Storie ispirate a fatti realmente accaduti, racconti che esplorano culture e stili di vita diversi, omaggi letterari a Quentin Tarantino, tuffi utopistici in un futuro prossimo, intime memorie familiari, fulminei colpi di scena, sguardi amari e disincantati o taglienti d’ironia sulle miserie umane: tutto concorre a creare un vero libro libero, fatto di aperture sul mondo della scrittura e della letteratura, sulla creatività di chi ha scelto per esprimersi il veicolo della parola scritta. La seconda edizione del seminario di scrittura “Narrare è un destino”, tenuto a Officina Giovani di Prato, ha prodotto questa raccolta di scritti e scrittori toscani: il libro inaugura le edizioni di Officina, e i racconti sorprendono per la qualità e il lavoro sulla parola. I ragazzi e le ragazze che hanno frequentato il seminario, alcuni per la prima volta, altri proseguendo l’esperienza dello scorso anno, si sono impegnati nel difficile lavoro di raffinare il talento. E ci sono riusciti. (d.f.)
DAVID FIESOLI (Prato, 1961) Giornalista e critico letterario, scrive sulle pagine culturali del quotidiano “Il Tirreno”. Ha pubblicato “Il vincolo ricurvo” (Marotta, Napoli 1997) il saggio sul mito greco “Il segreto di Talete” (Kamen’, Milano 2000), il “Discorso di Ofelia” nel volume collettivo “Autori contro la guerra” (Edizioni associate, Roma 2003). Ha curato il volume “Il destino di scrivere” che raccoglie gli scritti della prima edizione del seminario di Officina Giovani “Narrare è un destino”.
CHIUSI FUORI esercizi letterari in Toscana
2 a cura di David Fiesoli
INTRODUZIONE Scrittori: se ne intravede già la forma, il talento. La seconda edizione del seminario di scrittura “Narrare è un destino”, tenuto a Officina Giovani di Prato, ha prodotto questa raccolta di scritti e scrittori toscani: il libro inaugura le edizioni di Officina, e i racconti sorprendono per la qualità e il lavoro sulla parola. I ragazzi e le ragazze che hanno frequentato il corso, alcuni per la prima volta, altri proseguendo l’esperienza dello scorso anno, si sono impegnati nel difficile lavoro di raffinare il talento, e ci sono riusciti. La qualità degli scritti, la capacità di costruire dialoghi, l’impegno nell’elaborare i contenuti, l’attenzione alla forma, dimostrano che la passione sa indirizzarsi, che l’amore per la scrittura e la letteratura, se unito a una consapevolezza di quel che la scrittura è e di quanto lavoro serva per realizzarla, produce nuovi talenti. E anche se non ci sono pretese di scoprire nuovi scrittori, tuttavia se ne comincia a intravedere l’ossatura, nei diversi approcci stilistici che, in assoluta libertà, i ragazzi e le ragazze hanno tentato e scelto. Storie ispirate a fatti realmente accaduti, racconti che esplorano culture e stili di vita diversi, omaggi letterari a Quentin Tarantino, tuffi utopistici in un futuro prossimo, intime memorie familiari, fulminei colpi di scena, sguardi amari e disincantati o taglienti d’ironia sulle miserie umane: tutto concorre a creare un vero libro libero, fatto di aperture sul mondo della scrittura e della letteratura, sulla creatività di chi ha scelto per esprimersi il veicolo della parola scritta. Anche per questa seconda edizione, il seminario “Narrare è un destino” si è avvalso della professionalità
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di poeti, romanzieri, critici letterari e saggisti che sono venuti a Officina Giovani a parlare ai ragazzi di generi letterari e forme di scrittura: il poeta Roberto Carifi, il regista e scrittore Italo Moscati, il critico Daniela Marcheschi, lo scrittore Marco Vichi. A tutti loro va un sincero ringraziamento per aver fatto crescere scrittori in erba, spiegando e raccontando cosa significa aver la necessità di scrivere. DAVID FIESOLI
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Vittorio Toschi A COME AMORE
No, non c’era un vero motivo, ma aveva solo voglia di sbatterla contro il muro. E non poteva, perché non c’era alcuna ragione logica, giustificabile. Paola era carina, gentile, educata e più intelligente di lui. O forse era proprio per questo che voleva farle del male. Molto male. Ma non poteva. Allora stava zitto. Zitto Gianmaria. Zitto. E Paola parlava. Parlava. Parlava molto Paola e diceva cose sempre giuste e sensate a cui nessuno poteva opporsi. E infatti nessuno la contraddiceva mai. Nessuno, e meno che mai Gianmaria, che infatti stava zitto e soffriva e s’incazzava sempre di più e senza sapere perchè. Certo, Paola aveva ragione anche questa volta. Certo, non c’è pensiero più sano e più giusto che metter su famiglia. E ora che siamo due brillanti avvocati con l’ufficio nello studio di papà, niente di meglio che tirare su un piccolo avvocatello che continui la stirpe. Certo, PaolaAmoreMio, hai ragione come sempre e io devo stare zitto. Zitto. E intanto pensava a come scappare, ma lo sapeva bene che non c’erano vie d’uscita. Era circondato. Fregato. Fottuto. Oscillava tra assurde idee suicide e più sane, ma ugualmente improbabili, fughe esotiche a vivere di pesca (Gianmaria non aveva mai pescato). Poi riprendeva lucidità e si sentiva ancora più impotente e stava zitto. Zitto Gianmaria. Mentre Paola parlava. Parlava senza fine. E progettava, forte dell’appoggio implicito dell’avvocato Cesaretti e dell’incapacità di Gianmaria di ribellarsi a suo padre. Ma soprattutto forte
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di essere dalla parte giusta. Consapevole della missione di saggezza da compiere. Aveva il dovere, oltre che il piacere, di riportare Gianmaria sulla retta via, la sua. Gianmaria era fragile, ma aveva avuto la fortuna di incontrare lei che lo avrebbe riportato sulla giusta strada, per il bene di entrambi. Oggigiorno è così facile perdersi, sbagliare strada e non riuscire più a tornare indietro. Zitto Gianmaria. Zitto. Gianmaria riconobbe i passi avvicinarsi alla sua camera e scommise su cosa sua madre avrebbe detto: "Un po’ di dolce, ragazzi?". Scommessa vinta. Eccola. La mazzata finale. La signora Emma da dietro la porta della camera di Gianmaria. Naturalmente non si sarebbe azzardata a entrare senza bussare, sua madre non faceva niente che potesse ledere la libertà degli altri, a meno che, naturalmente, non si ostinassero a voler fare di testa propria. Paola si scostò leggermente da lui: "Certo, signora Emma. Entri che la mangiamo assieme". Gianmaria era circondato, perduto. Gianmaria era già morto. E lo sapeva. Paola trionfante chiacchierava con la sua alleata per definire gli ultimi accordi. E Gianmaria doveva solo dire si, che andava bene. Rabbrividì. Cercò di calmare il sudore e la rabbia e si mise a pensare a cosa aveva senso per lui, cosa voleva veramente. Cercava un appoggio per dire di no, che a lui non andava bene, perché voleva fare altro. Molto altro. Molto più importante. Ma niente. Vuoto. Tabula rasa. Era proprio la fine. Zitto Gianmaria. Zitto. Confuso e incazzato. E dopo tre giorni suo padre andava in ospedale per l’operazione e poteva non tornare. E pensava che se non tornava allora era davvero la fine. E pensava che nonostante tutto solo lui poteva salvarlo. Poi si vide davanti gli occhi grandi e scuri di Paola che
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dicevano: "Mi sa che allora non mi ami veramente. Forse non mi hai mai amato.".
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Dario Zona TI SCUCIO!
“Che fai, non ti sbottoni? Che ti è successo? Ti scucio!". Non furono parole di minaccia, avevano al contrario la leggiadria di chi può permettersi stravaganze. Parole di un’artista, convinta che la vita è arte e che l’arte è semiseria. Impertinente vivere rettamente. “Quando parlo, lo faccio sempre allo specchio, in camera da letto. Anche adesso”. Ma adesso lo specchio che Ada aveva di fronte era quanto di più lontano dal riflettere la propria immagine. E anche il contesto era forse l’opposto della sua camera da letto. Si trovava infatti in treno. E di fronte si trovava un quarantenne brizzolato, un amico incontrato dopo anni, con una fede al dito e qualche “cucitura” in più. Quella mattina, nei cinquanta minuti del tragitto Pistoia – Firenze, Gaetano fu centrifugato da Ada: girato a 360 gradi, strizzato e steso al sole di un’estate troppo precoce. “Ci sono novità? Dice così la gente, non è vero, quando si rivede… Che cosa mi racconti?”, chiese la curiosità. Ma Gaetano, restio a parlare di sé a se stesso, si trovava a disagio a raccontare la sua vita di fronte a una pletora di uditori, i passeggeri del treno - così almeno l’uomo disse a se stesso. L’imbarazzo rispose evasivo e annoiato: “Che vuoi, non ci stanno mai le novità…”. Ada avrebbe voluto far cambiare canale a Gaetano. Lo ricordava meno ermetico. Gli piaceva più fantasioso. Ma percepiva che l’ostacolo al suo svelamento non erano i passeggeri del treno in ascolto: era proprio lei l’ostacolo,
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lei che ostacoli non si pone. Non c’è cosa più difficile, per chi è timorato, di parlare con chi non ha timore alcuno. Provò con una scrollata ulteriore: “Ah…Voi del Capricorno, siete tutti congelati!!! Guarda che se non ti sbottoni tu, ti scucio io! – disse facendo volteggiare in aria le mani come forbici – Per fortuna che hai l’ultimo bottone della camicia sganciato, partirò da lassù!”. Strano, ma del rimprovero che le faceva Ada, Gaetano colse l’elemento pratico: si guardò il collo e parve rammaricarsi di non aver agganciato quell’ultimo bottone della camicia, dal quale usciva qualche pelo. Come se davvero lei avesse potuto prendergli il colletto e metterlo a nudo a partire da quella piccola fessura. Gaetano disse allora a se stesso che non era inappuntabile, Ada percepì un uomo vulnerabile. “Che vuoi, si fa quel che si può, si va avanti. Sto sistemando casa, ora è quasi finita”, disse Gaetano, cercando di ravvivare con tono di voce squillante le sue parole di circostanza. Ma Ada non fu soddisfatta, non lo riconosceva più; aveva lasciato un uomo brioso, pur nei ranghi di un Capricorno s’intende, ma un uomo battagliero, e si trovava di fronte adesso una sfinge inespressiva, una copia sbiadita. “Certo che ti sei proprio allacciato bene! Hai la cerniera serrata, i bottoni stretti, uno strato di nylon che ti gira intorno… e una colata di marmo sopra a guarnire…”, lo dipinse lei, divertita e dissacrante, gli occhietti vispi da investigatrice di sentimenti. Lui accennò un sorriso conciliante, supplichevole quasi, e bisbigliò qualcosa, ma lei – come il nome che portava – si poteva prendere con le buone o con le cattive, leggere da destra e da sinistra, tanto lei – ADA – rimaneva sempre uguale a se stessa: spumeggiante e irrefrenabile, palindroma, ADA. “Che devo fare, mi metto un velo sugli occhi, faccio la
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sacerdotessa, così ti confessi; ma sai che loro dai buchini del confessionale ti vedono, i preti!”. Gaetano non aveva più messo piede in confessionale da quando era ragazzo, pure questa cosa qui era rimasta impressa anche a lui. Era vero: in quei confessionali di legno scuro – legno duro per le ginocchia – il prete dalle fessure poteva vedere gli occhi del penitente, ne era certo. Ma non viceversa. Chissà perché, mistero di quei forellini! Mentre questo ricordo d’infanzia gli percorreva la mente, Ada percepì sul suo volto un’espressione di meraviglia, un barlume di scongelamento. Perché da piccoli si è meno complicati. E i ricordi d’infanzia che d’improvviso fanno breccia nell’animo adulto lo affrancano dalla rete di cerniere, bottoni, nylon e colate di marmo, e producono una sensazione di sollievo o di angoscia, talora tutt’e due in rapida successione. Ah, l’eccesso di semplificazione! “Che c’è, che fai, ti scuci?”, pizzicò di nuovo il Cancro. “Eh basta co’ sto scucio!”, reagì infine il Capricorno stizzito. “Ok va bene, va bene, ma mi raccomando non t’intestardire; sai che la vita è arcuata – disse lei mimando una chicane – c’ha le curve la vita, e se tu ti fai tutto d’un pezzo, caro mio, alla prima curva ti sbulloni”. Si fermò un istante e ripartì di slancio: “Se invece sei sinuoso come il serpente, la vita la prendi sempre di taglio, mai di punta… certo che filosofa del cazzo che sono, eh?” , concluse sinceramente divertita Ada, lanciando uno sguardo inverecondo verso i passeggeri, quasi a raccogliere fischi o applausi, comunque un tributo alla sua brillantezza. Ma né lodi né infamie si levarono, e per un attimo Ada pensò di fare teatrino, di sbottonare ben bene quella ciurma di pendolari che si fingevano indifferenti, e invece trattenevano a stento chi fastidio, chi invidia, chi gratitudine. Gaetano gratitudine. Quella gratitudine sofferta, che non si esprime, ma si imprime nel cuore e vi apre crepe. Mica può 13
essere tutto d’un pezzo anche il cuore. Come farebbe a pompare le arterie? “Eppure c’è chi programma tutto della sua vita: mi fidanzo nel 2000, mi sposo nel 2004, due figli maschio&femmina nel giro di tre anni, amante entro i quaranta, divorzio poco dopo. C’è chi programma perfino quando andrà a cacare, ma non si può primeggiare la vita, la si può solo assecondare! Eppure questo non vuol dire rassegnarsi, bada bene, tutt’altro”. Gaetano faceva fatica a seguirla. E lei - chissà poi perché tirò fuori la storia dei telecomandi rotti. “Vedi, io sono fatta così, lo sai, non posso tollerare che il mio uomo si metta nel letto accanto a me, accenda la televisione e inizi a fare zapping. Amore, amoreeee, amoreeeeee!!! Non lo posso accettare. Amore ci sono io, guarda me, dammi il telecomando!!! Tu non sai quanti telecomandi ho rotto in vita mia – anche i coglioni ho rotto, è vero, ma quanti telecomandi! Non lo posso tollerare, mi fa orrore! Mi fa venire la crisi di nervi”. A questo punto Gaetano pensò di aprire il contraddittorio, ma per aprirlo doveva aprirsi e opporre all’inquietudine di Ada modella d’arte il pacifismo ora mite ora muto del suo carattere lineare. Ma si ricordò che con la diplomazia si rimaneva schiacciati da Ada, come volersi riparare a valle da una slavina che precipita dalla vetta: impensabile! Sì perché ciò che tutti reputano buon senso, per Ada è mollezza, e quello che molti definirebbero stabilità per lei è un suolo di ghiaccio da rigare coi pattini. Si può tentare di mostrarle che è un pavimento di marmo, e non un campo di pattinaggio quello su cui si sta ritti, e che il piede può calcare il suolo fermamente, vi può imprimere l’orma, ma Ada calza già pattini con la lama di ferro, riga le superfici piane, cerca equilibri insoliti. Ed è difficile stare accanto a un equilibrista, sul filo c’è posto solo per un acrobata, per un solo valido acrobata. Così alcuni uomini si erano accostati ad Ada, ma molti erano caduti giù dal filo, usciti da casa col telecomando in mano o senza,
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comunque con la voglia di fare zapping. Ada, invece, pareva avere le idee chiare sul tipo di uomo adatto a lei: “Il mio uomo deve essere pazzo!”, rivelò a Gaetano. E stavolta non c’era un filo di ironia nelle sue parole. Sì perché non potrei accettare quelle scene da matrimonio, quei week-end programmati, quei ritmi stantii…Io ho bisogno di un uomo come Lorenzo…l’altra notte mi ha svegliata alle tre di notte, mi ha presa di peso e portata al mare. Con Lorenzo mi trovo, anche lui fa il modello d’arte. E’ da ammirare perché per un uomo la nudità è più complicata. Certo che è monotono avere un collega per compagno… ma meglio due modelli che due commessi, sai che palle due comm...”. E si interruppe soffocando un sorriso birichino, sgranando e roteando gli occhi, come chi ha corso il rischio di offendere qualcuno, ma non ne è affatto pentito, anzi divertito. Coi permalosi Ada si faceva beffarda, coi seriosi irriverente, ma a dire il vero irriverente e beffarda era con la vita intera, per poterla prendere di taglio, mai di punta, sinuosa come serpente – come professava fiera. “Una volta mi vestirono come una Madonna, e finito il turno di posa me ne andai in giro così, con l’aureola in testa. Tornai a casa in treno, e mi sedetti di fronte a un tipo rigido, sarà stato un perito elettronico, che mi guardò sprezzante. Gli dissi: ‘Non si preoccupi, è l’immortalità che disturba!’. Ma non mi rispose, tornò ad aggeggiare al suo portatile, come fosse la sua aureola”. Gaetano si figurava bene la scena, gli pareva di averla già sentita, o forse sognata. In realtà stava vivendo qualcosa di simile; si sentiva un po’ disturbato come il perito elettronico, straniato da una luce prorompente, quasi davvero Ada fosse un’apparizione celeste, un’epifania improvvisa, una rivelazione repentina: l’immortalità che disturba! Gaetano non ebbe il tempo di riflettere a sufficienza sull’immortalità disturbante, che Ada si era già lanciata nel racconto di un altro aneddoto della sua vita vissuta: 15
“Un’altra volta andai alla presentazione di un libro di Dacia Maraini, ma sinceramente mi stavano deludendo sia le domande dei giornalisti sia le risposte della scrittrice, così le posi una questione io. Le chiesi se si sentisse un’artista della bocca o del piede. Ci fu brusio fra i presenti che non capivano. Dacia si arrabbiò così tanto che tutti al pari di lei finsero di percepire un’offesa nelle mie parole (e non c’è niente di più offensivo per un lettore colto di non capire il senso di una domanda, perché ciò lo fa sentire ignorante). Fui invitata ad andarmene senza neppure poter dare spiegazioni”. Gaetano, che come i lettori di Dacia non sapeva qualificare né gli artisti della bocca, né quelli del piede, voleva chiederne di spiegazioni ad Ada, ma il suo inciso sull’ignoranza lo indispettì, e ritenne che chiedere lumi sarebbe stata un’ammissione d’ignoranza inopportuna. Per cui rimase con un palmo di naso, curioso e stizzito per la sensazione d’impotenza che anche stavolta Ada gli procurava. Cominciò a pensare di lei che fosse diventata una persona superba, intrattabile, mentre anni prima era molto più avvicinabile, nonostante la naturale bizzarria. Se poco prima Gaetano, dietro un alito di scherno, accoglieva con gratitudine e divertimento la centrifuga di Ada, ora si sentiva nauseato e appesantito da tutto quel profluvio di caos e creatività sciorinato con tanta disinvoltura. Ricordava bene adesso perché anche lui dopo aver seguito un mese Ada sul filo dell’equilibrista, avesse deciso di scendere per tornare a camminare sul marmo, anziché pattinare sul ghiaccio calzando mocassini. Gli tornò alla mente una crisi isterica di lei ai tempi della loro convivenza, e convenne in silenzio che Ada abbisognava di un uomo pazzo, o uno con l’aureola. Una sera di parecchi anni prima a Gaetano capitò infatti di riporre nella libreria un libro che Ada aveva lasciato in bagno. Non l’avesse mai fatto: il giorno dopo lei girava inquieta per la casa in cerca del libro. “L’ho messo al suo posto in libreria” - le disse pacatamente
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Gaetano. E lei si inalberò: “Ma come in libreria? Per me il suo posto era in bagno, mi scombini sempre tutto, devi sempre imbrigliare tutto, non mi dai emozioni, sai solo rimettere a posto, non posso stare con uno che mi toglie i libri dal cesso…” – dopodiché si chiuse in camera a piangere. Gaetano, incredulo, riprese il libro dalla mensola e lo ripose sulla tavoletta del cesso. Capì che non poteva mettere ordine nei libri e nei pensieri sparsi di Ada, che i propri pensieri non erano forse sufficientemente creativi, fin troppo razionali. E razionalmente scese dal filo. Vedendolo nuovamente pensoso, Ada stuzzicò Gaetano: “Certo che sei sempre il solito analista: mugini e rimugini prima di dire la tua, poi finisce che scegli la diplomazia spicciola e ne dici una qualunque, e via coi luoghi comuni”. Dopo alcuni secondi sommessamente: “Non so a cosa ti riferisci”. “Appunto, eccone la prova: una frase fatta… hai mai pensato a sceneggiare una di quelle soap sempre uguali, trite e ritrite, con gli uomini fatti, con le donne rifatte, quei programmi che han tanto successo in televisione?” Gaetano si sentì offeso, e come lui due signore anziane che udirono. Offesi, ma per motivi diversi: le signore perché affezionate alle soap, Gaetano perché ancora affezionato ad Ada. “Ma perchè hai bisogno di annientare chi è diverso da te? Certo che ti sei fatta presuntuosa e intollerante. Forse non te ne accorgi, ma per sentirti leggera scarichi gravi sugli altri. La gente come si dice… ‘un po’ ma poi’: un po’ pazienta, poi sbotta”. Ada non aveva fatto centro, ma quasi: “Oooh, così ti voglio, Gaetano Capricorno! Pronto ad accendere la miccia, mi ci è voluta mezz’ora per scongelarti”, rilanciò come in una partita a poker Ada. Poi si morse il labbro, come una giocatrice alle prime armi che sta bluffando e non sa trattenere il nervosismo per un rilancio oltremodo 17
azzardato. “Vabbè, se continui così…”, replicò rassegnato Gaetano. “Scusa – bisbigliò sottovoce la donna – hai ragione, ho un carattere di fuoco, sono malata di spontaneità”. "Malata di spontaneità”, ripeté sorridendo Gaetano. II due si guardarono divertiti negli occhi e sancirono la pace con una risata complice, come una volta. Come ogni volta che Gaetano riusciva ad accantonare i suoi dilemmi cerebrali e a sintonizzarsi sull’ immediatezza energetica di Ada. Cosa che lo faceva stare bene, come quando da ragazzino combinava scherzi agli insegnanti, prima che la vita gli insegnasse a prendere tutto sul serio. A cominciare da se stesso. Ada dal canto suo fu contenta di aver fatto ridere il suo ex: si era fatto troppo compassato per i suoi gusti; e in fin dei conti quella risata regalatagli dimostrava infondato l’appunto sulla leggerezza ottenuta scaricando gravi sugli altri. Così almeno parve ad Ada, disposta a scagionarsi facilmente dai pochi dubbi che la propria coscienza, o più sovente altri, sollevavano circa la sua condotta. I movimenti preparatori dei pendolari attorno ad Ada e Gaetano annunciarono l’arrivo nella stazione di Firenze Santa Maria Novella. Ada era sempre l’ultima ad uscire dal treno: non le andava a genio di ingaggiare corse per occupare il corridoio e conquistare l’uscita per prima. Gaetano invece aveva fretta di raggiungere l’ufficio e iniziò il congedo dall’ex compagna con una sollecitudine, che a lei parve prematura. “Che fai, non ti fermi a prendere un caffè assieme a me?”. “No, guarda, mi spiace, devo scappare. Sono in ritardo, magari un’altra volta”. “Va bene, scambiamoci i numeri di cellulare allora”. “Il mio è questo”, disse Gaetano porgendole il biglietto da visita. “Beh, il mio è… aspetta… sai io non ho biglietti da visita… e neppure lo ricordo il mio numero. Non sono mica come i manager tecnologici col cellulare palmare, ta ta ta ta ta ta,
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e subito hanno la rubrica elettronica. Aspetta, lo scrivo su un fogliettino. Ti scrivo anche il mio indirizzo, se vuoi venirmi a trovare volentieri, vivo qui con mia nonna. Ha ottantaquattr’anni ma è vispa… come una tartaruga! La devi vedere!”. Si salutarono appena scesi sul binario, col doppio bacetto sulle guance e una stretta di mano, prima di imboccare due uscite diverse. Gaetano con l’animo stordito e ad ogni passo un pensiero, Ada irrequieta come prima e ad ogni passo un desiderio.
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Paola Zamillo L’INTERVISTA
" Signora.... signora mi scusi!". La voce dell’intervistatrice la colse di sorpresa. "Eh? Si?". "Signora, mi scusi sono della Doxa. Guardi ho anche il tesserino. Sto svolgendo un’indagine di mercato sui prodotti per l’igiene intima. Posso rubarle solo qualche minuto?". " Ma veramente, io vado di fretta. Eh... anzi no, sto aspettando che mi vengano a prendere ". "Guardi signora, sono solo poche domande. L’intervista è anonima. E poi, la prego, mi aiuti, mi mancano ancora molte schede per completare il lavoro di oggi". Confusa, meccanicamente rispose: "Si, va bene. Solo poche domande. Anonima." " Grazie Signora, lei è molto gentile". Diligente e assorta rispondeva ai quesiti dell’intervistatrice: età, stato civile, professione, auto e apparecchi telefonici posseduti. " Lei signora abitualmente adopera assorbenti interni o esterni?" Si ricordò allora della macchiolina di sangue rimasta sul polso della giacca. Provò vergogna e imbarazzo: forse la ragazza l’aveva notata. Tentò di coprirla col soprabito che portava ripiegato sul braccio. Ma il pensiero di quella macchia, adesso la assillava. Le prime mestruazioni le vennero all’età di quattordici anni durante le vacanze estive. Quando il ciclo era irregolare nascondeva gli assorbenti sporchi, perché sua madre non si accorgesse di niente. " Lei usa i salvaslip: tutti i giorni, solo in alcuni periodi del ciclo
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mestruale, o mai?" Alfredo adorava fare l’amore con lei quando aveva le mestruazioni. Diceva che l’odore del sangue lo eccitava e che le donne “in quei giorni” avevano una carica erotica maggiore. Sull’inizio la cosa la disgustava, ma amava talmente Alfredo che ci si abituò. Anzi, cominciò a provarne piacere. " Li preferisce con le ali o anatomici?" Sentì una lingua di aria fresca percorrerle l’interno coscia sotto ai collant. Abbandonata all’eccitazione furiosa di Alfredo si lasciava trascinare dentro alle toilettes degli autogrill e delle stazioni, dove in piedi, nudi, si sbattevano l’uno contro l’altra, giurando di non lasciarsi mai. Quanto odiava la luce al neon di quei posti. "Quale marca di salviette intime adopera più frequentemente?" Mise la mano in tasca per prendere una sigaretta. La trovò sotto l’accendino, accanto ad un ciuffo lanoso. Si ricordò allora che anche nell’altra tasca portava un peso. "Signora? Signora, tutto a posto?…." In quel momento una volante dei carabinieri arrivò sgommando sul selciato della piazza, proprio mentre due agenti della Polfer uscivano di corsa da dentro la stazione. E poi un’altra auto e un’ambulanza. La riconobbero subito: signora sui trentacinque anni, capelli e occhi castani, tailleur grigio, smagliatura sui collant, valigia trolley verde bottiglia, soprabito chiaro. Nessuno aveva mai fornito una descrizione così precisa di sé. All’agente che la prese sottobraccio mostrò il rasoio che portava in tasca, il ciuffo di capelli di Alfredo e il contenuto della valigia: abiti insanguinati, assorbenti usati e le salviette adoperate per nettare le mani ed il rasoio. Un giovane agente della Polfer, intanto, interrogava l’intervistatrice.
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Sara Passi BATTUTA D’ARRESTO
Emilio aveva l’abitudine di alzarsi da letto alle sei e trenta in punto lasciando che Luisa dormisse ancora un po. Senza indugiare raggiungeva il bagno per il rito meticoloso della sua toilette quotidiana: la doccia tiepida, l’accapatoio blu, il rasoio usa e getta, il dopobarba con lo stesso odore da vent’anni, quello che la moglie gli regalava immancabilmente ad ogni Natale. Poi, come fossero una parte di sé, insaponava ben bene anche le lenti tonde degli occhiali, e dopo averle sciacquate e asciugate con cura, le calzava sistemandole attentamente sul naso aquilino. Nudo e con gli occhiali sul naso, si specchiava per un attimo, indifferente, senza accorgersi negli anni degli anni che passavano. Tornato in camera cercava a tastoni gli abiti che aveva accomodato sulla poltrona la sera prima e li indossava nell’oscurità. Quindi passava in cucina per mettere su il caffè, già dentro alla moka preparata la sera innanzi. A questo punto poteva raggiungere il suo studio, la stanza più luminosa della casa, dove la luce filtrava da una grande finestra senza tende. Ma prima di mettersi alla scrivania, Emilio aveva ancora un’abitudine e gli piaceva avvicinarsi alla finestra e guardare di sotto: i semafori all’incrocio ancora lampeggianti, la ruota immobile del luna park in lontananza, i tre lavoratori alla fermata dell’autobus e la curva da cui alle sette e un quarto spaccate sarebbe comparsa la grassa signora in bicicletta con il bassotto al suo seguito. Emilio non iniziava mai a lavorare prima che la signora fosse sbucata da quella curva pedalando di gran lena coi polpacci robusti, mentre il povero bassotto – senza guinzaglio - le correva dietro
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all’impazzata, arrancando non poco con le piccole zampine. Alla guida della sua bicicletta la signora rigava dritto senza mai voltarsi a controllare la presenza del povero canino, distante da lei a volte cinque, a volte dieci metri, ma sempre disperato e con la lingua di traverso. Emilio li seguiva con lo sguardo per tutto il tratto, finché i due non svoltavano all’altezza della banca e sparivano. Poi si metteva al lavoro. Cominciavano così le giornate di Emilio Torrigiani, il commercialista più mite e stimato della zona. Ma il mattino del 18 ottobre 1978 le cose andarono diversamente: dopo il rito accurato della toilette e della vestizione Emilio entrò nel suo studio, si avvicinò ai vetri e attese, come al solito, l’arrivo della signora con il suo cane. Come previsto, alle sette e un quarto in punto i due apparvero da dietro la curva. A questo punto tuttavia accadde qualcosa di veramente inaudito: dopo aver corso dietro alla padrona per un po’, il cane, risoluto e deciso, deviò ad angolo retto dalla traiettoria consueta, e andò ad accucciarsi dietro un cespuglio vicino, badando a spiare la padrona col muso tra le frasche. L’idea che il bassotto non fosse più al suo seguito non sfiorò neppure i pensieri della signora che continuò a pedalare energica finché non sparì nel solito punto di sempre. Il bassotto rimase ancora rannicchiato dietro al cespuglio, con aria circospetta, finché non fu sicuro che la padrona si fosse allontanata abbastanza. Emilio, un po’ confuso, continuava ad osservarlo dalla sua finestra. Poi il bassotto si distese, e si mise a fare un pisolino, tranquillo. Emilio rimase così, col fiato sospeso, e non sapeva che fare. Allora si voltò a guardare le scartoffie cosparse sul suo tavolo, e sospirò. Poi si sedette a terra, con lentezza e precisione. "Buongiorno, caro. Ma cosa fai lì seduto per terra?". Emilio stava sotto la finestra, ad occhi aperti, con la schiena appoggiata al muro, una gamba piegata e l’altra allungata. Luisa allarmata gli corse incontro.
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Emilio sembrò non vederla, aveva un’aria tranquilla, seduto per terra pareva addirittura comodo. Il dottor Poli arrivò in un balzello. Era un dottorino chiatto e piccino, amico di famiglia ancor prima di diventarne il dottore, un tipetto lieto, una buona forchetta, un ottimo giocatore di dadi. Luisa senza parlare indicò col dito la stanza d’Emilio e il dottore si precipitò. “Lascia che ci parli da solo”, le disse senza neppure guardarla. Dopo dieci minuti il dottore uscì dalla stanza con volto rasserenato. “Tranquillizzati Luisa, tuo marito sta benissimo, è solo che oggi vuole andare in un’altra direzione, bisogna lasciarlo in pace. Chiamami stasera, fammi sapere come va”. Luisa irrompe furiosa nella stanza d’Emilio. “In un’altra direzione? E cosa significa, me lo vuoi spiegare? Ci è forse permesso di fermarsi con tutto quello che c’è da fare?”. Emilio la guarda piegando all’insù uno degli angoli della bocca, in un sorriso beffardo. “Mi prendi in giro?”, grida lei. Emilio non risponde. “Il dottore dice che stai benissimo - continua lei, più calma"guarda che io non ho tempo da perdere: Mariangela mi aspetta tra un quarto d’ora alla fermata del tram, oggi il turno di volontariato al Down Center tocca a noi, abbiamo appena il tempo per un panino e poi dobbiamo correre al corso di decoupage. Per il pranzo il minestrone è nel frigo, basta che lo scaldi”. Una pausa, poi riprende: “Ma mi hai sentito? Che fai, continui a sorridere? Ascolta, tesoro, mi hai stufato, chiamo tuo fratello Tonio e vediamo se lui riesce a rinsavirti”. Entrò Tonio con passo pesante, andrò dritto dal fratello e 25
lo scosse afferrandolo per una spalla. “Emilio, ohè! Non fare scherzi fratello, alzati di lì e smettila con questa sceneggiata, il dottor Poli e Luisa mi hanno detto che stai benissimo”. Emilio non fiatava, ma non era del tutto immobile, ogni tanto apriva gli occhi e li chiudeva, guardava a destra, a sinistra, piegava una gamba, distendeva l’altra, serafico. Aveva la stessa aria di chi se ne sta rilassato appoggiato ad un tronco d’ulivo in mezzo ad un prato o al manico dell’ombrellone, in spiaggia, a guardare il mare. Lo sguardo d’Emilio andava lontano, osservava le barchette che sfilavano sulla linea dell’orizzonte. “Madonna mia – imprecò Tonio – guarda che conto fino a tre e ti prendo a schiaffi se non ti muovi di lì. Sei il solito rompicoglioni. Sei un rompicoglioni e basta. Ma proprio oggi hai deciso di fare il pazzo, oggi che è il mio compleanno? Che devo ancora passare dal carrozziere, fermarmi a comprare i canditi da mettere nella torta e ritirare in lavanderia il completo gessato? Sei il solito guastafeste”. Emilio guardava a destra, poi a sinistra. “Hai sempre guastato i momenti migliori, fratello. – gli disse Tonio - Te lo ricordi quel giorno che eravamo con papà sul sentiero di montagna? Sognavo da mesi la conquista della vetta, la giornata splendeva di sole, un’ora sola di cammino e avrei piantato la bandierina rossa che stringevo in pugno mentre salivo. E tu ad un certo punto che fai? 'Sono stanco', dici. E ti siedi su un sasso. 'Andate, io vi aspetto qui'. E allora dietro-front, addio conquista della vetta, tu caricato sulle spalle di papà e io che ancora ho quella bandierina attaccata alla parete del garage”. Emilio piegava una gamba, distendeva l’altra. “E poi quel giorno di domenica al laghetto durante la gara di pesca. 'Tonio, mi fai fare un lancio, mi hai detto. Tu lanci la lenza come ti riesce e la lenza s’incaglia nella fronda di un albero alto e tu rimani così, con la canna immobilizzata
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nel cielo e gli occhi ebeti verso di me. ‘Non tirare, Emilio, non tirare', ti grido. E tu che fai? Tiri. E la lenza si spezza, l’ultima lenza, altre non ce n’erano, e addio gara, addio trote. Hai sempre rovinato tutto”. Emilio chiude gli occhi, li riapre. Tonio è sempre lì. “Non dici nulla? Non mi rispondi? Sorridi, pure? Ne ho le tasche piene dei tuoi silenzi, con te non c’è mai stato verso di parlare, non si è mai capito cosa ti passasse per la testa. Mi guardi? Lo conosco quello sguardo, eh se lo conosco, ma non ho mai capito cosa volesse dire. Quando papà gli ultimi giorni bagnava il letto ogni notte tu al mattino fissavi la macchia gialla sul letto con quello sguardo lì, quello stesso sguardo che hai ora, né più né meno. 'Mettiamogli il pannolone', ti dicevo. E tu zitto, senza dire una parola andavi ad aprire il cassetto dell’armadio, prendevi un paio di lenzuola pulite e facevi il letto da capo, sempre senza dire una parola…Non c’è mai stato verso nemmeno di litigare, Cristo! Per quanto ancora vuoi startene lì seduto per terra?”. Tonio si accucciò vicino al fratello, questa volta con occhi più teneri: “Hai intenzione di continuare a mettermi i bastoni tra le ruote per il resto della mia vita? Emilio, ti prego”. Tonio si chetò e guardò il fratello con compassione. Tutti e due muti. “Non mi rimane che chiamare Roberto: se è vero che è il tuo migliore amico, lui saprà come fare. E adesso scusami ma devo proprio andare, oggi è il mio compleanno, se per caso lo avessi dimenticato”. Roberto fece capolino alla porta dello studio: “Emilio…ciao…sono Bob”. Entrò Bob a passi lunghi dentro gambuli di velluto e i piedi di papera dentro a un paio di clark. Rimase accovacciato di fronte all’amico, con la schiena piegata come quella di una foca. Lo guarda a lungo. Anche Emilio lo guarda, zitto. “Che ti succede amico mio? Perché stai davanti a me 27
come se non ci fossi? Vuoi spiegarmi che accidenti ti è preso? In piedi, coraggio”. Ma Emilio non si mosse. Un po’ confuso Bob alzò la sua pesante stazza senza saper che fare. Dette un’occhiata intorno. I documenti, le cartelline, la calcolatrice, la statuetta fermacarte di quando insieme da ragazzi vinsero al trofeo. Si voltò verso l’amico: “Insomma, cosa credi di fare? Fermarsi così all’improvviso…in un giorno qualunque…che diavolo ti succede? Oggi non ti vanno più a genio queste scartoffie? Che dirti, Emilio, guarda me, guardami bene: credi che dalla mattina alla sera io mi diverta? Ti sembra forse che io me la passi meglio di te? Che sia nato per andare in giro per ospedali o case di cura a recitare ogni giorno la solita maledetta solfa sui materassi che si distinguono a seconda della loro potenzialità di prevenzione dei decubiti e a seconda del materiale di cui sono fatti eccetera eccetera, quelli ad acqua quelli ad aria quelli in gommapiuma quelli in fibre sintetiche quelli con supporto in gel al silicone con cuscino in multistrato eccetera eccetera sempre lo stesso bla bla da quindici anni, credi forse che io non ne abbia fin sopra i capelli?”. Emilio chiude gli occhi, li riapre. “Eppure bisogna cercare di fare ogni giorno del nostro meglio. Il mondo fuori non è come il mondo dentro. Fuori siamo brutti, siamo belli, siamo poveri, siamo ricchi. Dentro è tutta un’altra cosa - si sa - ma l’abbiamo detto centinaia di volte che è meglio non fermarsi a pensare, che se poi ci pensi non ne cavi fuori le gambe. E allora vuoi sapere qual è la nostra unica ancora di salvezza, lo vuoi proprio sapere? Non conta che cosa si fa, Emilio, ma come. E’ questo che fa la differenza. Si può fare qualcosa al peggio, mediocremente o al meglio. Io ho sempre cercato di fare il mio lavoro e tutto il resto nel migliore dei modi possibili. E’ nel come che da ruoli sociali possiamo diventare persone, è nel come che ciascuno di noi sente e comunica
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in modo unico e irripetibile. Cosa si lascia di noi se non la maniera in cui siamo stati a questo mondo? Conta il come, Emilio, non il cosa. Dai retta a me e mettiti l’animo in pace”. Il sole era tramontato, i due amici stavano ora nell’oscurità. Bob sconfortato guardava il profilo nero d’Emilio ancora seduto sul pavimento. Fece luce accendendo l’abat-jour sopra la scrivania e si lasciò cadere sulla sedia dove Emilio abitualmente lavorava. “Logora ma comoda – commentò Bob a voce alta – immagino che tu non l’abbia mai voluta cambiare, del resto sappiamo quanto sei restio ai cambiamenti”. Poi gettò un’occhiata alla pila di modelli 740 e alla rubrica ingiallita che Emilio conservava sin dagli esordi della sua attività, con tutti i suoi contatti. Respirò più profondamente e ricominciò a parlare: “Capisco che può essere difficile essere felici qua dentro ma t’assicuro che la felicità esiste, anche se le riesce sempre di nascondersi bene”. Adesso Emilio fissava Bob dritto negli occhi. “La mia per esempio si nasconde nelle sere d’estate quando imbraco la fisarmonica e tutti si fa festa, quando ho quattro ore di tempo per leggermi un giallo tutto d’un fiato, quando prima di addormentarmi allungo un braccio per tirare a me la Tina. Anche quando mi gratto la schiena penso di essere felice. Ognuno deve scovare dove si nasconde la propria felicità, impegnarsi in questa dannatissima caccia al tesoro. Non abbiamo scelta, dobbiamo fare del nostro meglio finché non si crepa”. Emilio continuò a guardarlo. Non aveva mai cambiato espressione. “E ora mi dispiace ma io me ne devo andare, ci sono i bambini che mi aspettano, alzati e torna in te, pensa al nostro motto del campeggio: 'Don’t loose yourself and get always all the best' ”. Non molto tempo dopo rincasò anche Teo, il figlio di tredici anni. Sprofondò sul divano e accese la tv, nemmeno andò 29
a salutare il padre che intanto era sempre lì seduto. Si aprì un lattina di coca cola. Lo schiocco secco giunse distintamente nello studio d’Emilio, insieme alla pubblicità: “Ops! Ops! Ops! Muovi le chiappe! Tonificale! Gim&Tonic, l’attrezzo ad alta tecnologia…che farà di te… il più irresistibile che ci sia!”. Di colpo, Emilio tornò in sé. In piedi vicino alla finestra vide giù il bassotto uscire con un guizzo da dietro il cespuglio e rimettersi a correre dietro alla padrona più forte di prima, terrorizzato al pensiero di perderne le tracce, una volta ch’ella avesse girato l’angolo. Erano le sette e venti, l’ora di mettersi a lavoro.
Giovanni Pestelli POESIE DI MARE E DI COSTA
Relitti
Molte storie mi hanno raccontato su relitti sommersi visibili con mare limpido e bassi fondali. Ammonimenti per i naviganti, avventure per chi cerca tesori, un tempo sepolcri di capitani. Dicono che brillano nella notte e con la luce lunare di nuovo sembrano navigare.
Messaggio nella bottiglia
Di noi non si ricorda più nessuno siamo i marinai del Mercurio brigantino che un uragano assalì a 40 miglia dalla Corsica. Dite ai nostri cari che lottammo contro il mare e il vento fino allo stremo, ma il vecchio scafo non resse le onde. Era la notte dell’8 novembre anno 1851.
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Ex voto
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In questa chiesa voglio lasciare, in segno di grazia ricevuta, una piccola immagine dipinta. Raffigura un pericolo scampato quando ero imbarcato come mozzo sulla nave chiamata Irene alla fonda nel porto di Livorno. Mentre ero sulla coffa di maestra, qualcosa mi spinse e nel vuoto volo ancora, ma non toccai le corde e il parapetto solo dal mare fui salvato.
Trovare sollievo nel navigare è sicuro breve medicamento qualcosa può il sole molto il vento.
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Mi taglia il viso questo maestrale ma è vento buono per navigare vento che invita a rotte d’altro mare sempre che si voglia dare più sale all’arte della vita
Vedetta *** Vele fendono l’orizzonte, nere messaggere d’ignote religioni. Avanzano veloci di bolina mordono le onde con le prore. Sui pulpiti guerrieri assaporano nuove prede.
Portolano
Nel mio navigare non di rado ho scorto il sottile interregno delle spiagge, confini instabili di terre emerse e consumate di mari e terre riconciliate.
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Seguendo una mia rotta sotto costa vedo barche in secco sulla spiaggia con chiglie colorate offerte a un sole che non riscalda, dove puoi ripararti dal vento, appoggiare la schiena e ascoltare la risacca del mare in attesa di una qualche risposta.
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Paura leggi negli occhi di chi resta la tempesta è passata 33
Lapo Gorini e il vento ha sparso rena. Il mare scuro e torbido riposa. Nella notte le onde hanno sommerso il molo di levante piantandogli nel fianco pietroso un ultimo segno di sfida: il bianco ossario di un tronco d’albero.
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Nascosta tra la sabbia di una cala ho trovato la gabbia irsuta di un riccio di mare, scheletro di un lento filtrare, regalo marino per un passante.
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Stacco scorza dal tronco di un pino scaglie rugose cadono mettono a nudo altra scorza, più nuova. La pianta piange resina se incido, con il tempo rimargina ma le ferite profonde restano non esiste corteccia di tempo che si possa formare a coprirle.
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OCCHI CHIUSI lo starnuto sgraziato di Quentin Tarantino
1. I fuggitivi “Oh cazzo… cazzo!”, disse Alex. “Che c’è… dove sono?”, chiese Guido con voce tremante e occhi chiusi socchiusi chiusi che sbattevano lenti come i suoi pensieri. “Ci stanno dietro Guido, ma non ti preoccupare!”. “Non ti preoccupare un cazzo…”, voce tremante, occhi chiusi socchiusi chiusi e colpi di tosse. “Non ci staranno dietro all’infinito. Li sto seminando, stai calmo e poi ti porto in ospedale”. “Dio…” tosse “ sembra meno doloroso nei film” tosse “ è brutto sentirsi morire, è strano”. “Stai zitto, non ti stancare, zitto”. “Mi dispiace sporcare tutta la macchina”. “Ma che vuoi che me ne freghi ora. Lasciami guidare”. Occhi chiusi socchiusi chiusi. Tosse. Latrati. Sputi. Odore pungente. Sangue. Ma fuori quella sera era freddo per aprire un finestrino e a lui, al quasi morto, a Guido faceva già troppo freddo per poter far entrare altro freddo. Dio che serata del cazzo. “Mi sento svenire…”. “Svieni pure, così non senti più niente!”. “Ma non dovresti tenermi sveglio?”. “Ma che ne so ora? Hai voglia di fare dello spirito?”. Sfrecciavano per la città deserta a 150 Km/h, mentre loro erano ancora là dietro. Ora più lontani. Forse. Nello specchietto. Ma sempre lì che sbucavano in ritardo da
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ogni curva. Scappare. Seminare. Niente derapate, niente entrate in vie trafficate col rischio di morire, niente pazze corse sui marciapiedi, niente spari da un’auto all’altra. Solo un matto può correre per la città con l’altra auto alle spalle. “Non riesco nemmeno a svenire! Cazzo, mi sto cacando addosso”. “Caca pure, non ti formalizzare!”. “Dove siamo?”. “Vicino a casa mia”. “Portami a casa tua. Tua sorella c’è? Se mi salvo giuro che stavolta la sposo!”. Ora lo stava decisamente perdendo perché Alex non aveva mai avuto sorelle e Guido era gay. “Alex, sto male!”. “Lo so, lo so, ma ora sistemiamo tutto. Vuoi un po’ di musica?”. “No, voglio vomitare!”. Va bene accondiscendere, ma merda e vomito insieme sarebbero stati troppo. “Potresti rallentare, altrimenti vomito?”. “Guido, se rallento ci fanno secchi! Tieni, dai, fai due tiri di questa e rilassati!”. Guido riuscì a sollevare un braccio e a prendere la canna. Fece un tiro incerto e non soffiò fuori niente. Aria pulita. Fece un secondo tiro più deciso, ma trattenne tutto. Ad Alex venne da sorridere pensando che tutto il fumo aspirato fosse uscito dal buco che Guido aveva nella schiena. Ora sembrava rilassato e smise di parlare. Rimase appoggiato con la schiena allo sportello, a bocca aperta e con gli occhi chiusi socchiusi chiusi. Ormai l’auto era diventata una pozza irrespirabile. Guido si fece scivolare dalle dita la sigaretta corretta, ma per non distrarre l’equilibrio silenzioso, veloce e impaurito dell’abitacolo, Alex bestemmiò in silenzio. Svoltò bruscamente a destra con un grande stridere di
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gomme. Schiacciò a fondo su quello stradone e guardò nel retrovisore senza vedere nessuno. Nessuno. Nessuno. Dio, forse era fatta. Nessuno. Non sbucavano fari. Nessuno. Due fari. Uno acceso e uno di posizione. L’ammiccante sguardo della morte. 2. Quattro grandi amici I “Salve Stecco”, disse Andrea chinandosi al finestrino. “Ciao, entra che è freddo”. Erano le 22.00 e il termometro della farmacia segnava -1°C. Stecco era già al volante, in anticipo come sempre. Andrea gettò lontano il mozzicone, sbuffò ed entrò. “Gli altri come al solito…”, a Stecco non piacevano i ritardi. “Dai, sono le dieci ora e poi non ci possiamo presentare là troppo presto, sennò è un macello!”. “Magari ci potevamo fare una bevuta”. Andrea guardò fuori per un po’ in silenzio. Se non fosse nevicato stasera, probabilmente non l’avrebbe più fatto per tutto l’inverno. Cielo bianco dalla mattina, sole sconsolato e luna vigliacca. “Prendiamo questa?”. “Direi di sì”. “Poi io ho già parcheggiato…”. “Appunto. Ma che palle quei due!”. “Sarà colpa di Igor. Con le sue manie di precisione avrà voluto rimettere a posto tutto prima di uscire. Hanno cenato insieme”. “E non potevano chiamarci?”. “Li ho sentiti tardi e avevano deciso all’improvviso, dice”. “Chi lo dice?”. 37
“Lui, lui. Io lei non la chiamo. Mi dà un po’ fastidio farlo”. “E perché? Era pur sempre la tua ragazza”. “Appunto. Poi dopo capodanno non mi va. Si era creata una situazione un po’ imbarazzante quando ci avete chiusi in camera insieme e ora non mi va di chiamarla. Sai, non era proprio vestita là dentro. La tentazione è stata forte”. “Ma è la ragazza del tuo migliore amico…”. “Lo so, ma era la mia e la tentazione a volte si fa sentire forte!”. “Oh, eccoli”. Due fari dietro parcheggiarono alle 22.06 e il termometro segnava ora –2 °C. Se non fosse nevicato stasera, probabilmente non l’avrebbe più fatto per tutto l’inverno. Parcheggiarono la Panda 45 beige del 1982 e uscirono al gelo Igor e Claudia, vestiti di pelle fetish nera attillatissima, con cerniere ovunque. “Mi sembra chiaro che prenderemo questa! Ma come si sono vestiti?”, chiese Stecco. “Così non li vedrà nessuno”. “Sì, ma dobbiamo andare in un ristorante, non in un bosco buio… di gomma”. Sedettero dietro. “Ciao”. “Ciao, puntuali eh?!”. “Non è colpa mia - si giustificò Claudia - sapete con lui come vanno certe cose”. “Certe cose velocemente, se alludi a CERTE cose!”, scherzò Stecco. Andrea sorrise. Qualcuno gli aveva assegnato questo punto inutile e inconsistente nella lotta tra attuale e ex ragazzo. Ma non si può certo dire che Andrea e Igor non fossero amici. I fatti dicono che era stato Andrea a compromettere tutto con Claudia. Poi Andrea conobbe Igor e divennero amici. Poi Igor e Stecco divennero amici. Poi i tre divennero grandi amici. Poi Igor conobbe Claudia e la scopò al primo appuntamento.
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Andrea poteva sorridere quanto voleva per le allusioni di Stecco, ma Igor era un grande amatore e Stecco lo sapeva bene dal momento che per tutte le cose che non riguardavano il sesso, Claudia si rivolgeva a lui. Per certe cose sosteneva ci volesse una persona esterna alla coppia. Insomma, erano proprio quattro grandi amici. 3. Il primo appuntamento Allora era ancora estate e il caldo pareva sciogliere i vetri dell’auto appena Igor provava a toccarli. “Che facciamo?”, chiese Igor a Claudia. “Non saprei. Qua però ci si muore”. Era caldo come l’anno prima, il 2002, e ancora ce ne sarebbero stati molti di giorni da passare in quello stato. La serata era trascorsa bene. Era stato il loro primo appuntamento ufficiale, dopo che si erano conosciuti un paio di settimane prima davanti a due cocktail Martini, con oliva quello di lei e cipollina quello di lui, seduti accanto al bancone di noce. A quel bancone avevano tutti e due un paio di jeans e una camicia. Due tette! Quella sera avevano parlato ed era stata lei ad aprire la conversazione, perché non poteva vedere una persona sciupare un cocktail Martini con una cipolla. "Ma non è una cipolla, sono cipolline, sono buone", disse lui. "Dio, ma come puoi?". "Guarda che non sono l’unico". Avremmo dovuto chiederlo a Hemingway cosa metterci. E lui avrebbe risposto: altro Gin! Risero, fumarono, parlarono. Lei aveva 28 anni. Anche lui. Lei era dei pesci. Anche lui. Lei adorava il cinese. Anche lui. Si dice che quando in una mano a tre sette vengono calati 4, 5, 6 e 7, qualcuno ha sbagliato qualcosa. In quel momento sembrava mancasse solo il sette. Lei non aveva finito l’università, ma aveva deciso di riprenderla 39
adesso. Lui detestava rispondere svelando che lavoro faceva alla domanda e te che fai nella vita? Sai quante cose si fa in una vita se ci si ferma a osservarle tutte?! Asso di cuori! Poi per due settimane non si erano visti, ma solo sentiti per qualche discorso inconcludente al telefono, come per continuare quella serata passata al bancone di noce. Lui era falegname e per questo riconobbe che il legno era noce! Quel primo appuntamento ufficiale stava andando benone. “Non saprei. Qua però ci si muore… vuoi salire?”, propose lei. Erano le 03.13: l’offerta era valida. Non era stanco, la cena al cinese lo stava tenendo leggero. Vederla mangiare con le bacchette, così composta e perfetta, con quei capelli nerissimi e liscissimi non trattenuti da alcun accessorio, l’aveva fatto eccitare, ma ora doveva trattenersi perché non poteva sciupare tutto. Si sentiva tranquillo con lei. Parcheggiò la sua esclusiva Panda 45 beige del 1982 e scesero nel caldo. Lei abitava al quarto piano. Presero l’ascensore, solo che ci si trovarono dentro con qualche minuto di ritardo. Se solo non si fosse voluto fermare a comprare le sigarette dopo cena. Certo che una bella sigaretta fumata in compagnia, assieme a quella birra ghiacciata… E così si ritrovarono dentro l’ascensore poco dopo le 03:15, tra il secondo e il terzo piano. Niente. Bloccato. Luce spenta. Luce d’emergenza pallida e bluastra. Allarme muto. “E ora sì che c’è da chiedersi cosa facciamo!”. “Che vuoi fare?”, chiese lei. “Vuoi che butti giù la porta? No, siamo tra due piani!”. Lei pareva comunque molto rilassata e anche lui, nonostante la sua maniacale precisione, non si era fatto scuotere dall’imprevisto che andava irrimediabilmente a
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fracassare l’ordinata armonia della serata. “Vuoi che mi metta a gridare?”, chiese Igor. “Se volevo questo avrei cominciato già io a farlo!- logica - perché non ci sediamo e aspettiamo?” A lui l’idea piacque. E anche l’idea di baciarla e di toccarla e di lasciarsi toccare e di assaggiarsi e di farlo dentro l’ascensore, in un’ora imprecisata tra la notte e il giorno. Ebbero poi tutto il tempo di calmarsi, rivestirsi e addormentarsi abbracciati, un po’ come fanno i veri innamorati. Verso le 08:15 vennero tirati fuori di lì e solo il giorno dopo seppero che il black out era stato nazionale: pareva che un albero fosse caduto su dei fili elettrici o si fosse semplicemente avvicinato a una linea elettrica e così si era formato un arco elettrico in Francia e allora dalla Svizzera… Lui era falegname e lei cercava di finire lettere, non si possono chiedere a loro certe cose. 4. Quattro grandi amici II Erano proprio quattro grandi amici. “Stecco, una birra?”, chiese subito Igor. “Ci sto!”, rispose, pareva si fosse già dimenticato dell’impazienza con cui li stava aspettando. Lasciarono il parcheggio. Le strade erano poco trafficate in quel mercoledì 7 gennaio 2004, terribilmente freddo e la gente era rintanata in casa o già in qualche locale. Ma niente pub per loro. Stecco fermò la macchina davanti a un circolo, lasciandola con le quattro frecce. Dentro giusto una decina di vecchi fumava l’ultima sigaretta prima di andarsene a letto, senza moglie e senza partite di coppa, guardavano svogliati la TV. L’assenza di bestemmie o grida rendeva quel posto quasi un locale accettabile. Presero quattro birre rosse danesi e un pacchetto di sigarette e se ne tornarono in macchina. Dovevano passare da un paio di ristoranti, niente di troppo impegnativo, ma, oltre a non potersi presentare là troppo 41
presto, non potevano nemmeno aspettare che chiudessero. Ovviamente. Aprirono le quattro birre con un accendino e accesero le quattro sigarette saturando l’abitacolo chiuso per il freddo. Si sentiva l’odore di pelle di quei due che stasera sembravano tanto due supereroi, piuttosto che un falegname svogliato e una studentessa fuoricorso. Claudia si aprì un po’ la giacca e offrì a tutti la visione del prorompente décolleté, abbellito da una croce appesa al collo. Andrea si sentì ancora in imbarazzo e gli sembrò di sentire Igor ridere. “Che cazzo ridi?”. “Non ho riso”. “Hai riso!”. “No che non ho riso!”. “Sì che l’hai fatto!”. “Ma che vuoi? Cosa avrei da ridere? Al limite mi dovrei incazzare nel vedere come fissate le sue tette, ma non mi incazzo perché non sono geloso. Ti assicuro però che non ho proprio niente da ridere!”. Andrea si voltò indisponente rompendo il cerchio che avevano formato seduti in macchina. Aveva pensato a lei tutto il pomeriggio, a come era diventata, a come sarebbe stata con lui, a come sarebbe andata a finire se non si fosse fatto beccare con la diciassettenne del piano di sotto. Bella e stupida: un binomio vincente, ecco cos’era quella diciassettenne. Ma quella storiella a cosa gli era servita? A farsi del male e basta perché la ragazzina avrebbe avuto diciassette anni per sempre e lui avrebbe fatto a meno di Claudia per sempre. 5. Intanto “Ciao ragazzi… ciao cara… allora ci sentiamo, ciao”. “Ciao”. “Ciao”. “Buonanotte”.
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Gli altri se ne tornarono ai loro affari e rimasero solo Alex e Guido in macchina di Alex. Guido aveva dimenticato le chiavi in casa e l’altro si era offerto di aspettare con lui che la sorella rincasasse. Tutti gli altri se ne dovevano andare a scopare o a puttane e così sparirono alle 23.00, dopo che la cena del mercoledì si era consumata più in fretta del solito. “E’ che stiamo invecchiando, lo diceva anche Enrico. Ora ci sembra tardi mezzanotte”, disse Guido. “A me non sembra tardi! E non venirmi a fare questi discorsi sull’età che mi sembri una donna davvero”. Alex accese il motore per scaldarsi un po’. Se non fosse nevicato stasera, probabilmente non l’avrebbe più fatto per tutto l’inverno. “Ma a che ora torna tua sorella?”. “Non lo so, ha detto che usciva col ragazzo e che non avrebbe fatto tardi. Conoscendola non rientrerà prima dell’una e mezzo”. “Va bene. Che vogliamo fare? Io non ho voglia di andare in un locale”. “Ma con questo freddo… Vai, intanto facciamo un giretto in macchina, magari ci viene l’ispirazione”. Alex partì senza stimoli e passò del fumo a Guido che in poco arrotolò due cannette adatte a distrarsi dall’attesa. Ne accese una. Era pesante, ma andava bene. Si aprì un po’ il giubbotto e si raccolse i capelli lunghi in una treccia allentata, passandosela su una spalla; aprì leggermente il finestrino e pensò che forse erano vecchi per andarsene ancora a giro con del fumo nelle mutande. “Ma perché tua sorella non vuole comprare un cellulare? Ora sì che ci avrebbe fatto comodo”. “Guarda che se ti scoccia così tanto aspettare posso andare sotto casa. Ho le chiavi della mia macchina, posso aspettare da solo”. “No, era per dire”. “Comunque non lo so. Un anno ho provato a regalarglielo, 43
ma dice che glielo hanno rubato dopo poco. Si vergogna: non è normale!”. Alex svoltò alla rotonda. Andavano piano, con l’idea di risparmiare benzina visto che dentro di sé già sapeva che avrebbero girato senza meta fino all’ora X. Bastava solo che non diventasse poi l’ora Y o l’ora Z, perché domattina avrebbe dovuto lavorare. No, non poteva portare Guido a dormire a casa sua, non che non ci avesse pensato, ma suo padre era un conoscitore di proverbi nonché un intollerante nei confronti dei froci: chi sta con lo zoppo… Notte senza luna. Guido accese l’autoradio e imbucò un CD senza fare caso a cosa fosse, si passò la coda di capelli da una spalla all’altra e offrì da fumare ad Alex che infondo non si stava annoiando perché questi due erano fatti per stare insieme, nella confusione e nel silenzio. 6. L’inizio Igor scese e gettò ordinatamente le quattro bottiglie nel raccoglitore per il vetro. C’era giusto il tempo per l’ultima sigaretta. Se le accesero insieme senza lamentarsi per il troppo fumo nella macchina serrata. Un gatto montò sul cofano tiepido della 145, ma il freddo era troppo pungente anche lì, così si infilò sotto il motore per trovare sollievo. “Ti ci vorrebbe un cane, Andrea”, lo stuzzicò Stecco. “Non mi piacciono gli animali. E nemmeno la gente con gli animali”. “Cosa hanno le persone con gli animali?”, chiese Claudia. “Niente. E dico niente nel senso di niente!”. “Cosa?”. “Niente in più degli altri”. “Almeno loro sanno amare qualcuno…”, bisbigliò Claudia. “Ma che avete stasera? Ce l’avete con me?”. “No, è solo per dire che a me piacciono gli uomini con un cane. Fanno vedere di essere sensibili”. Dio che affermazione da donna insoddisfatta del suo troppo ristretto nucleo familiare.
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"E poi- aggiunse Igor- il cane è il migliore amico dell’uomo". “Beh, la donna non poteva certo esserlo!- sarcastico- le persone con gli animali si credono tanto più sensibili degli altri… ma poi quelli tanto attenti al destino degli animali non hanno niente in più degli altri. Sì, a volte un animale”. “Sapete che l’uomo è l’unico animale capace di sorridere?”. la solita inutile vena sentimentale di Claudia. “E pensa che culo!- disse Stecco - io, dovessi scegliere di essere un animale, ne prenderei uno capace di volare”. “Un UCCELLO, per l’appunto!”. “Dai, cretino”, sorrise Claudia mentre picchiava Igor per la battuta. “Forza, parti Stecco e schiaccia questa bestiaccia qua sotto!”, disse Andrea. “No, ti prego!”, frignò Claudia. Stecco accese il motore e il gatto se ne andò lentamente, mentre Andrea accendeva un po’ di aria calda e apriva un finestrino per far uscire il fumo. “No, no. Niente animali per me. Sto benissimo da solo per ora. Non ho bisogno di altri rompicoglioni. E’ già abbastanza traumatico risvegliarmi ogni mattina e avere a che fare con me stesso, che non sopporterei obblighi verso nessun’altro". Gettò la sigaretta fuori e richiuse il suo finestrino. Gli altri finirono in silenzio le proprie sigarette, guardando gli ultimi vecchi senza cani abbandonare il circolo. “E ti immagini adesso - continuò Andrea - dover uscire a piedi, con questo freddo, per portare a cacare un bastardo di quaranta chili? Un bastardo senza nemmeno il pedigree che, esigente come un principe, deve farsi un chilometro annusando la merda e le pisciate di decine di bastardi come lui, prima di trovare un posto in cui cacare che puzzi quel tanto che basta a farlo eccitare e rilassare. Ragazzi, ma i cani si fanno il bidè con la lingua! E il bello è che vi fanno impazzire quando con quella lingua merdosa vengono a leccarvi!”. 45
“OK, andiamo”, disse Stecco interrompendo la conversazione prima che Claudia potesse ribattere in difesa di quelle dolcissime bestiole coprofaghe. Partì lentamente. Prima la pizzeria Luciano, poi la Ending Day e poi il cinese. Stecco, guidando, automaticamente diventava il capo così aggiunse di sua spontanea volontà la Ending Day, tanto non avrebbe fatto certo dispiacere ai vertici. E poi quei cinesi avrebbero lavorato fino a tardi, non ci sarebbe stato il rischio di trovare il ristorante chiuso. “Andrea, sei passato da Tony, vero?”. “Sì, tutto a posto”. “Ha pagato?”, chiese Igor. “Se dico tutto a posto significa che ha pagato. E ha saldato anche il debito dell’altra volta”. “Quindi niente favori stavolta?”. “No, Cla”. “Bene, e voi?”, domandò sempre il capo, Stecco. “Sì, tutto ok. Siamo andati ieri e la figlia ci ha offerto anche da bere, nessun problema. Dopo che lo scorso mese è passato Tyson, ha capito certe cose”. Stecco guidava, quindi diventava il capo, quindi nessuno gli chiese niente. 7. Diverse primavere prima Quella primavera fu una vera primavera. Né calda, né fredda. Stava lì nel giardinetto dietro casa col suo nuovo giubbotto di jeans che tanto aveva desiderato già dalla primavera scorsa, quando l’Ingrassia già lo possedeva e lui si ritrovava ad andarsene in giro con la giacchettina celeste ereditata dal fratello. Era nuova, e non possiamo buttarla via disse sua madre e poi riprende il colore dei tuoi occhi, eh tesoro della mamma? Ma a lui non piaceva neanche per il cazzo. Doveva avvolgere le maniche un paio di volte, scoprendo abbondantemente il grigio dell’interno di quella giacchetta in acetato doubleface unisex. Non si sa mai, al limite avrebbe potuto portarla
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anche la sua sorellina, se fosse cresciuta improvvisamente. E poi gli stava larga, lunga, che quasi non riusciva a infilare le mani in tasca. Tesoro della mamma, dai, non fare così: l’importante è essere, non avere, gli diceva sempre. Ma il punto è che così lui era qualcosa: qualcosa di inguardabile. E se la vogliamo dire tutta, non riprendeva neppure il colore dei suoi occhi. Ma quest’anno era il bambino più bello del giardinetto dietro casa. Il più bel fratello mezzano del giardinetto dietro casa, col suo giubbottino di jeans giusto di misura e di colore. Non che avesse gli occhi così sbiaditi, ma il colore, senza riprendere niente, era perfetto, indipendente e autosufficiente. L’unico problema era che non poteva muoversi più di tanto, perché sapeva di non essere portato a conservare le cose e se l’avesse sciupato, sarebbe tornato fuori con quella giacchettina celeste. Quindi quella primavera, che era proprio una primavera, il più bel bambino del giardinetto dietro casa era costretto dal buonsenso a restare praticamente tutto il tempo seduto sulla panchina a giocare col suo robot, ereditato dal fratello maggiore e a guardare il suo cane correre sul prato. L’importante è essere, gli ripeteva ancora sua madre, ma ora era facile perché tutto quello che voleva era suo e poteva davvero dedicare tutto il suo tempo all’essere. Quel pomeriggio era partito alla grande. Tobia era potuto tornare a correre dopo l’operazione alla zampa e dopo la lunga degenza. Suo fratello gli aveva definitivamente ceduto il Goldrake. Sua sorella era malata e a casa con la nonna. Vai a giocare coi bambini. Ma voglio restare qui, rispondeva a sua madre. Voglio che mi invidino, pensava, voglio che mi vengano a cercare e voglio trovare la forza di dire no al loro invito. Il bambino più in jeans del giardinetto dietro casa era ambizioso e contento. Ma il più contento là fuori era senza dubbio Tobia. Puro essere, un concentrato di vita ritrovata e di istinti riesplosi. Odori, prato, spazio, 47
corse, altri cani, sensazioni forti da ultimo cane sulla faccia della terra. Aveva da ringraziare il suo dio per non essere nato bassotto: non avrebbe trovato tutta quella soddisfazione nel correre accanto ai motorini dei ragazzi più grandi, se non avesse avuto quelle gambe forti e lunghe e di nuovo sane. Ogni tanto si voltava verso il padroncino più bello del giardinetto dietro casa, quasi a chiedere: sono bravo? Ma sì che lo era, bravo e bello. L’unico difetto era che non sembrava troppo intelligente, con quell’orecchio sinistro sempre piegato come conseguenza inevitabile di uno scontro con un cane più vecchio, più furbo, più saggio e soprattutto più forte di lui. Goldrake invece sì che era intelligente e quello stupido cespuglio accanto alla panchina, di fianco al pilota di robot più bello del giardinetto dietro casa, non avrebbe avuto scampo. Goldrake planò un paio di volte sopra il nemico alieno che per l’occorrenza aveva preso le sembianze di un innocuo cespuglio e d’improvviso sferrò l’attacco decisivo. Buona mossa, pensò quando vide il robot penetrare tra le foglie e ruotare rapidamente su sé stesso. Aveva colto il punto debole del nemico. Era da quel rametto che poteva vedere, sparare e comandare l’intera macchina. Goldrake si accanì allora proprio contro il cuore dell’avversario. Staccò quel ramo di mille circuiti e schizzò via, in alto, prima che tutto esplodesse. Tobia cacò in disparte, vicino ad un albero. Fece il gesto di coprire la sua malefatta, come prevedeva il galateo canino, scalciando qualche filo d’erba senza esito e si rigettò sul prato morbido, rotolandosi e abbaiando ad un invisibile compagno di giochi. La madre parlava con un’altra madre il cui figlio, l’Ingrassia, scalmanato e vestito male, rincorreva con altri cinque bambini un pallone, in una estenuante partita che loro definivano di calcio. Era tutto come doveva essere. Nel cielo non una nuvola, nel giardino non un altro giubbotto di jeans, nello spazio
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non un altro Goldrake, nella vita non un altro padre che lo avrebbe sgridato o che avrebbe litigato con sua madre o che avrebbe rotto una zampa al coraggioso Tobia intento a difendere il padroncino più bello del giardinetto dietro casa. Solo che certe cose funzionano solo nei racconti, ma la realtà a volte prende pieghe che uno non riesce a spiegarsi. L’unica cosa che mancava era una compagna per Tobia e questa primavera era troppo primavera perché Tobia potesse non aver visto quella bella bastardina al di là del giardinetto dietro casa. Avrà pensato che fosse la più bella bastardina del giardinetto dietro casa perché potesse resisterle. Tobia si fermò col suo solito muso a punto interrogativo. Ebete. Avrebbe avuto gli orecchi dritti, tutti e due, non fosse stato per quel cane grosso, furbo e saggio. E le avrebbe avute dritte sulla testa come un pointer ora che osservava quella bastardina camminare sinuosa e ammaliante. Tobia si voltò verso la panchina. Padrona, padroncino e Goldrake distratti. Odorò l’aria. Puntò la preda e scattò verso quella coda alzata così porca e eccitante. Scattò e corse. Corse forte al limite del giardinetto dietro casa. Corse e corse. E passò il limite del giardinetto dietro casa. E passò il marciapiede. E passò un attimo prima che i tre distratti se ne accorgessero e pietrificassero. Perché passò un secondo. E passò un’auto. La ritmo 85 nera inchiodò sprovvista di ABS, maledetta auto di un secolo fa. Inchiodò scivolando con un gran stridere e fumare di gomme, mentre quel bastardo di una quarantina di chili si fermò in mezzo di strada, stupido e ipnotizzato dalla sensazione e dal presentimento di morte. La guardò in faccia, la morte. Padrona e padroncino corsero, ma tutto era filato via in un secondo: corsa, stridere, urto. Tobia venne sbalzato nel mezzo di strada. Strisciò sull’asfalto, guaendo. La padrona arrivò gridando Tobiaaaa!!! il nome del quarto figlio che giaceva a terra. 49
Il padroncino più impaurito del giardinetto dietro casa, con le sue gracili gambe corte arrivò per secondo, prima di tutti quei calciatori, prima dei ragazzi più grandi col motorino, prima della certezza che la situazione stesse precipitando. La madre gridò mentre Tobia sanguinava dal naso, ad occhi aperti, tremando. La signora Ingrassia arrivò con la macchina. La padrona non sapeva cosa fare e quello che aveva pensato non sapeva come farlo. Dovevano muoverlo e dovevano muoversi, ma quel bastardo pesava dannatamente. Andrea, dammi il giubbotto, disse sua madre. Andrea aveva le lacrime agli occhi per il povero Tobia e non ci pensò due volte. Se fosse servito quel giubbotto, che se lo prendessero. Stesero il giubbotto sull’asfalto e ci fecero scivolare sopra il cane, che ora aveva preso a sanguinare anche dalla bocca. L’idea era di muoverlo il meno possibile per evitare di peggiorare quella muta situazione. E le cose che non volevano peggiorare erano le eventuali fratture e emorragie interne. Il giubbottino però sembrava troppo piccolo. Ci misero sopra Tobia e al tre le due donne lo sollevarono. Il cane sanguinante mosse una gamba e abbaiò, sanguinò dal naso sul giubbottino più sporco del giardinetto dietro casa e dette un morso di dolore al colletto di jeans, lacerandolo. Lo infilarono in macchina. Andrea salì davanti, infreddolito dalla paura. Alla guida la signora Ingrassia. Dietro Tobia e la madre di Andrea. Sfrecciarono verso la casa del veterinario che aveva curato il cane dalla frattura, mentre per la paura, irrazionale e normale, il povero Tobia se la faceva sotto, svuotandosi degli escrementi che non aveva lasciato sotto l’albero, quando ancora tutto sembrava perfetto. E lo fece sul giubbottino di jeans. Il suo cane stava morendo e il giubbottino più ambito del giardinetto dietro casa era già morto. Goldrake era immobile. In questa situazione non avrebbe potuto fare niente nemmeno lui, perché il nemico era ormai lontano e tutto era accaduto. Avevano fallito tutti. La Terra aveva perduto. La felicità si
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era dissolta. 8. I Pedinatori I Il tizio scese dall’auto e la ragazza prese il posto di guida. Un ultimo bacio attraverso il finestrino e la coppia si separò per un attimo, perché subito dopo lui tornò indietro per le ultime due parole e per un ultimo bacio. Alex e Guido aspettavano in un parcheggio, a luci spente, che lei si decidesse a ripartire. Ma ancora un bacio e una carezza e chissà quale altra frase dolce. Premurosa, la tipa aspettò che il ragazzo entrasse nel palazzo e partì. Alex uscì dal parcheggio un attimo dopo e cominciarono a seguirla. In giro c’erano troppe poche auto perché potessero passare inosservati, ma finché si trattava di percorrere le strade principali non ci sarebbero stati problemi. Guido cambiò CD. “Il ragazzo non era male, aveva un bel culo, bisogna dirlo”, osservò spostandosi la treccia sull’altra spalla. “Sì, dobbiamo dirlo, ma lasciamo fare altre osservazioni omosessuali, ti prego”. “Lei l’hai vista?”. “No. Troppo buio e troppo lontani”. “Ci beccherà?”. “A nessuno viene in mente di essere seguito”. “Forse hai ragione”. I due vecchi, subito prima, non gli avevano dato troppa soddisfazione. Avevano percorso giusto qualche centinaio di metri e si erano fermati, rientrando in casa. Per aspettare l’ora X non avevano trovato niente di più interessante da fare se non pedinare la altre poche auto per le strade. In fondo al viale, dopo il supermercato, la ragazza svoltò a sinistra alla rotonda, immettendosi sul viale alberato. Alex e Guido fecero altrettanto, stando attenti a non avvicinarsi troppo e con la paura di perderla in qualche strada laterale. La ragazza guidava sicura, senza indugiare e tagliava la città meccanicamente, come si percorre la strada di casa. 51
Alla rotonda girò a destra. Un paio di macchine vennero in senso contrario e una terza auto cominciò a seguire la ragazza e Alex. Non ne voleva saper di sorpassarli e poteva benissimo essere lì per pedinare i pedinatori. “Avrei anche sete”, disse Guido. “Sì, ora andiamo, ma ormai vediamo dove ci porta. A meno che non prenda l’autostrada ho intenzione di seguirla fino a casa”. Guido controllò il cellulare. Provò a chiamare a casa, ma Jessica non era ancora rientrata. “Ma insomma, non mi hai detto se ti piace come sono vestito”. “Sì - disse Alex - forse anche un po’ troppo esagerata, un po’ appariscente voglio dire, ma non è male. Però una cosa…”. “Dimmi”. “Io mi darei una spuntatina ai capelli. Cominciano ad essere davvero un po’ troppo lunghi”. “Non mi sembra. Giusto sotto le spalle. Ho sofferto una vita per averli come mia sorella. E ora che i miei si sono rassegnati, non li taglio neanche per sogno!”. La ragazza girò ancora a destra e infilò in una zona che non era delle migliori. Un parco sulla sinistra e un viale alberato con qualche lampione. Auto parcheggiate, auto sul ciglio della strada con i fari accesi. Puttane. Da queste parti trovarono qualche auto in più, un movimento di gente che comprava e vendeva sé stessa ammalandosi, malata da tempo nelle loro traviate esigenze sessuali. La ragazza parve accelerare un po’, ma nel movimento di altre auto i due poterono tranquillamente raggiungerla senza dare nell’occhio. Poco più avanti rallentò e mise la freccia a sinistra. Alex non ricordava che ci fossero abitazioni o altre strade da quella parte; infatti la ragazza aspettò che l’auto proveniente in senso opposto la oltrepassasse e entrò nel piazzale. Era noto che quello fosse il piazzale dei travestiti. Alex tirò diritto oltre il
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parcheggio e rallentò poco oltre. Stava diventando un problema seguirla, così fece inversione ad U mettendosi in un punto da dove potesse vedere senza essere visto. La ragazza non scese e non spense il motore. Le si avvicinò un travestito di colore. Contrattarono un po’ perché la richiesta evidentemente era particolare, ma alla fine si accordarono sul prezzo anche se una donna non era un cliente abituale per il negro. Alla fine lui salì in macchina. Altri travestiti risero. Guido non capiva come una ragazza potesse andare con un travestito, ma Alex spiegò bruscamente come la natura potesse acconsentire questo confronto e risero anche loro. La coppia del secolo non si allontanò molto, ma infilò nel parco. Guido vide in tutta quella scena un possibile business: così in ghingheri come era stasera avrebbe rimorchiato anche lui. Capelli lunghi e puliti, cappotto con pelo sul collo, minigonna, stivali e trucco deciso. Solo quell’enorme pomo d’Adamo e un filo di barba di un giorno lo riportava alla maschile realtà. Mentre si trovava al buio del parco a fissare fari accesi con fari spenti, non riusciva a capire come una ragazza potesse trovarsi lì a fare giochi di chissà che tipo con un cazzo nero truccato e con le tette. L’auto si fermò e lo fecero anche i pedinatori. Dentro quella Twingo gialla si accese una luce, dei vestiti volarono sul sedile posteriore, i sedili anteriori vennero abbassati e tutto si spense, accendendo pervertite fantasie. “Che schifo di troietta. Ecco perché si è assicurata che il ragazzo fosse entrato in casa. Che sporca disturbata mentale”. “Da te Guido non mi aspetterei tutta questa intolleranza”. “Che vuoi dire? Guarda che non sono malato, IO. Ho fatto una scelta, anzi la natura ha fatto per me questa scelta e sono fedele alla mia natura. Non è un gioco il mio. Dai, andiamo”.
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9. Jessica Dio che freddo. Se non fosse nevicato stasera probabilmente non l’avrebbe più fatto per tutto l’inverno. Pensò Jessica. Era stata bene. Il giorno dopo avrebbe dovuto studiare e, essendo venti a mezzanotte, decisero che si sarebbero salutati lì. Non aveva voglia stanotte di fare tardi e soprattutto di farlo con lui. Non le andava neppure di rimanere in quell’auto gelida a parlare per più di un minuto e al ragazzo andava bene rientrare, anche se la mattina dopo non avrebbe dovuto fare niente se non tirare a diritto fino a mezzogiorno, sdraiato nel letto. Lei scese dall’auto di lui e infilò rapidamente, scombussolata dal vento, nella sua. I suoi respiri calmi, profondi e stanchi condensavano l’aria fredda. Inserì la chiave nel quadro e provò ad accendere. Niente. Riprovò. Niente. Solo un cigolio rantolante di catarro meccanico, di macchina influenzata. Riprovò. Niente. Schiacciò più e più volte l’acceleratore mentre girava la chiave, ma peggiorò soltanto la situazione. Ora non c’era nemmeno il rigurgito ingolfato del motore. Il ragazzo scese. Si chinò al finestrino di lei. “Cazzo! E ora?”. “Ti porto a casa io e domani passiamo a riprenderla”. “Ma non posso. Domani devo andare assolutamente in facoltà”. “Vai in treno”. “Sì, e alla stazione?”. Lui non si sarebbe mai alzato per lei così presto. Era stata lei a definire i limiti della loro esistenza comune e ora dovevano piacerle anche se erano scomodi. “Dai, andiamo, se mio fratello non usasse la macchina domani, potrei prendere la sua…”, disse Jessica. Stette ben attenta a non dire che i suoi erano fuori città e sperò che lui non vedesse nella macchina dei genitori la soluzione a tutto. Jessica richiuse il vetro e salì nell’altra auto. Partirono.
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“Ma domani tu non hai niente da fare?”, chiese lei praticamente implorante. “No”. “E se mi lasciassi la macchina per domani? Poi domani chiamo il meccanico e la faccio andare a prendere col carro attrezzi”. “Non c’è problema, tanto pensavo di stare a casa. Allora sistemato tutto”. A Jessica tornò un timido sorriso. Arrivarono così davanti a casa di lui. Scese e lei prese il posto di guida. Si salutarono frettolosamente, poi lui tornò per le ultime effusioni d’amore e solo dopo che lui era rientrato in casa, la Twingo gialla partì. 10. Gli inseguitori “Dai Igor!”. “Dai, schiaccia!”. “E non guidare come una signorina, cazzo!”. “Hanno girato laggiù!”. “L’ho visto!”. “Vai!”. Stecco era dietro ed era ben lontano da poter comandare qualcosa. Claudia con la gamba ferita era davanti. Poteva allungarla un po’, anzi, poteva solo tenerla così perché la contrazione della coscia le dava troppo dolore. Si lamentava poco, forse per non rompere o perché le costava fatica. Andrea partecipava con Stecco all’inseguimento, mentre il dolore al braccio stava quasi passando. Bruciava ancora tanto, ma non gli sembrava più di averlo perso. Igor era troppo abituato alle prestazioni della sua Panda 45 beige del 1982 per poter fare qualcosa di buono con quei 90 cavalli. Ora la 206 aveva svoltato a sinistra. La divisa in pelle gli si appiccicava addosso per il sudore. Un fiocco di neve. Claudia cercava di distrarsi e vedendo l’inizio della grande nevicata che ci sarebbe stata, le sembrò che il proiettile 55
nella gamba le facesse meno male. In fondo al viale la preda svoltò a destra. Certo che quei due pazzi erano veramente inadeguati alla fuga. Come avrebbero potuto farcela stando solo sulle strade principali? Avrebbero dovuto preferire un tracciato misto. Certo che Igor era veramente inadeguato all’inseguimento. Arrivarono a svoltare a destra anche loro. Qualche altro fiocco di neve. Una rotonda. A diritto. Una rotonda. A sinistra. La 206 sfrecciò davanti alla pasticceria al massimo mentre un tipo grasso, con le sue due pizzette e i suoi due bomboloni alla crema, lasciò sbadato il marciapiede per attraversare, bestemmiando contro quella macchina. Il ciccione sbadato si lasciò trascinare dall’adipe infreddolito nel mezzo di strada, trovando rifugio sulle strisce pedonali quasi fossero un’armatura di difesa, contro il toro di latta nera alfa romeo che arrivava a grande velocità. Camminava, il ciccione col sacchetto. Igor arrivò in un attimo sulle strisce. Quinta. Terza. Scalata alla morte. Claudia gridò per il presentimento di avere sulla coscienza un povero ciccione affamato. Probabilmente fosse stato magro l’avrebbe intenerita meno. Stecco gridò di non fermarsi. Andrea si toccò il braccio e provò fame e dispiacere ripensando a quel povero cane del ristorante. Igor il preciso rallentò ancora senza inchiodare e si fermò a un metro dalle strisce, sordo alle grida di Stecco. Il ciccione era lì, voltato verso gli inseguitori. “Parti, stupido”, intimò Stecco a Igor. “Ma non attraversa, lo vedi? Come faccio?”. “E passagli davanti. Schiaccialo, fai come vuoi, ma vai!”. “Ma così vado sull’altra corsia”.
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“Scendi idiota!”. “Igor, cazzo, muoviti”, partecipò Andrea. “Scendi, ho detto”, insistette Stecco. Si scambiarono finalmente di posto e Stecco tornò alla guida incazzato nero col tipo davanti all’auto che era stato fino ad allora a vedere la scena con una mano stretta su un bombolone. Stecco abbassò il finestrino. “Se il tuo grasso ti consente ancora di camminare, vai a mangiare il pastone più avanti, cane!”. Il ciccione, orgoglioso del suo peso, estrasse dalla tasca il suo dito medio e lo piazzò tra i suoi occhi e quelli di Stecco. Lo ripose nella tasca, estrasse al suo posto un cannone di metallo scuro e esplose un colpo di avvertimento contro il faro della macchina. Certo in che situazione del cazzo si era messo il ciccione. Una pistola contro quattro. Un duro contro quattro. Stecco da quel momento, per tutta la vita, non si augurò altro che di ritrovarlo in qualche posto, solo per un attimo. Al bancone di un bar, in una discoteca, per strada. Solo un attimo, per afferrarlo per la giacca, puntargli una pistola in un fianco e convincerlo a seguirlo. Solo un attimo, per sfogarsi con un giusto lavoretto che gli sarebbe venuto in mente al momento. Se non fosse stato per la 206 che veloce spariva là davanti, svoltando a destra, Stecco il vendicativo si sarebbe fermato più che volentieri. Partì forte ringraziando che i fuggiaschi avessero girato in quello stradone che per un po’ non avrebbe offerto svincoli. Lui sì che era adatto all’inseguimento. Alla rotonda svoltò a destra. Arrivò veloce, in ritardo, con un faro mezzo rotto: l’ammiccante sguardo della morte. 11. All'ending day “Salve capo!”, salutò Stecco. Entrarono uno dietro l’altro. “Buonasera!”, rispose il padrone della Ending Day. “Come procede?”. 57
“Bene signore”. “Ah, capo, quante volte ti ho detto di non chiamarmi signore? Proprio non lo sopporto”. “Scusa padrone”. “Così va bene. Insomma, tutto a posto? Gli affari?”. “Sì sì, tutto bene padrone”. “Mi fa piacere - continuava Stecco - e lei signora? La fa ancora impazzire suo figlio? Ma da stasera le assicuro che avrete un problema in meno. Anzi, diversi problemi in meno. Non si preoccupi più. Mi ricordo ancora la telefonata di un paio di settimane fa”. Pronto? Buonasera signore disse con voce intimorita. Chi parla? Chiese Andrea. Sono il proprietario dell’Ending Day. Ah, ricordo, le passo il suo padrone Pronto? Chiese Stecco. Buonasera signore. Padrone, la prego. Mio padrone, buonasera. Allora io e mia madre avremmo accettato. Vedo che i ragazzi allora hanno fatto un buon lavoro. Non credevo fossero già passati da voi. Molto convincenti! Molto convincenti, sì padrone! E anche sua madre è d’accordo? Sì. Spero che non vi abbiano fatto male. No, a noi non troppo, giusto un braccio rotto a me, ma mia madre non l’hanno toccata. E come mai un braccio rotto? Avevo detto di non toccarvi. Non ci avrebbero toccato, solo che all’inizio non ne volevamo sapere. E vi siete opposti come al solito. Capisco. Solo che alla fine sono stati molto convincenti… Molto convincenti. Ci hanno semidistrutto il locale. E appunto mi hanno rotto un braccio, scaraventandomi a
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terra. Capisco. Ma poi quando abbiamo accettato, ci hanno ripagato i danni. Insomma, ci hanno lasciato un bel po’ di soldi. Dice che già da questa settimana avremo il locale a posto. Sì, noi vogliamo che lavoriate. È la solita burocrazia, ci dovete scusare. Sa come vanno certe cose: c’è una ditta, una grossa ditta, che offre certe assicurazioni, ci sono dei rappresentanti molto convincenti che vengono a vendervi queste particolari polizze e poi ci siamo noi che veniamo ad incassare. Né più né meno della solita burocrazia. Mi dispiace per il suo braccio. Ora va meglio. E per il pizzo allora quant’è la cifra? Pizzo! Non mi faccia sentire queste parole. Non è troppo diverso da un certificato ISO9001 che lei sicuramente pagherà. Chiamiamola pure polizza. Comunque credo che ne abbiate già discusso, me lo dica lei quant’è 1000 al mese. 1000 al mese! All’inizio è dura, ma poi quando ne vedrà i vantaggi non se ne accorgerà nemmeno. Poi potrà smettere con tutte quelle cazzate come ISO9001, noi certificheremo per lei. Sì. La sento un po’ dubbioso, qualche ripensamento? No, no. Altrimenti le mandiamo un nostro inviato a casa, senza impegno, per parlarne. No, no, siamo sicuri. È solo che ora stiamo finendo di sistemare il locale e staremo chiusi ancora un po’ poi siamo stati chiusi la scorsa settimana e io con questo braccio, insomma non so come faremo… Lo sa, lo sa! Non si preoccupi che li troverà i soldi. Allora auguri e ci rivediamo il prossimo anno! Auguri di Buon Natale e felice anno nuovo anche a lei. Grazie e saluti sua madre. “Ma da stasera non si dovrà più preoccupare”. 59
Un po’ di silenzio. Una cameriera sfilò davanti a loro quattro. “Vogliamo saldare il debito allora?”, chiese Stecco. “Capo, non sei così ospitale! Non ci inviti a sedere, non ci offri niente da bere”, disse Andrea. “Ah, scusate, accomodatevi e te, Martina, porta da bere”. il proprietario rimase immobile a guardare i quattro volti nuovi. “Beh? Che facciamo? Che aspetti a andare a prendere i soldi? Non ci vorrai mica dire che non li hai trovati davvero?”. “No, ce li ho! Vado a prenderli”. La cameriera lasciò quello che stava facendo e si ripresentò velocemente con quattro Martini. “Ma che ci hai portato?”, chiese Igor. “4 Martini!”. “A me va bene!”, disse Stecco. “Ma non ce lo ha chiesto”. “Igor, non rompere le palle”. “Ma non ha chiesto niente. A me il Martini non piace”. Stecco sbuffò. “Credevo aveste fretta, questi sono veloci da preparare”, si discolpò Martina. “No, è che a te fa fatica prepararci un cocktail. Ma cosa credi?”. “Igor, basta”. “In un bar una cameriera arriva, porta il menù, torna, te ordini, lei obbedisce. Dalle piccole cose si crea l’ordine nell’Universo. Se ognuno iniziasse a non creare più ordine, l’Universo intero ne risentirebbe”. “Igor, ma hai mai sentito parlare di entropia?”, chiese Claudia. “Cosa?”. “Lascia stare!”. “Eccomi qua, padrone. Vedo che Martina vi ha portato da bere”.
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“Ha fatto di testa sua la stronzetta disordinata. La prossima volta voglio che non ci sia più”. “Igor, hai rotto il cazzo”. Igor rovesciò il suo Martini a terra. “Primo sei donna, secondo cameriera. Non so cosa ci sia di peggio al mondo”. Si beccò un pugno da Claudia. Stecco passò a contare i venti pezzi da 50 euro e li infilò in tasca. Il capo sembrava triste, la cameriera sembrava disoccupata, la vecchia sembrava morta. Tre dei quattro grandi amici bevvero il loro Martini. Luciano e Ending Day erano fatti. 12. I pedinatori II Alex si ributtò nelle strade pulite della città. Nessuno. Era stordito per quanto aveva visto. Si fermò in un parcheggio per far pisciare Guido che, per farlo, si accovacciò come una donna. Certe cose se non si vedono almeno in due si ha il dubbio che non siano vere. Appena Guido rientrò Alex schizzò via dietro all’unica auto del momento. Ormai stasera era andata così. Avrebbero seguito anche quell’auto e poi se ne sarebbero andati sotto casa di Guido ad aspettare la sorellina. Alex si teneva lontano dalla macchina, ma comunque troppo vicino alla stronzata che stava facendo. 13. Al cinese “Buonasera cinesin blem blem”, salutò Stecco appena entrato nel ristorante cinese. La tenda di legno che faceva da porta per la cucina bisbigliò quattro volte. Con quella gente bisognava andarci pesante e per questo Stecco, entrando, si fece precedere dalla sua pistola. Gli altri tenevano la loro in mano, vestendo i loro migliori volti incazzati. Quei cinesi non capivano mai niente o molto più astutamente fingevano di non capire per cercare di 61
non pagare. Però per Igor non era etico spaccare un braccio a un cinese ogni volta che andavano lì e così Andrea stavolta si ripropose di non farlo. “Buonasela signoli”. “Ancora questa storia del signore. Non sono il tuo signore, sono il tuo padrone. Padrone, capito Cina? Ripeti, PADRONE”. “Sì padlone, capito signole, padlone!”. “Lasciamo stare. Insomma, Hiroshima, come va?”. “Guarda che sono cinesi, non giapponesi”, lo riprese Igor. “E fatti i cazzi tuoi. Dimmi un’altra città che non sia Pechino!”. “Non mi viene in mente”. “Hai visto? Hiroshima va benissimo". Da dietro l’angolo sbucarono tre donne magrissime, bruttissime, coi denti grandissimi e stortissimi che uscivano tantissimo dalle labbra unte da chissà quale schifezza. “Insomma, Nagasaki, andiamo bene?”. “Andale dove? Non potele andale ola”. “Ma è un modo di dire come andiamo”. “Stecco, non lo dicono nemmeno gli italiani andiamo bene. Quando uno chiede come va non è che va da qualche parte e quindi non puoi dire andiamo”. “Igor… Igor… fammi un favore, anzi fatti un favore, vai a controllare se sul retro è tutto a posto”. “Ok”. “Insomma Cin Cion, fale buoni affali tu questo mese?”. “No, padlone, dispiace, no buoni, nessuno buono, nessuno”. “Ma noi caro Cin Cion siamo passati qua davanti ogni stronzissima sera di questo mese, per controllare, e non ci è sembrato che tutto andasse così male”. “No, male. Male velo! Nessuno buono affale. No soldi”. “Claudia, per favore puoi andare a mettere dolcemente la canna della tua pistola nella dolce boccuccia di quella dentona cinese là all’angolo?”. “Certo Stecco!”.
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“E te Andrea, potresti fare qualcosa di altrettanto carino?”. Il cinese cominciava a spaventarsi. Un braccio rotto in via di guarigione, una moglie e una madre a ciucciare due pistole, erano tre buoni motivi per dare retta ai quattro grandi amici. “Allora, prima che facciamo una strage, tira fuori i soldi del mese! TILALE FUOLI SOLDI, STRONZO!”. “Padlone, io ola non avele qui”. “Senti, brutto mezzo cazzo itterico, non ci prendere ancora per il culo perché come ti abbiamo rotto il braccio destro, ti rompiamo anche il sinistro. E dato che ora sono gentile brutta merda rifritta, sarà meglio che tu approfitti del momento, se non vuoi che cominci ad ammazzare qualcuno per avere la tua collaborazione. Con o senza tua madre o tua moglie, ce ne andremo con quei soldi. Sii cordiale e rapido. Capile?”. Silenzio. “Sì padlone!”, ma continuava a stare fermo lì nella cucina. “Claudia, cerca di farti capire te, che stasera pare proprio non ci sia dialogo”. Claudia tirò fuori dalla bocca della vecchia la pistola umida. Prese bene la mira mentre il marito pareva perdere i sensi e tirò il grilletto dritto dritto sul cervello della donna. Nessuno sparo. Teneva sempre il primo colpo a vuoto nella sua Magnum, perché pensava che se qualcuno le avesse rubato la pistola, avrebbe avuto il tempo di provare a fare qualcosa prima che l’altro potesse esplodere due colpi. “I soooollldiiiii”. Il cinese era davvero duro a morire. Avrebbe perso la madre per quei soldi. Sarebbe quasi stato da proporgli di unirsi al loro gruppo. Alla fine si convinse. “Vedi che con le buone maniere…”. Il cinese era rientrato nella sala del ristorante attraverso la seconda porta. Igor rientrò dal fuori. 63
“Tutto a posto”. “In tutto questo tempo avrai controllato bene”. “Bene, sì”. “Ok. Andrea, lascia pure respirare la signora”. 14. I pedinatori III “Dai, Alex, stagli dietro. Hai visto quanti sono?”. “Quattro”. “Due uomini e due donne?”. “E che ne so! Ma fa differenza per te? Potrebbero essere quattro amanti uomini o quattro donne o mariti e mogli, ragazzi e ragazze. Con te non credo si debbano porre limiti rigidi alla sessualità”. Non si imbarazzava più a parlare dell’omosessualità di Guido. D’altronde andava di moda farsi un amico gay. Ti faceva più sensibile, alternativo, global e no global. E se stasera quel frocio si era vestito con tanto di gonna, stivali, maglia attillata, non lo infastidiva. Non ci sarebbe stato, forse, ma era sicuramente più donna di alcune sue amiche. Stasera portava il profumo che gli aveva regalato Alex a Natale. Sarebbe stato senz’altro al pari di una troietta rizzacazzi, non fosse stato per quell’enorme pomo d’Adamo. “Ma l’altra canna?”. “La vuoi ora, Alex?”. “Te che dici?”. “Io aspetterei la fine della serata. Dai vediamo dove ci portano questi e ce ne andiamo sotto casa mia” “Ok”. Un banale giro per strade banali. Come se anche quei tizi davanti cercassero qualcosa da fare. Girarono un paio di volte attorno allo stesso isolato e ad Alex venne il dubbio che si fossero accorti di loro. Si fermarono. Alex frenò e si nascose dietro a una macchina parcheggiata. Spense i fari. I quattro uscirono. Accesero quattro sigarette, estrassero quattro pistole e entrarono
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nel ristorante cinese. “Oh cazzo!”. “Cazzo davvero!”. “Persone sbagliate da seguire!”, osservò Alex dopo aver visto le pistole. “Per niente! Cercavamo qualcosa di interessante e ora dici che è sbagliato?”. “Non so se hai visto bene? Erano pistole”. “Sì che ho visto bene e proprio per questo dico che finalmente c’è qualcosa di interessante”. Le lanterne rosse davanti al ristorante si spensero. “Io sarei per andarmene”, suggerì Alex. “Io sarei per andarmene là dentro”. “Ma sei scema?”. “Sei carino quando mi dai della lei”. “Sei scema?”. “Almeno passiamoci davanti e guardiamo che succede”. I quattro non uscivano. “Dai, che ti costa?”. “Che mi costa? La vita se tutto va male!”. “Ma ci pensi poi raccontarlo? Non ti capiterà più”. “Ma non mi interessa”. Guido si voltò scocciato. Tutti gli altri se ne erano voluti andare via presto, non poteva andarsene a casa, non avevano niente da fare e ora Alex si opponeva all’unico stimolo della serata. “Ho un’idea”, cominciò Guido. “Spero sia migliore della prima”. “Fumiamoci questa, rilassiamoci e andiamo”. “Ma tanto ora usciranno”. “Per questo dobbiamo muoverci!”. Guido se l’accese. Soffiò. “Guarda, sto già meglio. Ti consiglio di fare come me”. Quando la sua flebile parte maschile veniva a galla, Alex non lo sopportava. Guido gli passò da fumare. Alex accettò, ma non si voleva 65
rilassare. Doveva fare inversione e tornarsene a casa senza nemmeno passare là davanti. Da dietro arrivò un’auto. Passò davanti ad Alex e Guido e si fermò davanti alla 145. Uscirono quattro cinesi vestiti a festa con quattro pistole ed entrarono nel ristorante. Guido si eccitò ancora di più. Fumò qualche altro tiro di canna, ma ci sarebbe voluto ben altro per rilassarlo. “Ora non possiamo certo perdercela”. Alex non rispose. Forse stava prendendo in considerazione l’idea di Guido, ma non ebbe il tempo di capirlo perché il frocio uscì tutto d’un tratto, sorprendendolo. Camminava in punta di piedi per non farsi sentire. La cosa più saggia per Alex era restare lì. La cosa più intelligente era seguire in auto Guido. La situazione era decisamente cazzuta. Quattro cinesi. Quattro italiani. Otto pistole. Un frocio impiccione. Purtroppo era capitato col frocio. Se fosse stato uno con la pistola, avrebbe visto tutto quello con occhi diversi. Decise per la cosa intelligente e partì a fari spenti. Guido guardò dentro tenendosi fuori dal ristorante e sporgendo solamente la testa. Alex si immaginò subito un bel buco nella testa di Guido. Non accadde, ma sarebbe stata certo una bella soddisfazione. Avrebbe avuto ragione su quel frocetto presuntuoso. Quello fuori si voltò e gli fece segno di seguirlo. Alex scosse la testa. Guido entrò sorridente. 15. Otto pistole Stecco si spazientiva facilmente, ma ora era sicuro di avergli fatto paura. Rimase tranquillo ad aspettare che il cinese tornasse. “Vecchia, portaci del gelato fritto”, disse. La vecchia capì subito stavolta e sparì nel retro a tirare fuori, da chissà quanti scarafaggi, quelle palle di gelato. “Ma non ti pare stia esagerando? Quanto ci mette?”.
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“Lo sai come sono questi cinesi. Attaccati al denaro come sono, avrà ingoiato i soldi in buste di plastica e li starà ricacando per darceli”. Non era così. Il cinese rientrò e tutto fu molto veloce. Disse qualcosa alla moglie e non ci fu tempo nemmeno per chiedersi cosa avesse biascicato perché appena gettò i soldi sul tavolo, sbucarono dalla seconda porta quattro cinesi incazzati e vestiti a festa. Uno sparo, nessun ferito. Andrea ne stese uno con un pugno. Uno sparo ancora a vuoto. Igor uscì dalla prima porta e rientrò nella sala. Che cazzo sei te? Pensò. Guido terrorizzata si bloccò e non scappò. Stecco sparò e un cinese cadde morto forse. Un altro si preoccupò del compagno. Morto uno, tre sosia vivi, tutti uguali questi cinesi, gridarono. Mafia cinese. Tutto chiaro: il proprietario aveva parlato con quei quattro e si era messo d’accordo con loro per pagare alla delinquenza gialla, mai mescolarsi col pizzo bianco. Due cinesi in piedi. La moglie si buttò a terra senza che nessuno l’avesse colpita. La vecchia uscì dal retro senza gelati, ma preceduta da un cane enorme, irascibile, affamato che aveva individuato subito i cattivi. Cinesi e cane alleati contro il male, quattro bianchi diventati tre e poi due, dopo che anche Stecco se ne era uscito dalla cucina. Uno sparo e Claudia gridò. Il cane saltò per azzannarla, quando siamo a lavoro non c’è tempo per il sentimentalismo e così lei sparò al cane in mezzo agli occhi. Noooooo, gridò Andrea e sparò a Claudia ad una gamba, cadde. Brutta vecchia cinese traditrice. Uno sparo, uno sbaglio e un cinese accoppò la vecchia. Uno sbaglio e la moglie si mise davanti a Claudia che, graziata e forte come una quercia, uscì dalla cucina con la propria gamba sana. Cosa cazzo aveva controllato Igor sul retro per non aver visto un cane così enorme? Fuori dalla cucina anche Andrea. Igor già in macchina al volante, col motore acceso. Guido scappò verso Alex, mentre Stecco agghiacciato dal 67
presentimento di essere stato visto, sparò correndo a Guido, colpendolo alla schiena. Guido cadde in avanti dentro la 206. Stecco era fuori dal ristorante. Stecco infilò dietro, nella 145. Claudia era ancora là fuori. Andrea ancora dentro al ristorante, voltato verso la cucina. Un cinese sbucò dalla tenda di legno. Uno sparo, un altro cinese morto. La 206 partì. Andrea era fuori dal ristorante. Uno sparo e un braccio di Andrea colpito. Stecco gridò di partire. Claudia entrò in macchina, davanti, piangendo per il dolore. Andrea la seguì dentro l’auto. Sangue di Claudia e di Andrea. Il povero cane morì in questo momento. Igor partì sgommando all’inseguimento della 206 lontana con a bordo i due testimoni pericolosi, da raggiungere, da uccidere. I cinesi piangevano le vittime, ma stavano tranquilli, sosia, perché questi occidentali di merda mai avrebbero saputo riconoscere e distinguere due di loro. Vittoria gialla.
Nessuno di quei sei pensava ai cinesi. Tutto a diritto. Laggiù i fari sembravano più vicini. Là dietro il faro sembrava più vicino. Sul vetro la neve disturbava i tergicristalli che tagliuzzavano la strada. Ecco una rotonda. Alex doveva ributtarsi verso il centro. Sterzò. Dietro il faro cominciava a farsi troppo luminoso. Là davanti si poteva leggere la targa di quella 206. Tutto a diritto ancora. C’era puzzo di sangue, ma niente a che vedere con quello che si odorava nella macchina davanti. Cuori sparati all’impazzata.
16. Fuggitivi e inseguitori: l'epilogo “Dove siamo?”, occhi chiusi socchiusi chiusi di Guido. “Non li ho ancora seminati, ma non ti devi preoccupare”. Cominciò a nevicare. Se non fosse nevicato stasera probabilmente non l’avrebbe più fatto per tutto l’inverno. Alex era entrato in quello stradone ed era l’ultimo errore di quella serata gelida. Dietro, lo sguardo ammiccante della morte. Guido si era beccato quello che si meritava, ma Alex non voleva farglielo pesare. Claudia stava un po’ meglio ora che in quella posizione poteva limitare il dolore. Andrea stava in silenzio e ripensava a Tobia, cane stupido e rubacuori. Il frocio aveva avuto il suo e anche Claudia. Quando questa storia sarebbe stata finita avrebbe ripreso un cane ed anche un giubbotto di jeans: gli avrebbe fatto bene. Stecco schiacciava sull’acceleratore e Igor si accorgeva di essere inadatto all’inseguimento.
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Curva a destra e subito a sinistra. Alex. Ghiaccio sulla strada poco battuta e poi sbandata e poi testacoda e poi Alex si ritrovò con la testa sul finestrino frantumato e ruote andate e motore spento. Si poteva solo sperare che anche Stecco uscisse di strada. Curva a destra e subito a sinistra. Stecco. Ghiaccio sulla strada poco battuta. La 145 frenò gradualmente e parcheggiò in tutta calma. Stecco spense il motore e scese con Igor, più scocciato che mai. Trovarono Alex chinato sul travestito intento ad aiutarlo a scendere. “Teste di cazzo! Teste di cazzo, buonasera! In che situazione vi siete cacciati… in che brutta situazione, brutti finocchi”. “Serataccia davvero” aggiunse Igor controllando i colpi in 69
canna. “Ci beccate proprio in una serataccia. Magari in un altro momento vi avremmo anche aiutato e portato in ospedale. Non siamo poi dei cattivi ragazzi e nemmeno ci danno fastidio i pervertiti come voi. Conosco addirittura qualcuno che vi avrebbe potuto fare compagnia in una delle vostre serate strane. Ah, niente da fare! Dio che frase mi è venuta fuori. Non si può uccidere qualcuno dopo queste parole. Ti pare che uno possa morire con queste ultime parole? Rifacciamola vai! Ci beccate proprio in una serataccia. Mio padre diceva sempre…”. “Stecco, scusa, ma tu non hai mai conosciuto tuo padre”. “Igor, non capisco perché non abbiano sparato a te invece che ad Andrea. Sa stare così zitto in certe situazioni. Sì, comunque mio padre non mi ha detto proprio un bel niente, lo devo ammettere. Ma comunque ho sempre saputo anche da solo che non sarei mai dovuto diventare un frocio impiccione come voi. Non è per essere cinico, ma mi sono incazzato meno altre volte”. Tosse. Sputo. Occhi chiusi socchiusi chiusi. “Sssshhhh, non dire niente. Avreste potuto fare un casino di altre cose stasera. La tele, una cena con amici, un poker, un giro in centro, ah è freddo avete ragione, ma certo non entrare in un ristorante cinese nel bel mezzo di una lite tra piccole cosche. Eh già, ma come potevate saperlo? Come sta venendo Igor?”. “Per niente incidente! Stai parlando, ma non stai dicendo niente. Lo sanno già da soli che hanno sbagliato tutto, non hanno la faccia stupida”. “E allora dimmi te qualcosa di forte”. “Non mi viene in mente niente”. “Te hai sempre da parlare quando non è il momento”. “L’idea del padre che ti ha detto qualcosa di molto saggio non era niente male”. “Lo so. Ma hai sciupato tutto. Comunque penso che dovrei imparare una frase bella cazzuta per questi momenti
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anche io. Ogni volta inventarmi un discorso nuovo con tanto di morale diventa sempre più difficile. Tanto voglio dire, chi lo sente una volta si pensa non lo debba sentire una seconda volta. Non c’è insomma il problema di ripetersi”. “Potresti farlo, ma ti dico subito che non saresti il primo”. Alex e Guido non riuscivano a muoversi per vari motivi, tra cui l’assurdità della conversazione. “E chi l’avrebbe fatto?”. Guido si stava esaurendo e ora anche Alex se la stava facendo sotto. Doveva fare qualcosa e subito. “In un film. Non ti ricordi?”. “No”. Alex si guardò un po’ attorno. Guido stava sdraiato a occhi chiusi socchiusi chiusi. Poco più in dietro una sbarra vi ferro, il paletto che avevano tirato giù nell’uscire di strada. Avrebbe potuto fare uno scatto mentre i due erano distratti e colpirli con quell’affare. Guardò Guido per un attimo e si accorse che movendosi avrebbe ormai rischiato solo una vita: la sua. Guido di lì a poco ormai l’avrebbe lasciato per sempre. O per poco se aspettava ancora. “Dai, insomma lasciamo perdere e facciamo quello che siamo venuti a fare che poi dobbiamo portare gli altri due a farsi vedere da qualcuno”. Alex si fece in testa un rapido piano. Avrebbe potuto colpire quello di tanti discorsi con un calcio, buttarsi a terra per schivare un primo colpo e poi avrebbe funzionato. Sì, ma doveva essere veloce ad afferrare quel coso e allora al tre: uno, due Occhi chiusi. Occhi chiusi.
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Nicola Ciardi BRAINWAVE
Siamo in macchina, fermi su un ciglio, al buio, in una stradina tra campi e muri a secco. Ci rilassiamo. Le membra si sciolgono, si stendono. Ci siamo fermati a farci una canna prima di tornare a casa: ne avevamo proprio voglia. Siamo in piena estasi delirante. Io sono sdraiato sul sedile reclinato e la musica parla dalla radio: forse il volume è alto o forse no, i miei orecchi non lo distinguono. C’è scritto 94 e qualcosa sul display: senza volerlo ho beccato una stazione che trasmette solo musica rock, forse rock FM. Menomale, perché ora farei di tutto tranne muovermi per smanettare la radio, che mi vomita addosso tutta la musica che mi piace. Mi concentro: la musica ora non è più solo vibrazioni e onde sonore, non è più invisibile quando esce dalla radio, è diventata liquida, è una corrente liquida con dei riflessi blu, che si muove ondeggiante, e quando arriva agli orecchi si infila dentro, la sento fluire, fresca, nella testa, nel petto e nelle gambe. Mi accorgo che sto sentendo la musica con tutto il corpo. Chissà se al mio amico succede lo stesso. Mi concentro ancora: sono sdraiato con chissà quale sorriso stampato sulla faccia mentre nuoto nella musica, sperando che la canzone non finisca per fare spazio a qualche stacco pubblicitario, quando, a metà di una bracciata, si interrompe. Ma non si tratta di pubblicità. E’ un urlo, è qualcuno che chiede aiuto, qualcuno che piange, e che dice basta. E’ una voce disperata. Mi giro verso il mio amico, pietrificato: “Hai sentito?”. “Eh, che cazzo dici?”. “Vaffanculo, riprenditi. Hai sentito quella voce alla radio?”.
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“Quale voce? C’è la musica alla radio!”. Ascolto: è vero, Child in time, dei Deep Purple. “Hai sentito, che ti dic… . Oh merda, che succede?”. “Vaffanculo, è la voce di prima”. Si sentono dei fruscii, poi una voce di donna che urla basta e chiede aiuto, ma è subito coperta da un’altra, più imperiosa, maschile stavolta, che la soffoca in una serie di imprecazioni. Poi ricomincia la musica, calda, così lontana dalla drammaticità di quelle voci. Io mi trovo disorientato: non credo si tratti di uno stratagemma della radio per aumentare gli ascolti, non solo perché la musica viene interrotta improvvisamente, ma anche perché in quelle voci c’è qualcosa di reale. Non si tratta della campionatura di un film. Mi rivolgo al mio amico: “Che cazzo sta succedendo?”. Sembra essersi ripreso, ha un’espressione seria dipinta sul volto, come se stesse riflettendo, e mi risponde con una risolutezza inaspettata: “E’ un’interferenza”. “Bravo stronzo, questo l'avevo capito!”. “No cazzo, stiamo beccando l’interferenza del baracchino di un camion. Non so come sia possibile, si devono essere sovrapposte le frequenze. In qualche modo l’hanno lasciato acceso, gli è rimasto premuto il tasto che serve per parlare”. Come se volessero essere una conferma empirica alla spiegazione alquanto azzardata del mio amico ritornano le voci: “Aiuto, no, basta per favore, ho paura, non ho fatto niente, nooo, t’ammazzo troia”. “Oh cazzo”. “Stanno violentando una donna, è un camionista che sta violentando una puttana”. Il mio amico dice questo con un’espressione ancora più grave e con una sicurezza ancora più inattesa, ma credo proprio che abbia ragione. “Che cazzo facciamo? I baracchini hanno una portata
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limitata, dev’essere per forza qui nei dintorni”. “E che cazzo vorresti fare? Può essere da qualsiasi parte, davanti, dietro, a destra, a sinistra. Vuoi perlustrare tutta la zona di portata del segnale?” “Merda”. La musica si interrompe di nuovo. Gemiti, urla, rumori di colluttazione. Ma questa volta solo per pochi secondi. Le voci e i rumori vengono subito rimpiazzati dal rumore pieno delle chitarre distorte della canzone. Moby Dick, dei Led Zeppelin. “E poi, cazzo, come la sentiamo noi la sentiranno tutti i camionisti che passano e che hanno il baracchino acceso, ci andranno loro”. “Ma anche per loro è lo stesso problema, non sanno dove andare, non possono mica perlustrare tutta la zona, no?!”. “Cazzo, non è possibile”. Ancora le voci. La donna piange, implora l’uomo di smettere, urla basta. I rumori si fanno più sordi.Quello che dice l’uomo, che urla l’uomo, ci fa rabbrividire. “T’ammazzo puttana”. “Cazzo, no”. “Chiama la polizia”. “Ho il telefono scarico”. “Io l’ho lasciato a casa”. Dalla radio proviene un debole lamento, poi un rumore forte, sordo inquietante, come un forte colpo. Poi tutto tace. E la musica non torna. “L’ha ammazzata”. “Spengi la radio”. “Cazzo”. “Cazzo”.
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Tommaso Chimenti CENCI CENCIOSI
Un tavolo di noce bruna spesso a dividere, il sole, la luna, fuori un buio rotondo come bocce sulla sabbia arrossata e stanca di essere calpestata. In sottofondo andava, talmente impercettibile da risuonare cupa e ridondante “Compagni di scuola” di Antonello Venditti, compagni di niente, avrebbe aggiunto alla strofa successiva, quello che noi non siamo mai stati. Il Carnevale era alle porte ma io di maschere, mascherate, finte burle, scherzi della vita e della natura ne avevo già abbastanza, avevo ormai già veduto un bel campionario alle mille cene di famiglia che puntualmente dovevano essere fatte, celebrate, ritualizzate, conclamate. Farina, uno starnuto dolce, lieve per non disturbare, la mano che passa sull’altra in un gesto unico, costante e consapevole, deciso e lineare come a tracciare il cammino. Il tavolo ancora troppo largo ci divideva, due barricate, due fuochi divisi da un mare di silenzi ed in mezzo noi naufraghi remoti di sentimenti l’uno per l’altro, incapaci di darci, se non dispiaceri l’un l’altro. Il vulcano di farina immobile al centro attendeva la lava sconfitta del tuorlo acceso farsi densa come complesso amplesso, in un vortice di mestoli d’acero e maestria incontaminata, voglia incorrotta, sapienza, fame d’amore. Mio padre era così: quello che faceva lo voleva al 100%, perfezionista maniacale egocentrico, senza che questi tre termini insieme, uno dopo l’altro, indicassero forme negative patologiche o invidie covate e gelosie ritrose. Ho sempre di lui stimato lo stimabile.
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Era così, ed io non lo accettavo, forse perché così diversi, ciambelle mutilate dello stesso impasto, forse perché qualcuno, io, a lui troppo uguale, avevo dovuto divenire altro per poter continuare quel sottile gioco di silenzi assensi negli anni adolescenziali, perdendomi in competizione impari. Era armonioso mentre miscelava dolce, come forse avrei voluto che mille volte avesse fatto con i miei capelli nero rancido lunghi sul collo come a lui non piacevano, il pizzico di sale gettato con sufficienza, lo zucchero tenue e solare come mai lo furono gli abbracci, la leggiadra e soffice sofferta impalpabile indecisa vigliacca vile farina, la scorza di limone acre come certe giornate guardando al di là della doppia finestra appannata dalla nebbia, dalla rabbia, dall’umidità, dal freddo, dal vento, dal pianto. Alla preparazione dei famosi cenci pochi erano ammessi, o almeno così a me piaceva pensare, pochi eletti, l’autore, l’artefice, il deus ex machina ed io, cencio cencioso, accartocciato tra le scapole e le spalle minute, minuto dopo minuzia, dall’altra parte ad osservare, cercare d’interloquire, chiedere, sapere, imparare. Non ho mai imparato a preparare i cenci. Forse questo è un segno, o almeno un segnale. Non mi ci sono neanche mai provato, per nostalgia fecondatrice, per il flebile ricordo ingombrante invadente che avrebbero prodotto tra il mio palato e l’emisfero cranico della memoria, per la voglia ancora che fosse lui meticolosamente, pazientemente, alacremente, incessantemente, dediziosamente, deliziosamente come mai lo era in nessuna altra mansione, ad organizzare il tutto come una battaglia, come un campo di grano giallo, come la vita ordinata, senza sgarri né sussulti. La pasta fine, passata con il matterello fino allo sfinimento delle vene dei polsi, veniva stesa come belle donne a ferragosto per una tintura ideale e corposa al tempo stesso; il profumo della pasta fresca, ancora acerba mi mandava
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in fibrillazione, ebollizione. Mi ci rispecchiavo in quella distesa di paglia giovane, ancora in divenire, che doveva lievitare, troppo sottile, senza spessore, senza personalità, senza cuore, piatta ed inconsistente. Qualcuno me l’aveva fatto credere. Ad una ad una come in un supplizio, scegliendo la prossima vittima, sadiche mani coglievano dal tavolo casualmente una striscia qua ed una là, dando la speranza alle altre di poter essere salvate, risparmiate, in un Auschwitz in miniatura. Colte di sorpresa e fritte alla schiena, gonfiavano come i rospi in pentola gettati ancora vivi, perché la carne si mantenesse morbida e lucente di paura. I vassoi di porcellana bianca si riempivano senza sosta, l’odore insostenibile mi trafiggeva, mi esortava caldo e calorico, la stanza brillava ora della luce del nuovo parto annuale, dell’alchimia di due uova ed un po’ di farina, di quello che qualche essenza poteva e continuava a fare, unire il già diviso, riconciliare, partecipi della magia della creazione culinaria, parti così lontane, abissi imperscrutabili. A chi mi avesse chiesto chi era mio padre, avrei risposto: "L’uomo dei cenci”, io e quelli fritti. Il perdono avveniva gustando le croccanti prelibatezze ad occhi socchiusi, per tornare soldati di due schieramenti opposti, nemici, ribelli, fino al prossimo anno.
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Marco Pierattini SECRET SOCIAL FORUM Ribelli & Ribrutti
L'SMS era chiaro: H$FT£ £))) =khp? ?^ì 0££"!| b\\9)= +*ééà ùojg__ _.;,%% %() ()()^ ^fggd. Il Grande FRAC, il mitico Chiesi, mi aspettava in incognito. Che vuol dire FRAC? Venne fuori quando cercavamo un appellativo generico da usare tra noi: quelli tradizionali, come compagno, amico o fratello, scontentavano una parte o l'altra del Forum, perciò adottammo FRAC per dire Fratello/Amico/Compagno e SCA per Sorella/Compagna/Amica, e questo andò bene a tutti. Dunque, l'appuntamento con il Grande FRAC era in una chiesa. Entrai nel chiostro, dove diventai nero, perché ero in-chiostro. Vidi che il palazzo della Curia era in uno stato di incuria. Non vi sto a dire delle cattedre nella cattedrale. Nella basilica, su una panca in mezzo al basilico c'era il Chiesi, con la sua caratteristica faccia da cassiere del Monte dei Paschi. Facendo finta di essere un terrorista talebano, per non attirare l'attenzione, una chiosa chiesi al Chiesi chiuso in chiesa: "Oh Chiesi, cosa accusi?". Il Chiesi sonnacchioso, schiuse gli occhi chiusi: "Chi usa il caso e chi osa a casa". Erano la parola d'ordine e la controparola. Ci conoscevamo, ma questa storia delle parole d'ordine ci divertiva, e poi era una precauzione contro eventuali cloni, non si sa mai. Guardai di nuovo il Chiesi: era vestito come sempre, con quello stile casual-pop che gli invidiavo tantissimo, tant'è vero che ero solito compiere dei furti alla sua lavanderia, per fregargli i vestiti. Lui non mi denunciava perché 80
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segretamente lusingato, e poi in fin dei conti è un buon ragazzo. Comunque presi di nascosto appunti sul suo stile. Lo chiamiamo il Grande FRAC per affetto e stima, in realtà lui è il Cordo, cioè Coordinatore: c'è anche la Corda, Pina Russo, perché tutti i nostri incarichi sono a coppie uomodonna. Nel Secret Social Forum, loro due sono i migliori nel prendere decisioni rapide. Sarebbero capaci di decidere giustamente, su cose vitali, in un attimo e nelle peggiori condizioni: con un ascesso ad un dente, un'orda di naziskin che li rincorre e tre capponi starnazzanti per mano. Li abbiamo eletti democraticamente a scrutinio segreto, con il ballottaggio e dopo una settimana di astinenza alcolica e televisiva (sessuale no, anche se qualcuno l'aveva caldeggiata). Gli chiesi: "Ivan, tu che sei un chimico, come va?". E lui: "Oh Gino Filippo detto Gippo, quando eravamo giovani era meglio, ora c'è Miglio, io ho la maglia, ma non la moglie. Andiamo a berci un Lux Piatti, quello sgrassante, perché siamo un po' ingrassati". Accese un cero e fece una genuflessione all'altare con la foto del Milan. Anche gli eroi hanno le loro contraddizioni. Chiesi al Chiesi: "Dove andiamo?". "All'osteria del Puma Gattopardato di Palude". Appena fuori, vedemmo passare i pantaloni, il giubbotto, gli occhiali e il telefonino di Massimil, un FRAC che era molto distratto e perdeva sempre tutto. La sua roba camminava da sola. Ci guardammo negli occhi: questa volta aveva esagerato. Aveva perso il suo corpo. In effetti, Massimil nel Secret Social Forum aveva l'incarico di far sparire le cose. Era molto più ecologico e sicuro di un tritadocumenti o di un inceneritore: quello che veniva affidato a lui probabilmente spariva in un'altra dimensione.
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Fu grazie a lui che riuscimmo a mettere fuori uso una portaerei nucleare americana con 183 bombardieri a bordo senza usare nemmeno un grammo di esplosivo: semplicemente la perse, e nemmeno i cani da portaerei riuscirono più a trovarla. I 2700 marinai che erano a bordo si trovarono improvvisamente, senza sapere come, chi seduto sul molo e chi a giocare a flipper nel vela club. Fece storia, ma fu tutto messo a tacere, ai media non arrivò niente. Il nostro potente smarritore era stato battezzato Massimiliano, ma ormai si chiamava Massimil perché aveva perso il resto del nome. Sulla 264 mattonella del marciapiede incontrammo il FRAC cattolico Karol, ma non sembrava in gran forma. Gli chiesi: "Come stai?". "Eh, che io non stia tanto bene". "Ma come parli?". "Che io abbia la congiuntivite". Poi salimmo sul carrettino del raccoglitore di ferrivecchi. Notai che dentro aveva i sedili, il posacenere, le frecce, l'arco, e il volante. Il Chiesi girò la chiave d'accensione con consumata sicurezza. Ne dedussi che eravamo sulla sua vecchia Seat Ibiza bianco-ruggine. Mi commossi allora al ricordo della mia vecchia Uno. Quando la parcheggiavo vicino ad un cassonetto della spazzatura, al ritorno la ritrovavo sempre piena di immondizie, e talvolta c'era accanto una dubbiosa vecchietta con un sacchetto in mano: non riusciva a capire qual'era il cassonetto. Persi la mia Uno quando aveva ancora solo 250.000, o forse 260.000 anni luce. Successe che la parcheggiai in strada sotto casa invece che in garage, e una folata di vento un pò più forte ne disperse i pezzi per la città. Mentre io annegavo nei ricordi, il Chiesi cercava di mettere in moto (perché lui è un chimico), ma l'Ibiza faceva le bizze. Il Chiesi disse, un pò irritato: -Oh morina!- e ci trovammo istantaneamente a 816 chilometri orari, tanto 83
che in 33 microsecondi, forse qualcosina di più, eravamo all'osteria del Puma Gattopardato di Palude, a sedere e con il secondo bicchiere di Lux Piatti a mezzo. C'era una notevole cameriera, e per atteggiarmi a duro ordinai una camomilla doppia. Il Grande FRAC mi guardò diritto negli orecchi e disse: "Troppo stress. E poi troppo stress. Ma soprattutto troppo stress. La mia vita è faticosa, vivo a 360 gradini. Ma veniamo al sodo. I nostri geniali scienziati hanno messo a punto una geniale invenzione segretissima. Per sperimentarla, occorre una persona di grandi intelligenza, coraggio, generosità, che sia scapolo e senza figli, e che mi stia anche un po' sulle balle. Sei stato scelto tu. Non c'è pericolo, comunque se non hai fatto testamento provvedi ora. Questo finto giornale porno contiene le informazioni necessarie per raggiungere il laboratorio segretissimo, troverai la strada decodificando le posizioni del Kamasutra". "Idea divertente - risposi - Tu che sei un chimico, che tempo farà domani?". "Chiamami domani a ora di cena e te lo dirò con precisione". E se ne andò immediatamente, allontanandosi a razzo con la sua Ibiza bianca. Il giorno dopo, seguendo scrupolosamente le istruzioni pornocodificate, arrivai a una porticina in un vicolo maleodorante. Bussai, si aprì uno sportellino e qualcuno da dentro mi disse: " Parola d'ordine segreta!". Preso alla sprovvista, improvvisai: "non ci sono più le mezze stagioni!". E quello mi rispose: "Va bene, entra!". Era Anarchimede, il nostro scienziato anarchico. Lo conoscevo bene, facevamo interessantissime conversazioni. Mi aveva raccontato che Einstein e Fermi erano stati i primi a inventare gli OGM: quando litigavano di brutto, facevano i geni alterati. Persino il suo papero
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domestico aveva una grande cultura scientifica, invece di quack quack faceva quark quark. Quando doveva risolvere un difficile problema scientifico, andava in giardino a pensare, infatti era un giardino pensile. Chiamò Arcimede, il suo collega dell'ARCI, e mi fecero vedere una Renault 4 ovviamente rossa. "Vedi, Gippo, questa in realtà è una macchina del tempo. Tu capisci quanto ci potrebbe essere utile. Mettiamo che si riesca ad arrivare al momento in cui fu concepito Furbio Beimilioni... potremmo intervenire somministrando al padre una massiccia dose di Pappamollex, il farmaco che farebbe afflosciare un palo della luce... e il problema sarebbe risolto. Beh, almeno si spera. Stesso discorso per Gianfalso Sottili". "Interessante!". "Sarebbe una macchina normale, ma abbiamo sostituito il suo motore di serie con un motore cronodinamico ecologico al plasma-neutrone e olio di semi vari. Iniettando nel motore un opportuno cronocatalizzatore, è possibile viaggiare nel tempo. Per andare avanti nel tempo il cronocatalizzatore è l'erotisamantina6-orgasmo12strafigonato di sessio, cioè un derivato sintetico del DNA di Samantha". Al sentire nominare Samantha mi eccitai all'istante. Pensai immediatamente al partito di Beimilioni, Farsa Italia, per non avere un orgasmo sul momento. E non è che io abbia problemi di scarsa durata: le donne mi chiamano Brooklyn... Gustolungo! Ma Samantha è la nostra SCA che incarna l'idea stessa dell'eros. Ovviamente, come vuole il principio regolatore dell'universo, cioè il senso dell'umorismo, Samantha è lesbica al 100%. Comunque la sua attrattiva è talmente forte che questo dettaglio passa in secondo piano. Anzi, attira anche torme di donne. "Tu capisci bene che una giornata passata con Samantha sembra un secondo: praticamente il tempo vola. Quindi, qualche etto di erotisamantina nel motore cronodinamico 85
ti fa viaggiare avanti nel tempo". "E per andare indietro?". "Al contrario, ci vuole qualcosa che faccia rallentare il tempo in modo pazzesco, tanto da farlo andare indietro. Un composto derivato da una cosa mostruosamente insopportabile. L'acidovittoriosgorbato di stronzio. Anche se va diluito nell'amiantocianurarsenico per renderlo meno tossico, ne basta un microgrammo e vai indietro di 1000 anni". "Non dubito dell'efficacia di tale cocktail". "Il tutto funziona a comando vocale. Basta dire in che anno, giorno, ora vuoi andare, e il computer aggiusta l'iniezione delle opportune quantità di cronocatalizzatori... e via! dai proviamo! vai a farti un giretto nel fine '800... ma se incontri Marx, non dirgli di Stalin e di Piazza Tien An Men!". "Per carità! ...ma st'affare è sicuro?". "Certo! Però... l'hai fatto testamento?". "Sì!". "Allora vai sicuro!". Entrai in macchina, misi in moto (un po' a fatica, non voleva avviarsi), fuori i due geni mi guardavano sorridenti, forse proprio perché loro erano fuori e io dentro. Il rumore del motore era quello classico della Renault 4 cilindrata 850. Guardai il cruscotto: c'era un foto del subcomandante Marcos con la scritta "proteggimi". Dissi, un po' a caso: "4 maggio 1880, ora di merenda!". Non successe niente. Da fuori mi dissero: "Già, ci siamo dimenticati di dirtelo: devi dare un po' di gas, e poi per andare indietro metti la retromarcia! Ah, e la frizione è un po' finita!". Eseguii, ci fu un rumore bestiale, si fece tutto buio e poi il silenzio più totale. Mi venne da vomitare, stavo malissimo, doveva essere qualche atomo di acidovittoriosgorbato
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scappato dal tubo di scarico. Forse ci voleva una marmitta catalitica. Stavo quasi per crepare, quando riapparvero luce e rumore e mi ritrovai in campagna vicino ad una specie di grotta. Spengo il motore, scendo, vomito anche l'anima: mi ci volle un'oretta per riprendermi. Poi, all'improvviso, vedo uscire dalla grotta due tipi vestiti strani. Uno fa: "Dante, giunta è l'ora di nostra divisione, il guardo tuo hai posato sul momentaneo foco e quello etterno, il tuo intelletto hai posto nei più remoti segreti di inferi e purgatorio, nell'origine di molte cose, nelle cagioni dei più oscuri accadimenti. Materiale hai tu dunque per far pubblicare la tua Comedia con successo magno e quattrini dimolti. Hai tu preso ratti ma savi appunti?". "O sommo duce, ho riempito questo libercolo di ciò che mano tua m'indicò". Ne dedussi che il sommo duce non doveva essere il simpatico Benito. Cominciai a sudare freddo: temevo che non sarei tornato a casa in tempo per la cena. Virgilio continuò: "Bene hai tu preso anche nota di cattive predizioni et accidenti futuri?". "Mah... dicerotti molto brievemente: dato che Farinata predissemi l'essilio, di ascolto non degnai altri oracoli. Pensai che i dannati inventassero balle per farmi perdere il ben dell'intelletto... e poi... via, come posso mai io essere esiliato? Mai il Guelfo Nero prevarrà in Firenze! Che io perda la casa e tutti averi se ciò accadrà!". "E difatti... Male tu facesti, male, a non dar ascolto... Ma dunque, Dante, come or ti diceva, giunto è il momento di salutarci". "O sommo duce, qual'è il dolore nel romper così il nostro legame... tu se' degl'alti poeti onore e lume, tu se' lo mio maestro e lo mio autore, tu se' solo colui da cu'i' tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore! Tu mi guidasti per i perigliosi giri, là nello inferno e qua nel purgatorio. O mantovano 87
grande, etterno è il mio debito!". "Indegna di tua riconoscenza è l'anima mia! ...Voglioti dare però possibilità di saldare questo debito, dandomi una simbolica cifra stabilita dalla corporazione de' guardiani e delle guide...". Tirò fuori di tasca un lunghissimo rotolo e cominciò a leggerlo. Dante spalancò gli occhi. "Tale somma simbolica ammonta a: fiorini 3500 per gita esclusiva in loco occulto con dotti schiaramenti... (Dante allibì) fiorini 2000 per diritto di mediazione su colloqui con alti personaggi... (Dante si fece scuro in volto) 1300 per diritti d'autore e Siae, (Dante bolliva di rabbia) 5000 per cassa malattia e contributi pensione e... (Dante afferrò un grosso ramo nodoso) ma che, ti arrabbi?". "Vampiro d'un mantovano... te lo do io l'etterno debito". Scomparvero all'orizzonte correndo. Ancora allibito, rientrai in macchina, misi in moto e dissi: "3 dicembre 2003, ore 16!". Il rumore e il buio ci furono lo stesso, ma questa volta fui sfinito dalle esalazioni di erotisamantina... ebbi l'orgasmo 47 volte prima di fermarmi. Mi sentii un po' fiacchino. Uscii dall'auto, mi ripresi un pochino e poi mi avvicinai a un gruppo di gente, vicino al mare, c'era una nave a vela, sugli alberi della nave c'erano i frutti di mare. Dato che non era l'Amerigo Vespucci, mi resi conto che il motore cronodinamico aveva cannato un'altra volta. C'era un generale vestito con un mantello e un buffo cappellino che sembrava un fez ricamato. Era seduto ad un tavolino, davanti a lui c'erano alcuni uomini in fila, via via lui parlava con uno per volta e scriveva qualcosa. Mi avvicinai di più per sentire cosa dicevano. "Avanti il prossimo! Numero 997! E tu come ti chiami?". "Mario Rossi!". "Bel nome! Originale! Arruolato! Prendi il fucile... lo zaino... la camicia rossa. Allora, si parte per Marsala...domattina alle cinque a Quarto!".
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- Le cinque e un quarto, ma da dove?". "Oh, ragazzi, che palle! - Urlò il generale - Sono 997 volte che lo ripeto! Tieni, te lo scrivo!... Avanti il prossimo! Numero 998! Come ti chiami?". "Nino Bixxxio!". "Il tuo nome l'ho già sentito...". "Forse su un libro di storia...". "Ah, già, che scemo! Finalmente ci si incontra! Come si scrive il cognome?". "Bixxxio! Son qui perché Craxi con un fax m'ha detto l'ora x, ho preso il cane Rex, una tortilla mexicana nello scottex, un Twix, un mix di rum, ho salutato Max e anche la mia ex, che era molto sexy, ho preso nel box la mia Citroen AX pulita col Vim Clorex ma c'era l'autovelox, volevo rispettare la lex! ... ah, viva Marx!". "Ottimo! Tieni, becca 'sta roba e aiutami! Andiamo avanti! Numero 999! Tu, come ti chiami?". C'era un tipo strano con gli occhiali che disse: "Marco Pierattini!". "Boia, anche questo nome mi ricorda qualcuno!". "Anche la tua faccia non mi è del tutto nuova!" "Mah, chissà!... To', prendi il pacco e chetati!... Ovvia, ci siamo! Numero 1000!". Non c'era più nessuno. Il generale urlò: "Numero 1000! Mille! Serviamo il numero mille al banco degli affettati! Oh, che storia è? Non c'è nessuno!". Il generale impallidì. "Bixio, aiutami! Qui si fa una figura da imbecilli! Te lo immagini sui libri di storia? Già me lo vedo: 'Garibaldi e l'impresa dei 999' ! E suona male di nulla! Bixino mio, icché si fa?". "Mah... oh, guarda, là c'è uno con una carriola di letame! Scommetti che non vede l'ora di avere l'occasione per passare alla storia? Vai vai!". Andarono dietro al tizio quatti quatti, e senza dirgli nulla, gli infilarono un sacco in testa e lo portarono via. E fu così 89
che l'Italia fu unita, grazie agli eroici volontari dell'impresa dei mille... Tornai ai casi miei. Anche se ero sicuro che non mi avrebbero catturato perché "impresa dei 1001" suonava male, decisi di filarmela. Rientrai in macchina, misi in moto e chiesi ancora di tornare nel presente. Questa volta, per evitare qualunque tipo di eccitazione sessuale, mi misi a cantare la canzoncina di Farsa Italia, che farebbe ammosciare anche la torre Eiffel, e in effetti funzionò. La canzoncina, non il viaggio nel tempo. Sullo schermo del computer di bordo comparve la scritta "5 marzo 1944, ore 2 di notte - missione neutralizzazione Beimilioni". Non capivo. Provai a cliccare col mouse sull'icona HELP, e mi venne fuori: "Furbio Beimilioni, data di nascita 25 dicembre 1944, presunta data concepimento dopo il 5 marzo. Prendere nel cruscotto il flacone di Pappamollex 9000 inalante a lunga efficacia. Introdursi in casa Beimilioni, via Volpone numero 1. Appendere il flacone sotto il letto dei genitori dopo aver premuto il pulsante rosso. Allontanarsi rapidamente". Evidentemente il computer aveva preso, per conto suo, l'iniziativa di spedirmi a realizzare il vero scopo della macchina del tempo. Il cuore cominciò a battermi all'impazzata, e lanciai irripetibili maledizioni ai due Archimedi, alla macchina e al suo computer. Quando esaurii la lista delle imprecazioni, il cielo cominciava a schiarirsi. Non c'era più tempo per indugiare. Preso dal panico, dissi: " Caro Gippo, ricordi quando leggevi ammirato le gesta eroiche dei partigiani? Beh, ora tocca a te rischiare la pellaccia! Mi sacrifico per il futuro del popolo italiano!". Presi dal cruscotto tutto il materiale occorrente e mi diressi verso casa Beimilioni. Avevo una paura boia, e oltretutto mi inquietava quella frase "allontanarsi rapidamente", senza ulteriori spiegazioni. Non avevo più tanta fiducia nei due stramaledetti inventori. Invece, arrivare nella camera della coppia che ronfava tranquillamente, fu uno scherzo. Mi intrufolai sotto il letto, ci attaccai il flacone del
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Pappamollex e premetti il pulsante rosso. Lì venne il bello. L'azione era immediata. Un afflosciamento profondo si impadronì di me. I muscoli mi diventarono come il pan molle e le ossa come di gommapiuma, mi sembrò che anche la mia volontà si liquefacesse in gazzosa. Facendo un disperato appello agli ultimi ossicini ancora rigidi, strisciai come una medusa gelatinosa fuori dalla casa e fino alla Renault 4. L'allontanamento dal flacone di Pappamollex mi permise di recuperare quel minimo di consistenza solida necessaria per mettere in moto ed implorare la macchina di riportarmi nel presente. Questa volta le esalazioni di Erotisamantina non mi causarono nessun problema di eccitazione sessuale... ne dedussi che la mia attività erotica, nei mesi successivi, non sarebbe stata esaltante... sempre che fossi riuscito a terminare quello zigzag temporale. Quando il viaggio finì e riapparve la luce del giorno, una pallottola di mitragliatrice frantumò il finestrino e mi bruciacchiò il pizzetto. Avevo dato il comando al computer in un modo così ammosciato, che ero andato avanti nel tempo solo di qualche mese. Ero finito in mezzo a una battaglia tra partigiani e fascisti repubblichini. Ovviamente più vicino ai secondi. Erano così imbestialiti che l'apparizione improvvisa di una Renault 4 rossa in mezzo ad un campo di cavolfiori, non aveva fatto balenare a nessuno, nemmeno per un attimo, il minimo guizzo di perplessità. Continuavano a rovesciare nella mia direzione interi caricatori e zainate di bombe a mano. Così, senza il minimo interessamento scientifico al singolare fenomeno. I repubblichini stavano correndo verso di me, tanto che potei vedere i teschi e i fasci littori sulle uniformi nere e sui copricapi. Tanto per dare un po' di suspance alla situazione, da dietro un boschetto spuntarono 3 carri armati tedeschi Tigre, i cui comandanti gradirono allegramente la singolare occasione di polverizzare la prima Renault 4 della storia, e girarono cortesemente i cannoni verso di me. Forse la mia salvezza 91
fu il fumo esagerato, dovuto al grandinare di spari ed esplosioni: non mi si vedeva più. Ma le pallottole e le schegge mi stavano riducendo la macchina come una grattugia. Cercai di metterla in moto, però non ne voleva sapere. Ingranai la seconda, scesi e cercai di avviarla a spinta, mentre intorno mi fischiavano le pallottole: una mi portò via l'orologio dal polso, era un regalo di una mia ex e ci tenevo anche, ma non mi fermai a raccoglierlo. Per qualche motivo misterioso la macchina partì, si fece buio e ripresi a viaggiare nel tempo. Mentre navigavo nella dimensione extratemporale, riuscii finalmente a tirare un respiro di sollievo, e dissi: "Boia, se non mi sbaglio in Italia dopo il '45 non ci sono state più guerre. Qualunque cosa succeda, a questo punto non posso che migliorare!". E difatti, quando mi fermai e riapparve la luce, mi ritrovai in mezzo al fumo, e sotto una pioggia di bottiglie molotov, biglie di ferro e pietre da una parte, e lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo dall'altra, con un migliaio di carabinieri che stavano correndo nella mia direzione brandendo scudi e manganelli. Potevo vedere le spilline con i teschi e i fasci littori sulle loro divise nere. Dall'altra parte, i black bloc erano pure loro vestiti di nero e avevano le bandiere nere con i teschi, e stavano anche loro correndo verso di me per disfarmi la macchina a molotov e sprangate. Davanti c'era invece un gruppo di teppisti ultras che mi stava correndo incontro, con le bandiere della loro squadra di calcio, brandendo delle solide quanto ecologiche travi di legno. Nello specchietto retrovisore vidi avvicinarsi un'allegra compagnia di naziskin vestiti di cuoio nero borchiato, che facevano volteggiare massiccie catene, anche questi ornati di svastiche, teschi, fasci e croci celtiche. Vidi anche altri, con le bandiere di un colore diverso, ma che avevano comunque una certa predisposizione a menare le mani. In mezzo a tutti stavo io. Pur consapevole che la guerra era un'altra cosa, lì per lì non mi sentii del tutto tranquillo. Tant'è vero che innestai
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fulmineamente la prima e impennai la Renault per scappare a tutta randa, senza avere il tempo di attivare il viaggio nel tempo. Un attimo prima di fiondarmi via, feci in tempo a vedere, fermo a 2 metri da me, un tipo buffo con gli occhiali e con una bandiera della pace, che si guardava intorno stupito. Mentre sgommavo a velocità folle, lo rividi: mi sorpassò stracciando il record mondiale dei "400 metri con bandiera della pace". Mentre lo guardavo sparire lontano nella sua nuvola di polvere, si stabilì una miracolosa connessione tra alcuni dei miei affezionati neuroni: mi sovvenne che nel cruscotto c'era ancora un flacone di Pappamollex di riserva. Feci inversione a U su 2 ruote, presi fiato, mi tappai naso e bocca con del nastro adesivo da carrozzieri - Ce l'ho sempre in tasca, mi dà un senso di sicurezza - premetti il pulsante rosso e lanciai il flacone in mezzo ai vari gruppi bellicosi che stavano per entrare in contatto. Mi fermai a guardare a distanza di sicurezza: era uno spettacolo. Manganelli, travi di legno e pali dei segnali stradali si erano così ammosciati che sembravano asparagioni lessi. E tutti quelli che un attimo prima si sarebbero presi a morsi, erano sdraiati in terra, con un sorriso ebete, che guardavano le nuvole. Il maschio impeto guerriero si era dissolto. Per il momento la situazione era tamponata, e mi allontanai da quel luogo di pace per capire quello che stava succedendo. Trovai il grosso del corteo dei manifestanti, in quel punto c'era un gruppo di pensionati della SPI-CGIL. Mi sembrava non avessero una gran voglia di fare a manate con nessuno. Riconobbi il vecchio Egisto, ottantenne rifondarolo ingobbito ma tuttora molto vispo, nonché abile seduttore di anziane vedove. Mi disse: "Siamo cinque milioni, per protestare contro un governo che continua a governare, ormai, contro la volontà della maggioranza del paese. Oggi la posta in gioco è grande, e Beimilioni sta tentando il tutto per tutto! Vuole far scoppiare un casino per screditare i manifestanti. Dopo Genova nel 93
2001, fino ad ora le manifestazioni erano filate lisce come l'olio. Ma questa volta il governo ha schierato i reparti speciali antisommossa 'Benito', 'Adolfo' e 'Pinochet', dandogli mano libera! E per di più, black bloc, naziskin, teppisti ultras, neofascisti e anche qualche estremista di sinistra, con la loro voglia di battagliare, stanno facendo proprio il suo gioco!". A sentire nominare quei reparti antisommossa, mi si rizzarono i capelli. Ecco perché avevano le spille con i teschi e i fasci. Non si trattava dei soliti poliziotti e carabinieri, gente che più o meno rispecchia il resto della società, nel bene e nel male. Tra i quali ce ne sono tanti che rischiano di persona, nella lotta contro la criminalità. Ma i reparti simpaticamente denominati "Benito", "Adolfo" e "Pinochet" sono gente selezionata accuratamente, con opportuni test psicologici, tra gli psicotici presenti nelle Forze dell'Ordine. Gente affidabile, virile, coraggiosa, bravi ragazzi che non vedono l'ora di menare le mani, infatti bisogna dargli il Valium perché non mordano. Sembra proprio che li scelgano tra i simpatici teppistelli da stadio, tra i vivaci bulletti di quartiere, tra quei poveri ragazzi sbandati che altrimenti non avrebbero uno scopo, un ideale nella vita... li guidano con mano paterna e virile, insegnando loro i sacri valori di patria, proprietà, autorità e tradizione, credere obbedire combattere, il duce ha sempre ragione, chi dissente è un criminale, eccetera eccetera. Magari questi ragazzi non sono di maniere fini, e non conoscono tutti gli articoli delle leggi, anzi qualcuno non ha mai visto un libro in vita sua... però hanno tanta volontà. Insomma, sono dei magnifici fascisti. Egisto ironizzò: "Se i black bloc spaccano tutto, è un guaio. Ma che a fare casino e violare la legge siano anche dei membri delle Forze dell'Ordine, stipendiati con i soldi di tutti, è proprio divertente!". Dopo qualche minuto, ci trovammo di fronte i reparti
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"Benito", "Adolfo" e "Pinochet", con le maschere antigas, i manganelli e i lacrimogeni pieni di quel gas che si dice faccia tanto bene a chi soffre d'asma. Era finito l'effetto del Pappamollex, disperso nella piazza. Tra di loro c'era anche quel simpatico ragazzo dalla corporatura atletica già visto a Genova nel 2001: come allora, anche stavolta, per divertirsi di più, aveva al posto degli scarponi d'ordinanza le scarpe da tennis, e l'imbottitura leggera, diversa da tutti gli altri, per essere più agile. Sembrava un robot invece di una persona. Si vedeva che aveva scelto, con la massima cura, la migliore attrezzatura per quel gioco. Chissà da quante settimane si preparava, e non stava più nella pelle per l'eccitazione della caccia. Gli studenti di psichiatria cominciarono a sbavare, pensando alla notorietà che avrebbero ottenuto, pubblicando una tesi su di lui. In quel momento qualche decina di ragazzi e simpatiche ragazzine dalla faccia acqua e sapone tirarono fuori le felpine nere e si misero anch'essi le maschere antigas e il passamontagna. Erano i black bloc. Uscirono fuori dal nostro corteo tirando la sassate ai militi schierati e cominciando, nonostante la giornata non troppo fredda, a fare degli allegri falò con le bottiglie molotov. I gioviali tutori dell'ordine iniziarono a lanciare lacrimogeni come ghiaino e a venire avanti tutti insieme a passo di marcia, battendo in sincronismo i manganelli sugli scudi. Un ammirevole esempio di virtù scenografica militare. Egisto urlò: "Piano d'emergenza! Tirate fuori le armi segrete!". Tutti, ma proprio tutti i manifestanti tirarono fuori felpe nere e passamontagna, bandiere con i teschi, tamburi e false bottiglie molotov piene d'acqua per spegnere gli incendi. Sembravamo più black bloc dei black bloc. I fascistoni in divisa rimasero paralizzati dalla sorpresa. Avrebbero voluto lasciar liberi i black bloc di fare danno, e picchiare i manifestanti pacifici: ma ora non sapevano più che cosa 95
fare, stavano impazzendo. Oltretutto, sentivano una certa riluttanza naturale a picchiare gente vestita di nero e con le bandiere col teschio, ricordava loro qualcosa di caro. Se ne andarono con la coda tra le gambe. I veri black bloc e gli altri teppisti furono convinti con le buone o messi in fuga a pernacchioni. Avevamo vinto, e facemmo la nostra manifestazione pacificamente, ballando e giocando. Nel mezzo dell'euforia generale un dubbio improvviso mi colpì come una martellata nelle gengive: "Egisto... ma tu hai detto che Beimilioni è al governo, vero?". "Certo, si spera per poco...". Restai annichilito: Beimilioni non avrebbe dovuto nascere! Il Pappamollex non aveva funzionato? Forse la madre non era stata quello specchio di virtù che appariva dalle biografie ufficiali? Mi precipitai verso la Renault per tornare nel presente e capirci qualcosa. Accesi il motore cronodinamico e dissi: "Senti, catorcio, se non mi riporti al tempo dal quale siamo partiti, ti lascio parcheggiata per dieci anni davanti a una sede di Arroganza Nazionale!". La minaccia funzionò: nessuna Renault 4 rossa, per la fede politica di sinistra che la pervade, avrebbe tollerato un giorno davanti a una sede del partito di Gianfalso Sottili. Infatti mi ritrovai accanto ai due Archimedi che sorridevano ancora, ma vedendo la mia faccia smisero subito. Lì di fronte c'era un manifesto con il faccione di Beimilioni, che mi confermò la triste verità. "Stramaledettissimi idioti, passi che avete cannato il funzionamento del motore cronodinamico... mi avete spedito a giro per il tempo tra guerre e disastri vari... e sono tornato per miracolo... ma com'è che ho schiaffato il Pappamollex a Beimilioni padre e lui è nato lo stesso?". Si guardarono in faccia impalliditi. "Dunque... ehm... il DNA fa escludere senz'altro un fatto di corna... la gravidanza è stata regolare di 9 mesi...
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facendo i calcoli dalla data di nascita del 25 dicembre 1944, sembrerebbe tutto a posto... non capiamo...". Ebbi un lampo d'intuizione. Mi sentii mancare le forze all'improvviso. Urlai: "Nooo... il lifting... ditemi, presto, dove avete preso la data di nascita di Beimilioni?". "Dal sito internet di Farsa Italia, poi per essere sicuri abbiamo controllato anche su vari settimanali...". "Già! I settimanali sono quasi tutti di sua proprietà, no?". "Beh, in effetti... è vero. Ma cosa vuoi dire?". Le forze mi tornarono tutte assieme, diventai paonazzo e mi salì la temperatura a livelli di ebollizione. Urlai: "Cervelli di amebe, non lo conoscete ancora? Ha fatto il lifting non solo al viso, ma anche alla data di nascita, su tutti i suoi mezzi di informazione!". Non fecero in tempo a fuggire. Una SCA della Rete di Lilliput - notoriamente hanno il pallino della nonviolenza - che passò di lì dopo cinque minuti, mi rimproverò aspramente.
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Jacopo Corsi GUANTI BIANCHI
2 ottobre 1968, mattina. Livàn Gordo Mereles guarda fuori, dalla sala d’attesa semi vuota in una tiepida mattina d’ottobre – l’aeroporto di San Salvador prevede pochissimi voli, molti hangar sono ancora in costruzione, non si vedono addetti – e mentre attende l’aereo che lo condurrà a Città del Messico, studia il volo di alcuni cormorani che si sono spinti nell’entroterra, spaesati e concentrati, proprio come deve essere lui. “Per andare veloce bisogna essere veloci” ripete sempre Porfirio. Porfirio Mereles, il padre, è lì al suo fianco, seduto scomodamente su una poltroncina di seta lisa. Un giornale nasconde il suo volto, abbronzato e segnato da qualche ruga in qua e là. E i suoi occhi, così gelidi oltre un paio d’occhiali dalla spessa montatura nera, lo fanno apparire, a ragione, un uomo schivo. D’altra parte Mereles è un classico hombre! dell’ America Latina, quella rurale, disseminata di haciendas dove lavora e dove ha visto morire amici e parenti, nella stagione delle Rivoluzioni. Porfirio Mereles è un uomo forte: sa leggere e scrivere, ama la numerosa famiglia e, lo dà a vedere benissimo, soprattutto Gordo, unico maschio, velocissimo. Il figlio era nato per correre, non ci voleva molto a capirlo. Un giorno, sulla spiaggia di Acajutla, il piccolo Livàn si mise ad inseguire con successo un bastardino abbandonato. Mentre in autobus ritornavano verso Tazumal, dove le sorelle di Gordo si erano fermate per ammirare le rovine Maya, Porfirio ebbe il momento di
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folgorazione. “Lo sai perché sei riuscito a catturarlo?”, chiese al ragazzo, che si coccolava il cagnolino stretto tra le ginocchia. “Perché gli sono corso dietro”. “Ho capito, ma non basta correre dietro a qualcuno per prenderlo”. Gordo non sembrava interessato. “Senti. Tu non puoi capire ora, ma il motivo per cui hai preso…Che nome gli diamo?”. “Chihuahua!”. “Chihuahua non è un nome per cani, Livàn, casomai è una razza di cani!". “Chihuahua!”. “Vabbene, il motivo per cui hai preso Chihuahua, questo motivo…Livàn!”. “Come mai fa questi versi? Sembra che piange”, domandò il ragazzo rattristato, mentre il cucciolo piagnucolava. “Forse vuole la mamma…”. “Anch’io voglio la mamma!”. La discussione era morta lì; ma con Gordo addormentato, Mereles poté lasciar correre l’immaginazione. Alla fine giunse ad una conclusione: l’avrebbe plasmato ad immagine e somiglianza di Jesse Owens. Il grande Jesse. Il negro che fece sbiancare Hitler alle Olimpiadi di Berlino. Gli allenamenti preferiti da Gordo sono quelli in altura, sulle montagne centrali, durante la stagione delle piogge. Certo, i sentieri sono scivolosi, la vista si annebbia facilmente e a volte non c’è ossigeno a sufficienza. Ma l’altura significa Città del Messico, per due settimane nell’ottobre del ’68, la capitale dello sport, e dell’atletica: una data che si avvicina a grandi passi. Gordo ha questo sogno ricorrente, di esserci, nonostante le avversità e una federazione povera in canna, anche se il padre non esita a definirla tirchia e pidocchiosa. Poi ci sono gli allenamenti al mare. Al tramonto o all’alba
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non fa nessuna differenza, con Porfirio che dopo averla fissata ad un tronco riportato dalla corrente, stringe una cima al torace di Gordo, incitandolo: “Corri adesso se ci riesci!”. Nel frattempo, lo scricciolo che rincorreva il cucciolo è diventato un uomo, mentre alla corda (che è sempre la stessa) l’ultima volta, tre copertoni sostituiscono il tronco rinsecchito. Oggi, nel giorno in cui Gordo lascia per la prima volta il suo paese , la madre non è presente. Detesta ammetterlo, ma si tratta della prima volta in cui qualcuno della famiglia prende uno di quei cosi che volano e ogni tanto cadono, e crede che crollerà pure lei alla vista dell’aereo inghiottito dalle nuvole. Nella sacca che ha pressato con attenzione e il figlio tiene ora gelosamente a tracolla, ha messo il necessario per due settimane lontano da casa: che sarebbero una sciocchezza se paragonate alle abituali sedute in montagna, ma in un paese lontano e quasi sconosciuto, non si sa mai che tipo di stagione aspettarsi. Così, a parte qualche paio di mutande, magliette per correre, una muta scolorita coi colori nazionali, un paio di pantaloni, una camicia e un maglione, la madre ha ricavato lo spazio sufficiente per infilarci il giaccone di pelle regalato al marito da un sottufficiale americano durante la seconda guerra mondiale. “Comunque la giacca mi sembra un’esagerazione”, commenta Gordo soppesando il voluminoso bagaglio a mano. “Ho letto che in Messico non fa tutto questo freddo a ottobre!”. “Io non c’entro nulla, è stata mamma a pensare che ti avrebbe fatto comodo”, replica con calma Mereles, sempre assorto nella lettura di un articolo in prima pagina. “Anzi, se dipendeva da me, non te l’avrei prestata…”. 101
“Prestata?”. “Certo, prestata. E puoi scommetterci una medaglia d’oro, se non me la riporti così come l’ hai avuta non ti bastano i tuoi 10” e 80 netti per sfuggirmi - Mereles finalmente abbassa la rivista - Ma si può dare a uno smemorato come te un oggetto così di valore?”. Gordo rimane in silenzio. “Prendila e non fare tante storie…Piuttosto: ripassiamo il programma per quando arrivi a Città del Messico”, fa il padre mentre con un certo impaccio prova a ripiegare il giornale. “Appena uscito dall’aeroporto salgo sul primo taxi libero e mi faccio portare al villaggio olimpico”, ripete diligentemente il ragazzo. “Bene, vai avanti!”. “Là mi dovrebbe aspettare questa Esmeralda non so come…”. “Villalobos…Esmeralda Villalobos, la quale ti consegna la chiave dell’alloggio e un altro programma, quello olimpico”. “Ok”. “Aspetta, non ho finito. Ho telefonato a questa donna, tra l’altro mi sembra molto educata e disponibile, che mi ha detto di non preoccuparmi, che sono molti gli atleti ad arrivare con qualche giorno d’anticipo”. “Ma dieci non saranno un po’ troppi? Oltretutto io inizio a correre solo due giorni dopo l’apertura…”. “Macché, un po’ di tempo per ambientarsi ti ci vuole. Poi non dimenticare che non hai mai corso su una pista vera, quindi devi fare molta pratica e capire come funziona…”. “Come funziona cosa?”. “Ma non lo so! Intendo dire: ‘Ragazzi posso scattare con voi?’, sai sfruttare gli altri allenatori, imparare come ci si comporta in una corsia vera, studiare il tipo di riscaldamento che fanno gli americani. Insomma poi vedi te”. Gordo finisce così per pensare a Tommy Smith che ha
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visto volare ai Trials con quel modo di correre così essenziale ed efficace. Ora l’avrebbe visto dal vivo, e sgomitato, pur di tenergli il passo. Una voce gracchiante dall’unico altoparlante conficcato nella sala d’attesta, annuncia l’imbarco imminente per il volo Mexicana, sul quale Gordo deve salire. “Dovevate venire anche voi”, protesta mentre stringe la mano del padre. “Sai che non è possibile, Livàn. Abbiamo molto lavoro in questo periodo e poi la federazione ha fatto un sacco di storie solo per pagarti questo viaggio e una camera.” “Io comunque ci conto”, fa , e mentre si accorge che qualche lacrima sta rigando la faccia di suo padre, non può fare a meno di abbracciarlo e lasciare che si sfoghi per un attimo. “E’ che sono teso. Vai, prendi il giornale e questo sacchetto con la frutta che ti ha preparato mamma. E mi raccomando - rammenta al ragazzo ormai vicino al cancello d’imbarcorispetta la dieta che ti ho preparato e non fare tardi la sera!”. Mentre sente quest’ultime parole a Livàn scappa un sorriso, ma suo padre non può vederlo. Livàn è già sulla pista.
1 ottobre 1968, notte. Sul muro è scritto EL GOBIERNO DE MEXICO HA GANADO SU PRIMERA MEDALLA OLIMPICA: ILA DEL CRIMEN. Quando Alfonso Serse e José Hernandez Toledo ci passano davanti, quest’ultimo sputa sulla scritta e impreca per un minuto buono. Serse sorride; l’uomo al suo fianco che così sbronzo sembra uno straccione, è in realtà un superiore; meglio non contrariarlo. Da quando è riuscito ad entrare nel battaglione Olimpia, può finalmente sfamare i propri figli senza che anche sua moglie sia costretta a lavorare. Non è il caso di rovinare tutto a pochi giorni dai Giochi. 103
Eppure, Serse non riesce a togliersi dalla mente la riunione di poco fa. Quando si tratta di mazzolare ben bene qualche scalmanato in strada, non ci sono problemi, è il primo a dare la carica. Niente rimorsi. E la stessa idea di difendere i simboli dello sport, beh quella sì che gli pare una trovata intelligente. Ma l’ultima assemblea segreta, in quella fetida cantina, lo ha fatto sentire come il peggiore dei criminali. Il generale Raul Mendiola Cerecero è apparso dal fumo dei sigari accesi intorno al tavolo degli ufficiali. Quasi come se la sua presenza corrispondesse ad un comando, tutti tacciono, ma di fronte a quel silenzio catacombale, è Alfonso Serse, seduto in disparte, lontano dal tavolino per la degustazione di vini e formaggi, trasformato nell’occasione in centro delle operazioni, l’unico a sentirsi a disagio. In quell’angolo buio le parole di Mendiola arrivano nitide, chiare. “Ci muoveremo di concerto – esordisce il vecchio soldato – Hernandez, Villanueva e Molina, a voi il compito di condurre il battaglione Olimpia all’interno della piazza Tlatelolco, dentro la manifestazione”. Gli occhi arrossati dal fumo sembrano indirizzati proprio verso il superiore di Serse, Hernandez, perché il vecchio si è certamente reso conto delle pessime condizioni in cui versa uno dei suoi subalterni più fidati, zuppo di Tequila come una vecchia di prima mattina. “Non sto a dirvi che ci aspettiamo molto da voi. Se non fosse per questi debosciati adesso stareste a fare la guardia alle strutture magnificenti allestite dal governo in occasione dei Giochi Olimpici. Ma il caso ha voluto che il privilegio di dare una grande lezione a questi giovani ingrati, toccasse proprio a noi. Nella fattispecie, Signori, il ruolo dell’Olimpia è tanto semplice quanto nevralgico: agirete da infiltrati, rigorosamente in incognito, e armati…”,
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fa di sì con il capo, suscitando le risa degli ufficiali che lo circondano. “Destabilizzazione!”, prorompe un generale. “Caos, Molina… caos! Radunerete gli uomini alle 15, poi vi farete largo tra la folla nella piazza - estrae dal loden un guanto bianco, e mostrandolo con una certa solennità prosegue - tutti ne indosserete uno. Uno soltanto, di modo che quando sarà il momento, sapremo come distinguervi…Ora - e mentre si prepara a cambiare discorso, nasconde il guanto e congiunge le mani dietro la schiena - sia chiaro che agire dall’interno non sarebbe sufficiente. Hanno coltelli, spranghe, mazze e…- fa una pausa - …revolver. Sono armati insomma, e l’Olimpia non basterebbe. Così, Cortes… - si volta verso il lato in ombra della stanza, dal quale appare la figura di un giovane in divisa - Cortes, grazie, le foto”. L’uomo apre la valigetta a fisarmonica e ne estrae un fascicolo. Sul tavolo ci sono immagini di piazza delle Tre Culture nel Tlatelolco, sembra un pallido giorno di fine estate. Ci sono molte persone in giro, per lo più turisti assemblati al cospetto delle rovine di un tempio Azteco e un’antica chiesa coloniale, illuminate da un timido sole che le restituisce a una lucentezza passata. Serse si sporge in avanti per osservare meglio le istantanee. “Come è consuetudine per manifestazioni come questa, il Consejo studentesco utilizzerà la balconata al primo piano del Palazzo Chihuahua, il che ci dà ampia libertà di movimento sui piani sovrastanti. - e con l’indice indica il secondo e il terzo piano - Qui e qui…”. “L’edificio è un ottimo punto di osservazione, ma se vogliamo colpire, colpire duro, non possiamo permettere ai dimostranti di uscire dalla piazza, almeno non senza una resistenza adeguata. Quindi bloccheremo le vie d’accesso alla piazza con tanks, e quattro reggimenti di fucilieri paracadutisti - gli occhi del generale Mendiola 105
puntano severi su Hernandez - Generale! Crede di essere in condizioni accettabili per domani pomeriggio?”. “Signor sì!”. “Generale! Ha capito bene le istruzioni che ho appena dato?”. “Sì certo Signore!”. “Tanto basta, generale! Sarà lei a guidare il contingente dei fucilieri - poi fa una pausa e guarda per un istante nella direzione di Serse - quello è il suo subalterno, generale?”. “Esattamente Signore!”. “Tenente, si faccia avanti - la pletora di ufficiali si fa da parte - le affido le sorti del generale: lo riporti all’alloggio e domattina vada a riprenderlo”. “Sarà fatto, signore”, sibila Alfonso. “Lei ha seguito quando parlavo, tenente? Qualcosa non le è chiaro?”. “Signore, non ci ha detto quale sarà il segnale”. Mendiola si guarda intorno sorridente, poi fa: “Se ne accorgerà sul momento, tenente!”. “Bene, Signore”. Il vecchio si rivolge nuovamente a Cortes chiedendogli il cappello e di fargli strada verso l’uscita. Quando è sulla porta si gira verso gli altri: “Que viva el Mexico!”. “Que viva Ordaz!”. 2 ottobre 1968, ore 15,30 I volti della squadra spagnola sono divertiti e emozionati. Blanca Galeano non può fare a meno di lasciarsi trasportare dal loro entusiasmo, mentre tenta disperatamente di farne stare in posa due o tre al fianco di un vecchietto con il sombrero. Con la sua Voigtlander a tracolla agita le braccia provando ad inseguire gesti e movimenti, ma nell’attimo in cui riesce finalmente a farli stare zitti e fermi, un militare americano taglia l’obiettivo e finisce impressionato sulla
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pellicola. “Ehi”, fa Blanca alzando il capo stavolta davvero incazzata. Il giovane soldato finge di non accorgersi di nulla e continua a muoversi in direzione dell’uscita. Allora Blanca, rimasta da sola col vecchietto perché gli spagnoli hanno iniziato a sparpagliarsi per tutto l’aeroporto come formiche impazzite, decide di seguire il soldato. “Allora è vero che siete arrivati, cazzo! - dice in perfetto inglese una volta raggiuntolo - non era una bufala, vi hanno mandato per spazzare via il movimento. Gran puta!”. Il giovane rimane in silenzio, guardando con curiosità Blanca. “Ehi, soldato, cos’è non puoi parlare, sei in missione segreta? Ma se è così mi dici perché indossi la divisa?”, e indica il giubbotto dell’aviazione americana che il giovane porta nonostante gli stia decisamente striminzito. “Ah, no - la interrompe Livàn - è un regalo di mio padre…cioè non è proprio un regalo, me l’ ha solo prestata, è una giacca dell’esercito americano”. “Lo vedo!- sibila Blanca stupita - allora sei spagnolo o cosa?”. “Salvadoregno…piacere Livàn!”. “Blanca - fa la ragazza, mentre molla la macchina fotografica per porgere la mano al giovane - come mai in Messico? Turismo o lavoro?”, gli domanda. “Beh, per la verità niente di tutto questo. Cioè sono qui per partecipare alle Olimpiadi e non so se si possa effettivamente parlare di lavoro, visto che non vedo un soldo”. “Ah, Viva De Coubertain!”, sorride Blanca che senza nemmeno chiedergli se può, fa una serie di scatti al volto disorientato del giovane: “Potresti vincere una medaglia e io voglio immortalarti ancora con il giubbotto dei Marines”, si giustifica. Il Gordo si accorge solo ora che nell’aeroporto fa un caldo bestia, quindi prontamente si sfila di dosso la montura di pelle. 107
“Dimmi, e in quale disciplina gareggi?”. “I cento”, risponde secco Livàn. “Scusa se te lo dico, ma mi sembri un po’ cicciottello per i cento…”. “Infatti mi chiamano tutti Gordo”. “Sfido io”. “Non credere però che sia tanto lento, anche se effettivamente il mio fisico sarebbe più adatto per i due e i quattro” replica apparentemente stizzito lui. “Il fatto è che non posso allenarmi su una pista vera: e senza la pista non posso provare la curva”. “Cazzo, non volevo essere sgarbata…Ma davvero non avete una pista dalle tue parti?”. Livàn abbassa la testa. “Ascolta – continua la ragazza – dove sei diretto? Ti va di bere qualcosa insieme, così mi faccio perdonare per certi apprezzamenti”. “Per la verità dovrei andare dritto al Villaggio, giusto per vedere come mi hanno sistemato, se in un tugurio, o direttamente nella porcilaia…”. Blanca sorride: “Non mi sembri molto entusiasta di andarci, ma certo che se da te non esiste nemmeno un posto per allenarsi, mi sa che forse non hai tutti i torti”. “Proprio così”, accenna Livàn mentre si tira sulle spalle lo zaino e fa per uscire dall’edificio. “Aspetta, mi stai simpatico Gordo - esclama Blanca afferrandolo dolcemente per un braccio - posso chiamarti Gordo, giusto?”. “Certo”. “Allora senti, non so se per te va bene, ma visto che non muori dalla voglia di vedere dove ti faranno dormire stanotte, perché non vieni con me a Città del Messico?”. “Ma non ci sono di già?”. “Quella vera!”, fa lei inclinando il volto quel tanto che basta per far intendere a Gordo di aver appena detto una
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stupidaggine. “Ah! - esclama - Sembra una proposta sicura e disinteressata! Devo rifletterci”. “Se ti fa piacere saperlo, ho già pranzato e non ho intenzione di mangiarti; ma comunque prenditi tutto il tempo che ti serve, nel frattempo cerco un taxi libero, che ti parrà impossibile, ma qui è più difficile che trovarsi davanti un salvadoregno vestito come John Wayne ne ‘Il giorno più lungo!’”. “Vabbè mi hai convinto…Comunque se ti dovesse venire un po’ di fame, mi è rimasto una papaia e mezza banana, non esitare a chiedermela”. Blanca si volta per vedere se il ragazzo è serio, e quando si accorge che in mano ha effettivamente un frutto almeno simile alla papaia, non può fare a meno di scoppiare in una fragorosa risata. “Andiamo”. Poco più tardi Sull’autobus che sono stati costretti a prendere per la totale assenza di taxi liberi, Livàn e Blanca si siedono in fondo, vicino ad una madre con un bambino piccolo e visibilmente denutrito che dal momento in cui i due gli si sono seduti affianco, non ha mai perso di vista il sacchetto con la papaia. In quel momento però, basta uno sguardo complice tra il Gordo e Blanca e il frutto succulento è già nelle mani del piccolo che non lesina ringraziamenti, tra un morso e l’altro. “Adesso mi vuoi dire dove stiamo andando?”, chiede Livàn con una certa impazienza. “Nel Tlatelolco”, risponde Blanca mentre guarda, attraverso l’obiettivo, fuori dall’autobus. “Non verranno bene se le fai mentre questo coso si muove”. “Hai ragione, faccio solo delle prove per vedere che tutto funzioni per il meglio”. “E’ il tuo lavoro, fare foto?”, le domanda Livàn senza 109
nascondere un certo imbarazzo (cosa che gli capita tutte le volte che rivolge a qualcuno domande troppo personali). “Mettiamola così: spero che lo diventi presto”. In quel momento, l’autobus si ferma per un posto di blocco della polizia e la ragazza torna a guardare fuori dal finestrino. Sembra improvvisamente agitata, e si alza sporgendosi per immortalare alcuni soldati fermi dall’autista, mentre altri compiono il giro del veicolo. Blanca scatta e ricarica a tempo di record, poi quando i soldati sono vicini uno di loro la vede e gli fa cenno di smetterla. “Bastardi - fa mentre torna a sedersi - se avessi i soldi per ricomprarmene un’altra macchina gli avrei tirato dietro questa, stronzo!” . Quindi si ricompone, guarda il ragazzo che ha accanto e gli sorride con una certa gentilezza, mentre stringe ancora più forte la Voigtlander. Livàn è rimasto fermo al suo posto, ancora più confuso di quando aspettava l’aereo ad El Salvador. Però lo colpisce il modo di fare di quella ragazza: davvero vulcanica, pensa, prima sembra indemoniata, e un attimo dopo è docile come un cucciolo. “Sai chi erano? - fa lei di punto in bianco - Ovvio che non lo sai, vieni da Marte!”. “Anche su Marte abbiamo i giornali, e in qualche locale si riesce a vedere pure la tv. L’avranno in tre in tutta la nazione, ma qualcosa si capta lo stesso”, risponde cercando di fare dello spirito Livàn. “Scusa!”. “Figurati! - e subito dopo dice - Battaglione Olimpia. Organizzato dal vostro presidente Ordaz, per presidiare i simboli dello sport e le strutture che ospiteranno le gare dell’Olimpiade. Mi sembra un atteggiamento che merita rispetto, lo sport è la cosa più bella che ci sia, e sarebbe giusto che anche le guerre si combattessero in uno stadio”. “Allora mi sa che non sai proprio un cazzo. Ora, ignoro che tipo di giornali avete dalle vostre parti, ma qui, da
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qualche mese si combatte una guerra. Questo governo temeva – a ragione, perché le cosa vanno davvero male – che anche in Messico potessero scatenarsi i moti giovanili che infuriano in America e in Europa. Non so se hai presente, il Black Power, per farti un esempio…”. “Ah sì, ne ho sentito parlare. - la interrompe Livàn che finalmente recupera il filo del discorso - Molti atleti di colore ne fanno parte, ho sentito che l’atmosfera non è delle più tranquille”. “Esatto, ma il fatto è che qui in Messico, che pure di rivoluzioni ce ne intendiamo, nessuno si era mosso, forse per paura o menefreghismo, chi lo sa, forse perché ne abbiamo già passate abbastanza. Fatto sta che per una stupida lite fra licei, il tuo Ordaz, ha pensato bene di far intervenire l’esercito. Poi sono entrati nell’Università e lì è successo il finimondo, io c’ero e credimi, ne ho viste di quelle nere”. “Mi sono iscritto anch’io all’Università”. “Bravo! Comunque non si sono risparmiati. Pestaggi, ragazzi volati giù dalle scale o calpestati. E questi sono quelli a cui è andata bene, capisci! Perché quelli che sono stati presi, magari perché avevano organizzato una manifestazione o si sono permessi di esprimere un certo tipo di parere: beh loro sono finiti nelle mani di Ordaz, che non si è limitato a metterli in prigione. Capace che li abbiano torturati, strappato con la forza nomi di amici e conoscenti, il più delle volte gente che proprio non c’entrava niente”. Blanca parla senza respirare, a ruota libera e con la mano stretta a pugno, e Livàn, assorto da tanta passione, non vuole interromperla. “Oggi è prevista una manifestazione, perché finalmente le parti si sono tranquillizzate e quindi l’incontro odierno è più un modo per distendere gli animi. Non sarà facile, ma in fondo sei stato tu stesso a farmi pensare, l’Olimpiadi sono una pubblicità troppo importante per il nostro paese 111
ed è giusto che vengano rispettate e si svolgano senza incidenti”. “Dov’è questa manifestazione?”. “In piazza delle Tre Culture”, risponde sovrappensiero Blanca alla domanda di Livàn. “Dove?”. “Nel Tlatelolco, la città vecchia”. “Ah!”. Blanca si volta e vede gli occhi leggermente impauriti di Livàn. Si accorge di averlo sconvolto, ed è convinta che quello che sta per fare darà al ragazzo il definitivo colpo di grazia. Il fatto è che non può resistere, è un impulso irrefrenabile. Così gli si avvicina e prima ancora che quell’uomo che crede di conoscere da una vita riesca a dire una parola, lei lo ha già abbracciato stringendolo forte a sé. Dopo qualche secondo sente che il respiro di Livàn ha ripreso a battere, così si stacca leggermente da lui, per baciarlo. 2 ottobre 1968, ore 18,00… circa Quanti motivi esistono al mondo per pestare a sangue un uomo? C’è la vendetta, il denaro, l’odio… L’elenco di Serse non si esaurisce mai: ma veramente, tutti i motivi, più o meno plausibili, non ne formano uno accettabile per giustificare quello che farà tra poco, in questa piazza, dove si è appostato al fianco dell’ubriachissimo Hernandez. “Dove sono?”, fa al suo subalterno, ormai incapace di sopportare per un altro secondo ancora quell’alito impastato dalla Tequila. “Un gruppo è lì, Signore, ben distinguibile all’interno di quell’assembramento di contadini del Chiapas”. “Ah, ora li riconosco, buona idea il guanto, ma così la gente poi verrà addosso a noi - biascica perplesso Hernandez - che portiamo la divisa d’ordinanza”. “Forse, ma ancora non abbiamo fatto nulla, stiamo a vedere.”, replica Serse con malcelata rassegnazione.
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Pensa a Mendiola e alle sue terribili parole : “Colpire, colpire duro…”. Sarà una carneficina dove cadranno in molti: ma questo al vecchio generale non interessa, non sarà lui a perdere la faccia. Non Mendoza il soldato. L’atmosfera è plumbea, asfissiante. Il cielo attraversato da dita arancio, rosse e infine viola, preparano, al tramonto, lo scenario essenziale dove si chiuderà la partita una volta per tutte. Ne è certo mentre, a qualche decina di metri dalla sua postazione, osserva un Olimpico in disparte, con il guanto ben in vista e, ovviamente, facile da identificare. Qualche ora prima Mentre Blanca ascolta i discorsi metallici del rettore Barros Sierra, stando attenta a non lasciarsi distrarre dalle spinte e le voci di migliaia di persone che li circondano, Livàn pensa solo al bacio sul pullman. Sente ancora benissimo le gambe tremargli, la testa vuota, leggerissima come appena uscito da un bagno caldo dopo un duro allenamento. Fantastico, pensa, tutto questo, l’essere qui in mezzo a questa platea interminabile ed esserci con lei. Blanca, bellissima, ma come ha detto che si chiama di cognome? Ora che ci pensa, Livàn si ricorda di non aver chiesto nemmeno il nome intero a quella creatura meravigliosa. Non ne ha avuto il tempo prima, e adesso c’è questa importante manifestazione, che non gli permette di approfondire nuove sensazioni che non vorrebbe accantonare. “Andiamocene - fa a Blanca con un gesto - non riesco a respirare e non voglio restare troppo in piedi, avrei sempre un allenamento da effettuare stasera”. “Devi correre di notte?”, chiede all’improvviso Blanca. “Beh…”. “Senti, vorrei ascoltare Lucio Serdàn, è un mio professore; dovrebbe intervenire tra un paio di oratori. Se non ti 113
dispiace mi piacerebbe accompagnarti al Villaggio…Magari parliamo un po’!”. Livàn si sente rianimare immediatamente. La ragazza se ne accorge perché poi chiede “Va meglio ora?” e sorride, tornando ad ascoltare l’uomo baffuto e non troppo alto che dal terrazzo al primo piano del Palazzo Chihuahua arringa una folla impazzita. “Benissimo…senti chi sono gli uomini col guanto bianco? Lì ce ne sono due e insieme ad un gruppo di studenti di quel liceo laggiù ne ho visti altri tre…”. La ragazza si volta distrattamente per un attimo, poi prende in mano la macchina : “Mai visti prima… forse un movimento nuovo…”. Ore 18,10, tramonto Serse si accorge che la folla si sta scaldando. L’ultimo parlatore, quel Lucio Serdàn segnalato come sobillatore, ha ironicamente salutato i militari appostati nelle strade: “Guardate le forze oscure di Ordaz, stipati come sardine come voi ragazzi, ma guardate i loro volti, seri, impauriti. Ribellatevi anche voi, lasciate le armi e venite nel centro a ballare, a cantare, quella di oggi deve essere una giornata di festa…per tutti”. Serse si accorge che la folla lo segue. Adesso tutti si voltano dalla sua parte e la colonna del battaglione che Hernandez dovrebbe comandare ha iniziato a rumoreggiare, a muoversi convulsamente e si susseguono gli insulti fra le frange più estreme della marea umana nella piazza, quella più vicina ai fucilieri paracadutisti, e i soldati. In quel momento Serse ha perso di vista l’olimpico in disparte. Gli ricompare davanti mentre come un fulmine un bengala traccia una freccia verticale sulla folla impaurita. Serse si volta ma non fa a tempo a dire “no” che il soldato in borghese ha sparato un colpo di pistola verso Hernandez, stramazzato al suolo dalla forza d’urto del proiettile. Il
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battaglione ha l’ordine di non muoversi dalle proprie postazioni, deve solo inseguire gli eventuali fuoriusciti dalla piazza, così Serse chiede aiuto a gran voce in direzione di due portantini annessi alla colonna di militari, e fa portare via il generale ferito. Quindi torna a guardare verso la Piazza, che in un lampo sembra essere diventata un’immensa fossa comune. Anche nella sua direzione, muovono convulsamente giovani, ragazze ragazzi di tutte le età. Il Bengala riecheggia ancora nella piazza spalleggiato ora dai colpi di mitragliatrice che nelle loro traiettorie confuse non risparmiano nessuno. Urla e sgomento si levano dalla piazza, a sostituire i proclami rivoluzionari, come la notte il giorno. Anche Serse, rimasto solo, sente la paura scorrergli nelle vene. Non poteva immaginare: almeno non fino a tanto. Orrore. Le lingue di folla provano a sgranarsi nelle strade che si tuffano nella piazza. Una donna filtra attraverso Serse e un altro soldato; i due uomini vorrebbero rincorrerla, ma non fanno a tempo a girarsi, che la fuggitiva è già stesa a terra, colpita alla schiena da una pallottola. Poi, quasi all’improvviso, cala l’oscurità. Non però l’ondata di piombo. Così ora, sono le scintille provenienti dalle terrazze dei palazzi Chiuhuahua e Dos de Abril, ad illuminare la città a giorno. Alcuni cercano riparo negli androni dei palazzi, bussano disperati ai portoni, osando chiedere pietà, ma è proprio lì che si concentra il fuoco dei cecchini. Uno dietro l’altro cadono i dimostranti; tra di loro adolescenti, operai, intellettuali, una donna in stato avanzato di gravidanza. Un vecchio è chino su se stesso a due passi da una costruzione dell’era precoloniale; unico a rimanere fermo, tra un groviglio di gambe che incredibilmente lo lambiscono appena, sembra aspettare il colpo mortale. Chiude gli occhi e in quel momento un Olimpico lo affianca goffamente. Estrae la pistola con la mano blanca. Pronuncia alcune parole il cui senso si perde tra il crepitio delle armi, quindi 115
spara alla tempia dell’anziano. Andandosene, si sfila il guanto, ormai macchiato di sangue.
i capelli. Non sente nulla: l’impatto al suolo, la folla intorno a lui, le parole di Blanca nell’orecchio, le sue lacrime sulle guance. Nulla.
In quello stesso istante Livàn cerca nella confusione la mano di Blanca, stesa a terra dalla spinta della gente. Appena la vede si precipita a rialzarla. “Dobbiamo fuggire!”, grida in preda alla disperazione. “Fuggiamo!”, gli fa eco Blanca. “Ma dove?”. “Verso quel palazzo…”, e indica una costruzione imponente dove la gente sembra aver aperto una breccia attraverso i fucilieri, molti di loro caduti a terra, malgrado le divise, come la gente che prova a sfuggirgli. Tenendola stretta, il giovane atleta inizia a mulinare con quelle gambe tozze e rapide. Non sente il peso di Blanca, lo preoccupano più le sue grida, tutte le volte che qualcuno intento a scappare cade ferito a loro fianco. Quasi alla cieca, Livàn arriva vicino alla stradina che dovrebbe condurli fuori da quell’inferno. Mentre si volta per sincerarsi delle condizioni di Blanca, urta una persona rovesciandola pesantemente in terra: “Cazzo!” impreca Livàn che nello scontro ha quasi perso l’equilibrio. Vuole tornare indietro, ma quando vede che si tratta di un militare armato, pensa a correre ancora più forte, e cerca di proteggere, spingendola avanti a sé, Blanca Galeano. Serse, dovrebbe inseguire, ordinare ai suoi uomini di sparare, ma la voce gli trema, come le gambe. Livàn gli passa appena ad un centimetro: è sufficiente per farlo scivolare. Il cervello spento, una macchia nera in fondo agli occhi, e poi l’istinto. E’ un attimo: dalla fondina prende la pistola d’ordinanza e spara all’impazzata verso quel ragazzo. Livàn sente una fitta alla schiena allungarsi fino al braccio sinistro. Poi più niente, solo una leggera brezza attraversagli
Più di dieci giorni dopo “Attacco cardiaco”, gli ha detto il medico. Non è in pericolo di vita, i colpi di Serse infatti sono passati lontani, ma di correre dovrà scordarselo. Il quotidiano, che gli ha portato Porfirio, apre con la rivolta del Tlatelolco e non lesina bugie ed imperfezioni, ma Livàn non ha ora la forza per arrabbiarsi, gli è ritornato giusto quella per stingere la mano di Blanca, al suo fianco da quando è stato ricoverato. Un po’ come suo padre, sente di dover pensare a futuri progetti, magari diventare allenatore lui stesso e far costruire una pista alla sua nazione. Blanca parla con Porfirio Mereles, mente un infermiere tenta di far funzionare la televisione in mezzo alla sala. Ci riesce. “Sch, zitti…eccolo là!”, biascica in qualche modo Gordo. I due si voltano all’unisono.
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Tommy Smith osserva il viso pallido accanto a lui. Un brusio scuote lo stadio di Città del Messico. Guarda in alto e fa l’occhiolino a John Carlos, che non sta più nella pelle. I due salgono sul podio, e mentre le prime note dell’inno americano rompono il brusio, le due pantere levano al cielo il pugno nero. L’audio della tv è scarso e i proiettili l’hanno reso quasi sordo ad un orecchio. Peccato, vorrebbe sentire le reazioni del pubblico, mentre Tommy (passato qualche giorno prima a salutarlo in ospedale) compie un gesto che, Livàn se lo sente, rimarrà nella storia.
Qualche precisazione.
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Alcuni dei nomi citati sono realmente esistiti. Tra questi: il generale Josè Hernandez Toledo fu veramente ferito in quella Piazza. La sua testimonianza (strumentalizzata per far credere all’opinione pubblica che fossero stati i dimostranti a sparare per primi) è così piena di lacune che lo status di ubriacone non mi sembrava poi tanto fantasiosa. Il generale Raul Mendiola Cerecero fu il generale che diede l’ordine di sparare sulla folla al Tlatelolco, nonché fra i responsabili che pianificarono l’operazione. Blanca Galeano e Lucìo Cerdàn sono invece personaggi di due romanzi: la prima compare in "Soldi Bruciati" di Ricardo Piglia, il secondo in "Messico 21" di Mark Joseph. Esmeralda Villalobos fa la tassista nel film di Q. Tarantino, "Pulp Fiction". La scritta “El gobierno de Mexico ha ganado la su primera medalla olimpica: ila del Crimen!" è comparsa presumibilmente dopo i fatti del 2 ottobre, e non prima. Nel ’99 lo scrittore Paco Ignacio Taibo II ha presieduto una commissione d’inchiesta sui fatti del Tlatelolco: la verità sta venendo a galla. Io mi sono permesso di anticiparla.
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Piero Ianniello SULLE STRADE DELLA LIBERTA’ “Gagè! Gagè!”, gridò Pakho con la testa esposta fuori dal carro. Come aveva fatto a vederli nessuno lo sa, ma non era la prima volta che riusciva a vedere le cose prima degli altri. Nonno Zeffirino si sporse dal cassone e fermò i cavalli. Tutta la carovana si fermò. I gagè si accorsero di noi e interruppero i lavori. Avevano una mano a mò di visiera e nell’altra reggevano ancora il loro attrezzo da lavoro. Il campo era arso dal sole, di un unico colore giallo devastante. Non so come facessero a lavorare con quel caldo. Nonno scese dal carro e disse alla nonna di seguirlo. “Sono donne, vieni anche tu”. La nonna aveva una lunga veste colorata, fin troppo lunga per poter scendere agilmente. Il nonno si spazientì, ma lei non diede cenno di prendersela. La donna è donna e tra i suoi compiti c’è anche quello di sopportare il marito. Tutti i bambini scesero dai carri e cominciarono a tirarsi le pietre. Le donne in gruppo si allontanarono per i loro bisogni. L’incontro sembrava andare bene, si sentirono anche delle risa e la cosa era sicuramente di buon segno. Papà decise allora di raggiungere i nonni. Corsi al suo fianco, volevo assistere al colloquio. “No. Stai là”, fu la risposta secca del babbo. Assistetti da lontano, ma poco dopo tornarono, insieme a due delle contadine. Erano due grasse signore, ma muscolose, piene di robustezza fisica, diverse dalle nostre donne e dalle gagè di città. Salutarono i bambini, sorridevano con aria bonaria, parlavano e guardavano incuriosite i nostri carri. “Ma quanta roba ci portate? chiese una di loro - sono le nostre case”, rispose il babbo sorridendo. “E stamattina da dove siete partiti?”.
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“Ci siamo fermati da un parroco, subito dopo Benevento, forse trenta-quaranta chilometri da qui”. Capii che il babbo aveva nominato un prete per conquistarsi ancor più la fiducia delle donne. Ma ormai forse non ce n’era più bisogno, almeno a giudicare dai loro sorrisi. Ci indicarono infatti la strada da seguire per raggiungere la loro fattoria. Dovevamo tornare indietro, ma solamente di poche centinaia di metri. Una mezz’ora dopo giungemmo in uno spiazzo ampissimo, circondato da case tutte appiccicate l’una all’altra. L’intenso puzzo d’animali ci investì di colpo. Poi un nugolo di bambini si mise a scrutarci, ma appena ci avvicinammo coi carri, corsero tutti dentro. Uscì una donna incinta, si fermò sulla porta mentre noi scendevamo dai cavalli. Il nonno gridò in sinto di non fare confusione, doveva presentarsi alla donna. Mi accorsi che un uomo anzianissimo stava seduto su un tronco segato, guardava fisso tenendo le mani appoggiate al bastone. Il nonno spiegò alla signora che avevamo parlato con la Pasqualina e che presto sarebbe tornata. Disse che avremmo gradito molto se ci avessero ospitato nello spiazzo per quella notte, il tempo di far abbeverare i cavalli e riposarci, poi la mattina successiva saremmo partiti. Il nonno ci sapeva proprio fare con le parole, riusciva a impietosire chiunque con il suo eloquio. Ma la donna non accennava nessun sorriso, nessun segno amichevole. Poi disse: “Se volete abbeverare i cavalli, fate pure, il pozzo è vicino all’arco, ma per restare qua stanotte dovete aspettare gli uomini”. Il nonno fece un ampio inchino, mi dovetti trattenere per non scoppiare a ridere! Portammo i cavalli all’abbeveratoio e intanto i bambini meno timidi della fattoria si avvicinarono e cominciarono a parlare coi nostri. La donna incinta rimaneva sulla porta, mentre da un’altra entrata ne uscì una seconda, molto anziana. Stavolta parlò la nonna. Spiegò la solita storia del trasporto dei cavalli per conto del vescovato di Milano,
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che dovevamo raggiungere la Sicilia, che era tutto l’inverno che eravamo in viaggio. La donna non sembrava impietosirsi, ma la nonna non mollava. Poi l’anziana disse: “Siete zingari?”. Dal tono si capiva che non apprezzava molto il nostro popolo, e a questo la nonna era preparata: “Sì signora, ma questo è l’ultimo viaggio che facciamo. Il vescovo di Milano ce lo ha fatto fare per espiare i nostri peccati, al ritorno ci darà una grande casa come la vostra e coltiveremo la terra come voi, chiedendo perdono a Dio dei nostri peccati e quelli del popolo che va in giro per il mondo”. La donna sembrò finalmente contenta, ma non disse niente. Si avviò verso la signora incinta e parlottò con lei. Mentre gironzolavo nel giardino, adocchiando i vari attrezzi e ruote di carro sparse in giro, cominciarono a tornare alcuni uomini. Rimasero sbalorditi nel vederci, ma non si fermarono, forti delle loro falci e attrezzi vari. Al loro passaggio noi salutammo tutti, ma loro continuavano a guardarci male. Per fortuna andò loro incontro la donna incinta, che prima baciò sulla guancia uno di loro e poi parlò frettolosamente, mentre tutti gli altri formavano un cerchio per ascoltare. Arrivavano anche gli anziani, e il primo finalmente ci venne a parlare, seguito da tutto il gruppo. Il nonno spiegò la storia del vescovo di Milano, aggiunse qualche particolare sul viaggio e sulla fame che lo aveva caratterizzato. Gli uomini, nonostante l’aria burbera, sembravano capire, ma non si decidevano. Allora il nonno si convinse a tirar fuori l’asso nella manica. Salì sul carro e ne discese con un qualcosa avvolto in degli stracci. Svolse il fagotto con fare solenne e finalmente ne venne fuori una cassetta di legno intarsiato. La aprì con estrema cura, ne tirò fuori un foglio e lo porse al giovane. “Leggete”, disse. Lui rimase un momento interdetto, poi disse:“Ditemelo voi cosa c’è scritto”. “E’ l’autorizzazione del vescovo di Milano”. “L’autorizzazione per che cosa?”. 121
“Per attraversare i territori altrui e per chiedere da mangiare a tutti i cristiani che incontriamo. Ma leggete, vi prego leggete”. “Non so leggere, ma ci credo, e poi vedo il simbolo della croce”. Intanto era arrivato un buon numero di persone, tutte stanche dal lavoro. Anche Pasqualina e le sue compagne erano tornate e si erano messe a parlare con la nonna e altre donne della carovana. “Venitevi a sedere”, disse il giovane, e si incamminò verso un sedile in legno. Il nonno e il babbo lo seguirono, e feci appena in tempo a sedermi anch’io prima che si esaurissero i posti. “Io mi chiamo Michele, disse il giovane, mio padre è don Antonio Cavallo, forse lo avrete sentito nominare”. Il nonno, artista di vecchia data, diede l’impressione di pensarci, poi scambiò qualche parola sconnessa in sinto con il babbo, quindi si rivolse di nuovo al giovane: “Non ne siamo certi, ma forse è la persona che ci hanno raccomandato ieri sera, in un paese vicino Benevento”. Il giovane rimase contento di quella risposta, e riprese: “Comunque potete restare per questa notte, e stasera faremo una cena tutti insieme, così ci raccontate del viaggio. Invitiamo anche Don Enzo, il parroco del paese”. Detto questo gridò alle donne di cucinare e apparecchiare per tutti. “Le nostre donne aiuteranno nel lavoro domestico, non abbiamo nulla da mangiare, ma le braccia le abbiamo”, disse il nonno. Michele gridò ad una giovincella di portare vino e boccali. Una lunga tavola imbandita stazionava al centro del piazzale. Un invitantissimo odorino proveniva dalla cucina, ma noi grandi dovevamo passare tutto il tempo a dire ai bambini di non andare a rubare il cibo nelle cucine, non ora almeno. Con le donne potevamo giustificarci con la grande fame che ci attanagliava nel lungo viaggio. Non era ancora scuro che iniziò la cena. Mi sedetti nei pressi del nonno e dell’anziano parroco del paese. Mi accorsi subito che tutti e due avevano già bevuto un po’, cosa che permetteva al nonno di infarcire i suoi racconti
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con particolari sempre più accattivanti. Il parroco, che doveva aver già visto il foglio del nonno, era così contento che quasi sarebbe venuto con noi per essere liberato dai peccati. Un po’ si parlò anche della grande guerra dei gagè, due giovani figli erano partiti e da mesi non ne ricevevano notizie. Ma a noi quei discorsi sulla guerra non colpivano come loro, erano cose distanti, troppo distanti dal nostro popolo. Mangiammo come delle bestie, i bambini vomitarono, alcuni uomini finirono anche ubriachi, altri invece ressero bene. La cena non durò tantissimo, presto si iniziò a sparecchiare, Michele disse che l’indomani non era il giorno del signore, e per questo dovevano andare a letto presto. Avevamo disposto i carri a semicerchio, con la testa della carovana rivolta verso l’uscita, presto avremmo fatto la fuga. Era notte fonda quando Glinzko mi venne a svegliare: Vidi il lampo ammiccante dei suoi occhi, “Sbrigati, prendi i secchi”. Mi svegliai di malavoglia, ma capii che non c’era scelta. “Il nonno l’hai svegliato?”. “Sta legando i cavalli all’ultimo carro”. “E andiamo allora”. Mi abituai presto all’oscurità, razziai tutti i prosciutti che trovai, un paio di catene di salsiccia, e qualche altro pezzo di carne sparsa. Carreggiammo anche i sacchi di grano e granoturco e la roba pesante era bella e finita. Quando avevamo caricato più o meno tutto, il colpo di frusta del nonno in testa alla carovana risuonò sferzante nel silenzio della notte. I carri si mossero. Il babbo fu l’ultimo a salire, con in mano un pollo che volle agguantare all’ultimo momento nonostante strillasse da far svegliare i morti. Gli schiamazzi del pollo, cui si aggiungeva lo stridore delle ruote malconce sul selciato, mi misero addosso la paura che qualcuno potesse averci sentito. Mi voltai e mi accorsi che una delle finestre della fattoria era illuminata. Ci avevano visti, sentiti. Scesi e corsi fino al carro del nonno che comandava la fila. Gridai 123
di correre, che ci avevano visti. Il rumore era forte, ma speravo solo che i carri reggessero allo sballottamento. Mi sedetti accanto al babbo che frustava con ardore i cavalli. “Ci raggiungeranno?”, gli chiesi. Lui sorrise, e lessi nel suo sguardo la stessa sensazione di esaltazione che provavo io. Quella fuga mi eccitava, ancor di più per l’idea di aver preso delle cose buonissime, che valeva davvero la pena difendere. Il cielo si andava schiarendo, ancora nessuno si vedeva arrivare dietro di noi. Forse non si erano accorti subito del furto, o forse avevano sbagliato strada. Il nonno aveva diminuito l’andatura e ora cominciavamo davvero a tranquillizzarci. Era ormai alto il sole quando incontrammo un villaggio. Ci fermammo, ma il nonno non volle entrarvi, diceva che potevano esserci i bedi Sbirri che già sapevano del furto, così dopo poco eravamo di nuovo in viaggio. Ci fermammo verso mezzogiorno su un fiumiciattolo con tanti alberi. Eravamo stanchissimi, anche i cavalli lo erano. Finalmente potemmo fare il conto delle cose che eravamo riusciti a prendere. Sostituimmo una ruota da tempo danneggiata, mangiammo con grande appetito, e poi ci riposammo, tranquilli e soddisfatti. Zezi si addormentò con il violino in mano, il nonno aveva montato l’amaca, tutti gli altri invece riposavano sull’erba. Le donne ci raggiunsero dopo. Dopo qualche ora mi svegliarono i soliti pesanti colpi di Sesè sulle sue ferraglie vecchie. Molti si lamentarono per il rumore, anche il babbo lo sgridò, ma ormai si era svegli. Sentii il nonno che diceva che Sesè faceva un lavoro utile, anche se tra noi nessuno lo capiva. Sesè aveva imparato da un Rom in una fiera in Toscana, da allora non aveva mai smesso, sempre alla ricerca di rame, che era la sola cosa che sapeva rubare, per il resto era uno degli scemi della nostra carovana. Le prime pentole non erano venute granché bene, ma ormai andava affinando la tecnica. In molti restammo sdraiati, svegli ma immotivati a muoverci.
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Ci godevamo quel fresco e quel posto bellissimo, quell’acqua limpida in cui già i bambini si erano tuffati, e la sensazione di libertà e di pigra rilassatezza. Un po’ tutti facemmo il bagno, spogliandoci fino ai calzoni, e anche le donne lo fecero, completamente vestite. Nell’acqua ritrovavamo lo spirito della gioiosità, felici anche dell’impresa del furto. Sguazzammo e giocammo a spingerci, poi prendemmo il sole, tutti sdraiati, mentre ci raccontavamo le avventure della fattoria. Il nonno ascoltava compiaciuto, ognuno di noi si rivolgeva a lui nel raccontare. In lontananza sentivamo solo i colpi di Sesè, e gli uccelli. Quando fummo tutti asciutti aprimmo un secondo prosciutto, lo affettammo, facendo festa. Eravamo contenti. Decidemmo di restare là per quella notte, il pericolo era ormai scampato, da mangiare ce n’era in abbondanza e non dovevamo preoccuparci di niente. La mattina dopo ci fermammo alla prima fattoria che incontrammo, dove scambiammo i tre sacchi di grano con della farina già pronta. Ripartimmo e facemmo tappa in un paese dove tutti ci guardavano con sospetto. Ma a noi importava poco, eravamo abituati a tutto. Le donne iniziarono ad impastare la farina in un lavatoio, io e Glinzko facemmo il giro del paese, ma non potemmo prendere niente a causa della sospettosità della gente. Il nonno diceva di voler andare via, che avremmo passato la notte fuori dal villaggio, ma noi saremmo rimasti, solo per far dispetto a quei gagè. Ne stavamo appunto parlando quando giunsero due bedi a cavallo. Il nonno parlò loro, ma non accennò alla carta del vescovo, forse per timore che l’avrebbero sequestrata. Alla fine dissero che dovevamo andare via. Tutti ci infervorammo, le donne in quelle situazioni diventavano di una ferocità da far paura anche a noi. Assalivano a parole gli sbirri, costringendoli ad indietreggiare. Ne arrivarono altri due, a piedi. Uno doveva essere il comandante. Il nonno andò a parlare con 125
lui. Apprendemmo che l’anno prima una carovana di zingari aveva fatto razzia nel paese e che erano fuggiti e a nulla valse rincorrerli. “Non siamo mica noi!”, disse seccamente il nonno. Ma lo sbirro parlava della paura della popolazione. La nonna era particolarmente nervosa: “Noi siamo diversi, stiamo espiando i peccati”, ma lo diceva con un tono troppo duro per essere creduta. Comunque a noi importava ben poco guadagnarci la fiducia di quei bedi. Non avevamo nulla da ricavare da loro, se non ci facevano restare là per la notte, tanto meglio, avremmo trovato un altro posto. Ma comunque dovevamo dire la nostra. Alla fine del colloquio col capo dei carabinieri, il nonno con aria sdegnata salì sul carro. Lo sbirro disse: “Mi dispiace”, e la sua espressione era per davvero dispiaciuta. Tutti seguimmo il gesto del nonno, riproponendo la stessa espressione offesa. Ripartimmo, con tutta la gente del paese che ci guardava ammutolita. Il pollo che avevamo preso nella fattoria era ormai l’ultima cosa che ci restava di quell’esperienza, ma non ci decidevamo a mangiarlo, perché era troppo poco per tutti noi o forse perché un po’ ci stavamo affezionando a quel compagno di viaggio. Erano due giorni che attraversavamo delle campagne troppo brulle, dove non cresceva nulla e quindi non trovavamo nulla da mangiare. Anche l’acqua sembrava diventata una cosa preziosa, tanto che decidemmo di riempire tutte le pentole di Sesè. Quest’ultimo, vista l’occorrenza, decise di preparare anche i coperchi, per evitare che l’acqua si disperdesse durante il viaggio. Ci rimaneva comunque l’aria aperta delle campagne, quell’aria che scivolandomi sul viso mi dava la sensazione di essere libero. E poi mi veniva la voglia di alzare gli occhi al cielo, guardarlo così grande, sereno, senza costrizioni. Libero. Per fortuna il giorno successivo trovammo i primi contadini dopo tanti chilometri. Erano a lavorare nei campi e come
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sempre si fermarono a guardarci incuriositi. Il nonno scese dal carro con la solita eleganza. Si avvicinò loro e chiese qualcosa da mangiare, accennando soltanto alla storia della nostra missione. Loro risposero che bisognava aspettare Mastro Nicola, che doveva essere il loro padrone. Scendemmo tutti dai carri, ci sedemmo per terra e contemplammo, ridendo, il lavoro di quei contadini. I bambini andavano anche a dar fastidio, ma le donne li richiamavano. Finalmente Mastro Nicola arrivò. Sembrava quasi uno slavo Rom, con due enormi baffoni e vestito di un cappellaccio grandissimo. Ascoltò il nonno, ma non appariva affatto incuriosito da quella storia. E infatti disse: “Carissimi, qua passa sempre gente che chiede da mangiare, ma mai nessuno che chiede da lavorare. Se volete lavorare vi pagherò la giornata come ai miei operai…”. “Amico, dimentichi la missione che dobbiamo portare a termine. La Sicilia non è così vicina, e non abbiamo molto tempo per fermarci…”. “Non credo a questa storia, e comunque non posso farci niente, non regalo niente a nessuno. Se volete lavorare, vi dico come fare”. “Che lavoro dovremmo fare?”. “Quello che vedete fare ai miei braccianti”. “Non credo ne siamo capaci”. “Ci vuole solo un po’ di forza e buona volontà”. “Quanto paghi?”. Alla risposta di Mastro Nicola scoppiammo tutti a ridere. Anche il nonno non si trattenne. Rimontammo sui carri, rumoreggiando contro il signore. Quest’ultimo poi richiamò il nonno e chiese se vendeva i cavalli. “Quale ti piace?”. “Dimmi prima che prezzo fai”. Alla risposta del nonno il tipo provò a ridere. Il nonno riprese: “Ricordati che noi siamo tanti e abbiamo fame. Questi cavalli sono sacri e li diamo via solo per condurre a termine il viaggio”. Mastro Nicola rimase zitto di nuovo, poi provò a dire una cifra alla 127
quale il nonno sorrise senza dire nulla, poi ne disse un’altra quasi doppia e il nonno scese dal carro. Slegò uno dei cavalli e lo condusse da Mastro Nicola. “Voglio sceglierlo io però”. “Prendere o lasciare”, disse il nonno deciso. Il signore guardò i denti del cavallo, ne controllò gli zoccoli, quindi aprì la sacca che aveva appesa ai pantaloni e pagò. Il nonno gli strinse la mano e risalì sul carro. Salutammo tutti molto rumorosamente e ci incamminammo di nuovo, sicuri di trovare il modo per spendere quei soldi e mangiare. Giungemmo finalmente al mare. Parcheggiammo i carri sul lungomare e corremmo tutti a tuffarci, come accadeva ogni volta che vedevamo il mare dopo tanto tempo. La gente ci stava lontana, anche perché eravamo davvero chiassosi. Le donne poterono lavare i panni mentre i bambini si spidocchiavano. Il nonno vendette altri cavalli e molti di noi andarono a manghè: mendicare, chiedere l’elemosina nella città. Avevamo raggranellato un bel po’ di soldi e la sera facemmo una cena grandissima, allietata dalla musica del violino di Zezi, che finalmente aveva terminato il primo di quel viaggio. Ballammo e cantammo le nostre canzoni, sotto uno splendido cielo stellato. La nonna ne sapeva di vecchissime, noi non le conoscevamo tutte, ma cantavamo dietro alle sue parole come se le avessimo sempre sapute. La fame dei giorni addietro, la fuga e i carabinieri erano lontani ricordi di cui nessuno parlava più. Rimanemmo tre giorni in quel posto. Quando il nonno disse a pranzo che la mattina dopo saremmo partiti parse a tutti normale. Intanto qualcuno ci aveva detto che a Reggio c’era una fiera, una di quelle annuali in cui si ritrovano venditori e artisti, e tanti, tanti zingari. Con quell’idea in testa partimmo. Sulla costa i campi erano molto ricchi, offrivano una grande varietà di cose da mangiare. Lungo il nostro cammino trovammo cocomeri, pomodori, insalate e riuscimmo a prendere qualche pollo.
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Quello che avevamo preso alla fattoria intanto lo tenevamo ancora con noi, lo avevamo chiamato Zero, perché molti della carovana dicevano che non serviva a niente. Ma ormai eravamo affezionati a quell’animale e non avremmo avuto il coraggio di mangiarlo. Forse era per questo che noi allevavamo solamente cavalli, come si poteva mangiare un animale dopo averlo curato e visto crescere per tanto tempo? Impiegammo tre, o forse quattro giorni per giungere a Reggio. La città ci sembrò abbastanza ospitale, piena di persone che non facevano poi così tanto caso alla nostra presenza. Poi un grido di gioia di tutta la carovana sottolineò la vista della fiera. Da lontano vedevamo il tendone di un circo, quelli erano nostri parenti, sicuro come l’oro. Parcheggiammo i carri in mezzo a quelli dei circensi e scendemmo tutti molto euforici. Conoscevamo tutti, eravamo contenti di esserci ritrovati. Le fiere erano il momento d’incontro con parenti che vedevamo solo in quelle occasioni. Era il momento per prendere informazioni sugli altri parenti, novità in giro, possibilità di guadagno e pettegolezzi sugli altri zingari. Il nonno chiamava cugino l’anziano del circo, la nonna, che da bambina era stata una del circo, si trovava come a casa propria. Io e Glinzko ci unimmo a Picchiotto e Goran, due cugini, e girammo tutta la fiera. C’erano tante persone e tante bestie, il nonno avrebbe potuto finalmente esercitare la sua attività preferita, quella della contrattazione per la vendita dei cavalli. Glinzko aveva già squadrato tutte le bancarelle e parlava di come avrebbe potuto rubare polli e altre cose. Picchiotto però fu categorico: non era quello il posto per rubare, perché se la sarebbero presa subito con loro. Dovevano aspettare l’ultimo giorno. “Ma qua c’è altro da fare, ci sono le donne”, disse Goran, che tra i Sinti aveva fama di conquistatore, “ci sono anche le puttane”. “Tutte le gagè sono puttane”, disse Glinzko. “Sì, ma queste si fanno pagare e poi ci vai, senza nessuno 129
sforzo, capisci?”. Glinzko si informò sulla cifra da spendere e a nessuno di noi parse troppo. L’avremmo trovati quei soldi! “Si mettono giusto fuori dalla fiera, un po’ distanti. Però dovete aspettarmi che finisco lo spettacolo. Io finisco tardi…”. Picchiotto era uno dei clown del circo. “Ma noi come li facciamo i soldi?”, chiesi, visto che non potevamo rubare e il babbo e il nonno non ci avrebbero certo dato tutto il necessario. “Non ce l’avete qualcosa da fare, un po’ di musica, burattini… qualcosa?”. “E’ vero, potremmo dire a Zezi di esibirsi in piazza, noi passiamo col cappello mentre lui suona…”. “E poi possiamo pure vendere qualche pentola di Sesè, lui ce la da’ sicuramente”. Così decidemmo, e corremmo dagli interessati. Con l’aiuto dei due cugini, truccammo e vestimmo Zezi in maniera comicissima, lui ci stava una bellezza e accompagnò la musica con dei balletti da far ridere anche i morti. Ci divertimmo e riuscimmo a guadagnare tutti i soldi che ci servivano, senza neanche vendere le pentole di Sesè. Picchiotto entrò in scena disteso su un lettino trainato da un cavallo bardato. Fingeva di dormire e solo i rumori del pubblico lo svegliarono. “Un po’ di silenzio!”, gridò lui, girandosi dall’altra parte. Entrò in scena un secondo clown, che dapprima girò più volte intorno a Picchiotto e infine decise di versargli un secchio di acqua addosso. Le risate del pubblico scrosciarono, e da quel momento non si interruppero praticamente mai. Mi godevo la scena da dietro la tenda dell’ingresso degli artisti, vedevo passarli tutti davanti a me. Ogni tanto lo zio Baldino mi chiamava per dare una mano. Lui era il capocomico del circo, ormai non entrava più in scena, ma tra tutti noi era rimasto leggendario il suo personaggio di “Gustavo La Morte”, mai più ripetuto da che lui aveva abbandonato le scene.
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Picchiotto finì il suo numero, uscì linciato da un gruppo di quattro clown e corse dietro le quinte continuando ancora a fare la parte del fuggiasco. Vidi passare i cavalli bardati, che facevano il numero seguente, poi raggiunsi Picchiotto. “Allora che dici, vengo conciato così?”, disse ancora in preda all’euforia. “Meglio di no, potrebbe finire tutto a barzellette”, risposi prontamente. “Allora vammi a prendere lo smacchiante, ce l’ha la Nadia”. Non l’avevo ancora vista da che ero arrivato, e rimasi esterrefatto nel vederla. In due soli anni era passata da bambina vivacissima ad una sorridente, splendida ragazza. Mi sorrise, e io finsi di non credere che fosse lei. “Quanti anni hai?”. “Quasi quattordici”, mi rispose con un certo orgoglio. “Ma sei cresciuta così…”, non conclusi la frase. “Così in fretta? Sei tu che non ti sei fatto vedere per tutti questi anni”, sorrideva sempre. “Ti sei fatta bella”, aggiunsi quasi inconsciamente. “Tu lo eri già”, mi disse lei, poi mi porse il barattolo e se ne andò, lanciandomi un ultimo sorriso, a metà tra il malizioso e l’ingenuo. Rimasi colpito dall’incontro, ne avrei potuto parlare con Picchiotto, ma lui era ancora tutto elettrizzato dal suo numero, che non mi diede retta più di tanto. Si era già struccato non so come e era ormai pronto per uscire. Glinzko e Goran erano già ad aspettarci. Erano anche loro carichi di energia, ma io ero diventato, chissà perché, di un altro umore. Forse lo sapevo, avrei voluto tornare dentro e stare un altro po’ con la Nadia, ma come potevo rinunciare ora a quell’avventura? Ci incamminammo, mentre mi prendeva un groppo in gola. “Ragazzi, io non vengo, non me la sento, mi ha preso un po’ di mal di testa con tutta quella musica”. “Ma che dici, ti passa il mal di testa”. Mi fermai, ero ormai deciso. “No, no, resto qua, ci vediamo dopo”. Non insistettero più di tanto, comunque non avrebbero cambiato la mia decisione. Tornai sui miei passi e mi infilai di nuovo sotto il tendone. Quando Nadia mi vide disse: “Non sei andato coi tuoi amici?”. “No, no, 131
volevo vedere un altro po’ lo spettacolo”. “Ah…”, e sorrise, come di uno che ha capito. Io per coerenza mi piazzai di nuovo all’ingresso in scena, ma mi rattristai, per il semplice fatto di non esser riuscito a dire quello che dovevo dire. Ma che dire? Boh. Non seguivo proprio più lo spettacolo, ma non riuscivo a staccarmi da quel posto. Dopo un po’, mentre ero completamente assorto nei miei pensieri, la voce di Nadia mi sorprese: “Devo andare a buttare la spazzatura fuori dalla fiera, vieni a darmi una mano?”. Stavolta sorrisi io. Non dormii quella notte, preso da un sentimento d’amore per quella bambina cresciuta così in fretta. Era notte fonda quando Glinzko tornò a raccontarmi la sua serata. Parlava a bassissima voce per non svegliare i due bambini che dormivano nel mio carro. Mi riprese la voglia di star con loro, ma forse era solo la grande euforia che avevo dentro. Avevo voglia di confidare quello che mi era successo, lo dissi a Glinzko, lui rise da far schifo, però alla fine confessò che aveva notato anche lui la ragazza e che forse un pensierino ce lo avrebbe fatto anche lui. Mi prendeva già la gelosia, ma non volevo farmi vedere troppo preso dalla cosa. Così dissi di aver sonno, Glinzko se ne andò e io rimasi fino all’alba a sperare che si facesse prestissimo giorno. Pranzammo con tutti i parenti in una tavola lunghissima che si stendeva ad arco fuori del tendone. Eravamo un numero grandissimo con il babbo e il nonno che occupavano il posto d’onore a capo tavola, mentre le donne erano tutte concentrate in fondo. Era già tanto che stavano a tavola con noi. Nadia veniva sempre a servirmi per primo e mi accorsi che la voce della nostra intesa si era già sparsa tra i parenti. Lo zio Baldino non mi degnava neanche di uno sguardo, e questo se da un lato era normale, da un altro mi dispiaceva un po’. Ma sapevo benissimo che era un’usanza e dovevo rispettarla, come io l’avrei fatta rispettare un giorno ai miei figli.
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Qualcuno parlava della grande guerra dei gagè, dicevano che anche gli zingari vi sarebbero rimasti coinvolti, ma nessuno dava credito a queste parole. E poi perché? Erano loro che avevano voglia di ammazzare e conquistare altre terre. Il nonno però rimaneva pensieroso su quel discorso, si limitò solo a dire: “Tante volte hanno scaricato su di noi colpe che non avevamo”. Tra i parenti del circo c’erano dei buoni musicisti, alcuni violinisti e molti chitarristi. Zezi si trovava bene tra loro, si vedeva lontano un miglio. Non parlava molto neanche con loro, ma almeno comunicava con la musica. Avrei avuto piacere anch’io se avesse trovato sempre qualcuno con cui condividere la sua arte, la nostra carovana era abbastanza estranea alla musica. Eppure Zezi aveva imparato. Uno zio ormai morto gli aveva insegnato da bambino a costruire i primi violini giocattolo, poi gliene aveva regalato uno vero e Zezi passava le giornate a suonare, mentre noi altri bambini facevamo i nostro giochi. Per questo Zezi era cresciuto un po’ diverso da tutti noi, era l’unico con un interesse diverso, eppure quando crescemmo prendemmo tutti una forma di rispetto verso di lui, anche se lui restava abbastanza isolato dagli altri. Non aveva mai imparato a manghè e neanche a rubare, e oltre tutto aveva sempre mostrato un po’ di insofferenza verso la cura dei cavalli. Questo avrebbe potuto costargli caro nel nostro clan, ma poi successe che vendette il primo violino che aveva costruito. Successe in Romagna durante una festa, mentre suonava gli si avvicinò un gagio che gli offrì un sacco di soldi per quello strumento. Zezi lo vendette, ma credo che non se la sia mai perdonata. Però da allora ne ha fatti altri e li ha tutti venduti, impiega molto tempo per costruirli, e poi sta sempre più affinando la sua tecnica. Ci vogliono mesi per sentir suonare quello che prima era un pezzo di legno. Intanto la Nadia doveva essersi accorta del malumore di suo padre, infatti evitava di venire a servirmi.Tutto questo 133
mi dava abbastanza fastidio, eppure dovevo cercare di dissimulare il mio malessere. Presto mi estraniai dai discorsi degli uomini, divenni silenzioso e non avrei voluto altro che parlare con la Nadia. La notte presi la mia decisione definitiva. Non avevo altra scelta: presto saremmo ripartiti e non avrei rivisto la Nadia per chissà quanto tempo. Dovevo agire con circospezione, ma mi sarei fatto aiutare dai cugini. Non dormii tutta la notte, architettai il piano di fuga nei più minuziosi dettagli. Avrei preso un cavallo e una carrozza piccola, avrei aspettato la Nadia fuori dal recinto, sulla parte posteriore dove nessuno ci avrebbe potuto vedere. Avrei caricato in anticipo qualche bagaglio e saremmo partiti. Restava solo da decidere l’orario più propizio. Chiaramente sarebbe stato il dopo pranzo, quando tutti si sarebbero messi a riposare. Ma ero impaziente, avrei voluto fuggire in quel momento stesso. Al mattino non ebbi problemi a farmi aiutare dai cugini. Mi procurarono il cavallo e la carrozza, altri parlarono con la Nadia e altri mi aiutarono a raccogliere panni e cibo. Mi dissero che la Nadia era rimasta un po’ titubante, ma alla fine aveva accettato. Alle 2 ero nascosto nella carrozza. Glinzko faceva da guardiano insieme ad un altro cuginetto. La Nadia entrò ansimante nella carrozza, era quasi in lacrime, ma disse solo: “Via, facciamo presto”. Frustai il cavallo a più non posso e ci dirigemmo verso le campagne. Dovevo andar lontano, perché nei dintorni della città ci avrebbero cercati. Decisi di andare verso i monti, lì forse sarebbe stato più facile nasconderci. Durante tutto il tragitto sentii la Nadia piangere. Verso sera le dissi di venire davanti. “Perché piangi, non sei contenta?” “Sì…”. “E allora perché piangi?”. “Non lo so”.
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“Hai paura di tuo padre?”. “Un po’…”, parlava con le parole smozzicate, mi faceva una grande tenerezza. Avrei voluto baciarla, ma mi limitai solo a cingerla con un braccio. “Lo zio Baldino ci perdonerà, vedrai!”, provai a consolarla. “La mamma forse no”, disse lei con un tono un po’ meno piagnucoloso. “Mi dispiace per le botte che il babbo le darà”. Ma ora la Nadia stava assumendo un’espressione rassegnata, di chi ha ormai deciso ed è pronto a prendersi le sue responsabilità. Appoggiò la testa sulla mia spalla e feci correre di più il cavallo. Più ci si allontanava e più si realizzava il nostro sogno. Certo, la zia avrebbe preso le botte, sarebbe stata incolpata di non badare alla figlia, lo zio sarebbe corso all’impazzata a cercarci, tutto il circo ne avrebbe risentito, ma in finale era quello l’unico modo per sposarci. “Mi vorrai bene sempre?”, disse Nadia all’improvviso. “Certo, che domande fai?”. “Non andrai mai con le altre donne…”. “Certo”. “E poi voglio imparare a leggere e scrivere.” “Ma se non so farlo neanche io…”. “Impareremo insieme. Ci sono dei gagè che aiutano le persone che vogliono imparare”. “E dove sono?”. “A Cosenza.” Non risposi più nulla, a me imparare quelle stupidaggini interessava poco, ma per quella dolce bambolina avrei fatto qualsiasi cosa. E poi sarebbe stato bello essere tra i pochissimi Sinti a saper leggere e scrivere. L’oscurità ormai stava scendendo e cominciammo a cercare un posto dove accamparci. Nadia si era ormai ripresa, non piangeva più e anzi si divertiva con me a scegliere i luoghi ideali. Decidemmo di fermarci in una radura provvista di una grande vasca d’acqua per l’abbeveraggio degli animali. Per quel giorno avevamo finito di scappare. 135
Cucinammo insieme, anche se non avrei dovuto, ma lì non mi vedeva nessuno e non avevo timore di perdere la faccia. Dopo mangiato finalmente potemmo riposarci in tranquillità. Ci sdraiammo tutti e due sotto gli alberi e rimanemmo a guardare le stelle. Nadia si accucciò sul mio corpo e per la prima volta la considerai sotto l’aspetto della femminilità. E poi avevo anche un dovere da compiere, visto che l’avevo portata via dalla sua famiglia. Mi sentivo emozionato, fremevo, ma allo stesso tempo mi sentivo frenato dal pensiero di quel corpicino esile lì accanto. Mi risolsi a darle un bacio, e mi resi conto che lei non aspettava altro. La baciai più volte, poi le toccai i seni, piccoli e morbidi, come era lei in quel momento. Le misi una mano sotto la lunga gonna nera, la lasciai salire lungo le sue gambe sottili. Lei non oppose alcuna resistenza. Era una donna vera, più di quanto mi sarei aspettato. Dopo l’amore rimanemmo ancora fermi com’eravamo. Nadia prese a parlare senza sosta, come non l’avevo mai sentita. La paura si era ormai dissolta. Decidemmo di passare altri quattro giorni e poi tornare a Reggio e chiedere perdono allo zio Baldino. Nadia insistette per andare a Cosenza, ma io dissi che forse era troppo lontana, e poi avremmo avuto tutto il tempo per andare dove volevamo. Ci chiudemmo nella carrozza, aspettando mattina. Nei giorni successivi girovagammo per le campagne in altura. Stavamo finalmente provando la felicità, tutti e due liberi e senza altro a cui pensare se non mangiare e passare il tempo divertendoci. Girammo paesini piccolissimi, dove la gente ci guardava incuriosita, sempre con l’aria dura di chi conosce gli zingari, ma qualcuno sembrava anche un po’ più bonario, forse perché in due non destavamo il solito timore. Nadia si dimostrò un’abile ladra, e ciò confermò il suo valore di moglie. Riuscì a portare via da una masseria un’intera dispensa di barattoli di cibo in conservazione, senza che neanche i cani si accorgessero
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della sua presenza. Riuscì a barattare una vecchia pentola di rame con due conigli. E nei paesi più grandi si cimentava nella lettura della mano, raccogliendo sempre un nugolo di persone intorno a se’. Mi piaceva vederla all’opera, sentirla parlare con tanto intendimento. Una sera le chiesi se lei credesse davvero a quello che leggeva, mi rispose ridendo, dicendo che qualcosa ci doveva pure essere. Non avevo mai creduto nella veggenza, o forse non mi ero mai posto il problema, ma le sue parole avevano un sottofondo di misteriosa verità. Ne ebbi quasi paura, ma lei mi rallegrava con la sua presenza di spirito, di chi ha vissuto per anni in mezzo al pubblico, di chi sa rapportarsi nella società gagi, ma non dimentica mai il marito e si dedica interamente a lui e alla sua felicità. Nadia mi amava, e io amavo lei. Giungemmo a Cosenza un pomeriggio nuvoloso. Nadia conosceva un parroco della città, ma quando bussammo alla porta la perpetua ci scacciò in malo modo, dicendo che Don Simone non era in casa. Aspettammo lì davanti per varie ore, finché la porta della chiesa non si aprì, lasciando passare le prime donne col capo coperto dai veli neri. Dissi a Nadia di entrare da sola, così forse sarebbe riuscita a confondersi tra le donne e raggiungere il parroco. Mi sedetti sui gradini della chiesa. Dapprima intesi le grida della perpetua, ma Nadia non venne fuori. Probabilmente era riuscita a calmare la donna, o ad incontrare il prete. Mi piaceva sempre di più la mia compagna. Fino a pochi giorni prima ne avevo apprezzato solamente le qualità fisiche e caratteriali, ora invece stavo scoprendo dell’altro, e mi piaceva molto. Il suo saper stare in mezzo alla gente, il riuscire ad accattivarsi le simpatie erano doti che non avevo mai visto in nessun altro così forti. Ma quel che più mi piaceva era che poteva passare un’intera giornata con mille persone, riuscendo pur sempre a farmi sentire importante, il più importante. Questa era 137
una legge degli zingari, ma non tutte le donne riuscivano a farlo senza che la cosa fosse loro imposta, magari con la violenza. Nadia non aveva bisogno di minacce, né di consigli, sapeva come fare in maniera naturale. Uscì dalla chiesa forse un’ora dopo. Portava con se’ un insieme di vestiti arrotolati, tutti da uomo. Anche in quel frangente non si era dimenticata di me. Notai il suo volto scuro, ma non dissi niente, aspettando che fosse lei a parlare. Gettò gli indumenti nel retro della carrozza e venne a sedersi al mio fianco. Mi strinse la mano e con un tono grave e preoccupato mi disse: “Il prete dice che devi nasconderti, perché stanno facendo delle retate. Dice che prendono tutti gli zingari e gli ebrei e li rinchiudono nei campi di concentramento”. “Cosa sono i campi di concentramento?”. “Non lo so. Dice che ti faranno del male. Mi ha detto che dobbiamo stare attenti a dei gagè vestiti di nero”. Aveva paura la piccolina, ma io non mi lasciai intimorire. “Saranno le solite cose che dicono per farci andare via dalla città. Tanto noi dobbiamo tornare a Reggio”, provai a dirle con un mezzo sorriso. “Ha detto che anche a Reggio la situazione è pericolosa. Ha consigliato di andare verso la Puglia, e se possibile farci ospitare da qualche famiglia in campagna”. Quelle parole mi stavano innervosendo. Era andato tutto splendidamente in quei giorni, non volevo che un prete potesse rovinarci la festa con delle semplici parole. Avevo sentito dire che stavano perseguitando gli ebrei per via della guerra, ma non avevo mai sentito dire che ce l’avessero anche con noi zingari. Mi prese quasi l’ansia di rimettermi in viaggio. Ma Nadia non voleva tornare a Reggio, aveva paura, e in qualche modo mi trasmise il suo timore. Nel tardo pomeriggio ripartimmo, immergendoci di nuovo nelle campagne, in direzione nord. Per due giorni viaggiammo senza più l’entusiasmo, la gioia
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per la libertà, la voglia di scorrazzare che avevamo sempre avuto. Viaggiammo col timore di essere visti, notati, trovati e portati chissà dove e chissà perché. Eravamo abituati a scappare, ma stavolta c’era qualcosa di nuovo, misterioso angosciante. Non era come tutte le volte che ci si imbatteva con i bedi, dove trovavamo sempre il modo per farla franca. In un paesino sui monti la gente ci disse che la guerra dei gagè si stava facendo più aspra, ci parlarono delle deportazioni, delle cattiverie. Cercai di capire quale fosse la nostra colpa, ma nessuno ci sapeva rispondere, qualcuno parlava di razza, razza ebrea, ma non capivo che colpa fosse quella di essere di una razza piuttosto che di un’altra. E comunque non eravamo neanche ebrei. Non accadde nulla. Anzi, nei giorni successivi ritrovammo il nostro entusiasmo, riprendemmo a scherzare, come se quel pericolo fosse passato, o mai esistito. Ci sentivamo ancora a casa nostra nel mondo, con mille posti in cui poterci fermare, protetti dal cielo aperto che ci sovrastava e dalle mille strade che si aprivano di fronte a noi. Felici di non appartenere a niente e a nessuno. Arrivammo così in un paesello chiamato Spezzano. Nadia si era avvicinata a delle case per manghè, mentre io lasciavo i cavalli abbeverarsi. Da lontano vidi una macchia nera, un gruppo di uomini che si avvicinava in maniera decisa e minacciosa. Il cuore di colpo mi salì in gola. I soldati, o quello che diavolo erano quegli uomini, giunsero presso il carro prima ancora che potessi salirvi. “Fermo là”, gridarono, e dal tono che avevano quelle parole capii che ci sarebbe stato poco da ragionare con loro. Mi presero per un braccio e mi chiesero i documenti. Non li avevo, come non li avevo mai avuti. Sentii un fucile puntato alla schiena, mi spinsero, mentre provavo a dire qualche parola. Dopo pochi passi sentii gridare, dicevano che la donna era scappata. Il gruppetto che mi circondava si fermò, mi girai e vidi altri tre di loro correre come dei dannati verso i vicoli del paesino. 139
Mi portarono nella caserma dei carabinieri, poi in prefettura. Sentivo sempre nominare un certo “Ferramonti”, e alla fine mi ci portarono. All’ingresso le guardie mi guardavano con disprezzo, poi mi fecero accomodare in una sala un po’ buia. Avevo paura, ma ancora non stavo realizzando quel che mi stava accadendo. Arrivò un altro gruppo di quelli che ormai mi ero abituato a riconoscere come camicie nere. Cominciarono a picchiarmi, senza dire niente, mentre io gridavo e chiedevo il perché. “Tu sei uno zingaro?” “Sì”, risposi, mentre sentivo il sangue colarmi dalle labbra. “Di quelli vagabondi che rubano dovunque passano?”. Provai a dire qualcosa a mia discolpa, ma mi era già arrivato un calcio in faccia. Caddi rivoltato con tutta la sedia. “Dov’è nascosta quella puttana che era con te, lo sai?”. Feci cenno di no con la testa, mentre scoppiai in singhiozzi incontrollabili, così forti che ne sentivo il rimbombo nella stanza. “Comunque ti salvi solo se ammetti di essere un ebreo”. “Non sono ebreo, lo giuro”, dissi con sforzo, ma ancora altre botte mi fecero di nuovo cadere in terra. “Sei un ebreo, dì la verità”. “Noooo”, gridai. Credo di essere caduto svenuto per qualche istante. Fui svegliato da un bicchiere di acqua fredda. “Ebreo”, disse con disgusto quell’uomo. “Sì”, risposi con un filo di voce. “Alzati, bastardo”.
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PROFILI VITTORIO TOSCHI (Lucca, 1968). Si laurea e per qualche anno va in giro per l’Italia per lavoro. Dal 1998 è tornato dentro le mura protettive della sua città. Vive molto sulla grazia della curiosità e ama soprattutto le storie, da vedere, da leggere da raccontare. Qualche suo racconto si può trovare in antologie locali o nella rete di internet.
DARIO ZONA (Prato,1981). Studia Media e Giornalismo all'Università di Firenze. Nel tempo libero gli piace leggere e scrivere storie, prendendo spunto da quel che passa il convento dell'umanità. Ha partecipato ad alcuni concorsi, vincendo nel 2000 il Concorso letterario nazionale "Modello Pirandello", riservato a studenti di scuole medie superiori, per la composizione di una novella ispirata alle tematiche pirandelliane.
PAOLA ZAMILLO (Lastra a Signa, 1965). Di giorno lavora come impiegata per procurarsi di che vivere, mentre di sera si dedica a varie attività legate al teatro e collabora ad un corso di Movimento Creativo. Per lei, scrivere è un atto disordinato e incostante della sua creatività.
SARA PASSI (Prato, 1971). Laureata in Lettere Classiche all'Università di Firenze. Nel 2001 vince il dottorato di ricerca in "Studi storici e Filologici della cristianità antica e Altomedievale" presso l'Università di Lecce. Ha pubblicato articoli su riviste specializzate di medievistica ("Studi Medievali", "Quaderni Medievali", "Mittellateinisches Jahrbuch"). Nonostante la formazione classica ha una forte passione per l'arte contemporanea e per la danza.
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GIOVANNI PESTELLI (Firenze, 1967). Laureato in
MARCO PIERATTINI (Prato, 1963). Vive a Prato, insegna
Lettere presso l’Università di Siena, si è poi diplomato Bibliotecario presso la Scuola speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università “La Sapienza” di Roma. Vive e lavora a Prato. Dal 1999 collabora al bimestrale “Microstoria”, curando una rubrica di recensioni di siti web. Si interessa di storia contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: “Viaggiatori e villeggianti. Vallombrosa Saltino storia di un luogo turistico dalla nascita agli anni Venti” (Polistampa, Firenze, 2003) in collaborazione con Duccio Baldassini e Nicola Wittum.
elettronica all'Istituto Buzzi, è convinto che un mondo diverso sia possibile e cerca di esprimere questa speranza nei suoi racconti e poesie, visibili sul sito www.pierattini.net.
LAPO GORINI (Firenze, 1977). Laureato in chimica nel 2002 ora lavora all'interno dei laboratori dell'Uiversità di Firenze. Senza particolari esperienze editoriali (giusto un paio di pubblicazioni in rete su neteditor.net ), è un grande amante della letteratura e del cinema contemporaneo e scrive nel vero senso della parola: "Lapo scrive", ma ancora nessuno lo legge. Questione di tempo.
JACOPO CORSI (Prato, 1979). Vive a Prato, studia giurisprudenza e scrive per la cronaca pratese del quotidiano "Il Tirreno". Insieme ad altri tre amici è il fondatore e il curatore di www.officinanoir.it, un sito che si occupa di letteratura di genere.
PIERO IANNIELLO (Cassino, 1971). E' laureato in lingue straniere. Lavora nel settore della formazione professionale e si dedica con impegno variabile a molteplici interessi: sociale, politica, gastronomia, musica. Non ultima la letteratura. Ha ottenuto la pubblicazione di un racconto in un'antologia della casa editrice [Squi]libri.
NICOLA CIARDI (Firenze, 1979). Vive a Prato, è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, Università di Firenze. Appassionato di letteratura di genere, insieme ad alcuni amici ha fondato e cura il sito OfficinaNoir.it (www.officinanoir.it).
TOMMASO CHIMENTI (Firenze, 1973). Residente a Sesto Fiorentino, laureato in Scienze Politiche in Storia del Giornalismo, è giornalista pubblicista per "Metropoli" e critico teatrale per "Il Corriere di Firenze", ed ufficio stampa per eventi e gruppi teatrali. Collabora assiduamente con il sito di critica , e per la rivista on line . Molte le sue pubblicazioni antologiche. Recentemente ha svolto nel ruolo di docente il III corso di formazione “Orientamento alla critica teatrale”, per gli studenti delle scuole superiori
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INDICE
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Introduzione
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A come Amore - V. Toschi
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Ti scucio - D. Zona
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L'intervista - P. Zamillo
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Battuta d'arresto - S. Passi
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Poesie di mare e di costa - G. Pestelli
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Occhi chiusi - L. Gorini
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Brainwave - N. Ciardi
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Cenci cenciosi - T. Chimenti
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Secret Social Forum - M. Pierattini
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Guanti Bianchi - J. Corsi
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Sulle strade della libertà - P. Ianniello
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Profili
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