Che cosa ne abbiamo fatto dell’eucaristia? Goffredo Boselli, monaco di Bose
Introduzione
Il legame tra liturgia e solidarietà con i poveri, il rapporto tra eucaristia ed esigenza di giustizia sociale sono stati temi intensamente sentiti e dibattuti nella chiesa durante i lavori del Concilio e poi nel corso degli anni settanta del Novecento. Poi, per oltre trent’anni la scelta preferenziale per i poveri è scomparsa dall’orizzonte della chiesa soprattutto europea, fino a quando due giorni dopo la sua elezione, esattamente il 16 marzo dello scorso anno papa Francesco ha detto “desidero una chiesa povera e per i poveri”. Da quel giorno, i poveri sono tornati al cuore della chiesa. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, con il paragrafo titolato “Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio”1, papa Francesco ha risolutivamente suggellato il ritorno dei poveri al cuore della chiesa. E’ il messaggio biblico più autentico a impedire di apostrofare troppo sbrigativamente il legame tra culto e ingiustizia, tra eucaristia e poveri come mode passeggere, considerandoli tutt’al più frutto di sinceri ma ingenui idealismi di cui il tempo avrebbe vagliato l’effettiva pertinenza. Nel 1
Francesco, Evangelii gaudium, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, Paoline, Cinisello Balsamo 2013, nn. 197-201.
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suo quotidiano magistero, papa Francesco ricorda con forza che di fronte all’attuale crisi economica e alle cause che l’hanno generata, le comunità cristiane che vivono in occidente devono lasciarsi interpellare da questi temi, al fine di verificare il modo con il quale in questi ultimi decenni esse hanno vissuto e compreso la dimensione etica della liturgia e l’istanza di condivisione con i poveri insita nell’eucaristia. La relazione tra liturgia e povertà non può pertanto più essere taciuta, come è avvenuto negli ultimi trent’anni, perché nelle pagine dell’Antico come in quelle del Nuovo Testamento, nella parola dei profeti come nella sapienza di Israele, nell’insegnamento di Gesù come nella predicazione degli apostoli (e successivamente in quella dei padri della chiesa), la qualità essenziale che fa del culto a Dio un culto a lui gradito è la giustizia verso i poveri, l’equità verso i miseri, il diritto nei confronti degli oppressi. Il credente non può rendere culto al Signore e al contempo ignorare il fratello che è nel bisogno. Dio non esaudisce la preghiera di colui che non ascolta il grido del povero, perché non potrà mai esserci culto autentico se coloro che lo celebrano sono causa di ingiustizia. L’eucaristia è sacramento dell’altare tanto quanto sacramento del fratello. In ragione della crisi economica, dal 2008 nella chiesa come nella società sono risuonate parole da tempo dimenticate come sobrietà, moderazione, condivisione, solidarietà, gratuità, parole autenticamente evangeliche e ricche di umanità. Tuttavia il cristiano non può ignorare che ben prima della crisi economica e anche quando essa sarà superata, la liturgia lo fa partecipe della «tavola del Signore» (cf. 1Cor 10,21) dove egli è invitato a condividere con i fratelli «un unico pane» (cf. 1Cor 10,17), affermando così che non può esserci comunione con Dio senza condivisione con i fratelli. La celebrazione dell’eucaristia non è solo l’azione sacerdotale di un popolo di sacerdoti chiamato a offrire a Dio, a nome di tutta l’umanità, il rendimento di grazie per i suoi doni. Ma la celebrazione dell’eucaristia è anche azione profetica celebrata da un popolo di profeti che, compiendo il gesto della fractio panis come segno di condivisione, proclama davanti al
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mondo in nome di Dio il dovere di condividere i doni da lui elargiti, e di spezzare il pane per saziare l’affamato. Nel 1971 il vescovo Helder Camara si domandava: Quando l’eucaristia è ricevuta al momento della morte è chiamata viatico: è il compagno per il grande viaggio che ha inizio. Ma come chiamare l’eucaristia ricevuta per vivere e far vivere la giustizia? Non facciamoci illusioni: il mondo conosce molto bene lo scandalo. Sono cristiani, almeno di origine, quel venti per cento di umanità che tiene nelle sue mani l’ottanta per cento delle risorse della terra. Che ne abbiamo fatto dell’eucaristia? Come conciliarla con l’ingiustizia, figlia dell’egoismo?2.
«Che ne abbiamo fatto dell’eucaristia? Come conciliarla con l’ingiustizia, figlia dell’egoismo?». Nella congiuntura economica che l’occidente sta attraversando, questi interrogativi di Helder Camara risuonano con singolare attualità. La provocazione che queste domande contengono non è rivolta al mondo economico o finanziario, ma è indirizzata direttamente alla chiesa che celebra l’eucaristia, ai noi cristiani che ogni domenica siamo convocati dal Signore per spezzare alla sua presenza il pane con i fratelli. «Che ne abbiamo fatto dell’eucaristia?», è questa una domanda che rinvia immediatamente a interrogativi apostolici altrettanto forti, nati anch’essi dalla prassi eucaristica di una comunità cristiana: «Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente?» (1Cor 11,22). Sono queste le domande che l’apostolo Paolo rivolge alla comunità cristiana di Corinto responsabile di aver trasformato la «cena del Signore» (1Cor 11,20) in un pasto che non ha più nulla di eucaristico e che ha come effetto quello di «umiliare chi non ha niente» (1Cor 11,22). Questa pagina della Prima lettera ai cristiani di Corinto è dunque una fonte da cui ogni comunità cristiana è chiamata ad attingere il senso autentico del suo partecipare alla cena del Signore, verificando il proprio modo di celebrare la liturgia e di comprendere l’eucaristia, nella 2
H. Camara, «L’eucharistie, exigence de justice sociale», in Parole & Pain 42 (1971), pp. 75-76 ; nostra traduzione.
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consapevolezza che l’essere e l’agire della chiesa e di ogni cristiano dipendono, nel bene come nel male, dalla loro concreta prassi eucaristica. L’interrogativo di fondo da cui muove questa riflessione è perciò il seguente: la crisi economica che attraversa ormai da anni i paesi occidentali tradizionalmente cristiani, non rivela forse che la prassi eucaristica delle comunità cristiane che vivono in questi paesi e il loro discernimento del corpo del Signore sono simili a quelli della comunità di Corinto? Mediteremo dunque questa pagina della prima lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto, il capitolo 11, che contiene un vero e proprio magistero del legame indisgiungibile tra eucaristia e poveri.
La comunità cristiana di Corinto Quella di Corinto è una giovanissima comunità cristiana, fondata dallo stesso Paolo solo quattro o cinque anni prima di questa lettera (cf. At 18,1-18) che gli esegeti datano attorno al 55 d.C., dunque a soli venticinque anni dalla morte di Cristo. Oltre a essere giovanissima, la comunità cristiana di Corinto è anche piccola. Essa conta qualche decina di cristiani, forse una cinquantina, provenienti in gran parte dal paganesimo. Al tempo di Paolo, Corinto era una città romana in grande espansione, nella quale convivevano culture, filosofie, stili di vita e religioni diverse che troviamo riflesse nelle categorie religiose e sociali di cui Paolo parla in questa lettera: «Giudei e greci, schiavi e liberi» (1Cor 12,13). Dalla lettera si deduce inoltre che la chiesa di Corinto era composta da persone di classe medio-bassa, anche da schiavi (cf. 1Cor 7,20-24), e pochi erano i ricchi (cf. 1Cor 11,17-34). La cena del Signore Per comprendere il senso della denuncia dell’Apostolo, occorre aver chiaro come si svolgeva il pasto comune dei cristiani che Paolo chiama «la
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cena del Signore». I cristiani di Corinto si riunivano regolarmente nella casa di uno di loro per un pasto comune. Ospiti dei membri abbienti della comunità che mettevano a disposizione le loro case, condividevano ciò che ciascuno portava. Probabilmente i più ricchi portavano cibi e bevande abbondanti e raffinati, i meno abbienti portavano quello che potevano e vi era anche, dice Paolo, «chi non ha nulla» da portare. Erano banchetti in tutto simili ai banchetti pagani dell’epoca, ma si distinguevano per due caratteristiche: non vi era distinzione di ceto sociale, ogni battezzato poteva prendervi parte. Alla stessa tavola si sedevano per la cena del Signore i ricchi e le persone di bassa e anche infima condizione sociale, come gli schiavi. La seconda caratteristica è che nel corso del pasto, non è dato sapere se durante o alla fine, si celebrava l’eucaristia in obbedienza al comando dato da Gesù nell’ultima cena: si rendeva grazie al Signore con la preghiera di benedizione, si spezzava un unico pane e ciascuno ne mangiava un pezzo, si benediceva l’unico calice di vino dal quale ciascuno beveva un sorso. Questa è la forma più antica di quella eucaristia che ancora oggi noi celebrano. Ma ecco, nelle parole di Paolo, ciò che era diventata la cena del Signore a Corinto dopo la sua partenza dalla comunità: Non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzitutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, in parte lo credo. È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore (kyriakòn deîpnon). Ciascuno infatti, quando siede a tavola, comincia a prendere la sua propria cena (tò ídion deîpnon) e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! (1Cor 11,18-22).
Cosa avviene a Corinto che provoca il biasimo di Paolo? L’Apostolo è stato informato della divisione tra i cristiani più ricchi che non aspettavano tutti i fratelli e cominciavano a mangiare e a bere fino a ubriacarsi, così i cristiani poveri che giungevano in ritardo, forse perché trattenuti dal lavoro, non avevano nulla da mangiare. La situazione è dunque questa: gli uni sono ubriachi e gli altri affamati e per questo
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l’Apostolo osserva: «Quando vi radunate insieme il vostro non è più un mangiare la cena del Signore (kyriakòn deîpnon)», è invece un «prendere ciascuno la sua propria cena (tò ídion deîpnon)». Giovanni Crisostomo – vescovo di Costantinopoli e padre della chiesa morto nel 407 – in una omelia sulla Prima lettera ai Corinti, riferendosi a questi versetti, scrive: «La chiesa non esiste perché noi, venendoci, conserviamo le nostre divisioni, ma perché ogni disuguaglianza sparisca: ecco il senso del nostro riunirci insieme»3. Nella comunità cristiana di Corinto la cena del Signore è dunque snaturata del suo vero significato, perché avviene una scandalosa discriminazione a danno dei più poveri della comunità con i quali i più ricchi non condividono il cibo. Per i fratelli e le sorelle poveri è di certo un’offesa vedersi poco o nulla considerati dai fratelli e dalle sorelle ricchi. Per questo, il non attendere il fratello povero per celebrare con lui la cena del Signore non è una semplice mancanza di cortesia, ma è segno di disprezzo nei suoi confronti. Paolo definisce questo comportamento un «umiliare chi non ha niente», espressione che Girolamo nella Vulgata traduce «confunditis eum, qui non habent», «turbate coloro che non hanno». Nel suo commento il Crisostomo rende invece «umiliate» con «fate arrossire» e così osserva: [L’Apostolo] invece di dire «voi fate morire di fame i poveri», si serve di una parola forte, e dice: «fate arrossire». Con ciò mostra di dare meno importanza al cibo che si nega al povero, che all’affronto che si infligge … Non soltanto i poveri sono trascurati ma vengono pure umiliati4.
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Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 27,3, PG 61,227. Ibid.
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Una liturgia che umilia chi non ha niente Ogni comunità cristiana che ha a cuore l’autenticità della sua prassi eucaristica, leggendo la pagina paolina dovrebbe domandarsi: «Siamo come la chiesa di Corinto? Con la nostra liturgia umiliamo chi non ha niente?». I cristiani di Corinto mostrano di non comprendere il legame che esiste tra l’eucaristia e l’etica cristiana. L’eucaristia è la fonte di ogni agire morale perché essa rende coloro che la celebrano partecipi dell’ethos di colui che in essa opera: il Cristo che «da ricco che era si è fatto povero per voi» (2Cor 8,9). Cristo, il povero di Dio, che ha detto di sé «ho avuto fame, ho avuto sete, ero nudo, forestiero, carcerato» (cf. Mt 25,31-46). Per questo la liturgia dei cristiani è la liturgia del Povero, ossia la liturgia che manifesta un’etica di donazione (un corpo dato), un’etica di condivisione (l’unico pane per molti), un’etica di solidarietà e di carità (la colletta per i bisognosi). È dunque necessario riconoscere che le nostre liturgie sono sempre esposte al rischio di umiliare i poveri. Nel cristianesimo c’è altare del Signore che non sia al tempo stesso memoria dell’altare che è il fratello. Per questo, la Didascalia comanda ai cristiani: “Le vedove e gli orfani saranno per voi come un altare”5, mentre Giovanni Crisostomo, con sorprendente realismo, ammonisce: “Ogni volta che vedete un povero che crede ricordatevi che sotto i vostri occhi avete un altare, non da disprezzare ma da rispettare”6. Questa consapevolezza cristiana del rapporto essenziale tra altare e povero trova la sua più alta epifania nell’eucaristia. È nella comprensione dell’amore per i poveri come liturgia che Giovanni Crisostomo ha ripetutamente denunciato ai cristiani delle sue chiese lo scandalo di nutrirsi del corpo di Cristo alla tavola eucaristica e lasciare morire i poveri di fame alla porta delle chiese. Da vescovo di Antiochia prima e di Costantinopoli poi, ha predicato con parresia contro la
5 Didascalia IX,26,8; in Didascalia et Constitutiones Apostolorum, a cura di F. X. Funk, Paderbornae 1905 (rist. anast. Torino 1979), p.104; così anche Policarpo di Smirne: “[Le vedove] siano consapevoli di essere altare di Dio”, Lettera ai Filippesi 4,3, in Lettera ai Filippesi Martirio, a cura di C. Burini, EDB, Bologna 1998, p. 73. 6 Giovanni Crisostomo, Commento alla seconda lettera ai Corinti, Omelia 20,3, PG 61,540.
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ricchezza degli ornamenti della chiesa e delle vesti dei ministri richiamando a non disgiungere mai l’onore dato al Cristo nella liturgia e l’onore dato a Cristo nel povero. Questo pensiero del Crisostomo ha portato alcuni autori contemporanei ad attribuirgli espressioni come «sacramento del fratello» o «sacramento del povero» delle quali, in realtà, non c’è alcuna traccia nell’intera sua opera. Tuttavia queste espressioni sintetizzano in modo efficace il magistero sulla liturgia e l’amore per i poveri del Crisostomo, il quale in una delle sue omelie più celebri consegna il discorso probabilmente più ispirato che, su questo tema, sia stato fatto nella storia della chiesa: Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia nudo; dopo averlo onorato qui in chiesa con stoffe di seta, non permettere che fuori egli muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», confermando con la sua parola l’atto che faceva, ha anche detto: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» e: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me». Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di cuori puri, mentre quello che sta fuori ha bisogno di grande cura. Impariamo quindi a meditare su un mistero tanto grande e a onorare Cristo come egli vuole essere onorato … Quale vantaggio può avere Cristo se il suo altare è coperto d’oro, mentre egli stesso muore di fame nel povero? Comincia a saziare lui che ha fame e in seguito, se ti resta ancora del denaro, orna anche il suo altare. Gli offrirai un calice d’oro e non gli dai un bicchiere d’acqua fresca: che beneficio ne avrà? Ti procuri per l’altare veli intessuti d’oro e a lui non offri il vestito necessario: che guadagno ne ricava? … Dico questo non per vietarti di onorare Cristo con tali doni, ma per esortarti a offrire aiuto ai poveri insieme a quei doni, o meglio a far precedere ai doni simbolici l’aiuto concreto … Mentre adorni la chiesa, non disprezzare il fratello che è nel bisogno: egli infatti è un tempio assai più prezioso dell’altro7.
Se l’amore per i poveri è liturgia, ogni chiesa locale è costantemente chiamata a vegliare affinché la sua liturgia resti fedele allo spirito della riforma liturgica del Vaticano II che ha cercato di attuare, nelle forme e nello stile, la volontà espressa dal concilio nella costituzione sulla liturgia: «I riti splendano per nobile semplicità»8. Non ci si lasci dunque trarre in inganno da chi mostra nostalgia di uno stile liturgico che manifesti opulenza, fasto e ostentazione, nella vana illusione che siano queste le uniche forme capaci di manifestare sacralità e narrare lo splendore di Dio. 7 8
Giovanni Crisostomo, Commento alla seconda lettera ai Corinti, Omelia 20,3, PG 61,540. Cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum concilium 34.
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Nel Discours de la nature et des effets du luxe (Discorso sulla natura e gli effetti del lusso), un autore del
XVIII
secolo scriveva: «Il lusso è prodigo, ma sempre
per ostentare mai per dare»9. Al contrario, la «nobile simplicitas» voluta dal concilio nella liturgia esprime la volontà di dare, di condividere, perché la semplicità della liturgia cristiana è questione etica e, in quanto tale, questione teologica. La liturgia è infatti opus Dei, è l’agire di Dio attraverso Cristo nello Spirito santo. Per questo nella liturgia la forma è sostanza! Se lo stile dell’agire di Gesù non è mai giunto a «umiliare chi non ha niente», la liturgia di Corinto invece umiliava il povero, escludendolo dall’abbondanza dei ricchi. Se ci può essere un modo di celebrare l’eucaristia che esclude il povero, c’è anche un modo semplice di celebrare la liturgia grazie al quale il povero non è escluso, ma si sente accolto e si trova a suo agio, dunque riconosciuto nella sua dignità umana e cristiana. «Voi avete disonorato il povero» ammonisce l’apostolo Giacomo (Gc 2,6), ricordando alla sua comunità che nell’assemblea liturgica ogni battezzato deve essere accolto per la sua appartenenza a Cristo e non in base all’appartenenza sociale e alla condizione economica: Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente» e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disonorato il povero! (Gc 2,2-6).
All’opposto esatto di ciò che avviene nella cena eucaristica di Corinto, l’assemblea liturgica cristiana è il luogo dove il povero deve essere accolto, riconosciuto e perfino onorato. Questa accoglienza non si esaurisce certamente in una semplice questione di posti da assicurare per tutti, ma è una accoglienza che si esprime nello stile stesso della celebrazione. Uno stile semplice e tuttavia nobile, che narrando la bellezza di Dio non umilia la povertà del povero. Nell’Evangelii gaudium papa Francesco dedica un intero 9
G. S. Gerdil, Discours de la nature et des effets du luxe , Nabu Press, Firenze 2012.
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paragrafo alla “mondanità spirituale” e ci mette in guarda in modo molto chiaro, affermando: “Questa oscura mondanità si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente opposti ma con la stessa pretesa di ‘dominare lo spazio della chiesa’. In alcuni si nota una cura ostentata della liturgia, della dottrina, e del prestigio della Chiesa”10. La nobile semplicità è l’esatto contrario della “cura ostentata della liturgia” denunciata dal papa. Parlare di una liturgia semplice non significa in nessun modo cedere a una liturgia sciatta, trascurata e per questo inespressiva, figlia di un pauperismo certamente non cristiano. La bellezza semplice della liturgia deve essere invece ricercata con impegno e fatica, fino a rappresentare un punto di arrivo agognato. La semplicità è sempre un punto di arrivo e mai di partenza, perché è la ricerca di quel nucleo puro ed essenziale che ogni cosa racchiude in sé, sia essa un materiale, un tessuto, ma anche una parola, un gesto, un’immagine, un suono, un canto. È molto più facile declinare la bellezza nello sfarzo, nella sontuosità, nel lusso che sono le forme mondane di bellezza. La bellezza mondana è in se stessa bellezza anestetica che invitando a fissare lo sguardo unicamente sull’oggetto porta a chiudere gli occhi sul mondo, sugli altri e sulla realtà. Al contrario, quella della liturgia non è una bellezza anestetica, ma una bellezza che fa dell’oggetto un semplice segno che invita ad aprire gli orecchi alla parola di Dio e a spalancare gli occhi sugli altri e sulla realtà. Per questo, la bellezza semplice della liturgia cristiana non è bellezza mondana ma bellezza santa, perché riflesso della bellezza di Dio e di quella bellezza alla quale ogni uomo è chiamato.
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Evangelii gaudium, n. 95.
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«Memoria passionis» L’apostolo Paolo afferma che è possibile celebrare la cena con un rito, in una comunità cristiana come quella di Corinto, e tuttavia non celebrare la cena del Kýrios, una cena nella quale Gesù Cristo è il Signore, in cui la tavola è la tavola del Signore. Per rispondere a questa situazione che si era creata a Corinto, l’Apostolo fa memoria dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli: Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta, infatti, che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga (1Cor 11,2326).
Paolo non era presente alla vigilia della passione, quando Gesù consegnò il segno ai dodici, per questo l’Apostolo parla dell’eucaristia come di qualcosa che ha ricevuto dal Signore stesso e fedelmente, a sua volta, lui ha già trasmesso alla comunità di Corinto, attestando così come la tradizione apostolica debba custodire e trasmettere l’eucaristia nella sua forma originaria. Paolo ha semplicemente trasmesso ciò che ha ricevuto, egli non ha inventato nulla: «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane … lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo che è per voi”». Le parole pronunciate da Gesù che si trovano in Paolo si differenziano da quelle dei sinottici per l’espressione «corpo che è per voi» (tò sôma tò hypèr hymôn), letteralmente corpo-per-voi. Questa espressione paolina indica che nel corpo di Gesù è iscritta la relazione originaria. Non è semplicemente corpo, ma è in se stesso corpo-per-voi, corpo dato e dunque la relazione di donazione non si aggiunge al corpo di Gesù in un secondo momento, ma gli appartiene fin dall’origine. L’eucaristia è il memoriale del corpo-per-voi di Gesù, ed è questo il criterio con il quale Paolo giudica la prassi eucaristica di Corinto, e questo è anche il metro di giudizio per verificare
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ogni eucaristia. Corpo-per-voi significa corpo dato, consegnato, vita spesa fino all’estremo, vita offerta per gli altri. Il corpo-per-voi nega ogni logica individualistica simile a quella dei ricchi della comunità di Corinto. Ogni egoismo, ogni spirito di divisione è smentito dall’accoglienza vicendevole e dalla condivisione totale che caratterizza quella comunione piena che è l’eucaristia. Il Crisostomo si domanda: «Perché ricordare l’istituzione dei santi misteri? Perché in questo momento si rendeva necessario tale richiamo [dell’ultima cena]? Il Signore vostro, vuole dire [l’Apostolo], si è degnato di accogliervi tutti al suo banchetto, benché esso sia santo e venerabile, e voi, invece, osate giudicare i poveri indegni della vostra piccola e misera tavola»11. La risposta del Crisostomo offre la chiave di lettura dell’intenzione di Paolo: ai corinti che nella cena del Signore non condividevano il pane con i poveri giudicandoli indegni della loro tavola, l’Apostolo ricorda che Cristo ha istituito l’eucaristia come memoria passionis, che è memoria di una vita non tenuta per sé ma donata, non salvata dagli altri ma offerta per la salvezza di tutti. Facendo memoria dell’ultima cena, Paolo ha ricordato che un cristiano non può pensare di partecipare all’eucaristia se poi vive nella logica di una propria cena (tò ídion deîpnon), ossia di una propria vita. Un uomo che, sebbene cristiano, vive nella logica di salvare la propria vita senza gli altri, prima o poi vivrà contro gli altri e a scapito degli altri. Chi vive solo per se stesso, per la propria riuscita e il proprio successo, mangerà anche il corpo del Signore per se stesso e non per gli altri, nella comunione. Una comunità cristiana e ogni singolo cristiano non possono vivere nella logica di un proprio progetto – sia esso ecclesiale o esistenziale – senza sottomettersi a una logica di comunione, che è logica del corpo-per-voi, l’esatto contrario della logica del corpo-per-me. In quanto cristiani e membri della chiesa, la logica del per-voi, che è logica di koinonia, deve avere il primato nella vita personale e comunitaria. Questo e non altro significa fare la memoria passionis celebrando
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Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 27,3, PG 61,230.
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l’eucaristia nella quale si ripetono le parole di Gesù: «Questo è il mio corpoper-voi».
Mangiare e bere la propria condanna L’evocazione dell’ultima cena lascia posto al grande ammonimento apostolico di Paolo: Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti.
Chi non discerne il corpo del Signore «mangia e beve la propria condanna», afferma l’Apostolo; parole che incutono timore e chiedono grande vigilanza a chi celebra l’eucaristia. Ma cosa significa discernere il corpo e il sangue del Signore? Quale corpo del Signore? Certamente nelle parole dell’Apostolo si afferma anzitutto che partecipare all’eucaristia significa discernere nella fede che quel pane spezzato è corpo del Signore e quel vino bevuto è il suo sangue. Ma discernere il corpo del Signore significa per l’Apostolo anche operare un secondo discernimento: discernere la realtà santa della chiesa che è il corpo di Cristo. Anche questo secondo discernimento va operato nella fede e spesso il discernimento ecclesiale appare più difficile e impegnativo di quello sacramentale. Significa sentirsi fratelli e sorelle che formano il corpo di Cristo, membra dell’unico corpo del Signore in un’unità che è sempre opera dello Spirito santo. Il mistero della chiesa e il mistero dell’eucaristia formano a tal punto un unico mistero che solo chi comprende l’eucaristia sa che cos’è la chiesa e solo chi conosce la realtà profonda della chiesa può capire anche l’eucaristia. Questa è la ragione per la quale Paolo ricorda che è impossibile non discernere il corpo ecclesiale e
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pensare di comunicare degnamente al corpo eucaristico. L’Apostolo chiede ai cristiani di Corinto di interrogarsi sul loro radunarsi in assemblea; essi stanno gli uni accanto agli altri e tuttavia non si aspettano, dunque rimangono divisi perché non hanno accettato di essere radunati unicamente a partire da Cristo e a causa della morte di Cristo. Il dinamismo del raduno è certamente essenziale per l’eucaristia e dunque per la comunità cristiana, ma non è sufficiente dare vita a una trama di legami umani strategici o funzionali, perché nella chiesa non basta stare insieme per uno scopo comune, ma è necessario che sia il Signore Gesù e nient’altro la ragione profonda di essere e agire come chiesa. Nella chiesa non ci si sceglie come i ricchi di Corinto si scelsero tra loro, perché la chiesa non è un circolo privato e tanto meno un club esclusivo. Cioè non è un’associazione tra le tante esistenti dove ci si sceglie in base alla condizione sociale, alla cultura, alle idee politiche, agli interessi, agli hobby o perfino per affinità elettive. La chiesa è radunata unicamente da Dio e lui solo, attraverso il dono della fede, chiama a farne parte. «Discernere il corpo del Signore» è il monito rivolto a ogni credente affinché egli faccia discernimento sulla propria comunità cristiana, domandandosi se in essa si fa chiesa unicamente sulla base di relazioni affettive, psicologiche e dunque puramente carnali. Occorre riconoscere che spesso la storia recente o passata di molte comunità cristiane è segnata da divisioni non tanto sociali ma per lo più affettive, dal fatto che ci si sceglie in base a simpatie umane, e a volte anche per accordi e interessi non evangelici che di fatto escludono altri. L’esclusione del fratello è spesso il risultato di quel tipo di comunità che per Dietrich Bonhoeffer porta i tratti di una comunità psichica che il teologo luterano così descrive: L’idea e la pratica della discriminazione intellettuale o spirituale fa riaffiorare di nascosto la componente psichica, e priva la comunione della sua efficacia spirituale nella comunità, anzi la porta al settarismo: l’esclusione del debole, dell’insignificante, dell’apparentemente inutile, da una comunione di vita cristiana
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può addirittura equivalere all’esclusione di Cristo, che bussa alla porta nelle vesti del fratello povero12.
Se non è l’amore per il Signore Gesù la sola ragione del riunirsi e vivere come chiesa di Dio, presto o tardi le altre ragioni si riveleranno causa di esclusione del fratello e di divisione all’interno della comunità cristiana stessa. L’Apostolo ammonisce profeticamente che l’eucaristia non è solo buona notizia ma è anche giudizio quando scrive: «Chi mangia e beve senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti». Nella comunità di Corinto, a causa del mancato discernimento del corpo del Signore, vi sono molti che sono fragili, deboli, malati fino a morire a causa della loro incapacità di discernere il corpo del Signore. Ecco il giudizio terribile che si sprigiona dall’eucaristia quando non ci si riconosce fratelli e sorelle in Cristo, quando ci si esclude a vicenda e non si condividono i beni spirituali e materiali. Allora l’eucaristia diventa giudizio e, come ammonisce Paolo, ciascuno mangia e beve la propria condanna. Se la vita di una comunità cristiana è spesso debole, stanca e sofferente, forse è anche perché il suo modo di celebrare l’eucaristia rivela un’incapacità nel discernere il corpo sacramentale ed ecclesiale di Cristo. Paolo intende far prendere coscienza ai cristiani di Corinto che quando si nutrono dell’eucaristia non rimangono come prima ma sono sempre trasformati, o in meglio o in peggio. Come la parola di Dio è sempre viva ed efficace (cf. Eb 4,12-13), così anche l’efficacia dei sacramenti, in particolare dell’eucaristia, produce sempre il suo effetto, non lascia colui che se ne nutre come prima. O la persona vive conformemente al dono di grazia ricevuto, oppure rifiutandolo aggrava la situazione di peccato, in termini paolini «mangia e beve la propria condanna». L’Apostolo nega dunque ogni automatismo sacramentale, perché l’eucaristia, al pari della parola di Dio, ha in sé una forza che quando viene distorta nel suo
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D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 2003, p. 30.
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significato, rifiutata o contraddetta nei fatti, non resta neutra ma rende deboli, infermi e spiritualmente malati.
Il vostro sia un mangiare la cena del Signore Concludiamo questa riflessione volgendo in positivo l’esortazione con la quale l’Apostolo ha dato inizio alla sua parenesi: «Quando vi radunate insieme, il vostro sia un mangiare la cena del Signore!». Affermare che i credenti sono riuniti «nello stesso», significa molto di più dell’affermare che sono semplicemente radunati insieme in uno stesso luogo. Essere riuniti epì tò autó indica un raduno nell’unità che è data da Gesù Cristo e da nient’altro. Non è un’unità che nasce per volontà o desiderio di quanti si radunano, ma è un’unità che nasce dall’amore di ciascuno per Cristo. Se è l’amore dei credenti per Cristo che li riunisce in unum, allora solo chi celebra la liturgia come atto di amore per Cristo povero, potrà anche vivere e comprendere l’eucaristia come condivisione con i poveri. Per il cristiano la condivisione dei beni con il povero non è dunque una semplice questione di giustizia sociale, ma è una questione cristologica e di conseguenza sacramentale. Così, come per la comunità di Corinto, anche per le comunità cristiane di oggi è la non condivisione con il fratello più povero «a gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio» (1Cor 11,22). Solo dall’eucaristia, e in essa dal gesto profetico della frazione del pane, le comunità cristiane d’occidente potranno rinnovare la loro consapevolezza che la chiesa non può essere corpo di Cristo se in essa i cristiani, rigettando ogni forma di egoismo, non condividono i loro beni con i poveri, quelli a loro prossimi come quelli lontani. Fino a quando le comunità cristiane del mondo occidentale non vivranno la loro liturgia eucaristica come presentazione a Dio del pane «frutto della terra e del lavoro dell’uomo» e non lo condivideranno alla presenza di Dio con i fratelli, essi saranno sempre in qualche modo corresponsabili di quella
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ingiustizia sociale che è all’origine della crisi economica, perché ciò che non è condiviso con gli altri nella comunione è sottratto agli altri nell’ingiustizia. Secondo il Siracide, Dio non gradisce un sacrificio frutto dell’ingiustizia verso il povero, perché «sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri» (Sir 34,24).
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