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migrazioni
Vademecum per l’accoglienza
Consiglio episcopale permanente della CEI sui richiedenti asilo e i rifugiati
Approvato durante i lavori dell’ultimo Consiglio episcopale permanente della CEI, svoltosi dal 30 settembre al 2 ottobre a Firenze (cf. Regno-doc. 32,2015,7ss), è stato pubblicato martedì 13 ottobre il Vademecum per le diocesi e le parrocchie intitolato: «Giubileo della misericordia: l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati». Come il titolo lascia intuire, la CEI organizza così la sua risposta all’appello di papa Francesco dello scorso 6 settembre (Regno-doc. 29,2015,3), dotandosi di uno strumento con il quale s’intende «accompagnare le diocesi e le parrocchie in questo cammino con i richiedenti asilo e rifugiati, (...) e aiutare a individuare forme e modalità per ampliare la rete ecclesiale dell’accoglienza a favore delle persone richiedenti asilo e rifugiate che giungono nel nostro paese, nel rispetto della legislazione presente e in collaborazione con le istituzioni». Stampa (14.10.2015) da sito web www.chiesacattolica.it.
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ademecum per le diocesi e le parrocchie
All’Angelus del 6 settembre scorso, il santo padre «di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita» ci invitava a essere loro prossimi e «a dare loro una speranza concreta». Da qui, alla vigilia del Giubileo della misericordia, l’accorato appello di papa Francesco «alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa a esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi» (Regno-doc. 29,2015,3). L’appello del papa ha trovato già le nostre Chiese in prima fila nel servizio, nella tutela, nell’accompa-
11 Kasper sui divorziati risposati Il teologo e cardinale tedesco esplora la via paenitentialis quale possibile risposta di una Chiesa che si comprende come sacramento della misericordia e della cura di Dio.
18 Il Sinodo sia un «balzo innanzi» Il Centro di ricerca RGKW della Facoltà teologica cattolica di Innsbruck lo auspica in una dichiarazione pubblica «per un coraggioso sviluppo della dottrina e della pastorale».
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gnamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Infatti, su circa 95.000 persone migranti – ospitate nei diversi Centri di accoglienza ordinari (CARA) e straordinari (CAS), nonché nel Sistema nazionale di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) – diocesi e parrocchie, famiglie e comunità religiose, accolgono in circa 1.600 strutture oltre 22.000 dei migranti. Consapevole dell’importanza di allargare la rete dell’accoglienza, quale segno di una Chiesa che – come ricorda il concilio Vaticano II – «cammina con le persone» (Gaudium et spes, n.40; EV 1/1443), la Conferenza episcopale italiana, ha subito accolto con gratitudine l’appello del papa, rinnovando la disponibilità a curare le ferite di chi è in fuga con la solidarietà e l’attenzione, riscoprendo la forza liberante delle opere di misericordia corporale e spirituale. Il Sinodo dei vescovi sulla famiglia sollecita anche a un impegno rinnovato, consapevoli che «le famiglie dei migranti (…) devono poter trovare, dappertutto, nella Chiesa la loro patria. È questo un compito connaturale alla Chiesa, essendo segno di unità nella diversità» (Giovanni Paolo II, es. ap. Familiaris consortio, n. 77; EV 7/1770). Per accompagnare le diocesi e le parrocchie in questo cammino con i richiedenti asilo e rifugiati, si è pensato a una sorta di vademecum, che possa aiutare a individuare forme e modalità per ampliare la rete ecclesiale dell’accoglienza a favore delle persone richiedenti asilo e rifugiate che giungono nel nostro paese, nel rispetto della legislazione presente e in collaborazione con le istituzioni. Si tratta di un gesto concreto e gratuito, un servizio, segno di accoglienza che si affianca ai molti altri a favore dei poveri (disoccupati, famiglie in difficoltà, anziani soli, minori non accompagnati, diversamente abili, vittime di tratta, senza dimora...) presenti nelle nostre Chiese: un supplemento di umanità, anche per vincere la paura e i pregiudizi. Come si legge nei nostri Orientamenti pastorali decennali Educare alla vita buona del Vangelo, «l’opera educativa deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione» (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 14; ECEI 8/3741).
prire l’attualità delle opere di misericordia corporali e spirituali, così da costruire nuove strade e aprire nuove «porte» di giustizia e di solidarietà, vincendo «la barriera dell’indifferenza», come ci ricorda il santo padre (Francesco, bolla Misericordiae vultus, n. 15; Regno-doc. 13,2015,7). 2. Un gesto concreto: l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati
Ogni anno giubilare è caratterizzato da gesti di liberazione e di carità. Nel Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II invitò a opere di liberazione per le vittime di tratta e nacquero in loro favore molti servizi nelle diocesi e nelle comunità religiose. Così pure tutte le parrocchie italiane furono sollecitate a un gesto di carità e di condivisione per il condono del debito estero di due paesi poveri dell’Africa: la Guinea e lo Zambia. Nell’Anno santo della misericordia, alla luce di un fenomeno straordinario di migrazioni forzate che, via mare e via terra, sta attraversando il mondo e interessando i paesi europei, il papa chiede alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri, ai santuari il gesto concreto dell’accoglienza di «coloro che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita» (Regno-doc. 29,2015,3). Questo gesto testimonia come sia «determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia» (Misericordiae vultus, n. 12; Regno-doc. 13,2015,6). 3. Il percorso di accoglienza
Prima ancora dell’accoglienza concreta è decisivo curare la preparazione della comunità, articolandola in alcune tappe. – Informazione, finalizzata a conoscere chi è in cammino e arriva da noi, valorizzando gli strumenti di ricerca a nostra disposizione (il Rapporto immigrazione, il Rapporto sulla protezione internazionale, altri testi e documenti, schede sui paesi di provenienza dei richiedenti asilo e rifugiati,1 la
1. Giubileo: riscoprire le opere di misericordia
Il Giubileo, anno della misericordia, ci regala un tempo di grazia, in cui guardare a «quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi», e riscoIl Regno -
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1 Si segnalano a questo riguardo il Rapporto immigrazione curato annualmente da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, il Rapporto sulla protezione internazionale sempre curato da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes in collaborazione con l’ANCI, Cittalia, SPRAR e l’UNHCR e le schede dei paesi di provenienza dei richiedenti asilo, curate dall’Osservatorio permanente sui rifugiati (www.viedifuga.org).
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Croazia: leader religiosi per l’assistenza ai rifugiati
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i fronte alla crisi umanitaria dei profughi dalla Siria e dall’Iraq «la Repubblica di Croazia potrebbe presto essere messa a dura prova». Lo scrivono i leader religiosi croati in un appello pubblicato lo scorso 1° settembre, nel quale si fa anche memoria di «quei tristi anni di guerra in cui molti dei nostri si sono trovati in una situazione simile. Molti paesi e molte brave persone ci hanno aiutati allora». Pertanto, i leader esortano i membri delle loro comunità di fede «a essere compassionevoli e promuovere una cultura della benevolenza e dell’accoglienza, della fratellanza e della solidarietà». Pubblichiamo l’appello in una nostra traduzione dall’inglese (www.ika.hr). Cari concittadini, cari membri delle nostre comunità di fede, siamo testimoni di una crisi umanitaria enorme e indicibilmente dolorosa. Milioni di persone sono state cacciate dalle proprie case in Siria e in Iraq. Molte dall’Africa stanno cercando sicurezza in Europa. Le immagini strazianti dei profughi che entrano in Macedonia e Serbia per poi cercare di entrare nell’Unione Europea attraverso il confine ungherese sono motivo di preoccupazione e affanno. La Repubblica di Croazia potrebbe presto essere messa a dura prova. Pertanto, desideriamo incoraggiarvi affinché tutti insieme siamo in grado di fare del bene. Accogliere i rifugiati è il dovere di ogni persona. Papa Francesco ha recentemente affermato che respingere i rifugiati è come un atto di guerra. I rifugiati sono, infatti, nostri fratelli e sorelle che cercano casa lontano dalla propria patria per poter vivere senza paura. Non dimentichiamo, cari concittadini, che la dignità umana deve essere sempre rispettata. Ricordiamo, inoltre, quei tristi anni di guerra in cui molti dei nostri si sono trovati in una situazione simile. Molti paesi e molte brave persone ci hanno aiutati allora. Esortiamo, pertanto, innanzitutto i membri delle nostre comunità di fede, a essere compassionevoli e promuovere una cultura della benevolenza e dell’accoglienza, della fratellanza e della solidarietà. Insieme alle autorità croate, alle associazioni civili e alle organizzazioni internazionali, faremo ogni sforzo per rispondere alle esigenze dei rifugiati. Metteremo tutte le nostre risorse disponibili a loro disposizione per dimostrare che siamo persone in grado di riconoscere i fratelli e le sorelle in grave difficoltà. Cerchiamo di restare uniti e aperti alle loro esigenze e difficoltà
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che ci ricordano il dolore e il dramma dell’umanità: queste persone sono costrette a vivere in circostanze difficili e degradanti, senza la possibilità di iniziare una vita dignitosa. Aiutarli, accompagnarli e proteggerli sono degli imperativi in questo momento. Aiutarli in realtà significa entrare in empatia con i loro problemi. Prima di tutto, è necessario trattarli con umanità, dimostrare la nostra vicinanza e solidarietà con loro. Aiutare i rifugiati e gli sfollati significa anche accettare le loro richieste di giustizia e di speranza, e cercare insieme percorsi concreti di liberazione. Tuttavia, il mero accettare i rifugiati non è sufficiente. L’amore autentico che Dio ci elargisce e a cui ci chiama implica la giustizia e ciò significa aiutare i poveri a trovare un modo per non essere più poveri, cosa che significa pasti e alloggi nei centri di accoglienza. Significa anche accompagnare i rifugiati e gli sfollati fino a che non sentano e vivano l’esperienza che i loro diritti di lavorare e vivere una vita dignitosa sono stati riconosciuti. Dio ci chiama all’accettazione generosa e coraggiosa in queste circostanze difficili. Siamo consapevoli che questo non è né facile né semplice. Tuttavia, è necessario avere coraggio. Infatti, stiamo già facendo molto, ma forse potremmo essere chiamati a fare ancora di più. Accogliamo e condividiamo ciò che l’amore di Dio ci ha dato. Cerchiamo di essere vicini agli umili, soprattutto ai più piccoli e ai più indifesi. Sono necessarie persone con cuore grande e comunità solidali, che manifestino il loro amore in modi concreti! Siamo certi che questa prova e l’amore concreto che ciò richiede da noi ci renderà persone migliori e una società migliore. Grazie a tutti per la bontà del vostro cuore generoso e possa la benedizione di Dio posarsi su di voi! Zagabria, 1 settembre 2015. ✠ Želimir Puljić, arcivescovo di Zagabria, presidente della Conferenza episcopale croata Porfirije Perić, metropolita serbo ortodosso di Zagabria-Lubiana Giorgio Grlj, presidente del consiglio evangelico protestante Luciano Moše Prelević, rabbi della comunità ebraica di Zagabria Kotel Da Don, rabbi della comunità ebraica Bet Israel di Zagabria Aziz Hasanović, presidente della comunità islamica in Croazia
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stessa esperienza di comunità e persone presenti in Italia e provenienti dai paesi dei richiedenti asilo e rifugiati). – Formazione, volta a: preparare chi accoglie (parrocchie, associazioni, famiglie) con strumenti adeguati (lettera, incontro comunitario, coinvolgimento delle realtà del territorio…); costruire una piccola équipe di operatori a livello diocesano e di volontari a livello parrocchiale e provvedere alla loro preparazione non solo sul piano sociale, legale e amministrativo, ma anche culturale e pastorale, con attenzione anche alle cause dell’immigrazione forzata. A tale proposito Caritas e Migrantes a livello regionale e diocesano sono invitate a curare percorsi di formazione per operatori ed educatori delle équipe diocesane e parrocchiali. 4. Le forme dell’accoglienza
Le Chiese in Italia sono state pronte nell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, in collaborazione con le istituzioni pubbliche, adottando uno stile familiare e comunitario. L’azione di carità nei confronti dei migranti è un diritto e un dovere proprio della Chiesa e non costituisce esclusivamente una risposta alle esigenze dello stato, né è collaterale alla sua azione. Il gesto concreto dell’accoglienza è piuttosto un «segno» che indica il cammino della comunità cristiana nella carità. Per questo, la diocesi non si impegna a gestire i luoghi di prima accoglienza (CARA, HUB...), né si pone come soggetto diretto nella gestione di esperienze di accoglienza dei migranti. La Caritas diocesana, in collaborazione con la Migrantes, curerà la circolazione delle informazioni sulle modalità di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in parrocchie, famiglie, le comunità religiose, nei santuari e monasteri e raccoglierà le disponibilità all’accoglienza. La famiglia può essere il luogo adatto per l’accoglienza di una persona della maggiore età.2 L’USMI e il Movimento per la vita hanno dato la disponibilità della loro rete di case per accogliere 2 È possibile valorizzare in diocesi il progetto «Rifugiato a casa mia» di Caritas italiana (www.caritas.it), nonché l’esperienza del «rifugio diffuso» attiva, dal 2009, a Torino in cui è coinvolto l’Ufficio pastorale migranti di Torino o il progetto di accoglienza in famiglia in provincia di Parma (le esperienze di Torino e Parma sono anche i due progetti che al momento sono finanziati all’interno dello SPRAR e da cui si potrebbero ricavare le linee guida), e anche le esperienze di autogestione degli spazi, come si sta provando a fare nella diocesi di Torino.
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le situazioni più fragili, come la donna in gravidanza o la donna sola con i bambini. Dove accogliere
In alcuni locali della parrocchia; o in un appartamento in affitto o in uso gratuito; presso alcune famiglie; in una casa religiosa o monastero; negli spazi legati a un santuario, che spesso tradizionalmente hanno un hospitium o luogo di accoglienza dei pellegrini, acquisite le autorizzazioni canoniche ove prescritte. Pare sconsigliabile il semplice affidamento alle Prefetture di immobili di proprietà di un ente ecclesiastico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, per la problematicità dell’affidamento a terzi di una struttura ecclesiale senza l’impegno diretto della comunità cristiana. Chi accogliere
Le categorie di migranti che possono ricevere ospitalità in parrocchia o in altre comunità sono coloro che presentano queste caratteristiche: – una famiglia (preferibilmente); – alcune persone della stessa nazionalità che hanno presentato la domanda d’asilo e sono ospitati in un centro di accoglienza straordinaria; – chi ha visto accolta la propria domanda d’asilo e rimane in attesa di entrare in un progetto SPRAR, per un percorso di integrazione sociale nel nostro paese; – chi ha avuto una forma di protezione internazionale (asilo, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), ha già concluso un percorso nello SPRAR e non ha prospettive di inserimento sociale, per favorire un cammino di autonomia.3 Per i minori non accompagnati, il percorso di accoglienza è attivabile nello SPRAR. Per la delicatezza della tipologia di intervento, in termini giuridici, psicologici, di assistenza sociale, intrinseci alla condizione del minore non accompagnato, il luogo più adatto per la sua accoglienza non è la parrocchia, ma la famiglia affidataria o un ente accreditato come casa famiglia, in conformità alle norme che indicano l’iter e gli strumenti di tutela. Alla luce del fatto che 2 migranti su 3 nel 2014 e nel 2015, dopo lo sbarco sulle coste, hanno continuato il loro viaggio verso un altro paese europeo, nei luoghi di arrivo e di transito dei migranti (porti, stazioni ferroviarie in particolare...) potreb3 A questo proposito si segnala l’esperienza dei gesuiti del Centro Astalli di Roma (www.centroastalli.it).
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COMECE-KEK: una risposta politica comune
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umerose sono state nelle ultime settimane le prese di posizione da parte di Chiese e organismi ecumenici sulla crisi migratoria cui sta facendo fronte l’Europa. Lo scorso 18 settembre, dopo un incontro a Monaco di Baviera, anche i presidenti della Conferenza delle Chiese europee (KEK), il vescovo anglicano Christopher Hill, e della Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE), il card. Reinhard Marx, hanno pubblicato un comunicato congiunto che riprendiamo in una nostra traduzione dall’inglese (www.comece.eu). La famiglia europea delle nazioni si trova confrontata a una crisi umanitaria su una scala senza precedenti nella storia del dopoguerra. La guerra civile in Siria; l’estesa instabilità politica in altre aree del Medio Oriente; e una tragica povertà in molte aree dell’Africa subsahariana hanno forzato la migrazione verso Nord di due milioni di persone, molte delle quali traumatizzate dalla guerra, altre ridotte alla disperazione dalla povertà, in cerca di asilo o dell’opportunità di una vita migliore in Europa. La crisi dei migranti ha ricevuto un’ampia copertura da parte dei media; il mondo politico ha tentato in qualche modo di trovare soluzioni; le comunità religiose e la società civile in molti paesi d’Europa hanno risposto alla crisi, talvolta con sorprendente intensità e generosità, soprattutto verso coloro il cui bisogno era maggiore. La crisi rischia di sommergerci e la sofferenza di coloro che guardano
be essere valutato un primo servizio di assistenza in collaborazione con le associazioni di volontariato, i gruppi giovanili, l’apostolato del mare. I tempi
Mediamente il tempo dell’accoglienza varia da sei mesi a un anno per i richiedenti asilo o una forma di protezione internazionale. I tempi possono abbreviarsi per chi desidera continuare il proprio viaggio o raggiungere i familiari o comunità di riferimento in diversi paesi europei. In questo caso, potrà essere significativo, per quanto possibile, che la parrocchia trovi le forme per mantenere i contatti con i migranti anche durante il viaggio, fino alla destinazione. Il Regno -
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all’Europa per ottenere rifugio, asilo e l’opportunità di una vita migliore rischia di divenire più acuta – non ultimo per l’arrivo dell’inverno – se non si provvederà presto a dare alla crisi una risposta politica che, in misura proporzionata, sia sostenuta da tutti i paesi membri dell’Unione Europea. I leader cristiani di tutto il continente hanno fatto sentire la loro voce, facendo appello a un trattamento umano per i migranti; domandando agli stati membri di essere generosi nell’ospitalità; e chiedendo solidarietà a tutta l’Unione nell’accoglienza dei richiedenti asilo, in particolare dei più vulnerabili, come le famiglie con bambini e i minori non accompagnati. Noi, in qualità di presidenti dei due maggiori gruppi di comunità cristiane dell’Unione Europea, rinnoviamo il nostro appello a una risposta politica concertata e comune alla crisi e promettiamo che le Chiese che rappresentiamo faranno la loro parte, ad ogni livello, da quello parrocchiale a quello nazionale, abbracciando con generosità le due sfide gemelle di accogliere fratelli e sorelle che in condizioni disperate, da oltre le nostre frontiere, si volgono verso di noi in cerca di aiuto; e di fare di loro una parte integrale della società europea a cui noi apparteniamo. Monaco, 18 settembre 2015. ✠ Reinhard card. Marx, presidente della COMECE ✠ Christopher Hill, presidente del KEK
5. Gli aspetti amministrativi e gestionali dell’accoglienza
L’accoglienza di un richiedente asilo in diocesi, come in parrocchia e in famiglia, ha bisogno di essere preparata e accompagnata, sia nei delicati aspetti umani (sociali, sanitari...) come negli aspetti legali, da un ente (nelle grandi diocesi anche più enti) che curi i rapporti con la Prefettura di competenza. Per questo sembra auspicabile che in diocesi si individui l’ente capofila dell’accoglienza che abbia le caratteristiche per essere accreditato presso la Prefettura e partecipi ai bandi (una fondazione di carità, una cooperativa di servizi o comunque un braccio ope-
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rativo della Caritas diocesana o della Migrantes diocesana e non direttamente queste realtà pastorali; oppure un istituto religioso o un’associazione o cooperativa sociale d’ispirazione cristiana...). Questo ente seguirà con una équipe di operatori le pratiche per i documenti (domanda in Commissione asilo, tessera sanitaria, codice fiscale, domiciliazione o residenza nonché eventuale pocket money giornaliero...), i vari problemi amministrativi (come l’agibilità della struttura...) e anche l’eventuale esito negativo della richiesta d’asilo (ricorso, sostegno al viaggio di ritorno per evitare anche la permanenza in un CIE, fino agli eventuali documenti per un rientro come lavoratore migrante, a norma di legge). All’ente capofila, attraverso il coordinamento diocesano affidato alla Caritas o/e alla Migrantes diocesana, arriveranno le richieste di disponibilità dalle diverse realtà ecclesiali (parrocchie, famiglie, case religiose, santuari) ed esso curerà la destinazione delle persone. La parrocchia diventa, pertanto, una delle sedi e dei luoghi distribuiti sul territorio che cura l’ospitalità, aiutando a costruire attorno al piccolo gruppo di migranti o alla famiglia una rete di vicinanza e di solidarietà che si allarga anche alle realtà del territorio. L’impegno accompagna il migrante fino a che riceve la risposta alla sua domanda d’asilo, che gli consentirà di entrare in un progetto SPRAR o di decidere la tappa successiva del suo percorso. Dal punto di vista dell’accoglienza, si possono riconoscere percorsi diversi, a seconda delle condizioni e sensibilità. Opzione A. L’ospitalità in parrocchia di un richiedente asilo è un gesto gratuito, ma entra nella convenzione e nel capitolato che un ente gestore (di un centro di accoglienza straordinaria o di uno SPRAR) legato alla diocesi concorda con la Prefettura. La parrocchia sarà una delle strutture di ospitalità. Opzione B. La parrocchia che ospita un richiedente asilo riceverà un rimborso per l’accoglienza dall’ente gestore capofila, che entra come specifica voce nel bilancio parrocchiale. Opzione C. La parrocchia ospita gratuitamente, senza accedere ai fondi pubblici, chi esce dal centro di accoglienza straordinaria o dallo SPRAR. In tal caso non è necessario richiamare il ruolo delle Prefetture né le relative convenzioni, né prevedere un ente gestore. Infatti, si tratterebbe di attivare un sistema di accoglienza successivo a quello oggi in capo ai centri di accoglienza straordinaria e allo SPRAR. È sufficiente che una Caritas o/e una Migrantes diocesana, meglio se avvalendosi di enti gestori dove Il Regno -
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sono stati ospitati i richiedenti asilo, raccolga la disponibilità all’accoglienza e la faccia incrociare con l’esigenza di alloggio e sostegno di chi esce dai centri di accoglienza straordinaria o da uno SPRAR. 6. Gli aspetti fiscali e assicurativi
Le strutture o i locali di ospitalità in parrocchia devono essere a norma e la parrocchia deve prevedere l’assicurazione per la responsabilità civile. Se l’attività di accoglienza si svolge con caratteristiche che ai sensi della normativa vigente sono considerate commerciali si applica il regime generale previsto per tali forme di attività. 7. Nel riconoscimento del diritto di rimanere nella propria terra
L’accoglienza non può far dimenticare le cause del cammino e della fuga dei migranti che arrivano nelle nostre comunità: dalla guerra alla fame, dai disastri ambientali alle persecuzioni religiose. Giovanni Paolo II, seguendo il magistero sociale della Chiesa, ha ricordato che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale della pastorale per i migranti e i rifugiati, 9.10.1998). Da qui l’impegno a valorizzare le esperienze di cooperazione internazionale e di cooperazione missionaria, attraverso le proposte di Caritas italiana e di Missio, della FOCSIV e della rete dei missionari presenti nelle diverse nazioni di provenienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Nell’anno giubilare le Chiese in Italia si impegneranno a sostenere 1000 micro-realizzazioni nei paesi di provenienza dei migranti in fuga da guerre, fame, disastri ambientali, persecuzioni politiche e religiose. 8. Monitoraggio, verifica e informazione
L’esperienza di accoglienza chiede un monitoraggio in ogni diocesi e anche la cura dell’informazione sulle esperienze in atto. A livello nazionale è istituito presso la Segreteria generale della CEI un Tavolo di monitoraggio dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati a cui partecipano la Fondazione Migrantes, Caritas italiana, Missio, USMI, CISM, Movimento per la vita, Centro Astalli, l’As-
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sociazione papa Giovanni XXIII, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, l’Ufficio nazionale per i problemi giuridici, l’Ufficio nazionale per apostolato del mare, l’Osservatorio giuridico legislativo della CEI, valorizzando le diverse competenze delle singole realtà coinvolte. Il tavolo nazionale di monitoraggio prevederà incontri periodici con i ministeri competenti. A livello nazionale, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI predisporrà strumenti di raccolta dati e di esperienze, che possano mettere in comune il cammino e le esperienze di accoglienza nelle diocesi. 9. Verifiche
La Commissione episcopale per le migrazioni prevederà un incontro annuale con il Tavolo nazionale di monitoraggio per una verifica, così da preparare una relazione sulla situazione da presentare durante i lavori dell’Assemblea generale dei vescovi.
La CEI valuterà se e come assegnare un eventuale contributo alle diocesi, particolarmente bisognose, che hanno dovuto adeguare alcuni ambienti per renderli funzionali e idonei all’accoglienza. Roma, 13 ottobre 2015.
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lossario
Si configura come beneficiario di protezione sussidiaria colui che pur non rientrando nella definizione di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra necessita di una forma di protezione internazionale perché in caso di rimpatrio, nel paese di provenienza, sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenza generalizzata o per situazioni di violazioni massicce dei diritti umani. Il riconoscimento di protezione sussidiaria prevede un il rilascio permesso di soggiorno della durata di 5 anni, rinnovabile. Protezione internazionale
Convenzione di Ginevra
La Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, documento delle Nazioni Unite presentato all’Assemblea Generale nel 1951 e attualmente sottoscritto da 144 paesi, rimane ancora oggi un elemento cardine del diritto internazionale in materia d’asilo. Contiene la definizione di rifugiato che è in uso nella maggior parte dei paesi e sancisce il principio di non refoulement (non respingimento) che vieta agli stati firmatari di espellere o respingere alla frontiera richiedenti asilo e rifugiati. Richiedente asilo
Colui che, trovandosi al di fuori dei confini del proprio paese, presenta in un altro stato domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato. Tale iter concede un permesso di soggiorno regolare per Il Regno -
Rifugiato
Si configura come rifugiato la persona alla quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico in base ai requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra del 1951, cioè a colui che «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le suo opinioni politiche, si trova fuori dello stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato». Tale riconoscimento produce un permesso di soggiorno della durata di 5 anni, rinnovabile alla scadenza. Titolare protezione sussidiaria
10. Eventuali contributi
motivi di domanda d’asilo che scade con lo scadere dell’iter stesso. La procedura di vaglio della domanda d’asilo può portare al riconoscimento di uno status di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione umanitaria) o al suo rifiuto.
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Nel contesto dell’UE comprende lo status di rifugiato e quello della protezione sussidiaria. Titolare protezione umanitaria
Viene rilasciato un permesso di protezione umanitaria, della durata di 1 anno, rinnovabile, a chi, pur non rientrando nelle categorie sopra elencate, viene reputato come soggetto a rischio per gravi motivi di carattere umanitario in caso di rimpatrio. Tale riconoscimento è rilasciato dalle questure su proposta delle commissioni territoriali. Sfollato
Si configura come sfollato la persona o il gruppo di persone che sono state costrette a fuggire dal proprio luogo di residenza abituale, soprattutto in seguito a situazioni di conflitto armato, di violenza
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EKD: accogliere i rifugiati è un obbligo!
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ccogliere i rifugiati è un obbligo dal punto di vista umano e fa parte della nostra responsabilità di cristiani: con questo messaggio i leader (presidenti e vescovi) delle venti Chiese regionali protestanti della Germania, unite sotto la sigla della Chiesa evangelica in Germania (EKD), si sono rivolti all’opinione pubblica tedesca ed europea. Pubblichiamo di seguito il testo della dichiarazione, diffusa da Bruxelles lo scorso 15 settembre (www.riforma.it). «Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali!» (Sal 36,8) 1. Dio ama tutte le sue creature e vuole dare loro cibo, mezzi di sostentamento e una dimora su questa terra. Vediamo con preoccupazione come milioni di persone siano deprivati di questi buoni doni di Dio. Essi sono oppressi dalla fame, dalla persecuzione e dalla violenza. Molti di loro sono in fuga. Così essi sostano anche alle porte dell’Europa e della Germania. È un obbligo dal punto di vista umano, e per noi si tratta della nostra responsabilità di cristiani, accoglierli e consentire loro di godere di ciò che Dio ha predisposto per tutti gli esseri umani. 2. La persona umana è al centro di tutti gli sforzi. Molte persone in tutto il mondo sono in fuga. La grande sfida è di rendere giustizia a ciascun individuo. Nel loro stato di necessità i rifugiati mettono in pericolo la loro vita. È un dovere umanitario fare di tutto per salvare le persone dall’emergenza in mare e da altri pericoli. Bande disumane di trafficanti e strutture mafiose dentro e fuori l’Europa devono essere contrastate dalle forze di polizia. Il modo più efficace per ridurre i pericoli dei rifugiati in fuga è quello di trovare vie legali di accesso all’Europa. Richiediamo dunque corridoi umanitari legali per coloro che cercano protezione e auspichiamo un confronto su una legge per l’immigrazione che apra a nuove opportunità di immigrazione per le persone che cercano lavoro e una vita migliore. 3. La nostra società affronta una grande sfida ma anche le nostre forze sono ingenti. Siamo grati di tutto cuore per le svariate forme nelle quali si è
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pronti a fornire aiuto. Il nostro grazie di cuore va a tutte quelle persone – volontari o professionisti, delle Chiese, della società civile, vita pubblica e politica – che contribuiscono a creare una cultura dell’accoglienza e che con i loro sforzi indefessi e senza precedenti aiutano a far sì che i rifugiati vengano accolti e alloggiati prontamente e umanamente. Ci opponiamo fermamente a tutte le forme di xenofobia, odio o razzismo e a tutto ciò che contribuisce ad approcci disumani o a rendere questi ultimi atteggiamenti socialmente accettabili. Le preoccupazioni e l’ansia della gente riguardo alla gravosità del compito di accogliere così tanti rifugiati devono essere prese sul serio ma non devono essere usate impropriamente per creare un’atmosfera irrispettosa e ostile. 4. Come Chiese contribuiamo a disegnare forme di convivenza nella società. Perciò ci battiamo a favore di una cultura attiva dell’accoglienza e dell’integrazione; questo dovrebbe diventare un tema e un’attività centrali per le nostre comunità e organizzazioni ecclesiastiche. 5. Con preoccupazione constatiamo le cause che soggiacciono ai movimenti migratori: cambiamenti climatici, guerre, persecuzione, crollo di poteri statali, povertà estrema. La nostra società è spesso profondamente coinvolta in queste cause che favoriscono le migrazioni attraverso relazioni commerciali mondiali, fornitura di armi e in particolare attraverso uno stile di vita che sta esaurendo le risorse del pianeta. È venuto il momento di ravvedersi da tali comportamenti ingiusti. 6. Attraverso la nostra storia, noi in Germania siamo particolarmente consapevoli del dono che rappresenta il ricevere assistenza nel momento del bisogno e il trovare le porte aperte. Senza l’assistenza che ci è stata offerta in passato, oggi non saremmo in grado di aiutare altri con le risorse di cui ora disponiamo. Come leader ecclesiastici vogliamo sostenere l’Europa in un’azione comune e nell’adempimento dei suoi obblighi umanitari su base comune. Consapevoli che l’umanità trova rifugio all’ombra delle ali di Dio, portiamo i bisogni di tutte le persone di fronte a Dio e preghiamo per ottenere la forza per affrontare le sfide che ci troviamo dinanzi.
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generalizzata, di violazioni dei diritti umani o di disastri umanitari e ambientali e che non hanno attraversato confini internazionali. In inglese lo sfollato è definito internally displaced persons. Profugo
Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, invasioni, persecuzioni o catastrofi naturali. Migrante irregolare
Un migrante irregolare, comunemente definito come «clandestino», è colui che: – ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera nazionali; – è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso; – benché oggetto di un provvedimento di allontanamento non ha lasciato il territorio del paese che ha decretato il provvedimento stesso. Apolide
Un apolide è colui che non possiede la cittadinanza di nessuno stato. Si è apolidi per origine quando non si è mai goduto dei diritti e non si è mai stati sottoposti ai doveri di nessuno stato. Si diventa apolidi per derivazione a causa di varie ragioni conseguenti alla perdita di una pregressa cittadinanza e alla mancata acquisizione contestuale di una nuova. Le ragioni possono essere: – annullamento della cittadinanza da parte dello stato per ragioni etniche, di sicurezza o altro; – perdita di privilegi acquisiti in precedenza – come, ad esempio, la cittadinanza acquisita tramite matrimonio; – rinuncia volontaria alla cittadinanza. Rimpatriato
Si configura come rimpatriato colui che, titolare di una protezione internazionale, decide spontaneamente di fare ritorno nel paese di provenienza. Secondo la convenzione dell’Organizzazione dell’unità africana il paese di asilo deve adottare le misure appropriate per porre in essere le condizioni di sicurezza per il ritorno del rifugiato. Nessun rifugiato può essere rimpatriato contro la sua volontà. UNHCR e UNRWA
Con questi due acronimi ci si riferisce a due agenzie delle Nazioni Unite che lavorano rispettivamente per i rifugiati. La prima ha un taglio più ampio, è infatti l’agenzia delle Nazioni Unite per i Il Regno -
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rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees – Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Fu creata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1950 e di fatto, incominciò a operare il 1° gennaio 1951. La seconda è l’agenzia delle Nazioni Unite creata specificatamente per i rifugiati palestinesi nel 1948 (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East – Agenzia per il soccorso e l’occupazione). I centri
Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), centri di accoglienza (CDA), centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA), centri di identificazione ed espulsione (CIE). In particolare, i CARA sono strutture per richiedenti asilo che arrivino in Italia privi di documenti di identificazione, dove i richiedenti dovrebbero essere ospitati per un massimo di 20 giorni (in caso di assenza di documenti), o 35 giorni (in caso di tentata elusione dei controlli alla frontiera), per consentire l’identificazione e l’avvio delle procedure di riconoscimento dello status. Istituiti nel 2008, in sostituzione dei centri di identificazione (CID), dovrebbero essere sostituiti dagli Hub regionali. I centri di accoglienza straordinaria hanno cominciato a essere istituiti alla fine del 2013 e prevedono degli accordi tra le Prefetture e associazioni o privati cittadini per la gestione di posti di accoglienza assegnati in base a un bando o direttamente. SPRAR
Acronimo di Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati. Creato nel 2001, sulla base di un progetto del Programma nazionale asilo, è un sistema formato dagli enti locali italiani che mettono volontariamente a disposizione servizi legati all’accoglienza, all’integrazione e alla protezione dei richiedenti asilo e rifugiati. Il fine del sistema è di garantire un percorso di accoglienza integrata: il superamento della semplice distribuzione di vitto e alloggio per il raggiungimento della costruzione di percorsi individuali di inserimento socio economico. ENA
Acronimo di Emergenza Nord Africa: stato di emergenza umanitaria dichiarato a febbraio 2011 per l’arrivo di persone in fuga dall’Africa settentrionale. Ha creato a un percorso di ricezione e accoglienza parallelo, che è stato chiuso a fine febbraio 2013.
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Commissione territoriale
Per commissione territoriale si intende un organismo, nominato con decreto dal presidente del Consiglio dei ministri, composto da quattro membri (un rappresentante della prefettura con funzione di presidente, un funzionario della polizia di stato, un rappresentante di un ente territoriale e un rappresentante dell’UNHCR) che ha il ruolo di esaminare, valutare e decidere circa le domande di asilo presentate presso le questure italiane. Lo strumento utilizzato per tali valutazioni è l’audizione cioè un colloquio personale fra i membri della commissione e il richiedente asilo. La commissione a seguito dell’audizione può decidere di: a) riconoscere lo status di rifugiato politico, di protezione sussidiaria o di protezione umanitaria; b) non riconoscere tali status e quindi rigettare la domanda per manifesta infondatezza. Regolamento Dublino
Convenzione europea, stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello stato membro competente per l’esame della domanda d’asilo presentata in uno degli stati dell’Unione. In linea generale, il regolamento prevede che l’esame della domanda d’asilo sia di competenza del primo paese dell’Unione in cui il richiedente asilo abbia fatto ingresso. Stilato nel 1990 è stato modificato e aggiornato nel 2003 (Dublino II). Una nuova versione è stata pubblicata nel 2013 ed è effettiva dal 1° gennaio 2014 (Dublino III). I casi soggetti al Regolamento Dublino
Si configurano come casi soggetti alla procedura Dublino le sospensioni degli esami delle domande di asilo di coloro che avendo fatto domanda di asilo in un paese dell’area Schengen, senza averne il diritto legittimo, vengono reputati di competenza di un altro paese di detta area secondo il testo del regolamento Dublino III. Una volta determinata la natura Dublino il richiedente viene trasferito nel paese competente. Eurodac
Il termine indica l’European dactyloscopie, cioè il database europeo con sede a Lussemburgo
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per il confronto delle impronte digitali che rende possibile l’applicazione della convenzione di Dublino. Frontex
Frontex è il nome dell’agenzia europea per il coordinamento della cooperazione fra i paesi membri in tema di sicurezza delle frontiere. Questa agenzia, diventata operativa nel 2005 con sede a Varsavia, è il risultato di un compromesso tra i detentori della comunitarizzazione della sorveglianza delle frontiere esterne e gli stati membri, preoccupati di conservare le proprie prerogative sovrane in questo ambito. Infatti il consiglio di amministrazione di Frontex è composto da un rappresentante di ciascun stato membro e da due rappresentanti della Commissione Europea. Le attribuzioni di Frontex sono molteplici, la più mediatizzata è il coordinamento delle operazioni di controllo della frontiera esterna dell’Unione Europea nei punti ritenuti particolarmente «a rischio» in termini di migrazione. Mare Nostrum
L’operazione militare e umanitaria voluta dal governo italiano a partire dall’ottobre 2013 (poco prima c’era stato un naufragio dove avevano perso la vita più di 300 persone) e durata sino a novembre del 2014 nel mare Mediterraneo meridionale, che ha avuto come mandato la duplice missione sia di salvare la vita di chi si trovava in pericolo in quel pezzo di mare sia di provare a identificare e fermare i trafficanti umani. Triton
Ha sostituito nel novembre del 2014 l’operazione Mare Nostrum, ed essendo sotto la direzione di Frontex aveva inizialmente un mandato di sicurezza cioè doveva coordinare le operazioni di controllo dell’immigrazione irregolare alle frontiere marittime esterne del Mediterraneo; solo nel maggio 2015 (dopo un grande naufragio dove hanno perso la vita quasi 800 persone) il suo mandato e il suo raggio di azione si sono ampliati includendo la salvaguardia delle vite in mare in pericolo e agendo sino a 138 miglia dalle coste.
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sinodo sulla famiglia
Problema spinoso e complesso
Walter Kasper sull’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati
1. Un problema spinoso e complesso
«La questione dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti non è un problema nuovo e non è un problema tedesco». Esordisce così il card. Kasper introducendo il saggio da lui dedicato a un problema «spinoso e complesso», pubblicato su Stimmen der Zeit nel luglio scorso. Collocata nel paradigma teologico dell’alleanza, la comprensione del matrimonio cristiano considera la possibilità del «fallimento», senza rinunciare all’indissolubilità (fondata nel patto stabilito da Dio in Gesù con la Chiesa). Tale concezione, che «non deve portare a un’idealizzazione estranea alla vita», pone una Chiesa che si comprende come sacramento della misericordia nella necessità di «accompagnare su un nuovo cammino e dare nuova speranza a persone che nel loro matrimonio hanno dolorosamente fallito». Argomentando l’insufficienza della «comunione spirituale» come via di uscita, Kasper propone – «in linea con la comprensione del matrimonio di Tommaso e della tradizione che a lui si richiama» – l’esplorazione della via paenitentialis, «accompagnata da un esperto confessore» e posta, secondo l’antica prassi della Chiesa, «sotto l’autorità del vescovo». Nella convinzione che il problema non ammetta «alcuna soluzione generale, ma solo soluzioni singolari». Stimmen der Zeit (2015)7, 435-445; traduzione dal tedesco a cura del Cenacolo degli amici di papa Francesco (www.eancheilpaparema.it).
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La questione dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti non è un problema nuovo e non è un problema tedesco. La discussione attorno a tale questione si sviluppa da anni a livello internazionale.1 Papa Giovanni Paolo II si è pronunciato in proposito nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (1982), n. 84, a favore della prassi ecclesiale vigente. Nell’esortazione Reconciliatio et paenitentia (1984), n. 34, ha ribadito espressamente questa posizione. Essa è entrata nel Catechismo della Chiesa cattolica (1993), n. 1650, e nella Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 1994.2 Papa Benedetto l’ha confermata nella sua esortazione apostolica Sacramentum caritatis del 2007, n. 29. Papa Giovanni Paolo II ha parlato di una questione difficile e quasi insolubile, papa Benedetto di un problema difficile e spinoso. Non è quindi sorprendente che la discussione sulla questione da allora non si sia placata. Essa non riguarda solo i cristiani che ne sono toccati immediatamente, ma anche molti cristiani praticanti e impegnati che sono sposati da cinquant’anni o più, non hanno mai pensato al divorzio, ma sperimentano ora dolorosamente il problema nei loro figli e nipoti. I loro figli, a loro volta, nella maggior parte dei casi, solo con difficoltà riescono a trovare la via che li conduce ai sacramenti, se i loro genitori non possono dare loro l’esempio. Non c’è quasi nessuna famiglia che non 1
La discussione è riassunta in K. Lehmann, Gegenwart des Glaubens, Matthias Grünewald, Mainz 1974, 274-294; 295308; W. Kasper, Zur Theologie der christlichen Ehe, Matthias Grünewald, Mainz 1977, 55-83. 2 Cf. Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati, 14.9.1994. Cf. R. Voderholzer (a cura di), Zur Seelsorge wiederverheiratet Geschiedener. Dokumente, Kommentare und Studien der Glaubenskongregation, Echter, Würzburg 2014; con una Introduzione di J. Ratzinger-Benedetto XVI.
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sia toccata da questi problemi. È dunque comprensibile che il problema sia avvertito come scottante da molti pastori e confessori, teologi e vescovi. Come ci si poteva attendere, la questione si è accesa di nuovo ed è stata oggetto di controversie alla vigilia e nel corso del Sinodo straordinario dei vescovi del 2014.3 Il Sinodo ordinario del 2015 deve portare a termine la discussione delle questioni e presentarle al papa perché prenda una decisione. Nelle considerazioni seguenti cerco soltanto di chiarire e di approfondire la problematica, per quanto mi è possibile. 2. La parola di Gesù: vincolante e sfida sempre nuova
Fondamentale è la parola di Gesù che l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. Questa parola si trova in tutti e tre i Vangeli sinottici (cf. Mt 5,32; 19, 9; Mc 10,9; Lc 16,18), ed è testimoniata anche dall’apostolo Paolo (cf. 1Cor 7,10s).4 Non può esservi dubbio ragionevole che questa parola nella sua sostanza risale a Gesù. Nella sua inaudita radicalità questa parola non fa difficoltà solo oggi. Già i primi discepoli sono stati scioccati e per il mondo ellenistico-romano del tempo era assolutamente una provocazione. Allora come oggi non possiamo indebolire la parola di Gesù attraverso l’adattamento alla situazione. Con questa parola, che si rifà a Dt 24,1, Gesù ha respinto la casistica giudaica e in tal modo ha rigettato anche qualsiasi altra spiegazione casuistica 3 Nella
mia relazione Il Vangelo della famiglia (Queriniana, Brescia 2014) ho trattato il problema dei divorziati risposati solo brevemente nell’ultimo capitolo. In questo modo intendevo dare uno stimolo alla discussione, non anticipare la soluzione. Queste considerazioni hanno incontrato assenso e critica. Di seguito discuto le critiche non direttamente, solo indirettamente, chiarendo la mia posizione rispetto ai fraintendimenti che ha incontrato, sviluppando e approfondendo le mie riflessioni. 4 La discussione esegetica sulla parola di Gesù è ormai difficile da dominare. Sulla discussione antica cf. la nota 1. Un panorama della discussione recente in U. Luz, Das Evangelium nach Matthäus, Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament (EKK), vol. I/1, 52005, 346-369 e vol. I/3, 1997, 88-103. Da allora sono apparsi innumerevoli studi. In questo contesto ci dobbiamo limitare a rinviare a pochi contributi: M. Graulich, M. Seidnader (a cura di), Zwischen Jesu Wort und Norm. Kirchliches Handeln angesichts von Scheidung und Wiederheirat, Herder, Freiburg i.Br. 2014, con i contributi di D. Markl e Th. Söding; G.I. Gargano, «Il mistero delle nozze cristiane. Tentativo di approfondimento biblico- teologico», in Urbaniana University Journal 67(2014)3, 61-73.
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o eccezione alla volontà originaria di Dio. La parola di Gesù non è quindi una norma giuridica, ma un principio fondamentale che la Chiesa, con la potestà che le è affidata di legare e sciogliere (cf. Mt 16,19; 18,18; Gv 20,23), deve far valere nelle situazioni culturali che cambiano. La parola di Gesù non deve perciò essere spiegata in modo fondamentalistico. Bisogna cogliere tanto il limite quanto l’ampiezza della parola di Gesù, comprenderla nell’insieme del messaggio e rimanere fedeli alla parola di Gesù senza dilatarla oltre misura.5 Questa spiegazione autorevole la troviamo già in epoca neotestamentaria: nelle ben note clausole sull’adulterio per la comunità giudaica di Matteo (cf. Mt 5,32; 19,9); e poi di nuovo in Paolo, che in un contesto etnico-cristiano decide con autorità apostolica per la libertà cristiana che deve valere nel matrimonio con un non credente, il quale non voglia vivere in maniera conveniente con il coniuge cristiano (cf. 1Cor 7,12-16). Su questa base si sono sviluppati più tardi il privilegium paulinum e il privilegium petrinum, così come la possibilità di sciogliere, in virtù della potestà di legare e sciogliere, un matrimonio sacramentale concluso validamente, ma non consumato. In questo contesto si può comprendere la prassi pastorale flessibile di alcune Chiese locali nella Chiesa delle origini. L’interpretazione dei testi relativi è controversa tra gli specialisti.6 Su nessuna di queste ipotesi è possibile costruire una soluzione ecclesiale oggi. È tuttavia interessante il fatto che ai padri di Trento il problema fosse noto. Essi hanno perciò insegnato, contro Lutero, che la Chiesa non sbaglia quando non riconosce un secondo matrimonio (Denz 1807), ma intenzionalmente non hanno condannato la diversa prassi ortodossa.7 In Ratzinger. Gesammelte Schriften, vol. 4, Herder, Freiburg i.Br. 2014, 617; cf. 589-591; 633s. Questo vale anche se J. Ratzinger-Benedetto XVI alla fine giunge a una diversa conclusione pratica. 6 Cf. la letteratura nella nota 1; in particolare H. Crouzel, L’Église primitive face au divorce: Du premier au cinquième siècle, Beauchesne, Paris 1971; diversamente G. Cereti, Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, EDB, Bologna 1977 (32013); Id., Divorziati risposati. Un nuovo inizio è possibile?, Assisi 22014. Non faccio mia in alcun modo la posizione di G. Cereti in termini generali. Ma non posso concordare con presentazioni apologetiche che depotenziano testi che contraddicono la prassi attuale, introducendo in essi con un corto circuito teorie decisamente posteriori. 7 K. Ganzer lo ha messo di nuovo in evidenza sulla base della storia del testo del canone 7 del decreto sul sacramento del matrimonio (Denz 1807): Absolute Unauflöslichkeit der Ehe auf dem Konzil von Trient? Zur Frage einer neuen Eheschließung bei Ehebruch auf dem Konzil, München-Würzburg 2015. In questo 5 Joseph
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tal modo essi hanno insegnato l’indissolubilità del matrimonio concluso validamente (Denz 1797s.; cf. Denz 794; 3710s), ma non l’hanno definita formalmente.8 Essa è però dottrina di fede vincolante, che stimola la riflessione ed è sempre una nuova sfida. 3. Il matrimonio: un segno frammentario dell’alleanza
Il Vaticano II ha raccolto la sfida. Ha superato la comprensione del matrimonio come contratto, sviluppata in linea con il diritto romano, e ha compreso il matrimonio in modo analogo a quanto già aveva fatto Tommaso d’Aquino9 con la teologia biblica dell’alleanza come intima comunione di vita e di amore, in cui i coniugi si donano e si ricevono reciprocamente (cf. Gaudium et spes, n. 47). Con questa complessiva comprensione personale il matrimonio, richiamandosi a Ef 5,25, viene interpretato come immagine sacramentale della relazione d’alleanza tra Cristo e la Chiesa. Di conseguenza la relazione tra l’uomo e la donna deve seguire il modello della relazione tra Cristo e la Chiesa. Questa dottrina del matrimonio fondata nell’idea biblica di alleanza è diventata il criterio per l’insegnamento ecclesiale e la teologia recente. Da essa risulta una giustificazione più profonda dell’indissolubilità del matrimonio. Come il patto stabilito da Dio in Gesù Cristo con la Chiesa è definitivo e irrevocabile, così è anche il patto coniugale in quanto simbolo reale di questa alleanza.10 studio si è riferito alle ricerche di L. Bressan, Il canone tridentino sul divorzio per l’adulterio e l’interpretazione degli autori, Analecta Gregoriana, Roma 1973; e di H. Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, Herder, Freiburg i.Br. 1951-1975, vol. III, 141-161; vol. IV/2, 96-121, in particolare 108 ss. 8 Diekamp-Jüssen e Pohle-Gummersbach parlano di una sententia fidei proxima, L. Ott solo di una sententia certa. 9 Cf. lo studio dettagliato di A. Oliva, «Essence et finalité du mariage selon Thomas d’Aquin. Pour un soin pastoral renouvelé», in Revue des sciences philosophiques et théologiques 98(2014), 601-668 (cf. anche A. Oliva, «L’amore al centro. Riflessioni sull’accesso all’eucaristia dei divorziati risposati a partire da san Tommaso», in Regno-att. 8,2015,517-519 – ndr). 10 Cf. Giovanni Paolo II, es. ap. Familiaris consortio, nn. 12s.; Benedetto XVI, es. ap., Sacramentum caritatis, n. 27 e altri. Per la recezione teologica mi limito a rimandare a due autori di diverso orientamento: E. Schockenhoff, Chancen der Versöhnung. Die Kirche und die wiederverheiratet geschiedenen, Herder, Freiburg i.Br. 2011, 73-98; M. Ouellet, Die Familie Kirche im Kleinen. Eine trinitarische Anthropologie, Johannes Verlag, Einsiedeln 2013; Id., Mistero e sacramento dell’amore. Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova evangelizzazione, Cantagalli, Siena, 2007; Id., «Ehe und Familie im Rahmen der Sakramentalität. Herausforderungen und Perspektiven», in Communio 43(2014), 413-428.
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È una concezione grandiosa e convincente. Non deve tuttavia portare a un’idealizzazione estranea alla vita. Nella Lettera agli Efesini si dice che Cristo ha amato la Chiesa, si è donato per lei e l’ha resa pura e santa nell’acqua e mediante la Parola, così che essa gli stia di fronte gloriosa, senza macchia né ruga, santa e immacolata (cf. Ef 5,24-27). Questa non è la descrizione di una situazione, ma espressione di una promessa escatologica, verso la quale la Chiesa è sempre in cammino. Nel suo pellegrinaggio terreno, infatti, la Chiesa può realizzare ciò che essa è, cioè la Chiesa santa, solo in modo frammentario. Come Chiesa santa è anche la Chiesa dei peccatori, che talvolta si presenta come prostituta infedele e che sempre deve percorrere la via della conversione, del rinnovamento e della riforma (cf. Lumen gentium, n. 8; Unitatis redintegratio, n. 4). Questo vale anche per il matrimonio cristiano. Esso è un grande mistero (mysterion) in relazione a Cristo e alla Chiesa (cf. Ef 5,32). E tuttavia non può mai realizzare nella vita questo mistero in modo pieno, ma sempre e solo in forma frammentaria. In questo senso, sotto molti aspetti, è un segno frammentario dell’alleanza. I coniugi rimangono in cammino e sono sotto la legge della gradualità (cf. Familiaris consortio, nn. 9 e 34). Hanno sempre bisogno della conversione e della riconciliazione e sono sempre di nuovo rinviati al Dio ricco di misericordia (cf. Ef 2,4; Familiaris consortio, n. 38). Il dramma può giungere fino al punto che anche i cristiani possono fallire nel loro matrimonio. Questo fallimento è sempre una catastrofe umana, in cui un progetto di vita con tutte le sue speranze va incontro alla delusione e s’infrange. Un tale fallimento fa parte anche della teologia biblica dell’alleanza. Nel modo più drammatico si fa evidente nel profeta Osea. In primo luogo, egli constata che Israele è diventato una prostituta; Dio ha definitivamente rotto il patto (cf. Os 1,9; 2,4-15). Ma la giusta ira di Dio lascia il posto alla misericordia. Egli lascia al suo popolo un nuovo inizio (cf. Os 11,8s; 2,16-25). Di fronte al messaggio di Gesù il popolo nuovamente rifiuta nella sua totalità. La critica di Gesù a questa durezza di cuore è chiara. Ma in seguito Gesù fonda, come nostro rappresentante, con la sua croce e la sua risurrezione, la nuova alleanza. Egli dona il cuore nuovo promesso dai profeti (cf. Ez 36,6s.; Ger 31,33; Sal 51,12). La durezza di cuore perdura tuttavia nella peccaminosità dei cristiani. Ma Dio resta fedele, anche quando noi siamo infedeli. La sua misericordia è senza limiti. Una teologia realistica del matrimonio deve considerare questo fallimento così come la possibilità del
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perdono.11 Anche nel fallimento umano perdura la promessa della fedeltà e della misericordia di Dio. In questo senso la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio diviene di nuovo attuale. Essa non è un semplice ideale. Il sì di Dio perdura anche quando il sì umano si indebolisce o addirittura s’infrange. Esso appartiene in modo permanente alla storia della libertà dei coniugi. Il patto coniugale stabilito da Dio stesso non s’infrange anche se l’amore umano s’indebolisce o si spegne del tutto. E tuttavia, anche in situazioni di fallimento umano nel matrimonio, la situazione non è mai senza prospettiva e senza speranza. Anche in situazioni nelle quali noi non vediamo alcuna via d’uscita, Dio può aprire una via nuova. La misericordia di Dio è affidabile, se solo noi ci affidiamo a essa.12 Una tale teologia realistica dell’alleanza, che per così dire resiste alla crisi, pone la Chiesa di fronte alla questione: come può essa, che si comprende come sacramento della misericordia di Dio, accompagnare su un nuovo cammino e dare nuova speranza a persone che nel loro matrimonio hanno dolorosamente fallito? 4. La comunione spirituale: una via d’uscita?
Riguardo alla situazione di un matrimonio fallito, anche di divorziati risposati, la Chiesa non si trova davanti a un nulla pastorale. I documenti ecclesiali recenti chiedono con forza di accostarsi alle persone che si trovano in tali situazioni dolorose e di invitarle alla partecipazione alla vita della Chiesa (cf. Familiaris consortio, nn. 83s; Sacramentum caritatis, n. 29). Spesso si cerca di aprire loro un cammino con Cristo, anzi in Cristo, attraverso l’idea di comunione spirituale.13 Con il concetto della comu11 Schockenhoff,
Chancen der Versöhnung, 99-125. 12 Cf. in proposito le numerose affermazioni di papa Francesco, in particolare nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013) e nella bolla Misericordiae vultus (2015). 13 Cf. J. Auer, «Geistige Kommunion. Sinn und Praxis der communio spiritualis und ihre Bedeutung für unsere Zeit», in Geist und Leben 24(1951), 113-132; L. de Bazelaire, «Communion spirituelle», in Dictionnaire de Spiritualité 22(1953), 12941301; H.R. Schlette, Kommunikation und Sakrament, Herder, Freiburg i.Br. 1959 (con molta letteratura precedente); R. Taft, «Receiving Communion. A Forgotten Symbol?», in Worship 57(1983), 412-418; B.D. de La Soujeole, «Communion sacramentelle et communion spirituelle», in Nova et Vetera 86(2011), 146-153; P.J. Keller, «Is Spirituelle Communion for Everyone?», in Nova et Vetera (ed. ingl.) 12(2014), 631-655; G. Pani, «La comunione spirituale», in La Civiltà cattolica 166(2015), vol. II, n. 3957, 224-237; P.J. Cordes, Geistige Kommunion befreit vom Staub der Jahrhunderte, Fe-Medien, Kißlegg 2014.
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nione spirituale si recupera un tema tradizionale che è purtroppo caduto in oblio. Nei documenti del Vaticano II e nel Catechismo della Chiesa cattolica, purtroppo, esso non viene menzionato; solo nei documenti magisteriali più recenti viene ripreso di nuovo14 e spesso inteso come una via d’uscita che permette di compiere un passo in avanti nella spinosa questione dei divorziati risposati.15 La tradizione della comunione spirituale è fondata già nel grande discorso sul pane di vita del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni e poi nella sua interpretazione da parte di Agostino.16 Qui è il pane della vita che è Gesù Cristo, del quale diventiamo partecipi nella fede. Nel Medioevo la dottrina della comunione spirituale si trova soprattutto in Tommaso d’Aquino.17 Il concilio di Trento l’ha ripresa nell’insegnamento magisteriale (Denz 1648; 1747). Ne risulta un triplice significato: il desiderio della comunione sacramentale (comunione in voto o cum desiderio); la recezione spirituale della comunione sacramentale (manducatio spiritualis), a differenza della recezione indegna o solo esteriore (manducatio mere sacramentalis); e infine il rendere fruttuosa la comunione sacramentale facendola propria mediante atti di pietà personale e in particolare nell’adorazione eucaristica. Compresa correttamente la comunione spirituale non è una forma alternativa rispetto alla comunione sacramentale, ma è essenzialmente riferita alla comunione sacramentale. L’applicazione alla situazione dei divorziati risposati appare perciò problematica. Si raccomanda, in questo modo, una via alternativa alla comunione sacramentale? Affatto. Ciò infatti sarebbe in contraddizione con l’autocomprensione sacramentale della Chiesa cattolica come sacramento visibile, cioè come segno e stru14 Cf.
Giovanni Paolo II, lett. enc. Ecclesia de eucaristia (2003), n.34; Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 55. Il catechismo cattolico per gli adulti tedesco Das Glaubensbekenntnis der Kirche (1985), p. 357, da questo punto di vista, ha anticipato lo sviluppo. 15 Dapprima da parte della Congregazione per la dottrina della fede (cf. Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati, n. 7, nota 2); Benedetto XVI, durante il VII Incontro mondiale delle famiglie a Milano (1-3.6.2012), ha affermato, in riferimento ai divorziati risposati: «Anche senza recezione “corporale” del sacramento, possiamo essere uniti spiritualmente con Cristo nel suo corpo». 16 R. Schnackenburg, «Geistliche Kommunion und Neues Testament», in Geist und Leben, 23(1952), 407-411; Agostino, In Evangelium Ioannis, Tractatus 25, nn. 11s; PL 35. 17 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 80, aa. 1 e 2.
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mento della grazia. A ciò si aggiunge che chi riceve la comunione spirituale, e nella fede è unito a Cristo, non può trovarsi al tempo stesso nello stato di peccato grave. Perché allora non può partecipare anche alla comunione sacramentale? L’applicazione della comunione spirituale al problema dei divorziati risposati, se si presuppone la comprensione tradizionale, porta in un vicolo cieco.18 Questa via è invece possibile se tacitamente si suppone un altro significato della comunione spirituale. In questo nuovo significato la comunione spirituale non designa il desiderio della comunione sacramentale che nasce dall’essere uniti a Cristo nella fede, ma un desiderio nel quale il cristiano che vive in una situazione irregolare prende coscienza della sua separazione da Cristo e diviene consapevole che il suo desiderio, finché non modifica in modo fondamentale la sua situazione, non può essere soddisfatto. Così compresa la comunione spirituale può diventare un salutare impulso alla metanoia. Una tale nuova comprensione è dunque oggettivamente possibile. Porta tuttavia inevitabilmente con sé equivoci terminologici. La tradizione della Chiesa ci può raccomandare una via non esposta al rischio di equivoci. 5. Per un rinnovamento della via paenitentialis
La Chiesa antica ha sperimentato dolorosamente assai presto, già nel tempo della persecuzione, che i cristiani possono fallire. Nel tempo della persecuzione molti cristiani si sono dimostrati deboli e hanno rinnegato il loro battesimo. Ciò ha portato, dopo la persecuzione, a una vivace discussione circa il modo in cui la Chiesa doveva comportarsi di fronte a tale situazione. Padri della Chiesa in Oriente e Occidente hanno difeso – contro il rigorismo di Novaziano, che proponeva l’ideale della Chiesa come vergine pura – l’immagine della Chiesa come madre misericordiosa, le cui porte sono sempre aperte al peccatore disposto alla conversione. Essi hanno sviluppato la penitenza canonica, compresa come secondo battesimo non nell’acqua ma nelle lacrime del pentimento e della penitenza. In questo modo la Chiesa ha preso sul serio la sua autorità di rimettere 18 A
proposito di questo vicolo cieco, non ho criticato la comunione spirituale in quanto tale, ma la sua equivoca applicazione al problema dei divorziati risposati. La pratica della comunione spirituale in se stessa è senza dubbio spiritualmente fruttuosa e necessita urgentemente di essere rinnovata in una nuova fase del movimento liturgico.
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i peccati e il suo ministero della riconciliazione (cf. 2Cor 5,20). Mediante il sacramento della riconciliazione essa ha concesso dopo il naufragio del peccato non un secondo battesimo ma, per così dire, una tavola di salvezza che salva dall’annegamento e rende possibile la sopravvivenza.19 Alcuni padri hanno applicato un procedimento simile anche a cristiani che avevano rotto il loro legame matrimoniale, vivevano in una seconda unione e mediante la via della penitenza erano riconciliati e ammessi alla comunione.20 La Chiesa orientale ha proseguito su questa via.21 Nel quadro di una liturgia penitenziale essa ha permesso un secondo e anche un terzo matrimonio che – benché il segno della «incoronazione» sia il medesimo – comprende non come sacramento, ma come benedizione. Inoltre, essa ha recepito dal diritto imperiale bizantino ulteriori motivi per il divorzio, che vanno al di là delle clausole sulla fornicazione in Matteo. Determinante per questa prassi è il principio dell’oikonomia, che si ispira al modo misericordioso di agire di Dio nella storia della salvezza. La Chiesa occidentale non ha fatto propria questa prassi, ma ha sviluppato un proprio diritto matrimoniale indipendente dal diritto imperiale bizantino. Si discute spesso se la Chiesa occidentale debba far propria la prassi ortodossa. Certamente essa può imparare dalla comprensione ortodossa dell’oikonomia. E tuttavia un ulteriore sviluppo del suo diritto matrimoniale dovrà avvenire nella linea della propria tradizione giuridica, che non conosce una forma liturgica per il secondo matrimonio. Nella tradizione occidentale l’oikonomia orientale corrisponde invece, sotto molti punti di vista, al principio dell’epikeia.22 Nel significato che le attribuisce Tommaso d’Aquino non è un diritto di eccezione né una cessazione della vigenza del diritto, ma è la 19 Cf. in proposito le note ricerche di B. Poschmann, K. Rahner, H. Vorgrimler e altri. 20 Questa è la posizione di un padre dell’importanza di Basilio di Cesarea. Cf. in proposito Joseph Ratzinger. Gesammelte Schriften, vol. 4, 600-606. Un’analoga proposta recente: Th. Michelet, «Synode sur la famille: la voie de l’ordo paenitentium», in Nova et Vetera 90(2015)1. 21 Cf. B. Petrà, Divorziati risposati e seconde nozze nella Chiesa. Una nuova soluzione, Cittadella, Assisi 2012; Id., Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Cittadella, Assisi 2014. 22 Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II-II, qq. 120s; cf. G. Virt, Epikie – Verantwortlicher Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung, Matthias Grünewald, Mainz 1983; Id., «Moral Norms and the Forgotten Virtue of Epikeia in the Pastoral Care of the Divorced and Remarried», in Journal of the Faculty of Theology University of Malta 63(2013)1, 17-34.
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giustizia più alta, che in situazioni complesse, nelle quali un’interpretazione letterale del diritto sarebbe iniqua, fa valere il diritto in modo misericordioso «giustamente ed equamente».23 L’equità è stata compresa nella canonistica medievale come iustitia dulcore misericordiae temperata; cioè, traducendo liberamente, giustizia che con la dolcezza della misericordia trova concreta applicazione con oculatezza. In questo senso, in situazioni umanamente difficili, la Chiesa potrebbe fare uso misericordiosamente della potestà di legare e sciogliere. Si tratterebbe non di eccezioni al diritto, ma di un’equa e misericordiosa applicazione del diritto. Non s’intende una pseudo misericordia a buon mercato. Vale infatti, secondo quanto si legge in 1Cor 11,28, il seguente principio: chi ostinatamente, cioè senza volontà di conversione, persevera nel peccato grave non può ricevere l’assoluzione ed essere ammesso alla comunione (CIC can 915). Questo principio è in sé evidente e indiscutibile. La questione concreta di chi si trovi effettivamente in modo ostinato in una tale situazione di perdizione non è però ancora decisa. Per dare risposta a tale questione bisogna distinguere bene le differenze ed esaminare ogni singola situazione con comprensione, discrezione e tatto (cf. Familiaris consortio, nn. 4 e 84). Non si può parlare di un’oggettiva situazione di peccato senza considerare anche la situazione del peccatore nella sua singolare dignità personale. Per questa ragione non può esserci alcuna soluzione generale del problema, ma solo soluzioni singolari. Ciò risulta dal concetto di peccato grave. Il peccato grave non è costituito solo dalla materia gravis, l’azione contraria al comandamento di Dio in una cosa importante; di esso fa parte anche il giudizio della coscienza personale, l’assenso della volontà nella quale, per Tommaso, l’intenzione della volontà è assolutamente decisiva; infine, è decisiva la considerazione delle concrete circostanze.24 Su tutto ciò non si può decidere in termini generali. Perciò la sapienza della Chiesa conosce accanto al foro giuridico esterno il foro interno del sacramento della penitenza. Ci troviamo dunque di fronte alla via paenitentialis. Non si tratta di una nuova invenzione; essa si colloca, come di recente è stato dimostrato, del tutto in linea con la comprensione del matrimonio 23 Sulla
teoria dell’applicazione delle norme canoniche cf. W. Kasper, Barmherzigkeit. Grundbegriff des Evangelium – Schlüssel christlichen Lebens, Freiburg i.Br. 2012, 174-177; 238, n. 174. 24 Cf. CCC 1856-1860; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-II, q. 19, a. 5; q. 72, a. 5.
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di Tommaso d’Aquino e della tradizione che a lui si richiama, in particolare del concilio di Trento.25 Con la via paenitentialis non s’intende l’imposizione di pesanti pene, ma del processo, doloroso e tuttavia salutare, della chiarificazione e del nuovo orientamento dopo la catastrofe della separazione, che è accompagnata da un esperto confessore, il quale, mediante un colloquio, ascolta pazientemente e aiuta a fare chiarezza. Questo processo deve condurre l’interessato a un giudizio onesto sulla propria situazione, in cui anche il confessore matura un giudizio spirituale, per poter far uso della potestà di legare e di sciogliere in modo adeguato alla situazione. Come in altre questioni di grande importanza ciò accade, secondo l’antica prassi della Chiesa, sotto l’autorità del vescovo (cf. Instrumentum laboris, n. 123). Rimane per me incomprensibile come si sia potuto obiettare a questa proposta che essa significa un perdono senza conversione. Ciò sarebbe effettivamente insensato dal punto di vista teologico. Ovviamente il sacramento della penitenza implica da parte del penitente il pentimento e la volontà di vivere nella nuova situazione con tutte le sue forze secondo il Vangelo.26 Nell’assoluzione non è giusti25 A questo risultato giunge Oliva, «Essence et finalité du mariage selon Thomas d’Aquin», 650-663. 26 In questo senso papa Giovanni Paolo II in Familiaris consortio n. 84 ha deciso che divorziati risposati disposti a una vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio, cioè viventi in piena continenza, possano ricevere il sacramento della penitenza e dell’eucaristia. Sicuramente i cristiani che si decidono a percorrere questa via e la mantengono danno un’eloquente testimonianza dell’unità e dell’indissolubilità del matrimonio; la loro generosa testimonianza merita grande rispetto e richiede un attento accompagnamento pastorale. D’altra parte, la regola eccezionale di Familiaris consortio solleva questioni teologiche fondamentali. Secondo Tommaso d’Aquino l’essenza del matrimonio consiste nella comunione spirituale; l’unione sessuale è per lui secondaria (Summa theologiae III, q. 20, a. 2; Suppl., q. 44, a. 1). Se si segue questa concezione, si pone la questione: è sensato, anzi non è addirittura contraddittorio, tollerare tacitamente, in certo modo come soluzione di emergenza (tavola di salvezza!), l’elemento essenziale del matrimonio che trova espressione pubblica nel matrimonio civile e invece elevare a criterio decisivo per l’ammissione o la non ammissione ai sacramenti l’esclusione dell’elemento secondario che ne deriva? In altri termini: dal punto di vista della teologia del sacramento in contraddizione con il segno sacramentale si trova non l’unione sessuale che appartiene alla sfera intima, ma il matrimonio civile, in quanto comunione di vita pubblicamente professata, che con la regola eccezionale è quanto meno tollerato. Se però il matrimonio civile in quanto tale viene di fatto almeno tollerato, si pone la domanda se la questione relativa alla sfera intima e quindi al forum internum della continenza, senza verifica della concreta situazione, possa diventare criterio decisivo per l’ammissione o la non ammissione alla recezione dei sacramenti? Su questo punto deve inizia-
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ficato il peccato, ma il peccatore che vuole convertirsi. La comunione sacramentale, cui l’assoluzione apre di nuovo la strada, deve dare alla persona che si trova in una difficile situazione la forza per perseverare sul nuovo cammino. Proprio i cristiani in situazioni difficili hanno bisogno di questa sorgente di forza che è per loro il pane della vita. Un tale rinnovamento della prassi penitenziale della Chiesa, al di là dell’ambito dei divorziati risposati, potrebbe avere l’effetto di un segnale per il necessario rinnovamento della prassi penitenziale, che nella Chiesa di oggi è a terra in modo deplorevole. Sarebbe profondamente farisaico ritenere che questo riguardi solo i cristiani divorziati e risposati. In occasione del ricordo dell’affissione delle tesi di Lutero, che cinquecento anni fa ha rappresentato l’inizio della Riforma, i cristiani cattolici ed evangelici hanno tutte le ragioni per lasciarsi dire dalla prima tesi di Lutero che tutta la vita di un cristiano deve essere una penitenza.
In conclusione la questione: questo sviluppo della prassi penitenziale della Chiesa è da comprendere come una rottura con la dottrina e la prassi della Chiesa oppure non piuttosto nel senso dell’ermeneutica della continuità? Un’ermeneutica della continuità rettamente compresa, nel senso in cui l’ha proposta papa Benedetto nel noto discorso per gli auguri natalizi alla curia romana del 2005, infatti, non esclude ma implica riforme pratiche e quindi un elemento di discontinuità. Essa è un’ermeneutica della riforma.27
La verità della rivelazione non è un sistema rigido scolpito nella pietra e scritto su tavole di pietra, ma è la lettera d’amore del Dio vivente, scritta nei cuori di carne (cf. 2Cor 3,3). Secondo Tommaso d’Aquino il Vangelo in ultima analisi e primariamente è lo Spirito Santo infuso nel cuore dei fedeli attraverso la fede di Cristo.28 Dio, con il suo Spirito, è sempre in dialogo con la sua Chiesa, la sposa del suo Figlio (cf. Dei Verbum, n. 8), per introdurla sempre di nuovo nella verità tutta intera (cf. Gv 16,13) e dischiudere il Vangelo, che è sempre lo stesso, nella sua eterna novità.29 La misericordia è questa eterna novità. In essa risplende la sovranità di Dio, con cui egli è fedele sempre di nuovo al suo essere, che è amore (cf. 1Gv 4, 8), e al suo patto. La misericordia è la rivelazione della fedeltà e dell’identità di Dio con se stesso e così al tempo stesso dimostrazione dell’identità cristiana.30 Perciò la misericordia non toglie la verità cristiana. Essa stessa è una verità rivelata, che è strettamente legata con le fondamentali verità della fede, l’incarnazione, la morte e risurrezione di Cristo, e senza di esse cadrebbe nel nulla (cf. Instrumentum laboris, n. 68). D’altra parte, tutte queste verità senza la dolcezza della misericordia si trasformerebbero in un sistema rigido e freddo. La misericordia le fa risplendere sempre di nuovo in modo sorprendente e conferisce sempre di nuovo alla fede forza di irradiazione. Solo così la nuova evangelizzazione può riuscire. L’ammonimento a «rimanere nella verità di Cristo» include l’altro a «rimanere nell’amore di Cristo» (Gv 15,9). Si tratta di fare la verità nella carità (cf. Ef 4,15). ✠ Walter card. Kasper
re l’ulteriore discussione e chiedersi se la regola eccezionale di Familiaris consortio n. 84, a partire dalla sua oggettiva logica teologica interna, non richieda una riflessione più avanzata. Finalmente, in questa questione si tratta dell’unicità di ogni persona e della distinzione tra foro esterno e interno, necessaria a motivo della dignità della coscienza. L’attenzione a questa tradizionale distinzione sarebbe un passo importante per giungere a una soluzione pastorale della questione. 27 Cf. Benedetto XVI, Discorso ai membri della curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, 22.12.2005.
Praticamente papa Benedetto ha in larga misura fatto propria la posizione di J.H. Newman, An Essay on the Development of Christian Doctrine, 1878 (tr. it. Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, Il Mulino, Bologna 1967). 28 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-II, q. 106, a. 1. 29 Sullo sviluppo dottrinale cf. i concili Vaticano I (Denz 3020) e Vaticano II (Dei Verbum, n. 8); sulla perenne novità del Vangelo cf. Francesco, es. ap. Evangelii gaudium, n. 11. 30 Cf. Kasper, Barmherzigkeit, 105; Id., Das Evangelium von der Familie, 55s.
6. Ermeneutica della continuità ed eterna novità del Vangelo
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Dal Sinodo attendiamo un «balzo innanzi»
Dichiarazione del Centro di ricerca RGKW della Facoltà teologica cattolica di Innsbruck
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Non è solo la cristianità cattolica ad attendere «un balzo innanzi». È questo il titolo della dichiarazione comune «per un coraggioso sviluppo della dottrina pastorale» del Centro di ricerca RGKW («Religion-Gewalt-Kommunikation-Weltordnung»; «Religione-Violenza-Comunicazione-Ordine internazionale»), del Dipartimento di Teologia sistematica della Facoltà teologica cattolica di Innsbruck, pubblicata lo scorso 9 maggio in vista della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (4-25.10.2015). Il Centro di ricerca, che fin dall’autunno del 2014 «si è assunto il compito di accompagnare teologicamente e sostenere fattivamente il profondo processo di riforma iniziato con l’elezione di Francesco a vescovo di Roma», colloca anche la presente dichiarazione in questo sforzo. In apertura il testo compendia le opzioni decisive, che nella seconda parte vengono motivate e argomentate più ampiamente. L’immagine utilizzata da Giovanni XXIII per sintetizzare il compito del concilio Vaticano II nel suo discorso di apertura dovrebbe, secondo i teologi austriaci che qui si esprimono, caratterizzare anche i lavori del Sinodo sulla famiglia: essere «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze». Stampa (18.5.2015) da sito web www.uibk.ac.at. Nostra traduzione dal tedesco.
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apa Francesco ha esortato tutta la Chiesa a partecipare attivamente al processo del Sinodo dei vescovi con la preghiera e le osservazioni. Fin dall’autunno del 2014 il Centro di ricerca teologica RGKW (Religion-Gewalt-Kommunikation-Weltordnung) della Facoltà teologica cattolica di Innsbruck si è assunto il compito di accompagnare teologicamente e sostenere fattivamente il profondo processo di riforma iniziato con l’elezione di Francesco a vescovo di Roma. Questa dichiarazione comune si colloca in questo contesto. In apertura il testo compendia brevemente le opzioni decisive, poi nella seconda parte le motiva e spiega più ampiamente. L’immagine con cui papa Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura, sintetizzò il compito del concilio Vaticano II dovrebbe caratterizzare anche il Sinodo dei vescovi del prossimo autunno: «Un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze» [EV 1/55*].
Opzioni guida 1. Parlare apertamente. Sosteniamo uno sviluppo coraggioso della dottrina e della pastorale attraverso una teologia attenta ai segni dei tempi
Questo rafforza, mediante la sua spiegazione della sessualità, del matrimonio e della famiglia nel segno dell’alleanza, il matrimonio cristiano come segno di fede, e valorizza in modo fondamentalmente positivo la forza della sessualità che caratterizza ogni comunicazione umana. È assolutamente necessaria una dichiarazione dottrinale articolata sul valore e sulla dignità della sessualità vissuta! Senza una tale dichiarazione non si elaborerà, e addirittura non si noterà, la pesante zavorra della Tradizione, che opera come «uno scheletro nell’armadio».
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2. Il criterio della «gradualità» per le comunità di vita effettive…
… all’interno e all’esterno del sacramento e dell’istituzione sociale che è il matrimonio poggia sulla riuscita di quella comunicazione, che rappresenta in sé un segno del regno di Dio (il «noi» donato): nella stima, solidarietà e riconciliazione. Per tutta la Chiesa il «principio della gradualità» nel senso di Lumen gentium n. 8 va applicato alle comunità di vita all’interno e all’esterno della stessa. 3. Coraggio per un’inconsueta «esperienza della grazia di Cristo» nella riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti
La procedura del riconoscimento della nullità non è una soluzione generale per i matrimoni falliti, perché spesso essa impedisce un percorso di riconciliazione. Essa viene giustamente rifiutata come un trucco dal sensus fidei dei credenti. La concezione di un’alleanza che non sarebbe mai stata conclusa era ed è precaria. Un’ammissione responsabile dei divorziati risposati ai sacramenti, come viene praticata di fatto da molti pastori, apre la possibilità di una nuova esperienza dell’azione dello spirito di Cristo per tutta la Chiesa. 4. Le questioni pastorali hanno un’importanza dottrinale
Con il tema di questo Sinodo dei vescovi si pone nuovamente in agenda anche la questione di un’adeguata spiegazione del concilio Vaticano II. Infatti secondo la costituzione pastorale Gaudium et spes le questioni pastorali hanno un’importanza costitutiva, non applicativa, per lo sviluppo della dottrina della Chiesa. In particolare
Di fronte alle molteplici crisi del significato costitutivo di queste forme di vita per la società umana, non va sottovalutato il rafforzamento della cura che la Chiesa ha dimostrato nei riguardi del matrimonio e della famiglia. Questa maggiore attenzione alle costrizioni economiche, alle condizioni politiche e culturali, è certamente il presupposto di quella conversione missionaria (cf. Lineamenta, n. 32), che può riconoscere anche l’azione di Cristo che si trova «al di fuori dei nostri schemi abituali». Affinché la XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi possa concludere il processo sinodale con orientamenti salutari e convincenti, ci siamo sentiti Il Regno -
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in dovere di pubblicare questa presa di posizione. Dichiarazioni del genere non possono mai risultare esaustive o sufficientemente articolate, e anche la nostra non lo è. Concentriamo quindi l’attenzione criticamente su incongruenze e carenze e positivamente su alcune opzioni fondamentali. Sosteniamo uno sviluppo coraggioso della dottrina e della pastorale sulla base di una teologia attenta ai segni dei tempi (cf. Gaudium et spes, nn. 4 e 11; soprattutto 49 e 51). Quest’interpretazione teologica della sessualità, del matrimonio e della famiglia mediante l’immagine dell’alleanza rafforza il matrimonio cristiano come segno di fede e valorizza in modo fondamentalmente positivo la sessualità (cf. Gaudium et spes, nn. 47-52: «Dignità del matrimonio e della famiglia»; Lineamenta, n. 17). La sessualità caratterizza tutte le comunicazioni umane in una grande varietà di mezzi espressivi culturalmente elaborati, che attualmente attraversano un’enorme trasformazione, per cui non sempre concordano con forme e convinzioni tradizionali. Poiché sessualità e violenza, o nostalgia di vicinanza e vulnerabilità, sono strettamente legate, noi proponiamo di sondare la questione della gradualità nel sacramento del matrimonio, sollevata dal card. Schönborn, sulla qualità della comunicazione che varie forme di vita permettono e presentano, anche nelle loro forme transitorie o lacerate. Infatti, anche queste possono essere riconosciute, e quindi maturare, come un possibile «granello di senape» per la conoscenza, l’accettazione e la realizzazione del mistero di Cristo. 1. «Lo scheletro nell’armadio». Diciamolo: la sessualità è ancora sotto il verdetto del peccato
Come «esperta in umanità» (cf. Lineamenta, n. 2), la Chiesa è chiamata a vedere un «segno dei tempi» anche nello sconvolgimento culturale degli ultimi decenni, che ha liberato la sessualità vissuta dall’odore di «peccaminosità» e di «lussuria». Occorre assolutamente una dichiarazione dottrinale articolata sul significato e sulla dignità della sessualità vissuta! Non per benedire lo status quo, ma per cercare, alla luce del Vangelo, di collegare fra loro fede e umanizzazione delle forme di vita (cf. essenzialmente Gaudium et spes, nn. 4 e 11, nonché 49 e 51). Non si possono più ignorare questi cambiamenti neppure in seno alle Chiese cristiane, compresa quella cattolica. Così, ad esempio, il Catechismo della Chiesa cattolica, nonostante la sottolineatura dell’irregolarità oggettiva di queste forme di vita, chiede di non discriminare in alcun modo le persone omosessuali
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(CCC 2358). E riguardo ai divorziati risposati afferma che «i sacerdoti e tutta la comunità devono dar prova di un’attenta sollecitudine, affinché essi non si considerino come separati dalla Chiesa» (CCC 1651; Lineamenta, n. 51, parla di «non discriminare»). In questo vediamo un buono sviluppo della dottrina e della prassi, che dovrebbe quindi essere continuato, perché la situazione attuale ha condotto a una tale discrepanza fra vita e dottrina da causare gravi danni alla credibilità della nostra Chiesa. Questo si potrebbe evitare, considerando questa situazione uno stadio provvisorio e procedendo verso una regolamentazione convincente. Siamo convinti che lo sguardo ampio e realistico che si persegue attualmente riguardo alla situazione della famiglia e del matrimonio può riuscire, nel senso di un rinnovamento missionario, solo se si elabora e non si rimuove il tema onnipresente della «sessualità» (esso viene toccato espressamente solo nel n. 10 dei Lineamenta). Il silenzio al riguardo non permette di disfarsi della pesante zavorra di una tradizione dominante, che ha collocato in linea di principio la sessualità vissuta sotto il verdetto del peccato, ma consolida piuttosto una dottrina teologicamente non equilibrata e i pregiudizi anticattolici collegati. Il risultato è chiaro: in questo campo la nostra Chiesa ha perso quasi ogni competenza in termini di orientamento. Lo schema abituale di un’intimità legittimata esclusivamente dal sacramento del matrimonio conduce, in definitiva, in un vicolo cieco pastorale nel contesto dell’ammissione dei divorziati risposati all’eucaristia. Come potrebbero altrimenti essere esentati dalle sanzioni gli interessati che vivono come «fratello e sorella»? Questo riguarda anche la valutazione dell’omosessualità e una pastorale di preparazione al matrimonio spesso completamente scollegata dalla realtà. Qui occorre fare chiarezza! Solo dopo esserci occupati di questo «scheletro nell’armadio» possiamo tornare a parlare in modo credibile della castità e rendere comprensibile il senso di una rinuncia volontaria a relazioni sessuali intime, com’è il celibato. Un tale cambiamento non significa affatto l’abbandono della morale sessuale della Chiesa sotto la pressione della realtà dei fatti. Esso sfida a considerare il sacramento non primariamente nel contesto della morale regolativa, ma a vedere la grazia e il dono del sacramento, che si esprime nell’esperienza di un «noi donato», in tutte le storie di vita umane come promessa della presenza del Dio misericordioso e del suo dono di una «vita in pienezza» (Gv 10,10). Se la famiglia stessa deve essere il soggetto della pastorale familiare (cf. Lineamenta, n. 30), allora Il Regno -
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sia il ministero episcopale sia la dogmatica implicita dei pastori, che nell’accompagnamento diretto delle persone agiscono in base alla direttiva dell’attuale vescovo di Roma, devono tener conto del sensus fidei di tutti i membri della famiglia (adulti, giovani e anche bambini) per la formulazione di norme più aderenti alla realtà. Infatti, come ha evidenziato il card. Kasper, la «misericordia» è, secondo Tommaso d’Aquino (cf. Summa theologiae II-II, q. 30, a. 4, citato da papa Francesco dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 37), il modo privilegiato in cui si rivela nella storia concreta l’onnipotenza di Dio, nel quale amore e giustizia sono una cosa sola (cf. Sal 85,11). Anche Gesù Cristo ha descritto in questo modo le motivazioni che muovevano il suo cuore (cf. Mt 11,28-30). Se l’onnipotenza di Dio si rivela in Gesù Cristo come bontà e misericordia, allora anche ogni dottrina e azione della Chiesa di Gesù Cristo deve essere riconoscibile come testimonianza di questa misericordia divina. 2. Il dono del sacramento: un «noi donato» come segno della presenza del regno di Dio e come criterio di gradualità
Ci schieriamo a favore di una lettura del dono del sacramento del matrimonio come segno del regno di Dio e di una spiegazione di questo sacramento come ecclesiologia basilare (cf., su «Chiesa domestica», Lineamenta, n. 23; Lumen gentium, n. 11). In questo modo il Sinodo rafforzerebbe l’analogia fra la Chiesa in quanto tale e le sue azioni fondamentali nei sacramenti. È molto importante il rinvio dei Lineamenta ai «semina Verbi» per la stima teologica delle forme di vita nelle culture non cristiane (n. 22, con rimando a Ad gentes, nn. 11 e 13; e la stima, basata sulla teologia dell’alleanza, per il «matrimonio naturale»), ma non troviamo il concetto di «gradualità sacramentale» che, sulla base di Lumen gentium n. 8, è stato ampiamente discusso nell’aula sinodale e considerato dalla maggior parte dei padri un’apertura teologica. A questo concetto come gradino di crescita nelle forme di vita più diverse, con il corrispondente tatto pastorale, sembrano accennare, ad esempio, i nn. 24-28 e specialmente i nn. 41ss dei Lineamenta. Il coerente avanzamento sulla strada tracciata da questo concetto potrebbe far sì che tutti i passi necessari nella pastorale delle persone che vivono in relazioni «irregolari» non siano considerati né un’offesa delle persone coinvolte né una strategia per accattivarsi le simpatie, ma semplicemente l’abbandono di uno «schema abituale». Al riguardo, vorremmo offrire il seguente orientamento.
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Il concetto di gradualità è legato alla missione della Chiesa, la quale in tutte le sue azioni (a livello istituzionale e spirituale) deve rappresentare attraverso i segni la presenza di Cristo e del suo Regno. L’unica Chiesa di Gesù Cristo non si identifica sic et simpliciter con la Chiesa cattolica, ma sussiste in essa (cf. Lumen gentium, n. 8). Questa distinzione permette alla Chiesa di riconoscere ad extra molteplici elementi di santità e di verità al di fuori della sua struttura, nonché di rinnovarsi continuamente ad intra. La vera Chiesa di Gesù Cristo percorre continuamente la strada della penitenza e del rinnovamento sulle orme del suo Signore, che incontrava di preferenza i poveri e i deboli sotto la figura del messia umile e povero (cf. Lumen gentium, n. 8). Di conseguenza, la figura della comunicazione del regno di Dio, che promuove e sostiene uno sviluppo veramente umano, è il criterio della gradualità, all’interno e all’esterno di una comunità matrimoniale o di vita ufficialmente riconosciuta. Così può rivelarsi il mistero di Cristo anche in luoghi insoliti. Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa leggiamo: «La carità coniugale, che sgorga dalla carità stessa di Dio, offerta attraverso il sacramento, rende i coniugi cristiani testimoni di una socialità nuova, ispirata al Vangelo e al mistero pasquale» (220). Questa nuova socialità, qui espressa concettualmente come «figura di comunicazione del regno di Dio», può essere scoperta in modo particolare nella promessa matrimoniale tradizionale. E noi possiamo conoscere e riconoscere che anche in altre forme di vita le persone vivono di fatto questa nuova socialità: onorare l’altro, averne cura e restargli fedele nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, fino alla morte. Un’autocomprensione articolata da parte della Chiesa comporta una gradualità in tutti i suoi ambiti. Perciò anche la figura della sua concretizzazione nel sacramento del matrimonio è sempre in tensione dinamica con le sue realizzazioni carenti, nei matrimoni celebrati in chiesa e al di fuori. L’orientamento alla figura comunicativa del regno di Dio permette uno sguardo su tutte le comunità non matrimoniali, che anzitutto percepisce il buono e il vero che si trova in esse e poi libera da idealizzazioni teologiche, che si allontano sempre più dalla realtà concretamente vissuta e comportano già all’inizio dolorosi restringimenti dello sguardo pastorale della Chiesa. La concezione qui espressa di gradualità, che tiene conto di chi resta indietro rispetto alla santità della Chiesa realizzata nel sacramento, riguarda sempre tutti i membri della Chiesa nella prassi e nella Il Regno -
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dottrina, ma anche la stessa struttura della Chiesa. Noi tutti siamo «santi e insieme bisognosi di purificazione» (cf. Lumen gentium, n. 8) e proprio per questo siamo sempre chiamati sulla via della santità (cf. Lumen gentium, c. V). Una gradualità compresa come una realizzazione articolata del Vangelo non conduce al relativismo. Non rende superflue le norme e non impedisce neppure una regolamentazione nella recezione dei sacramenti. Ma il Sinodo non deve chiedersi solo fino a che punto i cristiani rispettano le norme e vogliono – nonostante ripetuti fallimenti – rispettarle, ma anche fino a che punto, nelle rispettive reali condizioni di vita, possono effettivamente rispettarle. 3. Coraggio per un’inconsueta «esperienza della grazia di Cristo» nella riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti
Le Chiese restano legate alla parola di Dio nella Scrittura. Quest’anima della teologia e fonte della vita della Chiesa (cf. Dei Verbum, n. 24) viene spiegata sempre alla luce della rivelazione e della vita concreta di tutto il popolo di Dio pellegrinante sulla terra. Il rinnovamento dell’idea di creazione mostra che Gesù, in situazioni concrete, prende decisamente posizione a favore del carattere vincolante incondizionato della promessa matrimoniale (cf. Mt 19,4-6; Lineamenta, n. 14). Tutte le Chiese, nel corso della storia, si sono basate su questa risolutezza di Gesù e sull’analogia fra Cristo e la sua Chiesa (cf. Ef 5,21-33), anche se hanno trovato soluzioni molto diverse in presenza di fallimenti, cedimenti e insuccessi. Suggeriamo di studiare e valutare attentamente soprattutto la prassi delle Chiese ortodosse, che non è mai stata rigettata dal magistero romano (cf., ad esempio, concilio di Trento, Denz 1807, nota). Il divieto della separazione enunciato da Gesù non è stato applicato in modo legalistico neppure dalla Chiesa cattolica (cf. CIC 1983, 1141-1185). Non solo la separazione è possibile, a volta addirittura comandata, ma nella forma di un «matrimonio di Giuseppe» è possibile anche un’ammissione dei divorziati risposati all’eucaristia; a nostro avviso, si tratta di una «soluzione» estremamente precaria. Bisogna perciò riservare una particolare riflessione alla strada che oggi nella Chiesa cattolica romana gode di un’alta considerazione come via di uscita: la dichiarazione di nullità del matrimonio (cf. Lineamenta, nn. 48-49). Al riguardo, senza contestare l’utilità di questa strada in singoli casi, invitiamo a riflettere su ciò che segue. L’esperienza
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dimostra che molte persone non riescono ad accettare interiormente questa soluzione di carattere decisamente giuridico, anche se per ragioni pratiche intraprendono questa strada. La procedura di fatto è spesso controproducente e comunque mai riconciliante. Inoltre, poiché una vita trascorsa insieme per anni non può non significare nulla, noi riteniamo che la diffusa incomprensione per questa procedura sia un segno del sensus fidei. In base a un’adeguata teologia del sacramento, il ricordo di una relazione esistita non può mai essere cancellato, ma si deve piuttosto sottolineare la mutua responsabilità nella separazione e dopo la separazione. La dichiarazione di nullità impedisce questo e così mina di fatto la confessione dell’indissolubilità del matrimonio. Dal punto di vista dogmatico bisogna ricordare anche il vicolo cieco costituito dalla dottrina della Lettera di Barnaba, ispirata dallo gnosticismo, riguardo all’alleanza di Dio con Israele. Secondo la lettera, questa alleanza non sarebbe mai avvenuta (ad esempio, c. 14). La Chiesa universale ha sempre rifiutato questa posizione, ma con la teoria della sostituzione ha elaborato un’interpretazione non meno precaria, che è stata riveduta solo al concilio Vaticano II. Oggi bisogna ricordarlo, perché il matrimonio viene interpretato, con buone ragioni, mediante la categoria dell’alleanza. La dottrina della Chiesa contiene anche l’idea di un’alleanza in qualche modo fallita, accanto alla quale si colloca una nuova alleanza, senza che quella antica sia annullata. In questo contesto, il Concilio ha ripreso la logica della Lettera ai Romani (cf. Rm 9-11), che comprende il fallimento come componente integrale di un drammatico processo di ricerca della verità, per cui non lo addossa unilateralmente alle persone coinvolte. Anche in questo contesto, ciò che vale per la questione della fondazione della Chiesa dovrebbe valere anche per i sacramenti, anche se una seconda comunità di vita, mentre sussiste il vincolo matrimoniale, non può essere considerata sacramento. Tuttavia questa seconda comunità di vita, specialmente se presenta il carattere di testimonianza abbozzato sotto, non è certamente priva della benedizione e della grazia di Dio. La fedeltà di Cristo vale non solo per i pii e i giusti, ma anche per i peccatori, che siamo sempre noi tutti nella Chiesa. Solo attraverso questa fedeltà di Cristo, la Chiesa e ogni singola persona in essa, qualsiasi esperienza abbia fatto e in qualsiasi situazione si trovi, può considerarsi santificata e chiamata alla santità. In conclusione, vorremmo ancora brevemente spiegare che cosa potrebbe significare, anche in questo caso, il sacramento del matrimonio e la promessa Il Regno -
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matrimoniale, quando la relazione, nelle situazioni più diverse, non può essere conservata. Vorremmo farlo, perché questa questione nella teologia e pastorale tradizionale del matrimonio non viene praticamente affrontata. Ma in Lineamenta, n. 52, si sottolinea la necessità di approfondire la questione del trattamento da riservare ai divorziati risposati. Il regno di Dio, che è iniziato in mezzo a noi, troverà la sua piena realizzazione solo alla fine dei tempi (escatologia). Il giudizio a essa collegato non significa una resa dei conti, ma la piena realizzazione, legata all’avvento della gloria di Dio, della nostra umanità, con tutte le nostre lacerazioni, ferite e mancanze. Contraendo matrimonio, gli sposi si promettono a vicenda non solo la fedeltà «finché la morte non ci separi», ma anche di amare, rispettare e onorare l’altro «tutti i giorni della mia vita». Chi prende sul serio questa dichiarazione nella fede, non può sfumare la dimensione della vita eterna. Infatti, ogni scelta libera mira alla definitività, che è sostenuta dalla speranza di trovare il suo compimento con la grazia di Dio nel giudizio della riconciliazione. Se si interpretano in questa luce tutte le relazioni sociali e poi, in modo particolare, anche il matrimonio, allora la communio sanctorum che si spera apparirà già oggi come riconciliazione, stima e solidarietà in linea di principio per tutti, ma specialmente per le persone che mi sono state affidate. Tutti parteciperanno alla promessa della nuova vita di Dio solo attraverso una conversione radicale, nel giudizio della riconciliazione. Ma la medicina contro la morte e il nutrimento nel pellegrinaggio verso l’eternità di Dio è l’eucaristia, alla quale attinge tutta la vita cristiana e della quale si nutre ogni riconciliazione. Come potrà la Chiesa accompagnare le persone nel loro cammino verso la riconciliazione su strade di vita precarie e spezzate se rifiuta in linea di principio la loro domanda del pane della vita? Nella sua omelia in occasione della celebrazione con i nuovi cardinali, il 15 febbraio 2015, papa Francesco ha affermato che la storia della Chiesa è stata caratterizzata da una logica di integrazione e da una logica di emarginazione, ma che Gesù ha chiaramente vissuto in base alla logica dell’integrazione: «Guarendo il lebbroso, Gesù non reca alcun danno a chi è sano, anzi lo libera dalla paura; non gli apporta un pericolo, ma gli dona un fratello; non disprezza la legge, ma apprezza l’uomo, per il quale Dio ha ispirato la Legge». In questo senso attraverso un’ammissione responsabile dei divorziati risposati all’eucaristia non si priva della sua forza normativa la parola di Gesù. Infatti, la grazia del sacramento del matrimonio si manifesta anche nelle relazioni
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spezzate e separate, ad esempio nell’incoraggiamento e nell’abilitazione alla riconciliazione, al rispetto e alla comune responsabilità per i figli e per la rete sociale che allora esisteva. Chi conosce i conflitti nelle relazioni infrante e dopo, conflitti che affondano sempre le radici nell’intreccio fra intimità e vulnerabilità, può immaginare quale testimonianza missionaria al Vangelo della riconciliazione possono ancora donarci queste persone anche nel loro fallimento. Perciò, l’ammissione dei divorziati risposati che ci mostrano una tale testimonianza di riconciliazione e anche in una nuova relazione assumono insieme la mutua responsabilità non si contrappone alla parola di Cristo, ma testimonia l’efficacia della sua grazia in un mondo contrassegnato dal peccato. Ma una tale testimonianza pretende giustamente la partecipazione al sacramento della riconciliazione e della nuova vita. Perciò l’esclusione in linea di principio dei divorziati risposati dal sacramento deve essere considerata sul piano sociologico piuttosto una creazione di identità mediante la separazione, che difficilmente corrisponde allo spirito di Gesù. La mentalità, tuttora presente nella Chiesa con una disinvoltura senza pari, tendente a considerare le persone «ostinate peccatrici pubbliche», che per il fatto di vivere in un «adulterio pubblico e permanente» (CCC 2384), danno «pubblico scandalo», è un aiuto o un ostacolo per l’annuncio del Vangelo? Non si dovrebbe riflettere su questo proprio per amore della pastorale? Contro questo, il papa, al termine della succitata omelia, compendia la logica dell’integrazione in linea di principio con queste parole, che potrebbero essere collocate in lettere cubitali sopra il prossimo sinodo: «Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato! Ricordiamo sempre l’immagine di san Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione. In realtà, cari fratelli, sul vangelo degli emarginati, si gioca e si scopre e si rivela la nostra credibilità!». 4. Le questioni pastorali hanno un’importanza dottrinale
Nella sua omelia del 15 febbraio 2015, papa Francesco ha parlato di un principio pastorale fondamentale che ha un’importanza dogmatica. Perciò nel Sinodo dei vescovi, in autunno, non si tratta «solo» della pastorale familiare, ma fondamentalmente anche dell’importanza dottrinale delle valutazioni pastorali. È in gioco la svolta pastorale del concilio Vaticano II. Nel quadro di un «magistero di natura pastoraIl Regno -
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le» (Giovanni XXIII), al Concilio essa ha trovato la sua espressione più chiara nella costituzione pastorale Gaudium et spes, votata cinquant’anni fa dopo aspri dibattiti. In essa è stato spiegato al massimo livello del magistero che le questioni pastorali hanno un’importanza costitutiva e non solo applicativa per la dottrina della Chiesa. Perciò, la costituzione pastorale Gaudium et spes è sullo stesso piano delle costituzioni sulla sacra liturgia (Sacrosanctum Concilium), sulla Chiesa (Lumen gentium) e sulla rivelazione (Dei Verbum). Parti essenziali del dibattito postconciliare hanno ruotato sostanzialmente attorno alla questione collegata del valore dogmatico di un «concilio pastorale». Dal punto di vista magisteriale, questa questione è certamente decisa, ma a livello della Chiesa universale le sue conseguenze sono ancora ben lungi dall’essere tradotte in pratica. Nel pontificato attuale diventano persino più acute. Al riguardo, le problematiche emerse al concilio Vaticano II e alla scorsa assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi si corrispondono in modo sorprendente: da una parte, forze per le quali la pastorale è solo un luogo di applicazione dei principi dottrinali; dall’altra, forze per le quali la pastorale è un luogo di scoperta del Vangelo nel proprio presente. O, come dice papa Francesco, «il concilio Vaticano II è stato una nuova lettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea». Su questo sfondo, i Lineamenta del prossimo Sinodo dei vescovi parlano di un «necessario realismo», che aiuti a evitare decisioni lontane dal Vangelo, «proprie di una pastorale, che applica solo la dottrina». Si tratta di sostenere questo realismo con argomenti teologici nel quadro di una pastorale conciliare della misericordia, che, sulle orme di Gesù, ha un «cuore» per le persone nella «miseria» (miseri-cordia).* Innsbruck, 9 maggio 2015. * Questo testo comune è stato elaborato da Józef Niewiadomski e, dopo una prima discussione, rielaborato da Roman A. Siebenrock. Poi, soprattutto Christian Bauer, Willhelm Guggenberger, Nikolaus Wandinger e Willibald Sandler hanno proceduto a preziose correzioni e aggiunte. Il testo finale è condiviso da questi membri del Centro di ricerca: Christian Bauer, Anni Findl-Ludescher, Wilhelm Guggenberger, Maria Juen, Harald Klingler, Martina Kraml, Gertraud Ladner, Stephan Leher, Mathias Moosbrugger, Michaela Neulinger, Józef Niewiadomski, Claudia Paganini, Wolfgang Palaver, Johannes Panhofer, Teresa Peter, Richard Pirker, Dietmar Regensburger, Willibald Sandler, Matthias Scharer, Roman A. Siebenrock; Petra Steinmair-Pösel, Nikolaus Wandinger.
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