Cibo, immigrazione e identità
LUISA LEONINI
Anno II, n. 2, dicembre 2015 ISSN 2284-0869
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Abstract The article looks at the role of food as an element of identity and contacts between cultures. It examines three cases of Italy’s culinary hybridisation from the early 20th century to the present day, the role of Italian food in the Italian-American identity as described in the book by Leonardo Coviello, the encounter between southern and northern Italian food cultures following the internal migrations of the 1950s and 60s, and the food practices of international immigrants in the context of global flows of food and commodities in today’s Italy. In the latter case food plays an essential role in the reconstruction of a familiar setting where immigrants can feel temporarily at home. At the same time, food is an important form of communication between different cultures and social contexts. This process of exchange led to a change in food habits and diets for both immigrants and their hosts, each incorporating elements and ingredients from the other, making the barriers between the groups more porous. Keywords Ethnicity, family, food, Italy, migration
L’articolo si occupa del ruolo del cibo come strumento di identità e di contatto tra le culture. L’argomento prende in esame tre casi riguardanti l’ibridazione culinaria italiana dall’inizio del XX a quello del XXI secolo: il ruolo del cibo italiano nella identità italoamericana, così come descritto nel libro di Leonardo Coviello; l’incontro delle culture del cibo tra Sud e Nord Italia, seguito alle migrazioni interne degli anni 1950 e 1960; le pratiche del cibo degli emigrati internazionali nel contesto dei flussi globali di cibo e merci nell’Italia di oggi. A quest’ultimo riguardo, il cibo gioca un ruolo essenziale nella ricostruzione di un contesto familiare nel quale i migranti possano sentirsi temporaneamente “a casa”. Nello stesso tempo, il cibo è un’importante forma di comunicazione e di contatto tra culture e contesti sociali differenti. In questo processo di scambio vengono modificate le abitudini culturali e le diete sia degli immigrati sia degli ospiti, grazie all’incorporazione di elementi e ingredienti presi l’uno dall’altro, rendendo così i confini più porosi. Parole chiave Etnicità, famiglia, cibo, Italia, migrazione
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1. I viaggi del cibo La cucina, attraverso l’analisi delle forme che la compongono e delle regole che la normano, può essere considerata un linguaggio, una forma di comunicazione e uno straordinario strumento di auto rappresentazione: non solo è uno strumento di identità culturale, è anche e soprattutto il primo modo per entrare in contatto con culture diverse, dato che, almeno a prima vista, mangiare il cibo dell’altro sembra più facile che comprenderne la lingua. Proprio per queste ragioni il cibo, più e prima della parola, si presta a mediare tra culture differenti, aprendo i sistemi di cucina a contaminazioni, incroci, innesti, inserimenti 1. 2. Cibo in movimento La cultura alimentare si modifica costantemente e ovviamente viene coinvolta in processi di cambiamento legati ai fenomeni di globalizzazione che producono una veloce e consistente circolazione di persone, con le loro abitudini alimentari, e di merci che si diffondono lontano dai paesi originari di produzione e d’uso. I processi migratori influiscono sulla cultura alimentare facendo conoscere e incontrare, a chi arriva ma anche agli indigeni, nuovi ingredienti e sapori, creando contaminazioni che modificano i gusti delle persone in modo bidirezionale cambiando le abitudini alimentari di autoctoni e immigrati. Il cibo al di là della sua rilevanza in quanto elemento di affermazione identitaria, è anche uno strumento di scambio culturale, una delle primissime forme di contatto tra civiltà, gruppi sociali, individui, che prevede la messa tra parentesi, anche se solo momentanea, delle proprie categorie culturali, presuppone la fiducia nell’altro, in colui che prepara e offre un alimento a noi sconosciuto. In questo senso possiamo affermare che il cucinare costituisca la soglia più accessibile di una cultura, quella più facilmente travalicabile 2. 1
Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, a cura di M. Montanari, Roma, Laterza, 2002.
2
F. LA CECLA, Il malinteso, Roma, Laterza, 1997; ID., La pasta e la pizza, Bologna, Il Mulino, 2002.
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Lo scambio culinario non mette a rischio la propria identità, poiché non esiste identità senza alterità, la conoscenze ed il confronto con l’altro, confronto che avviene nel conoscere e scambiare elementi delle rispettive culture. Un sistema culturale appare tanto più forte quanto più è aperto verso l’esterno e inserito in percorsi di scambio, di contaminazione, di ibridazione. È la paura dell’altro che rinchiude le persone nelle proprie abitudini, escludendo la conoscenza della diversità, provocando un rifiuto di ciò che non è consuetudinario. L’alimentazione costituisce uno degli elementi della vita sociale più sensibile alle variazioni del contesto in cui ci si trova a vivere. I processi migratori hanno sempre prodotto innovazioni e trasformazioni delle tradizioni alimentari autoctone. Basta pensare alla diffusione dei pomodori, delle patate, del te e del caffè nelle abitudini alimentari degli europei per comprendere le trasformazioni avvenute attraverso gli scambi e la circolazione di cose e persone. Nelle pagine che seguono vorremmo portare all’attenzione di chi legge, in modo estremamente sintetico, tre esempi di trasformazioni nelle abitudini alimentari in contesti migratori: il primo esempio ci propone le trasformazioni degli Italiani emigrati negli Usa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il secondo discute brevemente dell’immigrazione italiana dal sud al nord nel secondo dopoguerra, il terzo ci presenta alcune questioni legate alle prime e seconde generazioni di stranieri immigrati in Italia negli ultimi decenni. 3. Leonardo Coviello: la nascita degli Italomaericani Leonardo Coviello nasce ad Avigliano nel 1887 ed emigra con la famiglia a New York nel 1896 3. Famoso per i suoi diari oltre che per altri studi di taglio pedagogico Leonard Covello – nel processo di americanizzazione gli fu cambiato anche il cognome togliendo la i perché più facile da pronunciare – racconta in modo esempla3
L. COVELLO, The Heart is the Teacher, New York, Mcgraw-Hill, 1958; ID., The Social Background of the Italo-American School Child, Leiden, Brill, 1967.
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re attraverso lo sguardo di un bambino le differenze culturali e sociali e il processo di integrazione nel nuovo mondo. Leonard frequenta una scuola istituita da un’associazione filantropica protestante. La scuola era conosciuta come la Soup School perché a mezzogiorno era offerto un pasto e questa era una delle ragioni principali per cui veniva scelta dagli immigrati per i loro figli. L’obiettivo prioritario della scuola era l’americanizzazione dei nuovi immigrati attraverso l’insegnamento intensivo dell’inglese, dell’igiene, della disciplina e dell’amore e del rispetto per la nuova patria. Nella sua autobiografia Leonardo Coviello racconta come alla Soup School egli abbia incontrato l’abbondanza alimentare americana, esperienza molto significativa per gli immigrati della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento che arrivavano da condizioni di povertà estrema e totale penuria di generi alimentari. L’incontro con la refezione scolastica significò anche l’incontro con la differenza: “all’ora del pranzo ci veniva servita una tazza di minestra con del pane bianco e soffice che serviva a fare palline da sputare piuttosto che a mangiarlo, in confronto con il duro pane fatto in casa al quale ero abituato” 4. L’istituzione scolastica pubblica, secondo l’esperienza di Leonardo Coviello, tendeva a produrre una svalutazione e una stigmatizzazione dell’educazione e delle norme di comportamento che i giovani immigrati avevano imparato nelle loro famiglie, sviluppando tra essi un senso di inferiorità collettivo ed un rifiuto delle proprie origini etniche (nel caso di Leonardo dell’italianità) nella quale veniva individuato lo stato di subalternità socioculturale permanente che caratterizzava i genitori e la generazione più anziana. L’inglese maccheronico e modi di comportamento poco americani segnavano e separavano i genitori dagli americani 5. Le strategie per gestire il conflitto tra valori familiari tradizionali e valori “americani” furono molto frequentemente quelle di
4
L. COVELLO, The Social Background of the Italo-American School Child cit., p. 78.
5
Ibidem.
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operare una netta separazione tra i due mondi, quello domestico e quello fuori della scuola, della strada, degli amici ecc. Se questa strategia di separazione fu utile all’adolescente per sopravvivere nelle due dimensioni, quella privata familiare e quella pubblica del mondo fuori, negli anni successivi, caratterizzati dal consolidamento di una solida e numerosa comunità di italoamericani, c’è da parte di Coviello e di altri giovani italoamericani la consapevolezza dell’importanza delle proprie radici etniche e culturali e della trasmissione della lingua italiana alle nuove generazioni. Solo un’attività didattica e culturale che sviluppasse questi aspetti avrebbe consentito il superamento del senso di inferiorità tipico dei giovani italo americani, la riconciliazione tra sfera privata familiare e sfera pubblica istituzionale, e quindi avrebbe permesso una vera e sostanziale integrazione nella società americana. Questa consapevolezza si tradusse in un atteggiamento e un modo differente di valutare le cose, i prodotti, le abitudini italiane. Ci fu un generale cambiamento di sentire verso tutto ciò che era italiano – il nostro atteggiamento verso il cibo, per esempio. Ci eravamo sempre vergognati del nostro pane italiano riempito di salame, formaggio, salsiccia. Lo tenevamo nascosto e lo mangiavamo ancor prima di arrivare a scuola, per evitare di essere derisi dai nostri amici della casta del “pane bianco e prosciutto”.
Ora incominciammo a scavare nel passato alla ricerca di ciò che era parte del nostro retaggio. Quando non portavamo del cibo da casa andavamo in qualche ristorante italiano. E divenne comune tra noi non dire semplicemente: ho fame, ma “ragazzi, cosa non darei per un piatto di maccheroni!” 6. La centralità delle pratiche alimentari e dei riti della tavola nell’etnicità italoamericana emerge chiaramente non solo dall’autobiografia di Leonardo Coviello, ma da tante rappresentazioni del cinema, della letteratura italoamericana ed è difficilmente confutabile. La cucina etnica italoamericana non risulta essere tanto una so-
6
L. COVELLO, The Heart is the Teacher cit.
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pravvivenza della cultura del paese d’origine, quanto il risultato di incorporazioni selettive di risorse alimentari e di significati culturali presenti nella comunità immigrata. La cucina italoamericana è frutto di una ibridazione e di un mescolamento tra tradizione e americanità. Non è cucina italiana, non è cucina americana, è un prodotto nato in America dall’incontro di due culture, ammantato di tradizionalismo. Negli Stati Uniti è considerato cibo italiano, ma mai lo sarebbe in Italia. “Vi era una propensione ad utilizzare il discorso alimentare come una metafora del sé collettivo, soprattutto per quanto concerneva i temi della moralità, della domesticità e della rispettabilità per articolare la differenziazione tra un noi e molteplici altri, e persino la narrazione di una storia ancestrale del gruppo” 7. Le rappresentazioni della vita domestica prodotte dagli immigrati italiani intendevano esprimere apparentemente una distanza ed una contestazione degli ideali americani di famiglia, ma esse in realtà erano moto più vicine agli ideali della classe media americana bianca e protestante di quanto immaginassero i Coviello ed altri. Per gli italoamericani il simbolo per eccellenza della propria aderenza al modello italiano di coesione familiare era il riunirsi a tavola per la cena e il pranzo della domenica. In realtà questa pratica non si differenziava molto dai comportamenti degli americani bianchi di classe media che si radunavano al tavolo domenicale con il tacchino. Pratiche e rituali alimentari furono utilizzati dagli immigrati per costruire la rappresentazione ideologica della famiglia italiana, idealizzando completamente le origini etniche di provenienza. Il cibo etnico produce un’apparenza di tradizionalismo e la ritualità connessa alla condivisione del cibo avranno una rilevanza notevole nella formazione dei concetti di famiglia e domesticità degli italoamericani per i quali la convivialità non solo quotidiana ma rituale e cerimoniale dei battesimi, dei matrimoni, dei funerali, eccetera, giocherà un ruolo centrale nel rafforzare legami familiari, amicali, di vicinato, eccetera.
7
S. CINOTTO, Una famiglia che mangia insieme: cibo ed etnicità nella comunità italoamericana di New York, 1920-1940, Torino, Einaudi, 2001, p. 722.
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In America la scuola obbligatoria e il lavoro salariato al di fuori del controllo familiare sottraevano rapidamente figli e figlie dalla sfera familiare che nel paese d’origine era stata contemporaneamente il luogo della socializzazione, della produzione e del consumo. Questi ambiti in America si separeranno subito. Proprio questa perdita di significato e di completezza dell’ambito domestico porteranno all’attribuzione di un significato simbolico e rituale ad una forma di tradizione inventata nel nome della quale si chiede anche ai giovani il rispetto di alcuni comportamenti tradizionali. L’invenzione italoamericana di una domesticità italiana e dei suoi riti fu in qualche modo una risposta alla presenza di valori americani moderni percepiti come pericolosi per la stabilità della comunità immigrata 8. Le giovani generazioni accettarono la pratica delle riunioni familiari conviviali della famiglia perché separata dal mondo del lavoro, della scuola, dei pari, e quindi non entrava in conflitto con gli altri ambiti della loro vita quotidiana. Il cibo costituì un codice centrale nell’auto-rappresentazione collettiva degli Italiani come unico popolo ad avere un compiuto senso morale della famiglia. Durante un’intervista a Coviello, un’anziana immigrata disse di sentirsi deliziata quando vedeva che i suoi figli e nipoti mangiavano il cibo italiano, buono e naturale, e venivano cresciuti nella buona tradizione italiana. “Essere americani è una bella cosa, e non è poi così grave non saper parlare ltaliano ma conosco solo una maniera giusta di tirare su una famiglia ed è quella italiana” 9. Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento si avvia un processo di istituzionalizzazione della cucina italoamericana fatta non solo di pasta, pomodoro e olio di oliva ma anche di prodotti più costosi che in Italia venivano consumati esclusivamente nei giorni di festa quali gli insaccati, la carne, il pesce, ecc. introducendo un elemento di prestigio e di successo tra gli immigrati che mangiavano quotidianamente come i compaesani italiani nei giorni di festa.
8
The Invention of Ethnicity, a cura di W. Sollors, New York, Oxford, Oxford University Press, 1991. 9
S. CINOTTO, Una famiglia che mangia insieme cit., p. 740.
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Come correttamente sostiene Cinotto “le modalità di vita e di interazione sociale nelle comunità immigrate […] fecero la loro importantissima parte nella definizione di un modello alimentare assolutamente americano ma sul quale gli immigrati costruirono un importante parte della loro nuovissima identità di italiani […] nacquero piatti simbolo come gli spaghetti and meatballs […]” 10. L’importanza attribuita al cibo italiano e i rituali connessi al mangiare insieme ebbero importanti implicazioni di genere. Le donne immigrate furono le principali artefici della nascente domesticità etnica. Una famiglia italo americana di successo doveva essere in grado di offrire e organizzare banchetti nelle situazioni rituali che lo richiedevano avvicinandosi spesso ai comportamenti della classe media americana bianca e producendo quindi un processo di integrazione apparentemente basato sulla differenza, ma in realtà su una italianità costruita in America e non conflittuale con la cultura americana 11. Lo storico Bevilacqua che ha studiato i cambiamenti nello stile alimentare degli immigrati di ritorno 12, nota che essi assumono comportamenti alimentari differenti rispetto ai loro compaesani restati sempre in Italia: gli “Americani” mangiano carne tutti i giorni. L’utilizzo di un cibo nutriente e costoso quale la carne, segna una differenza rispetto al passato al quale si torna. In questo modo l’americano di ritorno segnala la sua distanza dalla scarsità alimentare, dalla miseria e dalla fame che hanno caratterizzato il periodo pre-migratorio, rende visibile e segnala alla comunità anche il suo successo economico e sociale rispetto a chi è restato. 4. Cibo e migrazione interna in Italia Le abitudini alimentari vengono messe in discussione e variano al variare del contesto e delle situazioni in cui ci si trova a vivere conciliando tradizioni e cambiamenti resi necessari dal nuovo am-
10
Ivi, p. 733.
11
Ibidem.
12
P. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento ad oggi, Roma, Donzelli, 1993.
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biente o da vincoli esterni che costringono a modificare le proprie abitudini anche alimentari. Si pensi, ad esempio, alle ricette rivisitate durante il periodo dell’autarchia fascista in Italia, ai surrogati utilizzati nell’alimentazione durante le guerre, alla creatività delle massaie che riuscivano a costruire dei pasti con i pochi ingredienti disponibili 13. Per illustrare come avvengono i cambiamenti nelle abitudini alimentari attraverso i fenomeni migratori accenniamo ora al fenomeno ben conosciuto della migrazione interna italiana dal Meridione verso le città e le fabbriche del Nord Ovest d’Italia avvenuto nel secondo dopoguerra. Questo esempio ci consente di mettere in luce come all’interno di una nazione si possano produrre cambiamenti biunivoci nelle abitudini alimentari. Chi emigra, infatti, è contemporaneamente soggetto e oggetto del mutamento alimentare. La migrazione dal Sud alle città industriali del Nord provoca un vero e proprio shock culturale tra i primi immigrati del dopoguerra, aggravato dalla precarietà delle soluzioni abitative e del lavoro nelle città settentrionali. Sovraffollamento abitativo e nuova organizzazione del lavoro costituivano veri e propri cambiamenti traumatici per gli immigrati meridionali provenienti prevalentemente da contesti rurali, caratterizzati da tempi e ritmi di lavoro connessi con la stagionalità dei raccolti e con il tempo atmosferico e caratterizzati da estrema miseria e povertà 14. Conosciamo le precarie condizioni abitative – non solo nei paesi meridionali che venivano lasciati ma anche nelle città del nord che li accoglievano – che hanno caratterizzato i primi anni del processo migratorio interno, i pregiudizi della popolazione autoctona verso persone spesso assimilate e trattate come animali, i processi di disumanizzazione dell’altro tipici di questi contesti e processi. Le precarie condizioni di vita in un contesto urbano industriale completamente nuovo, di cui si devono apprendere le regole di
13
Storia dell’alimentazione, a cura di J. Flandrin, M. Montanari, Roma, Laterza, 1997.
14
M. FILIPPA, Il cibo dell’altro. Movimenti Migratori e Culture Alimentari nella Torino del ’900, Roma, Lavoro, 2003, p. 141.
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comportamento, le aspettative del mondo del lavoro e dell’organizzazione delle fabbriche così differenti dal contesto agricolo che si è lasciati alle spalle, provocano un profondo disagio nei nuovi arrivati e generano spesso incomprensioni, esclusione, marginalizzazione. In un contesto di profondo disagio psicofisico il cibo può ricordare se non restituire, anche se in modo assai limitato e parziale, le caratteristiche tipiche dei luoghi abbandonati, il ricordo degli odori e dei sapori dei luoghi di provenienza diventa il modo per costruire e descrivere la differenza tra il mondo che si è costretti a lasciare (agreste, sano, naturale) e il mondo grigio e insalubre delle città industriali nelle quali ci si trova costretti a vivere. Nuovi odori, nuovi sapori segnano le differenze tra meridionali e settentrionali, così come la cadenza della lingua parlata e dei dialetti. Attraverso lunghissimi viaggi in treno, così ben documentati dal cinema del realismo italiano e dai documentari dell’epoca, in scompartimenti saturi di odori e colori e parlate dialettali, grandi quantità di cibo e spezie vengono portate al nord per rendere meno inospitale il nuovo mondo in cui si abita. La presenza di un numero consistente di immigrati meridionali nelle città del nordovest produce delle trasformazioni nel modo di cucinare anche al Nord introducendo l’abitudine all’utilizzo nella cucina di alimenti pressoché sconosciuti o comunque raramente utilizzati in precedenza, producendo dei cambiamenti nel mangiare anche nella popolazione autoctona. Da un iniziale rifiuto della meridionalità, associata soprattutto agli odori che cibi e persone emanano, così come in anni recenti e anche oggi gli odori contraddistinguono la nostra diffidenza e differenza rispetto agli immigrati extracomunitari, si procede verso una graduale accettazione dell’altro che passa prima dall’introduzione nelle proprie abitudini alimentari di alcuni ingredienti della cucina dell’altro e poi, successivamente, al riconoscimento di queste come persone. Grazie alla diffusione nei negozi e nei mercati del Nord Italia di prodotti e ingredienti tipicamente meridionali, alle esperienze di interazione e di incontro con loro, le abitudini alimentari di lombardi e piemontesi iniziano a cambiare: la pasta si affianca inizial-
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mente, fino poi ad imporsi, al minestrone e al riso, l’olio d’oliva al burro e al lardo, il sugo di pomodoro si diffonde e diventa il condimento più diffuso a livello nazionale. Simmetricamente è possibile cogliere cambiamenti nelle abitudini alimentari anche degli immigrati provenienti dal Sud Italia, mutamenti che modificano non solo il modo di mangiare ma anche i ritmi e tempi della vita quotidiana. I ritmi di vita e di lavoro dettati dalle fabbriche, che sono profondamente differenti da quelli dei lavori agricoli, soprattutto per quanto riguarda la turnazione, impongono anche differenti ritmi di alimentazione e dello stare a tavola. Alcuni cibi diventano troppo pesanti, troppo piccanti, per chi deve lavorare in certi orari con certi ritmi. La trasformazione dei gusti di chi emigra si muove parallelamente con quella della cultura di chi li accoglie, influenza ed è influenzata contemporaneamente. Ovviamente non tutti sono aperti all’esperienza e all’incontro con il cibo dell’altro, ci si può sentire minacciati e trincerarsi dietro la valorizzazione del cibo autoctono considerandolo come l’originale, rifiutando ogni tipo di ibridazione e incontro. Se ci si sente minacciati nella propria identità etnica, culturale, sociale, si cercherà di impedire la contaminazione con odori, sapori, oltre che con rapporti interpersonali con gli altri. D’altro canto per l’immigrato meridionale che adotta le usanze alimentari settentrionali vi è anche, in questo modo, un prendere le distanze dal sistema di vita e di relazioni del proprio paese d’origine, un modo per esprimere una distanza mentale, culturale e sociale, oltre che geografica, dal mondo che si è lasciato dietro. Rifiutando le abitudini alimentari della propria cultura spesso si rifiuta anche altri aspetti rilevanti del sistema culturale del paese lasciato, che ricorda fame, sofferenza, miseria e tutti gli altri motivi per cui si è deciso di emigrare. Ovviamente solo alcuni migranti hanno questo atteggiamento di rifiuto di ciò che lasciano, molti sono invece fortemente legati al paese d’origine, migrare ha significato per loro separarsi da affetti, legami di amicizia e di parentela e la nostalgia viene alimentata e, allo stesso tempo curata, anche da sapori e odori provenienti dalla patria lontana. Nelle generazioni successive a quelle primo migranti il legame con la terra d’origi-
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ne si affievolisce molto e il desiderio di sentirsi assimilato agli autoctoni emerge spesso con prepotenza. Per le seconde generazioni, soprattutto nel caso di migrazioni interne, dove non entra in gioco la variabile etnica o nazionale, dove non vi sono vistose differenze somatiche, il desiderio di omologarsi ai compagni, al gruppo dei pari, all’ambiente di lavoro, eccetera, diventa sempre più forte e, come già abbiamo visto con l’esempio degli Italoamericani, si attuano strategie di costruzione identitarie diverse a seconda degli ambiti e delle sfere in cui si interagisce. In famiglia verrà esaltata la meridionalità, con gli amici e i compagni di scuola la milanesità o la torinesità per cercare di non essere identificato ed etichettato come “terrone”. L’afflusso in Italia di una migrazione esterna a partire dagli anni Settanta del Novecento, ha smorzato e reso meno conflittuali le differenze tra settentrionali e meridionali, concentrando l’attenzione e le tensioni sociali sui nuovi immigrati che provengono spesso da mondi lontani, che palano altre lingue e sono portatori di istanze, richieste, esigenze nuove nel nostro paese che improvvisamente da paese di migranti (interni ed esterni) si trova ad essere anche paese ricevente immigrati. Nel prossimo paragrafo cercheremo di leggere alcune di queste trasformazioni e cambiamenti attraverso il cibo 15. 5. Le migrazioni contemporanee e le abitudini alimentari Il cibo, come abbiamo cercato di illustrare negli esempi precedenti, rende evidenti e ben visibili appartenenze, differenze, origini etniche, segnala il passaggio da una comunità ad un’altra, rende visibili le differenze non solo etniche e di origine geografica ma anche sociale. Il cibo dei ricchi, in ogni tipo di cultura e società è diverso dal cibo dei poveri, il cibo di chi lavora fuori casa è di verso da quello di chi può dedicare tempo alla sua preparazione. Le differenze non sono sempre chiare e marcate, i confini possono essere permeabili e consentire infiltrazioni e ibridazioni reciproche. In alcuni casi può invece separare rigidamente, costruire una barriera invalicabile che separa il commestibile dal non commesti15
F. NERESINI, V. RETTORE, Cibo, Cultura, Identità, Roma, Carocci, 2008.
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bile, il puro dall’impuro, il civile dal barbarico trasformandosi in un elemento identitario che definisce identità delle persone, lo straniero e l’autoctone, l’io e l’altro. L’idea che noi siamo quello che mangiamo, è ancora sostenibile nel contesto contemporaneo caratterizzato da flussi e movimenti sempre più intensi e rapidi che assumono una dimensione globale e che mettono in discussione la stabilità dei confini? Il cibo è stato spesso utilizzato per ottenere e attrarre l’attenzione dell’altro, per farsi apprezzare, per favorire scambi e insinuarsi in punta di piedi nelle abitudini quotidiane dei nativi, trasformando alla lunga e rendendo ibrido e meticciato lo spazio comune 16. Com’è stato già rilevato il cibo può rappresentare un ambito privilegiato di nostalgia per il mondo lasciato e chiusura comunitaria, occasione di memoria e celebrazione esclusiva; l’evidenza più banale e contemporaneamente più persistente di una differenza, reazione a difficoltà di inserimento, a discriminazioni e ostilità o strenuo baluardo che consente di restare separati, diversi, altri, di non lasciarsi omologare 17. La migrazione contemporanea, si differenzia dalle precedenti, perché si colloca in un contesto di crescente globalizzazione caratterizzato da spostamenti più economici e veloci e, se paragonati a quelli dell’inizio del Novecento, incredibilmente più frequenti. Il fatto poi di essere inseriti in un sistema globale di consumo, in cui la circolazione di merci, idee, immagini, stili di vita è sempre meno vincolata dai confini dello stato nazione, fa sì che nei principali paesi occidentali di migrazione siano comunque ampiamente reperibili beni e informazioni direttamente provenienti dal paese di nascita dei migranti” 18. C’è da chiedersi se questa maggior facilità di comunicazione, di scambio e circolazione di merci e persone possa ridurre la nostalgia e la sofferenza legate al proces16
D. GABACCIA, From Sicily to Elizabeth Street: Housing and Social Change Among Italian Immigrants, 1880-1930, Albany, State University of New York, 1984.
17
S. GUNEW, Haunted Nations: The Colonial Dimensions of Multiculturalism, London, New York, Routledge, 2004.
18
E. COLOMBO, G. NAVARINI, G. SEMI, I contorni del cibo etnico, in Cibo, cultura e identità cit., p. 84.
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so migratorio. Trovare nei negozi delle città italiane ingredienti e prodotti della propria cucina tradizionale, spesso appartenente ad un diverso continente, è diventata pratica semplice e comune. Nei mercati all’aperto si trovano ortaggi e frutti che non conoscevamo fino a qualche anno fa e macellerie islamiche si trovano in parecchi quartieri di città come Milano caratterizzati da una presenza considerevole di immigrati di fede islamica. In questo contesto possiamo chiederci come si comportano gli immigrati e i loro figli? Continuano a mangiare secondo le abitudini e tradizioni dei paesi d’origine o utilizzano e consumano cibi caratteristici della cucina italiana? Oppure ancora mescolano le diverse tradizioni a seconda dei contesti e delle situazioni? Come è stato sottolineato da Bourdieu 19 il cibo costituisce uno dei legami più profondi con il proprio gruppo sociale facendo parte di un insieme di pratiche interiorizzate, trasformate in habitus, diventando una seconda natura difficilmente modificabile. Ciò porterebbe a concludere che gli immigrati mantengano le loro abitudini alimentari e culinarie tradizionali. I dati di varie ricerche effettuate sugli immigrati e le seconde generazioni, sembrano in realtà mostrare un contesto di maggior complessità e articolazione 20. Una prima differenza nei confronti del cibo può essere colta tra le diverse generazioni e in particolare tra i genitori primo migranti e le seconde generazioni cresciute, se non nate, nel nostro paese. Se infatti per la gran parte dei genitori le abitudini culinarie dei loro paesi d’origine continuano ad essere il principale riferimento sia nella preparazione del cibo quotidiano, sia, a maggior ragione, del cibo legato alle festività, ricorrenze, eccetera, per i figli il cibo quotidiano corrisponde al cibo dei loro compagni italiani e solo nelle celebrazioni e nei riti famigliari consumano cibo etnico. Vi sono famiglie in cui proprio per i figli si prepara “cibo italiano” durante
19
P. BOURDIEU, Esquisse d’une théorie de la pratique, Genève, Droz, 1972.
20
L. LEONINI, Stranieri e italiani: una ricerca tra gli adolescentifigli di immigrati nelle scuole superiori, Roma, Donzelli, 2005; L. LEONINI, P. REBUGHINI, The consumption styles of immigrant families in Italy: identifications, status, and practices, in “Family and consumer sciences research journal”, 41:2, 2012, pp. 161-171.
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la settimana perché quello etnico è rifiutato come troppo piccante, troppo condito e pesante. Certamente l’abitudine al cibo italiano acquisita nelle mense scolastiche e nei punti d’incontro (oratorio, eccetera) influisce sulla costruzione di pratiche alimentari differenti per le nuove generazioni. La preparazione dei cibi per i figli si discosta quindi da quella dei genitori che la sera mangiano cibi riadattati ma che si rifanno alle cucine tradizionali di provenienza, mentre pasta, bistecche e patatine vengono preparati per i figli. Va infatti considerato che anche i genitori, modificano e adattano il cibo tradizionale alle esigenze e necessità della vita quotidiana in Italia. Così come gli italoamericani costruivano una loro cucina che non era né italiana né statunitense, così come gli immigrati dal Sud Italia modificano e integrano le loro diete alle necessità legate ai ritmi e tempi del lavoro in fabbrica, anche gli immigrati del capitalismo globalizzato contemporaneo attuano delle modifiche che rendono il cibo più rapido nella preparazione e spesso anche più calorico e più pregiato, mostrando, almeno nell’alimentazione, le migliori condizioni di vita e l’affrancamento dalla povertà. Come per gli Italoamericani descritti da Coviello, anche per gli immigrati contemporanei i pasti festivi e celebrativi diventano un momento di particolare importanza, il momento del ricordo di casa, un modo per coltivare e assopire la propria nostalgia. Spesso s’invitano parenti e amici compaesani e la preparazione e consumazione del pasto richiede parecchio tempo, quel tempo assolutamente assente nella vita quotidiana dei giorni feriali assorbita da orari di lavoro spesso lunghi e faticosi. I figli, abituati al cibo italiano nella loro quotidianità, accettano di mangiare il pasto celebrativo etnico solo in alcune occasioni particolari, trovandolo spesso troppo piccante, troppo pesante, troppo distante da quello di amici e compagni. Il cibo definito italiano da questi ragazzi non è certo quello della tradizione regionale, della cucina elaborata e raffinata che riempie i programmi televisivi, ma è una sorta di menu semplificato e veloce fatto di pasta o riso, bistecca, affettati, poca verdura e frutta. Un’idea semplificata e standardizzata della cucina italiana ben diversa da quella che Slow food e Eataly costruiscono e diffondono tra le élites globalizzate. Spesso
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il mangiare fuori con gli amici significa andare da McDonald o in pizzeria come del resto anche per molti coetanei italiani. Le madri hanno un ruolo importante in queste trasformazioni: lungi dal costituire sempre un baluardo di difesa e di riproduzione delle tradizioni, in cucina le madri sembrano favorire la trasformazione 21 abituando i figli, fin da piccoli, ai sapori, alla consistenza, all’estetica e agli abbinamenti tipici della cucina italiana […] Alle madri appare spesso scontato che i figli nati e cresciuti in Italia non siano più adatti a sopportare i piatti pesanti e ricchi di spezie che sfamano e soddisfano i gusti dei genitori e che sia loro compito specifico ampliare la dieta domestica in modo da assicurare il massimo benessere dei figli […] evitando che siano emarginati e si sentano esclusi 22
a contatto con i coetanei italiani. 6. Conclusioni In questo breve saggio, attraverso l’analisi di tre esempi legati a processi migratori esterni e interni del Novecento e del primo decennio del nuovo millennio, in periodi storicamente differenti e caratterizzati da diverse situazioni economiche e sociali e da equilibri geopolitici profondamente modificati, abbiamo cercato di mettere in luce quanto l’alimentazione possa costituire un importante elemento di differenziazione ed esclusione sociale così come di integrazione ed assimilazione. Mi pare interessante mettere in luce come vi siano profonde similitudini tra gli italiani che emigravano in America tra la fine e l’inizio del Novecento, tra i meridionali che si trasferivano nelle città industriali del nordovest italiano negli anni del boom economico, e gli extracomunitari che giungono nel nostro paese negli ultimi anni del Novecento e all’inizio del nuovo millennio. Ciò mette in luce il profondo legame tra cultura e cibo che si rende protagonista nell’incontro tra culture differenti. Un prodotto viene definito alimento commestibile perché così è costruito culturalmente e diventa di fatto un elemento di identità culturale. 21
A. APPADURAI, The Social life of things, Cambridge Mass, Cambridge University Press, 1988; Shedian 2000.
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E. COLOMBO, G. NAVARINI, G. SEMI, I contorni del cibo etnico cit., p. 86.
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Durante i processi migratori la mancanza dei propri tratti culturali che sono assenti nel mondo in cui si è giunti, induce alla ricerca di prodotti, artefatti, alimenti, oggetti, musica, film ed altri prodotti culturali che soddisfino il bisogno di ricostruire un contesto familiare nel quale il migrante possa sentirsi transitoriamente “a casa”, o, almeno, meno estraniato ed escluso dal modo che lo circonda. Il cibo costituisce da questo punto di vista uno degli elementi più importanti per la sua capacità evocativa, attraverso odori, colori, sapori, e la sua presentazione e consistenza. È un’esperienza multisensoriale che evoca luoghi, persone, situazioni del mondo lasciato. In questo modo il cibo contribuisce a rendere meno doloroso e più accettabile l’abbandono della propria patria, della propria famiglia, eccetera. Contemporaneamente, come si è descritto nei tre esempi, gli alimenti costituiscono un’importante forma di comunicazione e contatto tra differenti culture e contesti sociali. Il cibo costituisce il linguaggio più semplice attraverso il quale possiamo interagire e relazionarci con gli altri. Non è solo un alimento necessario per la sopravvivenza biologica delle persone ma è un prodotto culturale altamente simbolico in tutte le fasi: dalla raccolta, alla produzione, alla preparazione, alla presentazione, alla condivisione e al consumo, implica relazione sociale e attribuzione di significati sociali. Il cibo, come abbiamo visto, contribuisce notevolmente al contatto tra culture che lo modificano nella sua preparazione, nei suoi significati essendo esso stesso un prodotto delle relazioni sociali e delle interazioni tra persone e culture. Avviene quindi un processo di ibridazione e di trasformazione biunivoca dei cibi dell’uno e dell’altro. L’alimentazione è oggetto e soggetto dei cambiamenti culturali e delle relazioni tra individui che sono soggette ad un continuo processo di cambiamento, l’incontro tra modi differenti di mangiare, tra cibi differenti, fa si che il modo di mangiare sia dei migranti sia dei riceventi venga modificato tenendo conto di elementi e ingredienti dell’altro. Questo non è quasi mai un processo consapevole ma avviene lentamente e gradualmente rendendo porosi i confini tra l’io e l’altro e sviluppando un minimo di co-
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noscenza reciproca anche nei casi di rifiuto e chiusura nei confronti dello straniero. È proprio nella dimensione culturale, del simbolico, che i processi di globalizzazione hanno maggiori possibilità di emergere e palesarsi. Da un lato si assiste infatti alla diffusione di una cultura globale in cui due prodotti legati alla alimentazione: Coca Cola e McDonald’s sono diventati i simboli universali; dall’altro elementi culturali legati al cibo ma anche alla musica, al cinema, alla medicina, eccetera, penetrano nel mondo occidentale anche grazie ai migranti. Non si può quindi parlare di un processo univoco di omologazione ai valori, ai significati, alla cultura occidentale ma di un rapporto biunivoco tra mondi e culture differenti. Del resto anche in Italia la valorizzazione del cibo e delle tradizioni locali, del consumo a Kilometro 0, è un processo che nasce dal timore dell’omologazione ad una cultura globale basata sulla razionalità economica, sul risparmio di tempo e denaro e su una standardizzazione dei gusti e dei sapori. Locale e globale ma anche riconoscimento delle diversità e delle specificità culturali sono elementi indispensabili per comprendere il complesso, variegato e differenziato mondo in cui viviamo.
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Luisa Leonini Insegna sociologia dei consumi all’università degli studi di Milano. Si occupa di sociologia dei consumi, di sociologia della famiglia e di immigrazione. Ha pubblicato vari saggi e ricerche su questi temi tra i quali ricordiamo L’identità smarrita, Bologna, Il Mulino, 1986; Stranieri e Italiani, con E. Colombo e P. Rebughini, 2005; Il Consumo critico, con R. Sassatelli, Roma, Laterza, 2008; Legami di nuova generazione, Bologna, Il Mulino, 2012.
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