Come si legge un racconto di Alberto Cucchia (Web Site: http://www.egmagazine.eu/it/node/1197)
È un dato di fatto, ormai, che le Case Editrici prediligono il romanzo al racconto, almeno per quanto riguarda gli autori emergenti. Un autore per potersi considerare tale deve almeno scrivere e per considerarsi emergente deve aspirare ad emergere. Vero è che c'è chi comincia con il colpo della vita in tasca, ma è logico pensare che se un presunto scrittore voglia provare ad emergere lo faccia cercando di non perdere tempo invano. La naturale conseguenza è sondare il terreno con scritti brevi. Da qui nasce una fuorviante idea del racconto come genere minore. Infatti se per sua disdetta l'autore emergente riesca più o meno ad emergere, ecco che gli si chiede una prova di maggiore autorevolezza e lo si orienta verso qualcosa di più impegnativo. Perché tale è considerato il romanzo e, se uno più uno fa due, il racconto gode di minor prestigio, come fosse roba da poco. Eppure io non la vedo così, e qualcuno per fortuna la pensa come me. Certo non si può biasimare l'editore che a fine mese deve fare i conti con gli introiti e le spese. Semmai c'è da puntare il dito contro il mercato e chiedersi perché siamo arrivati al punto di dover scrivere un articolo per cercare di rivitalizzare un genere, per cercare di far capire che un racconto dovrebbe godere della stessa nobiltà di un componimento in endecasillabi. Qualche tempo fa ho regalato un'antologia di racconti ad una amica, una di quelle che legge per intrattenersi. A malincuore mi ha confessato che non legge racconti, visto che fra noi non ci sono peli sulla lingua. Ho chiesto “Perché?” e lei mi ha risposto che prima d'addormentarsi ha bisogno di leggere qualcosa di più coinvolgente. Qualcosa che l'aiutasse a prendere sonno? mi domando ancora. “Semmai sarà il contrario”, risposi. Sì, perché prima d'addormentarsi sarebbe, come dire, più indicato leggere un racconto dall'inizio alla fine per poi leggerne un altro, sempre dall'inizio alla fine, la notte seguente. Lei, un po' stizzita, argomentò farfugliando che aveva bisogno di essere stimolata di giorno in giorno da una trama più architettata, da un intreccio più allettante che al calar delle tenebre l'aiutasse ancora a trovare le forze per sfogliare un libro, che sentiva la necessità di ritrovarsi, mese dopo mese, con qualcosa di concreto in mano e poter dire “Sì, questo l'ho letto”. Il racconto, obiettivamente, si addice meno a questo genere di lettura. Il perché è molto semplice, cercherò di spiegarlo brevemente. Nella mia personale battaglia contro la lettura d'intrattenimento esco puntualmente sconfitto ogni volta che prendo in mano un libro di Zafón. I suoi libri si leggono d'un fiato e riconosco che è difficile staccare lo sguardo non appena la storia prende una piega. Quando leggi un libro di Zafón ti cali talmente tanto nell'intreccio da sentirti sua parte integrante. Le lunghe descrizioni hanno un valore narrativo incomparabile a qualunque altro artifizio, posto che il filo conduttore della sue creazioni è la suspense. I dialoghi sono spesso fini a se stessi, perché altro non devono fare che creare un alone di magia e mistero intorno ai protagonisti. I capitoli sono a finale aperto e non appena se ne finisce uno, viene voglia di cominciarne un altro. È fisiologico, su questo non ci piove. Quindi descrizioni e dialoghi, dicevo, che difficilmente trovano spazio in un racconto. Ovvio, a meno che non si tratti, in quest'ultimo caso, di un racconto a discorso diretto. Trovano meno spazio perché si prediligono altre funzioni come la dinamicità, la sobrietà, il potere evocativo della parola che in sé contiene molteplici accezioni e rimandi. Io che ho avuto la “fortuna” di insegnare per l'Università di Perugia, non mi sono strappato i capelli (i più cattivi direbbero perché non li ho) quando il Preside della Facoltà di Lettere ha deciso di tagliare i contratti per mancanza di fondi. Che poi la logica direbbe: più insegnanti più insegnamenti, più insegnamenti più prestigio, più prestigio più studenti, più studenti più
soldi... ma questa è un'altra storia. Non mi sono strappato i capelli, dicevo, perché non tutto quello che insegnavo mi piaceva veramente. Non che voglia apparire eccessivamente idealista, ma quando l'onorario non regge il confronto con l'impegno e il lavoro del diretto interessato, almeno si cerca gratificazione nel predicare ciò in cui si crede. Se anche questo viene meno, allora si esauriscono gli stimoli. Un corso, o modulo secondo questa nuova perversa terminologia, s’intitolava Recursos estilísticos del español. Dovevo insegnare, in altre parole, ad alunni che avevano già dimestichezza con la lingua spagnola non solo a scrivere correttamente, ma anche a scrivere bene. Ogni lezione (non potevo proprio farne a meno) sottolineavo come tutto quello che dicevo andava preso con la dovuta cautela perché non esistono regole universali per scrivere bene, altrimenti basterebbe un minimo di sensibilità nei confronti del nozionismo e tutti saremmo a pari merito. In ogni caso uno dei miei cavalli di battaglia, uno dei precetti a cui dovevo attenermi, era la relazione orazionale. Esistono, per quello che ricordo, due tipi di relazione fra orazioni: l'asindeto e il polisindeto. La prima si ottiene con la giustapposizione (il punto e il punto e virgola) e rende il periodo rapido, agile e incalzante a discapito di valori palesemente ponderativi e di una più esplicita riflessione. La seconda, a sua volta, si divide in paratassi e ipotassi: la paratassi consiste nel fenomeno della coordinazione (congiunzioni copulative, distributive...) e l’ipotassi in quello della subordinazione. Entrambe, meno la prima più la seconda, dovrebbero conferire al testo una sensazione di maggiore staticità e un atteggiamento più raziocinante e logico. Curioso è anche l'effetto che viene a crearsi attraverso l'impiego, anche qui in maniera più o meno diffusa, dei sintagmi. I sintagmi nominali sono propizi per le descrizioni e producono impressionismo, sentimentalismo, espressività o morosità. I sintagmi avverbiali e aggettivali creano le sfumature e rendono più lenta la lettura. Al contrario quelli verbali meglio si addicono alle narrazioni in quanto conferiscono dinamismo e rapidità. È tutto molto semplice, quanti più aggettivi, avverbi e sostantivi sono presenti in un testo, tanto più la lettura risulterà lenta, dettagliata, precisa e ridondante. Non che un autore nel momento in cui si cimenta in una narrazione faccia mente locale e cerchi di usare verbi a più non posso, né quando pensa a una descrizione faccia uso spropositato di aggettivi, ma questi criteri hanno senso d'esistere, un senso generico e indeterminato, ma pur sempre un senso che quasi tutti gli scrittori incoscientemente sentono dentro e, se ci fate caso, applicano a mo' di punto di riferimento dettato dall'estro. Va da sé che, per quanto detto fin'ora, un racconto non può perdersi in dialoghi sfuggenti, che quelle battute devono avere un peso specifico ai fini dell'intreccio; stesso dicasi per le descrizioni. Non che sia una regola universale, ripeto, ma sarebbe meglio evitarle se non utili, incisive, evocative o fortemente significative. Ecco la prima differenza sostanziale fra un racconto e un romanzo: in un racconto, generalmente, appaiono in proporzione meno sintagmi avverbiali e aggettivali, meno polisindeti soprattutto nel loro aspetto ipotattico. La seconda differenza, in parte assimilabile alla prima, è che il ritmo del racconto, al di là della tematica che affronta o dell'intreccio che sviluppa, deve essere necessariamente incalzante per un'economia della parola e per ottenere un ritmo che esorti a leggere senza alzare lo sguardo. Anche qui non si escludono i ma e i forse, tutto dipende dal tipo d'azione che si voglia imprimere alla narrazione, ma se devo pensare alle differenze queste sono le prime che saltano all'occhio. Ora, domando, il fatto che in un racconto si prediliga il sintagma verbale o l'asindeto o, in alcuni casi, la paratassi all'ipotassi è davvero pregiudicante ai fini del concetto, dell'intellettualità o della profondità del messaggio? Ma se anche non vogliamo vedere la questione in questi termini, è pregiudicante per una mera lettura d'intrattenimento? La terza differenza, almeno a mio giudizio, è la seguente. Se in un racconto dicessi che Marco non va a puttane perché non ha i soldi, darei per implicita una serie di nozioni che non ritengo opportuno spiegare. Lascio, cioè, al lettore una sorta di potere creativo in concomitanza con il mio e la libertà di forgiarsi quel personaggio ad libitum. Questa libertà manca in parte nei romanzi o, per lo meno, viene scemando man mano che la storia prosegue e che i tratti dei protagonisti assumono contorni irreparabilmente più delineati. Un romanziere, probabilmente, dovrebbe intrattenersi su una serie di considerazioni o descrizioni che riguardano l'ambiente natale di Marco, il contesto sociale a cui Marco appartiene e in cui Marco è cresciuto, le vicissitudini che Marco ha patito sulla propria pelle per decidere un giorno di andare a puttane, dovrebbe soffermarsi sulle precedenti disillusioni amorose di Marco, su quest'istinto animalesco
che ha sviluppato nel corso degli anni e che lo induce un giorno a bramare il sesso più d'ogni altra cosa, un romanziere potrebbe cimentarsi in giudizi di matrice più o meno popolare, più o meno retorica, più o meno libertina o, quel che è peggio, più o meno morale; ma soprattutto un romanziere dovrebbe rendere plausibile il fatto che Marco non abbia soldi neanche per andare a puttane in un mondo dove il sesso è ormai a buon mercato. Perciò dire che un racconto non piace è sempre una questione molto delicata perché basta che sfuggano alcune parole per non carpire il vero senso che l'autore intendeva conferire al suo scritto. Ogni parola, periodo o espressione racchiude in un racconto molteplici accezioni e se leggessimo distrattamente un paio di righe potrebbero dissolversi innumerevoli concetti che sarebbero irrecuperabili poi. Di qui che quando diciamo che un racconto non ci è piaciuto bisogna essere certi d'averlo letto con estrema attenzione e d'aver intuito il mondo che l'autore intendeva trasferire in semplici sintagmi nominali o verbali spogli di sintagmi aggettivali o avverbiali che conferissero loro pomposità e un timbro dai contorni sicuramente più definiti. Questa è, senza dubbio, la quarta differenza. Tutto ciò accade più difficilmente nei romanzi. É come se il loro creatore desse per scontato che un lettore possa sorvolare su alcune pagine, possa aprire il suo libro non per una vera e propria volontà di sapere, ma per una mera esigenza della gestualità. Per questo i romanzi spesso peccano, ahimé, di reiterazione. Ho avuto la fortuna in vita mia di imbattermi in grandi maestri che mi hanno sempre introdotto in ambienti costruttivi in cui c'era solo da tapparsi la bocca e ascoltare. Come quando a Salamanca ho conosciuto Raúl Brasca, uno dei maggiori scrittori argentini contemporanei che in Italia non è ancora troppo noto. Mi è capitato per le mani un suo racconto che recita così: Fu triste quando mio padre, senza che glielo chiedessi, mi diede la chiave di casa. Io ero quasi un adulto e lui me la diede come chi chiede il permesso per invecchiare. Tutto qui? potrebbe obiettare qualcuno. Ebbene sì, tutto qui. Il racconto inizia là e finisce qui, davvero non c'è altro. Qualcuno è convinto che un aforisma si determini solo in base alla lunghezza e questo ne avrebbe tutta la parvenza; altri sono inconsciamente certi che la nobiltà di un genere sia legata all'estensione. In entrambi i casi, se siete fra quelli, non ha più senso continuare a leggere quanto sto scrivendo. È forse questo racconto o micro-racconto, domando ancora, meno profondo di altri suoi fratelli maggiori? Suscita forse meno emozioni? Trasmette meno sentimento? O induce meno alla riflessione? In questo periodo di neanche due righe figurano ben 7 sintagmi verbali che vanno a costituire altrettante proposizioni fra cui c'è una principale impersonale, una subordinata avverbiale circostanziale di tempo, una subordinata avverbiale circostanziale di modo, una principale questa volta dotata di soggetto, una coordinata copulativa affermativa, un'altra subordinata di modo e una subordinata finale. Ci sono anche due diverse sfere di classificazione: una descrittiva costituita dalla proposizione con l'unico aggettivo o attributo presente nel testo, “triste”, e una narrativa, tutto il resto. Così se l'analisi squisitamente orazionale potrebbe in parte contraddire quello che vado affermando, dal punto di vista della stilistica dei sintagmi e dell'economia della parola invece lo conferma. Nel caso della stilistica dei sintagmi è evidente come un'impostazione prevalentemente narrativa si realizzi attraverso l'impiego del sintagma verbale che conferisce un'agile vivacità al testo. Per confermare l'esempio bisogna, però, sentire l'altra campana e vedere come si comporta un autore in una descrizione. Prendo un libro a caso, uno dove naturalmente sono certo di trovare una descrizione. I modernisti spagnoli sono perfetti, sicuro che là una ne trovo. José Martínez Ruiz, detto Azorín, è quello che fa al mio caso. Le sue descrizioni sono memorabili, quanto di più modernista c'è in circolazione, anche se la convenzione non lo vuole sempre là: In lontananza una campana suona lenta, a intervalli, melanconica. Il cielo comincia a schiarire indeciso. La nebbia si estende in lunghe pennellata sulla campagna. E nel fragoroso concerto di voci acute, gravi, stridenti, metalliche, confuse, impercettibili, sonore, tutti i galli della città
addormentata cantano. Sullo sfondo il paese sfuma ai piedi del colle in una macchia incerta. Due, quattro, sei velli bianchi che affiorano dall’oscurità, crescono... Il passo è tratto da La voluntad e questo è proprio l'incipit, a dimostrazione di come la ricerca non mi abbia portato via troppo tempo. Ho interrotto la trascrizione laddove compare l'ultimo dei 7 sintagmi verbali, tanti quanti nel primo esempio, ed è superfluo commentare la preponderanza dei sintagmi aggettivali, nominali e avverbiali che meglio definiscono i contorni dell'oggetto descritto a scapito della fluidità narrativa. Se si vuole mantenere il lettore sulle spine, questo artifizio è perfetto. La naturale controindicazione è la noia, ma sta all'innato talento dell'autore, che mai e poi mai s'improvviserà tale, capire quando è il momento di tagliarla corta. La descrizione continua a lungo su questi toni e non resisto alla tentazione di trascrivere un altro passo: Lunghe venature imbiancate, larghe, strette, dritte, serpeggianti, si intrecciano sulla grande macchia nericcia. Ad Azorín, evidentemente, non sembrò sufficiente dire che le venature (che poi erano sentieri) fossero lunghe, ma non poté fare a meno di dire che erano anche larghe, strette, dritte e serpeggianti. Non sembrò sufficiente dire che la macchia (che poi era un paese) fosse grande, ma dovette proprio dire che era anche nericcia. Sorvolerò volutamente sul tema delle figure retoriche che impreziosiscono ancor più, se possibile, una descrizione di questo tipo e sarebbero fuori luogo in una narrazione di quel tipo, ma qui mi preme evidenziare che aggettivi, avverbi e quant'altro non trovano grande spazio nei racconti perché ai fini del messaggio non cambiano molto. In fondo solo si tratta di un paesino fra sentieri. Possono cambiare il modo di esprimerlo, ma un racconto per definizione è quello che dovrebbe dire molto con pochi vocaboli. Per quanto riguarda, invece, l'economia della parola, reputo interessanti altre considerazioni. Nel racconto di Raúl Brasca l'economia della parola non si limita solo a un fattore di parsimonia quantitativa, ma anche qualitativa. Partiamo anzitutto dalla prima proposizione: “Fu triste”. È sicuramente una situazione descrittiva, giacché indica uno stato d'animo, un'emozione o una sensazione suscitata dall'azione narrata poi. Conto nel Thesaurus ben 47 sinonimi, o presunti tali, del presente aggettivo. Inutile dire quanto il discorso poteva essere argomentato adducendo tutta una serie di sfumature che contribuissero a circoscrivere questo sentimento di tristezza. Non è dato sapere quanto e in che modo fu triste, quanto e in che modo fu passeggera o prolungata nel tempo questa sensazione. In un romanzo, probabilmente, un gesto del genere, a cui si assegna tanto risalto, porterebbe a ripercussioni di natura esistenziale su entrambi i protagonisti. Suonerebbe come una di quelle frasi che io amo chiamare “cerniera”, ovvero un passaggio chiave che segna l'evoluzione di una storia allacciando due diverse unità temporali o d'intreccio e cambiando inesorabilmente i destini dei personaggi. Non è dato sapere l'epoca in cui si ambienta il racconto, aspetto che in un romanzo non sarebbe di secondaria importanza. Perché se fosse ambientato nel secondo dopo guerra, per esempio, in un'epoca in cui si invecchiava e si diventava adulti prima, potrei dedurre che il protagonista non avesse più di sedici anni; se invece fosse ambientato ai nostri giorni, allora, potrei credere che ne avesse anche dieci di più. Non è dato sapere ciò che è accaduto prima che il padre consegnasse la chiave al figlio, né ciò che accadrà in seguito. Non è dato sapere cosa frullò per la testa al padre per convincerlo, proprio quel giorno, a dare la chiave al figlio. Non è dato sapere il nome del personaggio padre, dando per scontato che l'io narrante si identifichi con l'autore empirico. Non è dato sapere se fosse vedovo uno e orfano di madre l'altro, non è dato sapere un bel niente, in altre parole, perché quello che interessava allo scrittore era solamente dire che “Fu triste” per il figlio, posto che non è dato sapere se lo fu anche per il padre, quando si ritrovò di colpo con la chiave di casa in mano. Per quanto riguarda la natura qualitativa delle altre proposizioni, mi soffermerò solo su un particolare. Ero tentato, al principio, di tradurre l'originale spagnolo me dio la llave con mi consegnò la chiave. Dopo un'attenta riflessione, qualcuno potrebbe insinuare sin troppo cervellotica, mi sono convinto a tradurre mi diede la chiave. Non che la parola consegnare sia
molto più aulica di dare, né vanta, in questo caso, un'accezione diversa, ma dare è un verbo polisemico in entrambe le lingue, condizione che lo rende inevitabilmente più generico, flessibile, versatile e indefinito. Il senso qua è solo uno, niente da dire, ma perché dover tradurre un verbo polisemico con uno che non lo è? O perché tradurre un verbo fra i più semplici e comuni con uno che è lievemente più ricercato? Resto dell'idea che non bisogna complicare il semplice, il traduttore è un tecnico e non ha questa autorità. Entregar ha lo stesso significato di consegnare, prescindendo da alcune forme cristallizzate in espressioni idiomatiche. In spagnolo posso dire se entregó al vicio, mentre in italiano direi si diede al vizio. In questo caso avrebbe senso far corrispondere entregar a dare perché le due lingue hanno seguito percorsi di cristallizzazione differenti, ma quando questo caso non si presenta allora sarebbe superfluo e sciocco fare il contrario. Perciò uno scrittore frustrato o chiunque ostenti la presunzione di saper scrivere bene, difficilmente potrà essere un buon traduttore... ma questa è un'altra storia. Se l'autore ha voluto impiegare vocaboli appartenenti al linguaggio comune o un'espressione semplice è perché ha reputato che l'impianto narratologico del suo racconto doveva essere necessariamente facile, d'immediata comprensione, in linea d'altro canto con il messaggio che voleva esprimere. Complicare è, perciò, oltre che pedante anche stupido. Ricordo che Miguel Ángel, un amico pittore di Huesca con questo nome carico di aspettative, un giorno mi disse che Miró prima di realizzare i suoi migliori capolavori inquadrabili nell'astrattismo più profondo, aveva già dimostrato tutto, per lo meno in accademia, come pittore figurativo. Non ho mai verificato quest'informazione, suppongo sia vera, ma non mi interessa neanche verificarla perché il punto è un altro. Quante volte di fronte a un quadro di Miró abbiamo detto: questo lo so fare anch'io! Ma non abbiamo mai pensato che Miró prima di arrivare alla conclusione di un astrattismo elementare, dai tratti puerili, aveva già dimostrato tutto. Non mi importa, ripeto, sapere se sia vero o no, mi importa solo riflettere sull'eventualità che questa circostanza possa essere vera, o meglio, possibile. In passato credevo che scrivere bene significasse complicare l'espressione, ricorrere ad un linguaggio ricercato, nobilitare la lingua con figure retoriche o parole sofisticate. Se nella saggistica questa condizione non è sottoposta ad alcun vaglio, perché si bada al sodo, nella narrativa funziona diversamente. Un romanzo o un racconto possono essere scritti come si vuole, su questo non c'è alcun tipo di vincolo o disciplina che regoli un'andatura oggettivamente giusta, ma per scrivere un buon racconto non basta necessariamente saper scrivere bene per estrinsecare al meglio quello che s'intende trasmettere, altrimenti ogni giornalista potrebbe farlo. Il quid della questione è conformare la scrittura al messaggio e quanto meglio lo si fa, tanto migliore sarà il risultato. E se nel romanzo questa necessità è meno evidente perché diluita nella dovizia delle parole, nel racconto potrebbe pregiudicarne l'esito sin dal principio. Scrivere semplice è un'arte, non vi sono regole universali nel momento in cui, come Miró, hai dimostrato tutto. Non voglio che mi si fraintenda, è sufficiente aver dimostrato tutto a se stessi, aver capito che si è in grado di raccontare e scrivere tutto con il linguaggio più disparato: una lettera d'amore, un romanzo d'avventura, un racconto noir dai toni sadici, un dialogo, un monologo, una poesia dialettale, un componimento in alessandrini divisi in emistichi da cesura, un racconto umoristico, un racconto triste come quello di Raúl Brasca, un'epopea, una saga fantastica, una commedia, una farsa o una tragedia classica. Ma la scrittura semplice, gergale o alla mano non è, in nessun caso, inferiore ad altre quando si conforma perfettamente al genere e al messaggio. Se in una storia di quotidianità voglio spiegare che Marco è entrato in casa passando per la finestra non c'è modo migliore che dire Marco è entrato in casa passando per la finestra. Potrei anche mettermi nei panni di Petrarca e fare un iperbato dicendo Passando per la finestra entrò in casa Marco; o potrei dilungarmi un po' e dire Attraverso l'angusto varco da cui ogni giorno ammirava l'iride del cielo stellato passò Marco con un rapido, deciso, agile balzo e, di repente, si ritrovò fra le mura domestiche che inesorabilmente l'avevano visto crescere, ma se il racconto non fosse più incentrato su fini estetici che concettuali o se non trattasse il disagio adolescenziale di Marco che prova inquietudine a confrontarsi con la crescita, dove il mondo esterno rappresenta la vita che tempra, il varco il passaggio dall'una all'altra realtà, il cielo il disincanto, il balzo una volontà di ritorno all'incoscienza perduta e le mura della sua casa natale il rifugio dove poter trovare asilo, allora quest'espressione sarebbe, inevitabilmente, fuori luogo. Se fosse stato Azorín ad avere l'idea del padre, del figlio e della chiave di casa e se avesse deciso di farne l'incipit de La voluntad, probabilmente avrebbe detto: Fu triste, solenne
e inquietante quando mio padre, spossato dalla sua stessa esistenza, mi affidò con tutta la sua gravità la rigida, massiccia, autorevole, severa chiave della nostra grande casa austera senza che mai ne avessi reclamato l'esigenza. Ma La voluntad nasce in un'epoca diversa, in un contesto storico-politico diverso, in una nazione diversa, con fini estetici diversi, in un genere diverso, sotto l'influenza di correnti filosofiche diverse e fra movimenti letterari totalmente diversi. Perciò quando in concorsi letterari si vedono racconti scritti dignitosamente che non vengono premiati non c'è da stupirsi, perché oggi è inutile sciorinare una bella scrittura se poi non c'è il contenuto o se il contenuto e il messaggio non si adeguano all'espressione o al genere. Il segreto è tutto qua. Qualcuno potrebbe dire: senti da quale pulpito viene la predica, proprio lui che nel racconto presuntamente umoristico Eliminazione diretta ha scritto un periodo come questo: Il timore di un qualche colpo gobbo trovava riscontro in una generale perplessità per una prospettiva de iure condendo, sollecitando la brama di un nuovo ed epocale riassestamento gerarchico a ristabilire quelle direttive che da sempre erano garanzia di comune interesse purché estrinsecate ad equum da autorità diverse. Se a comandare fosse Dio, il Generale della Finanza, il Presidente del Consiglio o il Direttore Sanitario Nazionale poco importava, a condizione che fossero rispettati i limiti di una naturale tolleranza nei confronti di certe prevaricazioni di stampo pragmatico-utilitaristico sorte da promiscuità di indirizzi per una risolutiva comunione di intenti. Ripeto, le mie non sono verità assolute; in ogni caso in questo frammento volevo appositamente complicare l’eloquenza, renderla farraginosa sovrapponendo concetti e caricandola di nozioni per emulare il linguaggio della burocrazia che è, notoriamente, pensato per non essere capito e colmo di inutili e altisonanti circonlocuzioni per mera parvenza di serietà. Per fare un altro esempio che in parte esula dalla narrativa, ma senza che il concetto cambi, potrei dire che il cartone animato Shrek è, nella sua semplicità, una pellicola intelligente. Ribalta totalmente i canoni convenzionali della favola e della tradizione cavalleresca, dove l'orco non è il mostro e il principe è un essere insulso, stupido e fanfarone. Il limite per cui non può essere considerato un capolavoro d'originalità è di essere arrivato 500 anni dopo il Morgante di Pulci e 400 dopo il Don Chisciotte di Cervantes. Inoltre, se andassimo a sviscerare la conformità fra genere e messaggio, si noterebbe l'incongruenza di un pensiero sottile e intellettualmente impegnato in un genere che, almeno in origine, nasce per essere rivolto ad un pubblico che difficilmente potrebbe intuire la finezza di una parodia protesa a dileggiare la tradizione cavalleresca anche nei minimi dettagli (penso all'episodio del rapimento della principessa dalle grinfie del drago). È per questi due motivi, il limite dell'originalità e lo stridio fra significato e significante, che Shrek, pur nella semplicità indotta dal genere a cui appartiene, non può essere considerata un'opera maestra, altrimenti ne avrebbe tutti i crismi. Prima di concludere è doveroso, però, definire cosa intendo per racconto. A che tipo di racconto mi riferisco? A un racconto lungo o a un racconto breve? E qual è il limite che segna la differenza fra racconto breve, racconto lungo e romanzo? Già Pirandello nei sui celebri saggi L'umorismo e Arte e scienza aveva polemizzato non solo contro i modelli di bellezza immutabile, ma anche contro la pratica dell'incasellamento, che ha molto di accademico, diffusa fra l'erudizione artistica. Secondo il maestro siciliano, la retorica, regolata com’è dalla ragione, vede categorie dappertutto e non c’è genere letterario che non possa essere inglobato nel suo casellario. Vi sono tante categorie quanti generi e ogni genere ha la sua forma rigorosamente prestabilita che deve rispondere necessariamente a criteri ben delineati dalla pedanteria intellettuale. Il fine della sua diatriba era quello di non accettare una divisione della realtà in sfere prefissate e che le sue opere non fossero rinchiuse nel “guardaroba” della retorica. E su questa scia ripudia ogni tipo di metodologia aprioristicamente determinata nell’arte:
Si suol distinguere, ad esempio, tra novella, racconto e romanzo. Comunemente, una novella troppo lunga, ma non ancora tanto da poterla chiamare romanzo, si suol chiamare racconto; e così pure un romanzo breve e tenue, che non si vorrebbe definir novella. Racconto, così, verrebbe a essere un che d’intermedio tra novella e romanzo. Che valore possa avere una simile distinzione fondata sulla minore o maggiore lunghezza d’una narrazione, mi sembra proprio ozioso indugiarsi a rilevare. Io, al contrario, vado al concreto altrimenti, se prendessi in considerazione questa sagace deduzione, tutto quello che ho scritto fin'ora rischierebbe di sfumare nel nulla. Il tipo di racconto a cui mi riferisco, il criterio che considero, è quello comunemente accettato nei concorsi letterari; è il racconto che va da una cartella a otto cartelle, ovvero, per chi avesse poca dimestichezza, dalle 1500-1800 battute, spazi inclusi, alle 14-15000. Se volessimo estendere ancora più il criterio potrei dire da 0 battute a 15000. Sì, avete capito bene, da 0 battute, perché fino a prova contraria lo 0 è un numero e puntando sullo 0 io potrei diventare anche milionario al casinò. Infatti se il Bianco su bianco del pittore Malevič o il Silenzio del compositore John Cage sono considerate opere d'arte, allora anche un foglio bianco presentato in una determinata epoca storica, durante una determinata evoluzione delle correnti letterarie, in un determinato contesto artistico, con un determinato messaggio celato dietro a quel vuoto solo apparente, potrebbe essere un'opera d'arte. Ovvio, io non potrò mai presentare una tela bianca e avere la presunzione di dire che si tratti di un'opera d'arte, proprio perché non ho mai dimostrato niente, né vi consiglio di partecipare ad un concorso letterario consegnando un foglio in bianco, a meno che non vogliate far fare quattro risate all'editore, cerco solo di non scartare a priori un'ipotesi, per altro già verificatasi in arte, che estenderebbe il campo prendendo in considerazione un'eventualità anche se remota e paradossale. Non è mia intenzione cimentarmi in sterili polemiche sulla definizione di un genere, ma se considero il racconto secondo i rigidi canoni che ho appena esposto do per implicita una serie di caratteristiche inerenti la concisione. Un racconto, diversamente da un romanzo, deve essere una scheggia che rapidamente s'incunea sotto l'epidermide del lettore; il suo creatore può lasciare la penna al caso, senza un canovaccio prestabilito, e deve eludere l’inopportuna tentazione di rendere totalmente esplicito il messaggio; si tratta di un suggerimento pronunciato a mezze parole più che di una palese spiegazione; un racconto potrebbe anche essere un gioco linguistico che protratto per un romanzo intero risulterebbe pesante; un racconto può essere costituito da microcosmi indipendenti, labirinti geometrici in cui si lascia il lettore libero di scegliere il percorso da seguire; sono piccole idee geniali, perle di stupore o pillole di impressionistiche sensazioni che insidiano e seducono al tempo stesso. Borges preferiva i racconti ai romanzi perché considerava l’eccesiva estensione di questi utlimi inutile e disorientativa ai fini del messaggio. Il romanzo non ha regole né limiti, mentre il racconto abbraccia in un breve intervallo di spazio e tempo tutta l’azione; ogni dettaglio è, perciò, fondamentale e corrobora la visione globale della narrazione. È per tutta questa serie di ragioni troppo spesso ignorate dagli editori che oggi Case Editrici minori si lanciano a comporre antologie di racconti sottovalutando enormemente il genere e chiamando in causa chiunque sappia semplicemente scrivere, tanto un raccontino lo tirano fuori tutti. Allora si ricorre a un nome, che tira il carretto nel mercato, a pochi veri scrittori, che costituiscono l'autentica imbrigliatura su cui si regge tutto il fardello, e a scrittori improvvisati dell'ultima ora, la zavorra che solo appesantisce l'andatura. E la cosa più insolente, per tutti noi, è che questo manipolo di presunti scrittori sono amici dell'editore... ma anche questa, ahimé, è un'altra storia.