrid avrebbe potuto venire dalle dolci insenature del fiume Jarama per potere serrare la città in una morsa a tenaglia. Pesce è alla mitraglia come è ritratto in una rarissima foto, l’ultimo a destra di una fila di cinque. Ha accanto Domenico Tomat, un friulano, capo partigiano, qualche anno dopo, della Resistenza italiana come sarà per molti che hanno combattuto in Spagna. Pesce e Tomat spazzano con il loro fuoco dal centro della strada i mori del Tiercio, le truppe scelte d’Oltremare di Francisco Franco. Il racconto ha cadenze romanzesche: «Il nemico martella le nostre posizioni, ci mitraglia, ci bombarda dall’alto. Tutta attorno la terra trema sotto l’urto delle esplosioni, la cavalle298
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ria che viene all’assalto tenta con una manovra avvolgente di prenderci alle spalle, spostiamo le mitraglie verso il nemico, non c’è tempo di calcolare le distanze, si preme il grilletto e molti cavalli stramazzano calciando ancora nell’aria». Venne nel marzo del 1937 il tempo di Guadalajara, il momento più alto dell’antifascismo italiano, per la prima volta italiani contro italiani, antifascisti e uomini di Mussolini. Pesce c’era. L’obiettivo franchista era sempre Madrid prima ripetutamente mancato. I fascisti, 35 mila uomini delle divisioni Littorio, Dio lo vuole, Penne Nere e Fiamme Nere erano al comando del generale Mario Roatta, il futuro macellaio dei Balcani e il mancato difensore di Roma l’8 settembre. Nella piana battuta dal vento e investita da una pioggia gelida, Ilio Barontini, che a Torino sarà istruttore militare dei Gap di Pesce, guidava la Garibaldi. Scrive Pesce: «Barontini suggerisce, consiglia, porta ovunque la sua preziosa esperienza. Si rende perfettamente conto che l’esercito fascista ha una grande superiorità in uomini e in armi. La disposizione del battaglione e la scelta della linea di difesa sono quindi di capitale importanza». Sarà questa la tattica giusta che, unita all’attività di propaganda di Teresa Noce, Giuliano Pajetta, Vittorio Vidali, Giacomo Calandrone, attraverso i megafoni di Altavox del Frente per invitare i soldati fascisti alla resa, darà buoni risultati. «Per dieci giorni dall’8 marzo combattemmo nell’acqua e nel fango - è il ricordo di Pesce - eppure quella battaglia ebbe un effetto estremamente positivo. Fu come un ricostituente politico. La vittoria di Guadalajara permise ai gruppi antifascisti clandestini che erano in Italia di ritrovare lo slancio ideale per organizzarsi nel partito comunista». La prima ferita Giovanni Pesce la subisce a Brunete conquistata nel luglio del 1937 e poi perduta. Una pallottola trapassante alla gamba sinistra, il trasferimento all’ospedale, la rapida guarigione, il rientro nella neo-costituita brigata Garibaldi a Buccaraloz. Pesce funge da diligente notaio, registra nel libro e commenta i fatti di cui è testimone, evitando di affrontare le grandi questioni che accompagnano il conflitto e che forse ignora, le decisioni prese dai governi europei, l’ammassarsi dei quadri polizieschi inviati da Stalin, le mattanze contro gli anarchici, il rifiuto di Francia e Inghilterra di offrire un aiuto, le esecuzioni sommarie dei «controrivoluzionari» e dei «nemici del popolo». La seconda ferita, la più grave, è rimediata a Farlete sul fronte di Saragozza. È l’agosto del 1937. Pesce è raggiunto da una rosa di schegge alla 299
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schiena che ancora oggi lo affligge e le cui tracce sulle carni mostrerà sul finire degli anni novanta all’esterrefatto console generale di Spagna a Milano che pretendeva da lui un segno di partecipazione concreta a quella guerra civile per potergli attribuire la cittadinanza onoraria. Dopo il ricovero negli ospedaletti da campo di Lerida e di Benicassim, il rientro in trincea. Ancora battaglie, compagni caduti, prigionieri, scomparsi. Lunghi mesi mentre le sorti della guerra volgevano al peggio. L’interminabile sanguinosa campagna dell’Ebro dal luglio al settembre del 1938 fu l’anticamera della fine e per Pesce l’appuntamento con la terza ferita. «Quando abbiamo attraversato l’Ebro - racconta - le colline non erano brune di erba forte, i mandorli non recavano i frutti duri da raccogliere, gli ulivi non erano grandi: si combatteva da più di quaranta giorni e la guerra aveva cambiato tutto, i proiettili dei cannoni e le bombe degli aerei avevano sconvolto le colline, mozzati gli alberi, bruciato i prati. Solo il fiume restava immutato, l’acqua scorreva ancora lenta verso il sud». L’uscita di scena delle brigate internazionali per decisione del governo repubblicano e la retirada verso l’esilio francese dopo la orgogliosa sfilata repubblicana del 28 ottobre 1938 lungo la Diagonal di Barcellona dei combattenti e di migliaia di civili, costituirono l’ultimo atto. Fu, malgrado il peso della ferita morale, un commiato festoso, la folla gettò fiori sulla sfilata di quegli uomini laceri ma orgogliosi. Parlarono Luigi Longo, il segretario del partito comunista spagnolo Josè Diaz, la Ibarruri. Le parole della donna-simbolo della guerra civile restano incancellabili: «Ragioni politiche, ragioni di Stato, l’interesse di quella stessa causa per la quale avete generosamente offerto il vostro sangue, vi costringono a tornare, alcuni in patria, altri in un esilio forzato. Potete partire a testa alta. Voi siete la storia, la leggenda, siete l’esempio eroico della solidarietà e dell’universalità della democrazia». Barcellona, terminate le celebrazioni, fu bombardata giorno e notte dall’aviazione nazifascista. Cadde il 26 gennaio 1939. Giovanni Pesce, rientrato alla Grand’Combe, evitando i campi di concentramento del Vernet in virtù della cittadinanza francese, riprese il suo lavoro di minatore. Il 10 marzo 1940, con la Francia occupata dai tedeschi, memore di un vecchio suggerimento di Edoardo D’Onofrio, dirigente dell’Ufficio quadri della delegazione delle brigate internazionali, partì per l’Italia che non aveva mai visto se non con gli occhi di un bimbo sedici anni prima. Avrebbe potuto fare opera di proselitismo, diffondere il verbo comunista fra i giovani commilitoni di leva. Fu invece arrestato, condannato, spedito a Ventotene dove 300
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ebbe il privilegio, primo fra tutti, di raccontare all’universo concentrazionario antifascista l’avventura di Spagna. Aveva 22 anni. Il confino terminò il 23 agosto 1943 appena in tempo per non cadere preda dei tedeschi. Ma la libertà durò pochissimo. Giunto a Visone, il paese natale, nei pressi di Acqui Terme, ci fu l’armistizio. Giovanni Pesce, venticinquenne, dovette riprendere le armi per conquistare, questa volta all’Italia, la libertà.
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MIRELLA SERRI, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 19381948, Corbaccio, Milano 2005, pp. 371 Si può parlare del libro di Mirella Serri come di un vero caso editoriale per la quantità di apprezzamenti e critiche raccolti. La ragione di questo interesse del mondo intellettuale contemporaneo, della critica e del pubblico verso l’opera della Serri è da ricercarsi prima di tutto nella particolarità dell’argomento trattato: prendendo in analisi circa un decennio della vita del nostro Paese, ovvero gli anni tra il 1939 e il 1947, con dovizia di particolari e citazioni Mirella Serri narra le contrastate biografie e la vicenda politica dei numerosi intellettuali, scrittori, registi ed artisti che in questo drammatico e luttuoso periodo della storia italiana passarono da posizioni risolutamente fasciste a una convinta militanza antifascista spesso conclusasi con l’inserimento nelle file del Partito comunista. Complici gli eventi bellici e il crol-
lo del Regime, infatti, ben presto il velo dell’oblio venne steso sulle vicende di personaggi come Giulio Carlo Argan, Carlo Muscetta, Renato Guttuso, Carlo Morandi, Giaime Pintor, Paolo Sylos Labini, Roberto Rossellini, ovvero gli esponenti di altissimo rilievo di quella che era stata (o sarebbe dovuta essere) l’élite cui Mussolini voleva affidare la guida intellettuale del fascismo. Mirella Serri, pur non essendo la prima a trattare puntigliosamente gli argomenti in questione, ha avuto l’onore e l’onere di riportare nuova luce su questa pagina della storia d’Italia. Inevitabile quindi che i contenuti del lavoro sollevassero strali o assensi da parte di coloro che, in campi contrapposti, ritengono che la giornalista abbia attuato una mistificazione del passato storico oppure abbia avuto il merito di portare in superficie la verità dei fatti. Più che entrare nel dettaglio della struttura e delle citazioni del libro, è particolarmente interessan303
Le schede
te, ai fini dell’analisi bibliografica, osservare l’evoluzione del dibattito sul volume. Il primo contributo in tal senso risale all’inizio di settembre 2005, pochissimo tempo dopo la pubblicazione del libro, quando Aurelio Lepre, nell’intervento sul «Corriere della Sera» che ha dato il via allo scambio di opinioni tra importanti intellettuali contemporanei, interpretando i fatti citati da Mirella Serri ha rilevato che la vicenda dei «redenti» è stata originata dal naturale bisogno di oblio dopo la catastrofe della guerra, un oblio, come ha osservato il docente napoletano, durato tuttavia troppo a lungo. Due giorni dopo, il 15 settembre, e sempre dalle pagine del quotidiano di via Solferino, Luciano Canfora ha invece rilevato come il passaggio nel campo avverso fu agevolato dall’atteggiamento dello stesso Togliatti, conscio di quanto fosse importante il più ampio consenso degli intellettuali per la costruzione di un’egemonia del Pci. Ma per dimostrare ancor più la tesi secondo la quale non è possibile, a nostro parere, delineare un profilo univoco sui contenuti dell’opera di Mirella Serri, ci paiono degne di citazione anche le opinioni espresse da Giovanni Belardelli e Duccio Trombadori. Il primo dei due, nel commentare il volume di Mirella Serri ha chia304
mato in causa il caso emblematico dello storico e filosofo Delio Cantimori, il quale considerava fascismo e comunismo come salutari espressioni delle forze nuove che si contrapponevano al decadimento borghese. Del secondo, invece, dalle colonne de «Il Giornale», è uscito un articolo sul libro in questione così titolato: Le inquietudini di Primato e i pregiudizi di Mirella Serri, nel quale spiega come la rivista di Bottai non fu «una corazzata della cultura fascista», ma l’espressione degli intellettuali allora più vivaci. Un dibattito, questo, nel quale si è poi inserito anche il contributo di Pierluigi Battista e di altri e che diventa ancor più rilevante se si considera che non tutti gli intellettuali dei quali si occupa la Serri uscivano dall’esperienza della rivista «Il Primato». Altri avevano collaborato con altre riviste, all’epoca dei fatti di importanza non secondaria, come «Roma fascista», «Nuovo Occidente» e «Gioventù Italica». In conclusione ci preme dunque dire che la lettura del volume di Mirella Serri è stimolante per chi oggi voglia avvicinarsi allo studio delle vicende umane e politiche di questo periodo della storia italiana del Novecento, anche se dobbiamo constatare tuttavia che, pur essendo passato un cinquantennio dagli eventi in questione, si è ancora lon-
Le schede
tani dall’avere unanimità di vedute nella «classificazione» dei tanti che alternativamente vengono definiti «dissimulatori onesti», cioè intellettuali antifascisti che svolgevano la loro professione in riviste fasciste
senza abiurare la propria fede politica, oppure semplici «voltagabbana» mossi dall’opportunità politica, oppure ancora «intellettuali che vissero due volte», come nel libro in questione (Matteo Vecchia).
FRANCESCO CASSATA, Molti sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 385
tata che interessa anche i paesi «latini» di religione cattolica, assumendo caratteristiche significativamente differenti. La qualifica dell’eugenica come «pseudo-scienza» prima, come scienza essenzialmente reazionaria di matrice razzista poi, non esaurisce la complessità di un dibattito che ha coinvolto parecchie generazioni di scienziati e di politici e si è diffuso in tutto l’Occidente, lasciando aperto il campo anche a declinazioni di sinistra: da alcuni gruppi femministi ai socialdemocratici tedeschi e svedesi, dai riformisti britannici ai comunisti francesi. La storiografia internazionale ha elaborato parecchie riflessioni al riguardo mentre in Italia, nonostante il fascismo e la chiesa cattolica avessero contribuito notevolmente alla creazione di un forte dibattito in materia, sostanzialmente fino a qualche anno fa mancavano quasi completamente studi specifici sulla questione. Francesco Cassata imposta la sua ricerca in modo comparativo, inserendo l’Italia nel contesto internazionale. Lo storico
Al 1883 risale il termine eugenics, coniato da Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Con questo termine si connotava «la scienza del miglioramento del materiale umano» attraverso «lo studio degli agenti socialmente controllabili che possono migliorare o deteriorare le qualità razziali delle generazioni future, sia fisicamente che mentalmente». Il termine, tradotto correttamente in italiano in eugenica, rispondeva sia alle esigenze biopolitiche del capitalismo in trasformazione, sia alla vocazione alla gestione tecnocratica della popolazione, figlia dell’idea progressista della storia e del selezionismo darwinista. Diffusasi prima nell’area anglo-sassone e successivamente in quella tedesco-scandinava, l’idea del miglioramento della popolazione basato sulla regolamentazione del processo riproduttivo, si concretizza in un movimento scientifico di vasta por-
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individua così le diverse posizioni presenti nel dibattito italiano, non solo quelle incentrate sull’incremento della popolazione e sul miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, che caratterizzarono solo una parte dell’eugenica italiana fascista e cattolica, ma anche quelle che si proponevano di effettuare veri e propri interventi di programmazione e di organizzazione razionale delle risorse biologiche della nazione, segnati spesso da pregiudizi di classe e di razza, basati talvolta su metodi coercitivi. Un’ampia parte dello studio, ad esempio, analizza la querelle sul certificato prematrimoniale che, con alterne vicende, segna il dibattito dalle origini fino a tempi relativamente recenti. Le proposte non rimasero solo nel campo teorico ma trovarono applicazione pratica in numerosi interventi legislativi come quelli che caratterizzarono il periodo fascista, fortemente influenzati da posizioni razziste non ultima quella antiebraica. La periodizzazione adottata è racchiusa tra il 1912, data del I Congresso Internazionale di Eugenia, fino agli anni settanta del Novecento – momento del passaggio definitivo alle argomentazioni da cui nascerà la moderna bioetica – passando attraverso il secondo dopoguerra, quando Luigi Gedda, uno dei fondatori dell’Azione Cattolica, si pose a capofila degli 306
studiosi più conservatori – proponendo addirittura una schedatura degli atleti alle Olimpiadi di Roma nel 1960 – e costruì uno schieramento di opposizione agli scienziati che, liberandosi delle vischiosità razziste e classiste della disciplina, aprirono alla genetica moderna su ben più solide basi scientifiche. Cassata si occupa, con il suo libro, di ricostruire la genealogia di quel dibattito e, analizzando con grande cura una mole gigantesca di documenti originali, di contributi storiografici, di articoli apparsi su riviste scientifiche prodotti dalla fine dell’Ottocento ad anni recenti in tutto il mondo, contribuisce a colmare quel vuoto che impedisce di affrontare serenamente, e soprattutto consapevolmente, qualsiasi riflessione collettiva sulla scienza, sul suo ruolo, sulle implicazioni etiche, politiche e culturali. La quasi totale assenza di qualsiasi conoscenza in materia che ha accompagnato il recente dibattito sulla procreazione assistita e le polemiche che appaiono ogniqualvolta si affrontino questioni di bioetica, testimoniano della sostanziale ignoranza dell’abbondante letteratura internazionale sui temi dell’eugenica, insieme ad una conoscenza altrettanto scarsa delle sue vicende in Italia. Dare un contributo in direzione di una maggiore consapevolezza che possa guidare
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anche le scelte della politica, afferma l’autore, è una delle ragioni
che giustificano la ricerca (Sabrina Michelotti).
CESARE BERMANI, Storie ritrovate, Odradek, Roma 2006, pp. 292
durata, ma ne traccia quell’unicità che sarebbe parzialmente inespressa utilizzando solo i documenti d’archivio. Le testimonianze di coloro che hanno assistito ai fatti, o ne hanno raccolto la memoria, possono smentire o integrare il racconto ufficiale ma soprattutto possono produrre il senso stesso delle storie raccontate, sia inserendole da subito in uno spazio politico, sia facendosi azione politica esse stesse. Le otto vicende hanno tutte un valore per la ricostruzione della storia di Novara che supera i confini provinciali, assumendo un peso almeno nazionale. Teresa Strigini, l’indemoniata di Briga Novarese, è la protagonista della prima storia. Di questo caso se ne conservavano tracce nella memoria popolare almeno fino a due generazioni fa. Dietro ad un episodio di possessione diabolica, Bermani individua almeno due questioni: una storia personale di una donna di provincia, costretta a fingersi indemoniata per sfuggire ad uno scandalo di natura sessuale; una storia politica che, nata grazie a padre Bresciani e successivamente diffusa a livello popolare, indivi-
Con la consueta competenza nel maneggiare le fonti orali, Cesare Bermani ci racconta otto vicende avvenute nel Novarese, tra la prima metà dell’Ottocento e gli anni sessanta e settanta del secolo scorso. I due cardini fondamentali del libro, costituiti dal lavoro sulle fonti orali e dall’attenzione per la storia locale, evidenziano un preciso intento politico che l’autore ribadisce fin dalla sua introduzione: porre come soggetto le classi popolari, non perdere il filo che collega la ricerca storica ai problemi politici e sociali del territorio in cui lo storico è inserito e con cui è chiamato a misurarsi, narrare dell’unicità di alcuni personaggi e delle loro vicende inserendoli prescindendo da una dimensione puramente localistica per ricostruirne una molto più allargata. Il materiale orale, accumulato a partire dalla metà degli anni sessanta, integra, talvolta cambiando di segno, le fonti archivistiche, giornalistiche, istituzionali. La narrazione orale restituisce a quelle storie non solo la dimensione della
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duava negli intellettuali risorgimentali l’incarnazione del demonio. La leggenda creata dal gesuita, uno dei portavoce della reazione seguita agli avvenimenti del 1848/1849, mirava infatti a contrastare l’intero laicismo risorgimentale, costruendo una perfetta equivalenza fra demonolatria e mazziniani. Non a caso il demone padrone della Strigini si chiamava Gioberti. La vicenda, a lungo rimossa, viene ricostruita in modo particolareggiato fino al termine, quando il parroco del paese, attraverso la sua azione politico-religiosa, utilizzò i fatti avvenuti attorno alla Strigini per trattenere la popolazione dall’appoggiare le nuove istanze risorgimentali, laiche, che emergevano sul territorio novarese e sullo sfondo nazionale. Il saggio sul «Biondin» - un personaggio molto popolare nel Novarese, raccontato dai contadini come una sorta di vagabondo, ladro ma benefattore dei poveri, precursore del movimento socialista - mostra la cancellazione nella memoria collettiva di una dura repressione fatta ai danni del vagabondaggio locale ma anche l’ambiguità dei partiti della sinistra nei confronti di tali personaggi e tali vicende. Tale ambiguità venne a costituirsi quando, per le formazioni politiche di estrazione socialista e rivoluzionaria, fu necessario creare un racconto sulle 308
proprie origini che affondasse le radici nella legalità e li legittimasse a tutti i livelli, soprattutto istituzionali, come forze «affidabili» e legittime da ogni punto di vista. Inoltre il racconto su un caminant o uno che era della leggiera, cioè apparteneva al mondo dei marginali, uno di quelli cioè che con il rifiuto del lavoro salariato e dei suoi obblighi esprimeva una volontà di resistenza e opposizione all’etica e alla disciplina della società capitalistica, non poteva essere accettato facilmente da coloro che fondavano la propria azione politica su altre pratiche. La drammatica vicenda di Giuseppe Rimola, fucilato durante le repressioni staliniane degli anni trenta, fu ripresa dall’autore già negli anni sessanta, quando sembrava che il dirigente del Pci non fosse mai esistito nonostante emergesse dalle ricerche come uno dei comunisti più battaglieri della provincia. Anche Bermani tuttavia ha atteso lunghi anni prima di venire a conoscenza delle circostanze che portarono alla morte di Rimola e solo dopo l’apertura degli archivi sovietici ha potuto ricostruirne la vicenda, inserendola nelle complesse dinamiche dei rapporti tra il partito di Togliatti (nemmeno lui a conoscenza dei fatti riguardanti il comunista novarese) e l’URSS di Stalin. Il caso di Aldo Pomati apre il di-
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scorso sulle tecniche di provocazione utilizzate dalla Guardia nazionale repubblicana e sulla giustizia partigiana. Grazie a nuovi documenti e ai memoriali a disposizione si ripercorrono le vicende di questo partigiano divenuto collaboratore dell’Ufficio politico investigativo della Gnr, facendo ordine in una vicenda che per lungo tempo ha creato molti imbarazzi. Un altro episodio che l’autore riporta alla luce è quello del Circolo Rosa Luxemburg di Novara, attivo nel 1969. In questo caso Bermani fu anche uno dei protagonisti e memoria individuale, documenti, testimonianze orali si intrecciano per ricostruire due importanti avvenimenti segnati dall’azione politica del circolo. Infatti furono l’ospedale psichiatrico e l’orfanotrofio della città ad essere profondamente intaccati, nella loro struttura di istituzioni totali, dalle istanze democratiche, e dalle lotte che ne conseguirono, dei militanti del Rosa Luxemburg. Eppure le vicende, nonostante i risultati raggiunti, tendono ad essere dimenticate sia dal «perbenismo cittadino», sia da qualsivoglia partito o gruppo. La causa di ciò, dice lo storico, sta nella provenienza politica dei militanti che, appartenendo a diversi gruppi, non ha offerto a nessuno di questi
la possibilità di un racconto egemonico su quei fatti, così come l’assenza da quegli avvenimenti dei grandi leader dei movimenti non ha permesso nessuna celebrazione o rielaborazione successiva. Questi e gli altri saggi presenti nel volume sono la traccia di come alcuni strumenti storiografici, che dagli anni sessanta in poi si sono notevolmente affinati, possano indagare su questioni locali che, se inserite in un’ottica di lunga durata, rimandano a scenari molto più ampi. Oggi che la storia locale si preoccupa di conoscere le periferie del mondo, spesso messe in crisi da modelli culturali globali e in cui permangono i conflitti tra il centro e la periferia, la conoscenza delle diversità può avere ancora un risvolto politico di notevole importanza. Evitando la chiusura nelle identità locali, con il relativo armamentario di razzismi, intolleranze e immaginari scontri di civiltà, e assumendo uno sguardo che colga le relazioni e gli intrecci tra episodi di provincia e personaggi o avvenimenti anche lontani, si possono ancora afferrare le ragioni dello scatenarsi dei nuovi fermenti di opposizione che emergono a livello mondiale, magari innescati da un evento qualsiasi avvenuto in una qualsiasi banlieue del pianeta (Sabrina Michelotti).
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GIULIANA, MARIA, GABRIELLA CARDOSI, La giustizia negata. Carla Pirani, nostra madre, vittima delle leggi razziali, Edizioni Arterigere-Essezeta, Varese 2005, pp. 151 «Se durante la persecuzione razziale noi avevamo confidato nello Stato, illudendoci che le leggi in vigore ci proteggessero e tale errore aveva causato la nostra tragedia, ora, di nuovo sentivamo venir meno in noi la fiducia nelle nascenti istituzioni repubblicane»: seppur a grandi tratti, è forse questa la citazione migliore per introdurre il volume. Con un rigore storico e documentario, e con una intensa chiarezza espressiva, le tre sorelle raccontano la tragica vicenda della madre, insegnante di religione ebraica arrestata nel maggio 1944 dalla polizia della Repubblica Sociale a Gallarate, immediatamente incarcerata, poi trasferita al campo di Fossoli, ed infine deportata ad Auschwitz, luogo dal quale non fece più ritorno. Carla Pirani era una «ebrea-mista», coniugata con un ariano e avrebbe solo dovuto essere sottoposta alla «speciale vigilanza degli organi di polizia», non arrestata, né tantomeno deportata. Il volume racconta invece minuziosamente la vicenda del fermo a Gallarate e il successivo incarceramento della donna: prima l’arresto, poi il tentativo del 310
marito di Carla di ottenerne il rilascio e infine il progressivo affievolirsi di ogni speranza in parallelo agli ordini provenienti dal comando SS di Milano, applicati con rigore dalle forze di polizia della Repubblica Sociale. Scrivono a tal proposito le figlie: «seguendo lo svolgersi delle procedure di arresto che condussero all’arresto di nostra madre e che abbiamo potuto ricostruire utilizzando documentazioni d’archivio, sono emerse in modo inequivocabile le responsabilità, per eccesso di zelo, delle autorità fasciste repubblicane della provincia di Varese». Questo è infatti uno dei principali motivi per i quali la lettura del libro, pur trattando di un caso singolo, è di importanza non secondaria per la ricostruzione storica e storiografica delle vicende del periodo. Lo storico Claudio Pavone, nella Lettera che fa da introduzione al volume, indica nella connivenza delle autorità italiane la prima delle «constatazioni fondamentali» cui il testo ci porta. Le altre due sono «il modo grottesco con cui vennero condotti molti processi contro i responsabili» nel dopoguerra e «la sorda opacità delle autorità della Repubblica italiana nel risarcimento dei perseguitati, che alla fine viene quasi con fastidio negato a chi pur mostra una persistente fiducia
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nello Stato». Come raccontano con dovizia documentaristica le sorelle Cardosi, personaggi come Mario Bassi, capo della Provincia di Varese e Luigi Duca, questore di Varese, i cui nomi si rincorrono nelle pagine del libro, non furono nemmeno processati. Successivamente, non riconoscendo lo Stato italiano la piena responsabilità della Repubblica sociale italiana nelle deportazioni e nella morte degli ebrei, non riconobbe alla famiglia alcun benefi-
cio economico. Tuttavia, nel ricordo delle vicende della madre, le autrici hanno voluto tributare onori postumi alla figura di Andrea Schivo, la guardia carceraria in servizio a San Vittore che, per aver aiutato ebrei (tra cui la stessa Carla Pirani) a ricevere comunicazioni e beni di prima necessità dalle rispettive famiglie, venne anch’egli arrestato e poi deportato nel settembre 1944 al campo di Flossenburg, dove morì per le percosse e i maltrattamenti ricevuti (Matteo Vecchia).
NICOLA LABANCA, Una guerra per l’impero (Memorie della campagna d’Etiopia 1935-36), Bologna, il Mulino, 2005, pp. 479
gonisti, sulle ripercussioni internazionali dell’operato fascista, sui significati più profondi di quella che fu l’unica guerra vinta da Mussolini: una guerra esaltata come portatrice dell’impero, ma di un impero destinato a scomparire nel volgere di pochi anni sotto i colpi dei successivi avvenimenti di portata mondiale. Insieme alla pubblicistica minore, l’autore ha fatto largo uso anche di opere molto più note. Labanca ha cercato di uscire dai canoni soliti per produrre un lavoro che è anche un invito a meditare. Di solito torna di moda la guerra italo-etiopica quando riesplodono le polemiche per l’uso dei gas da parte di Badoglio o per l’annosa questione della stele di Axum. Il conflitto del 1935-36, ma si po-
Esperto di storia del colonialismo italiano e già autore di numerosi volumi sull’argomento, Nicola Labanca (che insegna Storia contemporanea e Storia dell’espansione europea all’Università di Siena), ha ripercorso in questo suo nuovo lavoro la storia del conflitto italoetiopico facendo leva sulle numerose testimonianze di coloro che vi parteciparono. Ne è nato un libro piuttosto diverso dai soliti, un libro che si sofferma sugli elementi caratterizzanti del conflitto, sulle persone più che sui fatti, sulle reazioni e i comportamenti dei prota-
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trebbe dire anche e meglio il conflitto che insanguinò l’Etiopia fino al 1941 allorchè le truppe britanniche occuparono l’allora impero negussita (mai totalmente occupato dall’Italia, piuttosto attraversato da una sempre più forte e penetrante guerriglia antitaliana), fu ben altro. Soprattutto deve esser chiaro che fu una guerra voluta con forza dal fascismo, una guerra di propaganda, una guerra in cui non si lesinarono uomini e mezzi, una guerra di regime con inevitabili, gravi ripercussioni in campo internazionale. Come altre crisi «minori» (ma si intenda l’aggettivo virgolettato con molta cautela) tra i due conflitti mondiali, la guerra italo-etiopica determinò mutamenti di rotta e brutti compromessi nell’agone politico internazionale, ma soprattutto accompagnò l’Europa e il mondo verso la guerra mondiale. Attraverso le testimonianze (che, peraltro, confermano l’esistenza di molte fonti a cui attingere) Labanca ripercorre la storia della guerra, non tanto la storia militare oggi nota per i molti studi che si possono vantare (si pensi ai documentati volumi che, in questi anni, Angelo Del Boca ha dedicato all’argomento), quanto piuttosto la storia degli atteggiamenti, dei comportamenti, dei sentimenti, delle reazioni, delle convinzioni e delle ripercussio312
ni che, ai vari livelli, quella guerra vittoriosa e dispendiosa determinò in un’Italia che allora inneggiava al fascismo. In quell’Italia, appunto, che assorbiva acriticamente la propaganda della guerra e progettava un suo futuro nel neonato impero alla ricerca di migliori condizioni di vita per una parte della sua popolazione, l’immaginario collettivo del tempo trovò motivazioni di esaltazione che solo il tempo avrebbe rivelato come fallaci. Strana storia, quella della guerra d’Etiopia! Esaltato agone per gerarchi e uomini di regime in passerella, passaggio quasi obbligato per restare a lavorare in colonia, nuova frontiera per alcune migliaia di italiani (molti dei quali, a onor del vero, vi condussero una vita onesta ed operosa), il conflitto passò attraverso le alterne vie della retorica forzata e dell’oblio, caricandosi più spesso di miti duri a morire, grazie ad una memorialistica che, per quanto non priva di spunti critici già nell’ora del successo, si rifaceva con passione ai mesi della guerra, alla grande impresa. Giunse, infine, il tempo del ricordo nostalgico (un fenomeno, comunque, non solo italiano) che in parte perdura. Oggi, fortunatamente, si è giunti a molte certezze e si è sfatato il mito degli «Italiani brava gente» a tutti i costi, riconoscendone le colpe e
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le crudeltà. E non si dimentichi che intanto si sono perse molte buone occasioni per «ripensare» la guerra d’Etiopia in momenti importanti come la restituzione delle ste-
le di Axum che, al contrario, è stata vissuta da molti quasi fosse una fastidiosa incombenza (Massimo Romandini).
L’Homme et l’Animal dans l’Est de l’Afrique, a cura di Alain Rouaud, Bièvres, Les Éthiopisants Associés, 2006, pp. 245
so i millenni in una sorta di vicenda integrata che ha dell’esaltante. Negli ambienti meno toccati dagli effetti devastanti della modernità l’uomo e l’animale sono perfetti fratelli e operano e si sviluppano in un mondo naturale che è in grado di accomunarli e di accompagnarne le alterne vicende. Se pensiamo ai danni che sono stati volutamente inferti al mondo animale anche in nome della «civiltà», resta più che mai attuale ciò che il capo indiano Seattle rispose, più di un secolo e mezzo fa, al presidente americano Franklin Pierce: «L’homme blanc devra traiter les animaux de cette terre comme ses frères. Je suis un sauvage et je ne comprends pas une autre pensée… Je suis un sauvage et je ne peux comprendre comment un cheval de fer qui souffle de la fumée peut être plus important que le bison, que nous ne tuons quel pour vivre». Purtroppo, in troppe aree del nostro pianeta il rapporto tra uomo e animale è radicalmente cambiato e non è stato più recuperato. L’uomo bianco ha responsabilità enor-
Siamo al cospetto di un libro di particolare interesse per lo studioso dell’Africa Orientale: una raccolta, curata da Alain Rouaud, di saggi di noti studiosi (presentati alla Giornata di studio sul tema annunciato nel titolo del 18 febbraio 2002 nei saloni dell’INALCO di Parigi) ed edita con il contributo di alcuni importanti istituti francesi, tra cui il citato INALCO (Institut National des Langue et Civilisations Orientales) e l’ARESAE (Association française por le développement de la Recherche Scientifique en l’Afrique de l’Est) di Parigi. Gli studiosi che hanno firmato il volume, dallo stesso Rouaud a Tubiana, da Ville a Morin e Mwaura (ma sono, ovviamente, molti di più) esaltano nelle loro pagine il ruolo dell’animale nella vita dell’uomo in Africa Orientale: un ruolo fondamentale che ha contraddistinta la vita dell’uno e dell’altro attraver-
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mi. Oggi, prima che sia troppo tardi, urge un impegno in controtendenza. Nei lavori raccolti nel volume curato da Rouaud gli animali protagonisti sono soprattutto l’ele-
fante, il cammello, il gatto, il lemure, il cane, gli uccelli: li accompagnano tradizioni orali e scritte, proverbi, riferimenti storici ed etnici (Massimo Romandini).
SILVANA PALMA, L’Africa nella collezione fotografica dell’IsIAO (Il Fondo Eritrea-Etiopia), Roma, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, 2005, pp. 690
ni, e in momenti non facili, il lavoro di identificazione e catalogazione che ha prodotto questo volume di circa 700 pagine. Le fotografie dell’IsIAO, già del Museo Coloniale di Roma, costituiscono «la più vasta memoria visiva del colonialismo italiano» presente nel nostro Paese. Recuperarle è stata operazione complessa, come lo stesso Triulzi ricorda anche riguardo al precedente lavoro della Palma sul fondo della Società Africana d’Italia depositato all’Orientale di Napoli. La curatrice ha compiuto un lavoro di vera filologia storica districandosi nel labirinto di 35mila fotografie che oggi, nel campo degli studi specialistici, assumono un’importanza fondamentale per la storia del colonialismo italiano, e oltre. Un patrimonio documentario di eccezionale valore è, finalmente, alla portata degli studiosi che sapranno farne l’uso migliore. Oggi la memoria visiva della storia ha assunto un’importanza decisamente nuova. Sembrano lontani anni-luce i tempi in cui lo stru-
Il corposo volume segna la fine della prima parte di un lavoro di notevole importanza nel settore delle collezioni fotografiche depositate presso l’IsIAO di Roma, a cui si deve la pubblicazione in convenzione con l’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale» (Dipartimento di Studi e Ricerche su Africa e Paesi Arabi). Il lavoro ebbe inizio negli anni Novanta, come ricorda Alessandro Triulzi nell’introduzione, nell’ottica del recupero del patrimonio fotografico dell’IsIAO riguardante Eritrea ed Etiopia, in attesa che si mettesse mano alle fotografie della Libia e della Somalia ancora ben lontane dalla catalogazione. A molti studiosi va il merito di questa immane, paziente fatica: tra questi lo stesso Triulzi che a suo tempo mise in moto la macchina dei consensi e dei fondi e Silvana Palma a cui si deve in questi an314
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mento fotografico si affacciava timidamente alla ribalta degli studi. Gli archivi erano zeppi di foto ammassate alla rinfusa, come prodotti al macero, né si conoscevano consistenza e contenuti. La riscoperta è stata progressiva, a volte anche occasionale, come la Palma ricorda nella sua premessa, ma ha trovato illustri sostenitori e cultori, ad esempio Luigi Goglia a ragione menzionato come colui che «ha inaugurato in Italia l’indagine legata alle fonti iconografiche coloniali e africaniste». Un’indagine, si badi bene, avviata già negli anni Sessanta in campo internazionale, allorché ebbero inizio i progetti relativi alla Cambridge History of Africa e alla Histoire générale de l’Afrique nel più generale contesto del recupero delle fonti d’archivio europee ed americane non ancora accessibili se non a pochi eletti e della valorizzazione di ogni altra fonte documentaria, oltre il documento scritto. La documentazione fotografica ha faticato molto ad entrare in questa sorta di «rivoluzione documentaria», per usare le parole della Palma. Il documento fotografico è stato ritenuto a lungo, e a torto, un «prodotto» di natura secondaria nell’indagine storica, scarsamente affidabile in quanto soggettivo e parziale, destinato ad essere usato più che altro a fini propagandistici, come di-
mostrano tuttora gli usi apertamente strumentali della fotografia. Un cambiamento di sensibilità storiografica lo si è avuto a partire dagli ultimi anni ottanta, quando la fotografia africanistica ha tratto forza e rispetto da una serie di workshop, convegni e mostre in Italia e all’estero, pur continuando ad essere oggetto di ricerca di singoli studiosi più che frutto di iniziative di ampio respiro. In ogni caso, il cammino era tracciato in quegli anni. La ricchezza della documentazione fotografica di molti archivi italiani cominciava ad emergere sotto l’incalzare di più approfondite analisi e si proponeva autorevolmente, seppure a fatica, «come fonte di storia coloniale», per usare una bella definizione di Giampaolo Calchi Novati. Si trattava di dare voce, per poi catalogarlo, a un materiale abbondante e destinato alla completa rovina, come in questo caso ha fatto Silvana Palma che ha reso accessibile il fondo per l’Etiopia e l’Eritrea, già dell’ex Museo Coloniale, dipendente dal Ministero delle Colonie (poi Ministero dell’Africa Italiana), ereditato dall’Istituto Italiano per l’Africa, quindi Istituto italo-africano e oggi IsIAO di Roma. Nella seconda parte della sua introduzione, l’autrice ricorda al lettore l’origine della collezione di cui si è 315
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occupata e, nella terza parte, i criteri metodologici che hanno presieduto al complesso lavoro di catalogazione dei volumi fotografici (83 album in tutto), delle raccolte (cioè le collezioni fotografiche riferibili a singoli collezionisti, donatori o autori), della miscellanea (la parte preponderante della fototeca con migliaia di pezzi sciolti, in gran parte degli anni trenta). Tutto questo materiale (e pensare che tante foto risultano non rientrate, negli anni, dai prestiti oppure sono state oggetto di saccheggi impietosi) è oggi presente in questo
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importante volume dalla storia non facile attraverso gli anni. Sfogliarlo dà il senso del faticoso lavoro svolto (ogni foto è annotata nel modo più completo). A questa prima fatica potrà seguire, col tempo, l’immissione delle immagini nel web in un database che agevolerebbe la ricerca degli studiosi. Ma ci vorrà tanta altra buona volontà. La parte centrale del volume raccoglie la riproduzione di 64 belle fotografie che abbracciano l’intera storia coloniale italiana in Eritrea ed Etiopia (Massimo Romandini).
notizie sugli autori di questo numero
MARINA ADDIS SABA - Allieva di Federico Chabod, ha collaborato a diverse università italiane e straniere prima di concludere la sua carriera insegnando Storia dell’Europa e Storia contemporanea alla Facoltà di lingue dell’Università di Sassari. Tra i suoi volumi citiamo Gioventù italiana del Littorio, Feltrinelli, Milano 1973; Partigiane. Tutte le donne della Resistenza, Mursia, Milano 1998 e La scelta. Ragazze partigiane, ragazze di Salò, Editori Riuniti, Roma 2005. ANDREA BECCARO - Laureato in storia nel 2004 presso l’Università degli Studi di Torino con una tesi dal titolo Guerra e strategia nel mondo postbipolare: prospettive, problemi, interpretazioni, attualmente ha in corso ricerche sulle operazioni di peacekeeping e sulle teorie della guerra di Clausewitz e Sun tzu, viste in chiave comparata. MAURO BEGOZZI - Direttore scientifico dell’Istituto storico «P. Fornara» di Novara. Si occupa di storia contemporanea sia come autore di saggi che come organizzatore e mediatore culturale. Tra i suoi libri Il signore dei ribelli (1991) e Non preoccuparti che muoio...innocente (1995), tra le sue realizzazioni la Sala storica di Domodossola e la Galleria della memoria di Verbania-Fondotoce. GIOVANNI A. CERUTTI - Membro del Comitato scientifico dell’Istituto «P. Fornara» e responsabile del settore editoriale. Nel 2005 ha curato presso l’editore Interlinea la pubblicazione del diario di Carolina Bertinotti Ma la fortuna dei poveri dura poco, che ha vinto la sessione «scaffale» del premio della Resistenza «Città di Omegna». FILIPPO COLOMBARA - Dalla seconda metà degli anni settanta si occupa di storia e di cultura delle classi popolari collaborando con istituzioni pubbliche e private. Nell’ambito delle sue attività, svolte in massima parte all’interno di progetti di storia orale dell’Istituto Ernesto de Martino e degli istituti storici della resistenza delle province di Novara e Vercelli, ha pubblicato ricerche su comunità locali e comunità di lavoro. ANGELO DEL BOCA - Da quarant’anni si occupa di storia del colonialismo e dei problemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi ultimi libri: Gheddafi. Una sfida dal deserto, Laterza, 1998; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La disfatta di Gasr bu Hàdi, Mondadori, 2004; Italiani, brava gente?, Neri Pozza, 2005.
GIOVANNI FERRO - Antifascista condannato al confino una prima volta nel 1930 prima a Lipari e poi a Ponza e di nuovo nel 1936 a Ventotene. Vicino a Parri e schierato con il Partito d’Azione nell’immediato dopoguerra ha ricoperto incarichi organizzativi nel Clnai ed è stato vicepresidente del Cln della Lombardia. MARIO GIOVANA - Per lunghi anni giornalista, è autore di numerosi saggi, fra cui Algeria anno settimo, Milano 1961; La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN Piemontese, Milano 1962; Storia di una formazione partigiana, Torino 1964; Guerriglia e mondo contadino, Bologna 1988. Collabora a riviste italiane e straniere di storia contemporanea. SABRINA MICHELOTTI - Laureata in lettere presso l’Università degli studi di Parma, collabora con il Centro studi per la stagione dei movimenti di Parma occupandosi in particolare di femminismo e di teorie politiche. GIANMARIA OTTOLINI - Insegnante, ha effettuato ricerche e pubblicazioni sull’innovazione educativa (abilità di studio; peer education). Per la Casa della Resistenza di Fondotoce segue la redazione di «Nuova Resistenza Unita». Con Giovanni Margaroli e Mauro Begozzi ha curato l’edizione dell’autobiografia del partigiano Gino Vermicelli (Babeuf, Togliatti e gli altri) e sta preparando una nuova edizione della ricerca dell’Istituto Cobianchi di Intra, Memoria di Trarego (premio ANCI 2004). MASSIMO ROMANDINI - Dirigente scolastico, dal 1969 al 1975 ha insegnato in Etiopia alle dipendenze del ministero degli Esteri. Si occupa di storia del colonialismo italiano in Africa Orientale. MATTEO VECCHIA - Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, è oggi dottorando di ricerca in Storia Contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (Firenze-Napoli). Sta conducendo studi sul terrorismo arabo e islamico, e scrive articoli di politica internazionale su quotidiani e riviste italiane. DAVIDE VENTURA - Giovane da poco laureato all’Università di Bologna con una tesi in Storia contemporanea sulla formazione partigiana Stella Rossa «Lupo». MASSIMO ZACCARIA - Ricercatore in Storia ed Istituzioni dell’Africa presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pavia. Il suo ambito di ricerca riguarda principalmente la storia del Corno d’Africa nel periodo coloniale, con particolare riguardo ad Eritrea e Sudan.
I classici dell’800
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Quest’anno l’Almanacco presenta Claro Fuenno, il primo domese noto di nome certo, del quale testimonia l’elevato tenore di vita la ricchezza delle suppellettili ritrovate nelle sua sepultura (I sec.a.C.II sec.d.C.); le manifestazioni interventistiche a Domodossola nelle «radiose giornate» di maggio del 1915 e l’ampia intervista sulla «repubblica» partigiana dell’Ossola, raccolta a Roma da una giornalista americana e pubblicata nel gennaio del 1945 sul “New York Herald Tribune”. È possibile poi seguire la genesi e la redazione di un libro non comune, quello sulle opere di Carlo For-
nara nella scelta di un grande artista ossolano, Nino Di Salvatore; conoscere le vicende del “Gazzun da Malesk”, singolare figura di emigrante vigezzino oltre oceano, e rivivere l’epopea dei rocciatori nella prima metà del secolo scorso con il racconto della prima ascensione al Pizzo Boni, nel gruppo del Cistella (31 luglio 1932). Si conclude l’impegnata ricerca sui documenti inediti delle soppressioni napoleoniche nelle nostre valli, mentre da Vigezzo viene proposto un vivace excursus sui rapporti tra la Valle ed i feudatari Borromeo e da Antrona si rievocano le vicende relative alla coltivazione di una miniera di mi-
ca sopra Montescheno, bella testimonianza di iniziativa imprenditoriale in una zona di montagna. L’Almanacco chiude nel ricordo del Sempione pubblicando un puntuale saggio sulle «ispirazioni musicali» legate al Passo ed una notevole documentazione di non effi mero interesse, per la gran parte inedita, sul traforo. La fierezza per la nostra terra ci ha spinto a insistere sul centenario dell’avvenimento, che anche la superbia tecnologica odierna non può lasciar cadere nell’oblio. Lo sappiamo, «chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12); d’altra parte, fuori dall’Ossola non riusciamo a
COMUNE DI BACENO Zona di Salvaguardia dell’Alpe Devero REALIZZAZIONE MUSEO DELLA RESISTENZA A GOGLIO EDIFICIO EX STAZIONE DI PARTENZA DELLA FUNIVIA DEVERO-GOGLIO La localizzazione del nuovo spazio museale nei locali dell’ex stazione di partenza della funivia che portava all’Alpe Devero è legata all’episodio della guerra partigiana avvenuto il 17 Ottobre 1944; l’uccisione da parte dei tedeschi di 4 giovani partigiani che tentavano di fuggire al Devero con la Funivia. Sotto i colpi precisi e spietati dei nazisti cadono così, in pochi minuti, l’uno dopo l’altro, i partigiani milanesi Giuseppe Conti di 22 anni, Giuseppe Faccioli di 32 anni, il giovane maniscalco vogognese Gaudenzio Pratini di 20 anni ed il giovanissimo Giorgio Fossa di 17 anni di nobile famiglia torinese. Un quinto partigiano è ferito ad una gamba, il sedicenne Orlando Corani di Vogogna, viene catturato e dovrà subire l’amputazione dell’arto, altri tre patrioti vengono fatti prigionieri mentre tutti gli altri riescono a salvarsi. La riconversione in museo della Resistenza è una iniziativa dall’amministrazione Comunale di Baceno che ha preso in affitto l’edificio.
MUSEO NAZIONALE DELLE ACQUE MINERALI CARLO BRAZZOROTTO - Crodo Scheda storico - cronologica • Il Centro Studi Piero Ginocchi di Crodo, sulla base di accurati studi del territorio, nel 1993 pubblica, in coedizione con la Laterza di Bari, i primi risultati nel libro di Angelo Del Boca, L’oro della Valle Antigorio: le acque minerali di Crodo fra realtà e leggenda. È l’inizio di una costante e intensa attività di ricerca nel mondo delle acque minerali. • Successivamente Del Boca manifesta la volontà di arricchire il materiale utilizzato per il libro con la propria raccolta privata. Questa è incentrata sui Bagni di Craveggia (prima) e Bagni di Crodo (poi), dove tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 i suoi antenati avviarono un complesso alberghiero termale di tutto rispetto. Si pongono le basi per un archivio storico documentaristico. • Nel 1996 il Centro ottiene a titolo gratuito due complete linee di produzione di acque minerali dal GRUPPO CAMPARI, nel frattempo succeduto ai Bols nella proprietà delle Terme di Crodo Spa. Sono le prime macchine utilizzate dal Ginocchi nella sua avventura industriale e risalgono agli anni 30 del ‘900. È l’avvio di un progetto museale. • Nel 1998 i costanti rapporti con il mondo universitario portano l’associazione a conoscere Carlo Brazzorotto, ricercatore tecnico del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Bologna, ora in pensione. La sua attività di studio e analisi delle acque, svolta con ammirevole passione, lo ha portato a raccogliere 80.000 etichette e oltre 12.000 campioni pieni, in contenitori diversi, del prodotto minerale. Saputo della nostra iniziativa si rende disponibile a donare l’immensa raccolta. Nasce il Museo Nazionale delle Acque Minerali Carlo Brazzorotto. • Nel periodo 2000/2002 il Centro Studi Piero Ginocchi presenta il progetto sul bando europeo CE 1260/99 - Docup 2000/2006, che viene approvato e finanziato al 70% attraverso l’Assessorato Turismo Sport Parchi della Regione Piemonte. In seguito si aggiungono i contributi degli Enti Locali (Comune, Comunità Montana, Provincia), della Fondazione BPN per il territorio e della Fondazione Comunitaria del Verbano Cusio Ossola. Si concretizza un sogno. • Nell’aprile 2006 la KRONES dona al Centro Studi Piero Ginocchi una completa e funzionante etichettatrice in grado di dimostrare il processo di applicazione dell’etichetta alla bottiglia. • Nel maggio dello stesso anno la SANPELLEGRINO Spa dona la propria storica Tipografia, testimonianza dei primi processi di pubblicità e etichette. • Il 2 luglio 2006 in Crodo (VB) il Centro Studi Piero Ginocchi inaugura il Museo Nazionale delle Acque Minerali Carlo Brazzorotto, direttore del quale è nominato il prof. Alessandro Zanasi di Bologna. Inizia l’avventura storico, culturale e scientifica.
Finito di stampare nel mese di dicembre 2006 presso la Tipolitografia Saccardo Carlo & Figli snc - Ornavasso (VB) e-mail: info@saccardotipografia.191.it
ISSN 1826-7920
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I SENTIERI DELLA RICERCA
� 12,00
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I SENTIERI DELLA RICERCA rivista di storia contemporanea
Del Boca Ottolini Cerutti Begozzi Colombara Giovana Ventura Addis Saba Ferro Beccaro Giannantoni Michelotti Romandini Vecchia Zaccaria
dicembre 2006
EDIZIONI CENTRO STUDI “PIERO GINOCCHI” CRODO