“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.” Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1763
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INDICE SOMMARIO IL DIBATTITO SULLA PENA DI MORTE Cap. I – La morte come pena nella storia I.1 Nella preistoria e nella antichità ............................................................................ 4 I.2 Il Medioevo e la Chiesa cattolica ............................................................................ 8 I.3 La critica illuminista, Beccaria e la riforma del sistema penale in Toscana ........... 10 I.4 Dall’Ottocento al Novecento ............................................................................... 17 I.2.1 La pena di morte nella legislatura italiana I.2.2 Gli Stati preunitari ............................................................................................. 21 I.2.3 Il periodo del fascismo ...................................................................................... 26 I.2.4 Subito dopo il periodo fascista .......................................................................... 29 I.2.5 Dal 1948 ad oggi ................................................................................................ 30 Cap. II - Il cammino verso l’abolizione della pena di morte II.1 Motivazioni e dibattiti pro e contro la pena di morte ......................................... 36 II.2 L’Europa e il suo apporto alle moratorie ............................................................ 43 II.3 Le Moratorie del 2007/2008 ............................................................................... 53 II.4 La Moratoria del 2010 ......................................................................................... 58 II.5 Comitati, Associazioni, Campagne ...................................................................... 62 II.6 Mappatura dei Paesi che hanno abolito la pena di morte e quelli mantenitori ... 67
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Cap. III – Gli Stati Uniti d’America e la pena di morte III.1 L’Europa critica l’applicazione della pena di morte negli U.S.A. ......................... 78 III.2 La pena di morte in America ha efficacia deterrente? ........................................ 83 III.3 Indagini empiriche sull’efficacia deterrente della pena di morte compiute dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’70 negli Stati Uniti d’America ................. 87 III.4 Gli studi di Ehrlich sull’efficacia deterrente vengono confutati .......................... 91 III.5 L’opinione pubblica statunitense contro la pena di morte ................................. 96 III.6 La maggioranza dell’opinione pubblica è favorevole o contraria alla pena di morte? ........................................................................................................... 99 III.7 L’opinione pubblica: l’aspetto della deterrenza e della retribuzione della pena di morte ................................................................................................... 105 III.8 L’opinione pubblica e le ragioni per opporsi o legittimare la pena di morte .... 108 III.9 Secondo l’opinione pubblica chi dovrebbe essere condannato a morte? ......... 111 III.10 L’opinione pubblica statunitense al giorno d’oggi e il confronto con il passato ................................................................................................. 114 III.11 L’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America: il divieto della cruel and unusual punishments e l’apporto della Corte Suprema ............................................................................................... 119 III.12 La sentenza Atkins v. Virginia alla luce dell’VIII emendamento ....................... 126 III.13 La sentenza Roper v. Simmons in rapporto all’VIII emendamento della Costituzione americana: un ulteriore passo verso l’abolizione totale della pena di morte .............................................................................. 131 III.14 Breve conclusione .......................................................................................... 139
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ANALISI DI UNA CASISTICA DI CONDANNATI A MORTE .......................................... 141 Le evidenze più significative ................................................................................... 143 Indicazioni operative ............................................................................................. 145 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ............................................................................... 150 Alcune considerazioni personali............................................................................. 152 Appendice ................................................................................................................ 154 Bibliografia............................................................................................................... 180 Siti di interesse ........................................................................................................ 190
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Cap. I – La morte come pena nella storia I.1 Nella preistoria e nell’antichità
E’ insito nella natura umana vendicarsi di torti o ingiustizie subite e di riceverne riparazione in misura corrispondente. A tale esigenza di riparazione del misfatto ricevuto è seguito il concetto di pena, intesa nelle comunità primitive come vendetta e sanzione applicata in modo soggettivo e arbitrario, senza far riferimento a un testo scritto univoco e uguale per tutti i cittadini1. Nei tempi primordiali, quando la società si svolgeva in tribù, si suppone in assenza di leggi scritte, in analogia con quanto si osserva, ancora oggi, in popolazioni primitive e isolate, la pena capitale veniva inflitta dai capi tribù per crimini quali l’omicidio, il furto e numerosi altri delitti. Con l’istituzione della società e delle autorità politiche nasceva il concetto di pena legato alle regole stabilite dagli uomini. La prima testimonianza scritta dell’uso della pena di morte è rappresentata dalla raccolta di norme scritte, detta codice di Hammurabi, dal nome del monarca babilonese (1792-1750 a.C.)2. In esso veniva stabilita la pena di morte per una serie di reati eterogenei: omicidio, furto, sacrilegio, mancanza di professionalità in ambito lavorativo, delitti che avessero causato morte o gravi conseguenze a qualcuno. L’entità della pena tuttavia non era uguale per tutti, ma dipendeva dalla classe sociale del colpevole e della vittima, per cui, a parità di reato, lo schiavo era soggetto a pene più dure del nobile. Nonostante la non equità del codice, era importante che venisse eliminata la arbitrarietà dei giudizi con la introduzione di leggi scritte inderogabili.
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Albert Camus , Riflessioni sulla pena di morte , Piccola Enciclopedia SE, Milano,2006, pag.12 e seg. Martha T. Roth, Mesopotamia and Asia Minor, Scholar Press, Atlanta, 1995, pag. 71 e seg.
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Anche presso gli antichi Egizi vigeva la pena di morte, che si infliggeva a chi avesse offeso o attentato alla vita del faraone, commesso un omicidio, rubato, commesso sacrilegio, spiato e tradito. Al contrario del codice di Hammurabi, le pene erano uguali per tutti indipendentemente dal ceto sociale: le esecuzioni consistevano nell’annegamento nel Nilo, racchiusi in un sacco, o nella decapitazione3. I precolombiani (Maya, Incas, Aztechi) applicavano la pena di morte per omicidi, adultere, mentre il furto veniva punito con la schiavitù4. Anche in Cina la pena di morte ha origini antichissime, se ne ha notizia fin dal 2000 a. C., durante la dinastia Xià, quando vigeva la tradizione di infliggere crudeli punizioni corporali ai condannati, con torture e supplizi che avevano un compito quasi sacrale, quale espressione crudele e sublime del potere imperiale. Nell’antica Grecia la pena di morte, se pur limitata ai delitti gravissimi (assassinio o omicidio, crimini contro lo stato, sacrilegio, etc.) era presente nelle leggi con duplice funzione: vendetta e punizione del delitto commesso, ma anche con finalità educative e preventive nei confronti della società (exemplum)5. Platone (428-348 a. c.), a proposito dell’omicidio grave, scriveva nelle sua opera intitolata Le leggi: “se uno è riconosciuto colpevole di omicidio […] i servi dei giudici e dei magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un trivio prestabilito fuori dalla città: tutti i magistrati portino una pietra in nome di tutto lo Stato scagliandola sul capo del cadavere, poi lo portino ai confini dello Stato e lo gettino al di là insepolto: questa è la legge”6. Molte tragedie greche ruotavano attorno alla vendetta come diritto e obbligo di giustizia da parte dei figli a cui era stato ucciso un genitore. Ricordo tra tutti il personaggio Oreste nella tragedia di Eschilo, che era stato costretto a vendicare la morte del padre Agamennone.
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Edda Bresciani, voce Egitto, in Enciclopedia Garzanti, Milano, 1977, Vol.IV pag. 380 e seg. Susana Monzòn, voce Precolombiane culture, in Enciclopedia Europea, Garzanti, Milano 1979, Vol.IX, pag. 207 e seg. 5 Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Feltrinelli, Milano, 2011, pag. 143 e seg. 6 Sul pensiero di Platone si veda, ad esempio Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, cit., pag. 110 e seg. 4
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La legge del taglione, intesa come possibilità e obbligo morale, per una persona che avesse ricevuto una offesa, di infliggere all’offensore una pena pari al torto subito, veniva applicata nel diritto romano sin dall’antichità. Nelle leggi delle XII tavole (V secolo a.C.) veniva stabilito che “ Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto”7. La pena di morte era prevista per un eterogeneo elenco di reati quali gli omicidi, tradimento della patria, rivolta contro l’autorità, furto di terreni, bestiame o raccolto, stupro, falsa testimonianza, etc. Il diritto romano prevedeva la pena di morte, ma ai cittadini romani era concessa una garanzia: una condanna a morte di un cittadino romano, in base all’imperium del magistrato, non poteva essere eseguita senza concedere la facoltà al condannato di fare appello ai comizi centuriati tramite l’istituto della provocazio ad populum . Tale istituto, che era stato introdotto dalla Lex Valeria de provocatione del 509 a.C. (rogata dal console Publio Valerio Publicola), applicato in particolare nel periodo repubblicano, prevedeva la possibilità che la pena capitale potesse essere commutata in altra pena, se così stabilito da un giudizio popolare. Cicerone, che a seguito della congiura di Catilina aveva fatto eseguire condanne a morte senza concedere la provocatio ad populum, per questo era stato condannato all’esilio (lex Clodia). Nell’antica Roma le modalità di esecuzione della pena di morte erano molto crudeli: impiccagione, annegamento, decapitazione, taglio degli arti, rogo, sepoltura da vivi (pena applicata, ad esempio, alle vestali infedeli) e il lancio dalla rupe tarpea per chi avesse testimoniato il falso, la crocefissione per i non cittadini romani. Solitamente, inoltre, alle esecuzioni per lapidazione partecipava tutta la comunità, così che non ci fosse un solo responsabile della esecuzione.
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“se uno rompe un membro a qualcuno e non c’è pacificazione, si deve applicare la legge del taglione”.
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I cristiani, ritenuti un pericolo per la tutela dell’ordine sociale, venivano dati in pasto alle belve negli spettacoli pubblici: occorre attendere l’editto di Costantino (313 d.C.) perché la religione cristiana venisse riconosciuta lecita come quella pagana e le altre religioni.8 Merita una riflessione il fatto che anche il cristianesimo fin dall’esordio non si fosse pronunciato contro l’uso della pena di morte. Nella Bibbia si afferma che nelle leggi che Dio consegna a Mosè per esporle al popolo, si stabilisce la pena capitale per alcune colpe: “Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte” (Es 21.12). Nell’antico testamento si affermava la legittimità della pena di morte quando veniva violata la legge di Mosè “Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni (lettera agli Ebrei 10.28)”. Si affermava inoltre che: “Viene messo a morte chi bestemmia il nome del Signore” (Lv 24,16) o, ancora, “viene messo a morte chi maledice il padre e la madre” (Es 21,17) ripreso dal Nuovo Testamento (Mc 7,10) “Onora tuo padre e tua madre e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. Veniva anche dichiarata la non riscattabilità di chi era stato condannato per omicidio prevedendo che se una persona uccideva un’altra persona, l’omicida sarebbe stato messo a morte in seguito a deposizione di almeno due testimoni9. Invece nel Nuovo Testamento si afferma che Gesù ha espresso più volte la sua contrarietà alla pena di morte: l’episodio più famoso è quello della lapidazione della donna adultera “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8,7).
8
Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, cit. pag., 16 e seg.
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Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origini e funzioni della pena di morte in Grecia e a Roma, cit., pag. 36 e seg.
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I.2 Il Medioevo e la Chiesa cattolica
Nel Medioevo la pena di morte assumeva un particolare rilievo, sia in Europa, che in Medio Oriente, come elemento esemplare della giustizia e della punizione e vendetta contro il male causato alla società. Caratteristica fondamentale della condanna a morte in quell’epoca era stata la spettacolarità, per cui l’esecuzione diveniva una vera e propria celebrazione del potere dello stato, del re o dell’imperatore, ma anche dei feudatari e dei magistrati investiti del compito di amministrare la giustizia. Attraverso l’istituzione ecclesiastica della Santa Inquisizione la Chiesa Cattolica ricorreva ampiamente alla pena di morte. Si accendevano roghi per punire chi sul piano politico, scientifico, dogmatico non la pensasse secondo i canoni della chiesa. I cittadini, inoltre, venivano sollecitati ad intraprendere “la guerra santa” contro gli infedeli giustificando, anche sul piano teologico, la non osservanza del sacro valore della vita10. L’uso della pena capitale era stata legittimata da pensatori e padri della chiesa, quali Sant’Agostino o San Tommaso d’Aquino, sulla base della “preservazione del bene comune” di tutti: ricchi, poveri, sani, malati11: “come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è diventata un pericolo per la comunità a causa di corruzione degli altri, essa deve essere eliminata per garantire la salvezza di tutta la comunità”12. San Tommaso giustificava così la contraddizione tra l’ideologia della Chiesa e la volontà della stessa di eliminare gli eretici e coloro che costituivano un pericolo per la comunità. Dal punto di vista ideologico, infatti, la Chiesa non ammetteva e non giustificava la morte, basti pensare al precetto: “Non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva”, oppure alla massima evangelica: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”; il credo della Chiesa si fondava sulla convinzione che la morte segnasse il passaggio dalla vita terrena alla vita eterna e non era dato agli uomini il potere di 10
Antonio Battiati, Il problema della pena di morte nell’Italia d’oggi, in Rassegna penitenziaria e Criminologica, 1982, pag. 584 e seg. 11 Giorgio Montefoschi, Agostino d’Ippona- Il discorso del signore della montagna, ed. Paoline, Roma, 2011, pag. 5 e seg. 12 Tommaso d’Aquino Summa Theologiae, II, q. 29, artt. 37-42.
9
decidere in merito alla vita e alla morte di un altro individuo, risultandone Dio padrone. San Tommaso era riuscito a superare il comandamento divino che impone di non uccidere, arrivando a giustificare l’omicidio legale, esaltando il valore della collettività a dispetto del singolo. E’ opportuno che venga eliminato l’individuo che risulta essere dannoso per il bene comune. San Tommaso riconosceva nel principe il “vicario di Dio”, l’autorità cui spettava la titolarità dell’azione penale13. Anche
Bernardo
di
Chiaravalle,
monaco e abate francese,
fondatore
della
celebre abbazia di Clairvaux e di altri monasteri, era stato, nel corso del XII secolo, un grande sostenitore della pena capitale, coniando il termine di “malicidio”: proprio per giustificare la esecuzione della pena di morte nei confronti di un criminale o di un pagano per estirpare il “male” che era in lui. In molti paesi europei dal 1600 agli inizi del 1800 il ricorso alla pena di morte, nelle sue forme più crudeli e violente, rappresentava la pratica più diffusa per punire una serie di reati, anche non gravi, in nome della “ragione di stato” e, soprattutto, ai fini di prevenire altri reati incutendo il terrore e la paura nella popolazione. I metodi per infliggere la pena erano disumani e violenti: oltre a quelli già citati, lo sbranamento, la trafissione con frecce, l’impalamento, la morte per fame o sete, la bollitura, la garrota, il letto incandescente, la pressatura, la morte da insetti. In mezzo a tante crudeli esecuzioni, cominciavano a levarsi alcune voci abolizioniste, sia nella vecchia Europa, che in altri paesi del mondo: a titolo di esempio possiamo ricordare l’imperatore cinese Taizon, della della dinastia Tong, che, dal 747 al 759, aveva abolito la pena di morte e in Giappone, l’imperatore Saga, nell’818 aveva abbracciato la stessa politica abolizionista. Anche nelle novelle orientali delle “Mille e una notte” nel X secolo, si trovano riferimenti contro la pena di morte.
13
Italo Mereu, La morte come pena, Donzelli, Roma, 2007, pag. 29 e seg.
10
I.3 La critica illuminista, Beccaria e la riforma del sistema penale in Toscana
Nel settecento in tutta Europa cominciava a diffondersi un atteggiamento critico nei confronti della pena di morte, perché in contrasto con i principi e i valori fondamentali del pensiero illuminista: l’umanità della pena, la necessità della sua efficacia generalpreventiva, l’esigenza di una laicizzazione del diritto penale14. La lotta principale intrapresa dagli illuministi era volta alla “secolarizzazione” del diritto penale: con questo termine si intendeva la necessità di una separazione tra la nozione di delitto e quella di peccato: più precisamente, bisognava operare una cesura tra ciò che violava il precetto religioso e i delitti in senso giuridico. Tale scissione veniva considerata necessaria in virtù del fatto che la giustizia umana è fondata sul danno arrecato alla società da chi viola le leggi penali e non si può far ricorso a una sanzione penale al fine di tutelare un mero precetto etico o religioso. Come teorizzato anche dai precursori degli illuministi, Christian Thomasius e Samuel Puffendhorf, l’attività di criminalizzazione del legislatore non è libera ma deve essere rispettosa dei principi sopra menzionati, il più grande limite che incontra è dato dalla dannosità sociale15. Il pensiero illuminista mirava a sovvertire la legislazione diretta alla realizzazione di valori: coloro che erano al potere non si preoccupavano delle conseguenze che l’applicazione delle pene potevano causare al reo, disinteressandosi delle atrocità cui era sottoposto. Non esisteva un bilanciamento tra il bene protetto e il valore della libertà personale, tra la pena e la gravità del delitto. Il legislatore era libero di incriminare qualsiasi comportamento senza incontrare alcun limite sia nella scelta delle condotte da punire, sia nella scelta delle pene da applicare. In Europa, la condanna a morte veniva inflitta per reati di lieve entità, tra cui possiamo ricordare il furto, il delitto di lesa maestà, che veniva considerato uno dei delitti più gravi; in quest’ultimo caso era accompagnata da atroci supplizi, in contrasto con il principio
dell’umanità
della
pena16,
cardine
14
imprescindibile
della
corrente
Gabrio Forti, L’immane concretezza, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pag. 118 e seg. Giovanni Fiandaca- Enzo Musco, Diritto penale, parte generale, 60 ed., Zanichelli, Bologna, 2009, introduzione pag. XVI. 16 Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, FrancoAngeli, Milano, 2003, pag. 66.
15
11
contrattualistica del pensiero illuminista, che criticava il ricorso incondizionato alla pena capitale e ne sottolineava la necessità di impiego solo come extrema ratio17. Tra i massimi esponenti del pensiero illuminista troviamo Cesare Beccaria, autore del saggio “Dei delitti e delle pene”, pubblicato nel 1764, che costituisce tuttora una pietra miliare di politica criminale, opera capace di rivoluzionare il concetto di pena e influenzare la formazione dei sistemi giuridici delle moderne democrazie18. Il fondamento del suo saggio si basava sul principio del Contratto sociale di Rousseau, interpretato come la prevalenza degli interessi della collettività sui diritti individuali19. Tali interessi della collettività non sono così imprescindibili, però, da legittimare la pena capitale. Una simile concezione era giustificata dal fatto che Beccaria considerava il bene della vita come un valore assoluto. Dato che il contratto sociale non è che la somma di minime porzioni della libertà privata, la volontà generale potrebbe uccidere un suo membro solo se si partisse dalla concezione che l’uomo, in quanto essere umano, non ha alcuna importanza e gli unici criteri di giudizio sono gli interessi dello Stato20. Beccaria, infatti, nella sua opera affermava: “Chi è mai colui che abbia lasciato ad altri uomini l’arbitrio di uccidere? Come mai, nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno, ci può essere quello massimo di tutti i beni, la vita?”21 Il marchese milanese aveva chiarito fin da subito quali fossero le sue convinzioni, sosteneva che era un riformista e non un rivoluzionario, che era a favore e non contro il potere, chiamando i monarchi “i grandi benefattori dell’umanità”22. Il saggio “Dei delitti e delle pene” era stato sin dalla sua prima pubblicazione criticato aspramente dal Facchinei, frate vallombrosano, che aveva preso le difese della pena capitale e della tortura. Accusava il filosofo di non riconoscere lo ius gladii, ovvero il diritto del principe o della società di uccidere23. Beccaria, attraverso le sue pagine, puntualizzava che esistono due categorie di delinquenti per i quali la pena di morte è utile e necessaria. La prima è composta da 17
Giovanni Fiandaca- Enzo Musco, Diritto penale, parte generale, cit., pag. XXI. Stefano Rodotà, introduzione Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Feltrinelli, Milano, 2009, pag.5 e Seg. 19 Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 100 e seg. 20 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, in L’indice penale, 2009, pag. 14 e seg. 21 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit. pag. 80. 22 Per un approfondimento sul pensiero di Cesare Beccaria si veda, ad esempio: Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 106. 23 Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 103.
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coloro che hanno commesso delitti, o si presume li abbiano commessi, in grado di arrecare un danno alla forma di governo: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando, anche privo di libertà, egli abbia ancor tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione: quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino diviene dunque necessaria quando la nazione recupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi”24. Oltre alla previsione della pena di morte per punire i delitti contro la nazione, Beccaria la ammetteva anche nel caso in cui tale punizione fosse servita per dare il buon esempio, quando fosse risultato l’unico strumento per distogliere gli altri cittadini dal commettere
simili delitti, poteva essere applicata come mezzo di prevenzione
generale25: “Io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero e unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti: secondo motivo per cui può crearsi giusta e necessaria la pena di morte”26. Per comprendere gli argomenti impiegati da Beccaria per opporsi all’uso della pena di morte, arrivando solamente a legittimarla in due casi e, comunque, prevedendola come extrema ratio, bisogna sottolineare quali erano, secondo il marchese milanese, i principi entro i quali il diritto penale deve muoversi. Innanzitutto era necessario che il diritto penale si fondasse sul principio della certezza della pena: l’efficacia intimidatoria di una sanzione certa, se pur mite, è maggiore di una più pesante, ma incerta nella sua applicazione27. Presupposto fondamentale del diritto penale è il rispetto del principio di legalità: tipologia di reato e pene devono essere indicati con chiarezza prima della commissione del fatto; i cittadini hanno diritto di conoscere con sufficiente precisione ciò che la società vieta e ciò che invece non è previsto come delitto. Il mancato rispetto di tale principio comporterebbe la possibilità di limitare discrezionalmente la libertà personale degli individui e verrebbe così ad essere inattuato anche il principio di
24
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit. pag. 80. Luciana Goisis, La revisione dell’art.27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2008, pag. 1658 e seg. 26 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit. pag. 80. 27 Domenico Pulitanò, Ergastolo e pena di morte, in Democrazia e diritto, Roma, 1981, pag. 158. 25
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legalità della pena, permettendo al giudice di muoversi indiscriminatamente al di fuori di una precisa previsione legislativa28. Deve essere rispettato il principio di proporzionalità della pena, che doveva colpire il reo in proporzione alla gravità del delitto commesso29. Beccaria prospettava una scala ideale sulla quale incasellare in ordine decrescente i delitti e le rispettive pene, era arrivato a formulare una proposta di legge per tutelare la libertà dei cittadini nei confronti della tirannia, impedendo così un uso indiscriminato della pena capitale ed evitando che pene identiche venissero applicate per punire fatti che offendono beni diseguali: una simile omogeneità, infatti, non avrebbe disincentivato al reo di commettere un delitto più grave se da esso avesse potuto attingere maggior vantaggio senza subire sanzioni più gravi. Il paragrafo XII dell’opera “Dei delitti e delle pene”, dedicato alla finalità della pena, enuncia il principio della prevenzione-speciale e prevenzione-generale della stessa: il fine del legislatore è distogliere lo stesso reo e gli altri cittadini dal commettere il delitto. Una pena è efficace qualora sia in grado di rimanere impressa negli animi degli uomini. Questa forza ammonitrice della pena non può essere soddisfatta attraverso l’impiego della pena di morte: un’esecuzione capitale si risolve in pochi istanti e il sentimento di compassione nei confronti del reo prevale sul vero fine della pena, la sua efficacia general-preventiva deve essere conseguita non attraverso l’intensità della sanzione ma con l’estensione sul lungo periodo di questa30. Ciò perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente scossa da impressioni minime, ma replicate nel tempo piuttosto che da una impressione forte ma istantanea e conclusa. La pena di morte costituisce uno spettacolo per la maggior parte, ma un oggetto di compassione e di sdegno per altri: essa quindi suscita sentimenti da spettatori e non di terrore come vorrebbe la legge31. Un lungo e ostentato esempio di un uomo privo di libertà, che deve ricompensare con le sue fatiche la società che ha offeso è un forte freno contro i delitti più che l’idea della morte vista da lontano.
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Giovanni Fiandaca- Enzo Musco, Diritto penale, parte generale cit., pag. XVII e seg. Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit., pag. 52. 30 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., pag. 54. 31 Elisa Scorza, L.c. 2.10.2007 n.1 - Modifica all’art. 27 della Costituzione concernente l’abolizione della pena di morte, in La legislazione penale, 2008, pag. 132. 29
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La pena di schiavitù è un deterrente più efficace contro i delitti poiché addirittura spaventa di più chi la vede di chi la soffre. Da ciò si deduce che la pena di morte non è utile per distogliere gli uomini dal commettere delitti ed inoltre è contraddittoria la posizione di una nazione che condanna e punisce l’omicidio con la pena di morte, commettendo a sua volta un omicidio. La carcerazione perpetua sarà molto più d’esempio ripercuotendo i suoi effetti per tutta la durata della pena: “Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorna sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza”32. Per concludere e per comprendere pienamente il pensiero di Beccaria bisogna ricordare che l’argomento più forte contro la pena capitale, svolto nelle consulte criminali, era rappresentato dal fatto che l’eventuale errore giudiziario sarebbe stato irreparabile e la persona incolpata del delitto non avrebbe potuto riappropriarsi di quella libertà che la società ingiustamente gli aveva tolto. Beccaria proponeva delle punizioni che non fossero infruttuose vendette, ma piuttosto risarcimenti sia del singolo verso la collettività che della collettività verso il criminale: le pene dovevano essere socialmente utili e volte al recupero del soggetto che aveva commesso il delitto33.
32 33
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit. pag. 81. Gabrio Forti, L’immane concretezza, cit. pag. 198 e seg.
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Il pensiero di Beccaria non solo era rivolto a rivoluzionare il sistema giuridico della società a cui apparteneva, ma risulta essere sempre di grande attualità: nello scritto di Josè de Faria Costa “Leggere Beccaria oggi”, l’autore sottolinea che il contenuto del libro rappresentava un reale programma di politica criminale, Beccaria operava una distinzione tra reato e peccato: solo il reato risponde a normative concordate tra gli uomini, in un’ottica puramente laica e terrena, storica e immanente, mentre il peccato riguarda un altro ambito. Da tale posizione derivava quindi un rifiuto della tradizionale identificazione tra diritto divino e diritto naturale, con una laicizzazione della giustizia che è la più forte giustificazione del rifiuto della pena di morte del presunto colpevole, non legittimata da alcuna giustizia divina. Soprattutto, estremamente moderna era la concezione della prevenzione come arma per combattere la criminalità e non la spettacolarità e la disumanità della pena. Come dice Jose Faria Costa: “Vale più prevenire che reprimere: la prevenzione è la miglior via per conseguire buoni risultati nella concretizzazione di qualsiasi progetto, evitando i risultati indesiderabili quale il delitto. Mentre, nel pensiero medioevale, l’allontanamento di un simile male doveva essere conseguito dall’uomo nella sua solitudine, con la ricerca interiore della perfezione che allontana delitto e crimine, per il pensiero illuminista di Beccaria era d’obbligo che la prevenzione si realizzasse attraverso la rimozione della moltitudine di cause esterne (sociali): la sua modernità rompeva le tradizioni, ponendo l’uomo al centro del <
> che è il mondo”34. Il pensiero di Beccaria era, per quell’epoca, talmente moderno che bisognerà aspettare ventidue anni per vedere affiorare effettivamente, a livello normativo, le idee liberali del filosofo lombardo: nel 1786 Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana, aveva emanato un codice penale i cui contenuti si allontanavano da quell’idea barbara, medievale e religiosa che aveva contraddistinto sino a quel momento il diritto penale dell’epoca, abbracciando quei valori e principi imprescindibili del pensiero illuminista35.
34 35
Jose Faria Costa, Leggere Beccaria oggi, in L’indice penale, 2000, pag. 1047. Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 67.
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Questa opera legislativa presentava caratteri di estrema novità rispetto al passato: tra le principali innovazioni il reo poteva essere punito solo dopo la dimostrazione sicura dell’illecito; le sentenze dovevano essere documentate e motivate in fatto e in diritto; alla pena di morte erano sostituiti i lavori forzati a vita. L’esperimento Leopoldino, seppur rimanendo a lungo un caso isolato, registrava una riduzione e non un aumento dei delitti più gravi. Purtroppo questo codice penale era rimasto in vigore solamente quattro anni, sino al 9 giugno 1790, quando i cittadini insorsero contro la crisi economica e, temendo l’incubo di possibili sviluppi della Rivoluzione francese, Pietro Leopoldo, ormai divenuto imperatore d’Austria, aveva invitato il governo provvisorio toscano a reintrodurre la pena di morte, se pur limitatamente ai casi di reati politici e nei confronti dei perturbatori della quiete pubblica36. Successivamente, il nuovo granduca di Toscana Ferdinando III, figlio e successore dell’ imperatore, nel 1795, aveva promulgato una nuova legge penale che estendeva la pena capitale a quei reati rivolti a distruggere, rovesciare la religione cristiana e a coloro che, attraverso l’attacco diretto alla pubblica autorità o al sovrano, miravano a sconvolgere la società o l’ordine pubblico, configurando così il reato di lesa maestà. Tale previsione era contraria alle idee di Pietro Leopoldo, che riteneva quest’ultimo reato lo spettro del dispotismo che non poteva essere tollerato in una società ben organizzata37. In Toscana, dal 1831, pur essendo formalmente in vigore la pena di morte, non si registrarono più esecuzioni, l’istituto della sanzione capitale, era caduto in desuetudine, fino a quando, nel 1852, a causa di disordini politici, vi era stato solo un formale inasprimento delle sanzioni: dal momento l’art 305 del codice penale allora vigente permetteva, in presenza di circostanze attenuanti, di sostituirla con i lavori forzati a vita. In sostanza non veniva più applicata38.
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Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 69. Mario Carnevale, Pena senza morte, in Questione giustizia, 2008, pag. 57. 38 Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 69.
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I.4 Dall’Ottocento al Novecento
A metà dell’ottocento, in Toscana, si era manifestato un violento scontro nell’ambito della dottrina: i contrasti avevano attraversato diagonalmente lo stesso schieramento dei giuristi riformatori, in quanto, all’epoca, la posizione a favore o contro la pena di morte non era da sola capace di tracciare una precisa linea di demarcazione tra conservatori e innovatori39. In un ambiente culturale molto sensibile a questa tematica, si era assistito ad un vivace dibattito sull’argomento: dominato dal giurista lucchese Giovanni Carmignani, da suo nipote Giuliano, e dall’astro nascente del pisano Carrara40. L’occasione veniva offerta, nel 1862, dalla presentazione di Cesare Cantù della nuova edizione “Dei delitti e delle pene” di Beccaria; Cantù aveva sfruttato l’evento per criticare l’opportunismo di Giovanni Carmignani che, dopo anni di insegnamento di discipline criminalistiche alla cattedra di Pisa (sostenendo l’utilità della pena di morte), al cambiare dei tempi aveva mutato opinione scendendo in campo a difesa del partito abolizionista41. Questa critica nasceva dal fatto che Giovanni Carmignani, nel periodo giovanile, si era dedicato alla confutazione delle tesi di Beccaria, difendendo e legittimando la pena capitale in una delle sue opere: Saggio di giurisprudenza criminale42. In questo scritto sosteneva che la psiche di alcuni criminali è tale che solo la minaccia della morte avrebbe potuto atterrirli, che lo spettacolo di un’esecuzione è un grande effetto deterrente, che l’intimidazione è il fine primario della pena e tale è opportunamente perseguito solo dalla pena di morte, che tutte le pene corporali, non solo la condanna a morte, sono insuscettibili di essere riparate ove si scopra l’innocenza dell’imputato. Con il passare del tempo Carmignani aveva mutato la sua visione, abbandonando la via della indiscriminata applicazione della pena di morte, affermando che: “Perché fremere di orrore sul supplizio di un barbaro, e non risentire l’orrore medesimo per gli spettacoli di crudeltà e di ferocia, co’ quali questo barbaro ha oltraggiato l’umanità!
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Per un approfondimento sul pensiero di Paolo Comanducci: Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit., pag. 70. 40 Marco Paolo Geri, Carmignani, Birnbaum e altri incidenti (momenti del dibattito ottocentesco intorno alla pena di morte), in l’Indice panale, 2010, pag. 399 e seg. 41 Cesare Cantù, “Beccaria e il diritto penale”, Firenze, Barbèra, 1862, pag. 292 e seg. 42 Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag.70 e seg.
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Adoperata con frequenza (la pena di morte) perde il proprio vigore e dà una tinta di ferocia e di crudezza alla nazione ove questi abusi si introducono”43. In età adulta lo studioso pisano si era schierato definitivamente a favore della abolizione della pena di morte. Esponeva il suo pensiero in tal senso nelle sue due più grandi opere: Teoria delle leggi della sicurezza sociale (1831) e Una lezione accademica sulla pena di morte detta nella Università di Pisa il 18 marzo 183644. Nelle due opere Carmignani sosteneva l’illegittimità della sanzione capitale, della irreparabilità e della scarsa efficacia general-preventiva della stessa, che ne rendevano iniqua l’applicazione. Giovanni Carmignani condivideva il pensiero di alcuni docenti toscani che si erano espressi sulla pena capitale, quali Paoletti e Poggi, sostenendo che le loro posizioni negli ultimi anni erano chiaramente contrarie alla pena capitale, in quanto il rigore delle pene e dei supplizi, compreso “l’ultimo supplizio” (pena di morte), ben lontani dal far diminuire i delitti, erano solo utili a incrementare la voglia di emulazione45. La polizia è più utile alla società con la sua attività preventiva, cioè con una “azione permanente del potere supremo volta a far pienamente valere l’azione delle leggi penali e a prevenire il bisogno, rimuovendo le cause dei delitti piuttosto che con l’applicazione di una giustizia vendicativa e repressiva”46. Né, d’altro lato, il periodo di abolizione della pena di morte aveva attirato in Toscana i delinquenti da altri stati: al contrario la popolazione aveva espresso sul Giornale pisano entusiasti apprezzamenti per la demolizione dei patiboli. In quegli anni infatti a Pisa era molto vivace il dibattito scientifico sull’argomento: si era costituita una assemblea popolare per presentare al parlamento una petizione per l’abolizione della pena di morte nel nuovo Codice penale in corso di stesura e, nel 1861, era stata inaugurata la Biblioteca abolizionista.
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Per un approfondimento sul pensiero di Giovanni Carmignani: Giovanni tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 71. 44 Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 71 e seg. 45 Marco Paolo Geri, Carmignani, Birbaun e altri incidenti (momenti del dibattito ottocentesco intorno alla pena di morte), cit. pag. 407 e seg. 46 Per un approfondimento del pensiero di Giuliano Carmignani: Marco Paolo Geri, Carmignani, Birnbaum e altri incidenti (momenti de dibattito ottocentesco intorno alla pena di morte), cit. pag. 409.
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Era stato proprio Carrara ad aver preso le difese di Carmignani e il nipote Giuliano aveva chiesto a Cantù una pubblica ritrattazione, richiesta che però era stata ignorata47. Giuliano Carmignani aveva cercato di giustificare l’iniziale posizione dello zio Giovanni a favore della pena di morte nel Saggio di “Giurisprudenza Criminale” (1795), sostenendo che la legittimità della pena di morte all’epoca era “opinione generale dei giureconsulti” e attribuiva il mutamento di opinione dello zio ad una maturazione e approfondimento in campo giuridico, in cui rilevava “un freddo e sicuro raziocinio, immune da qualsiasi influenza di sentimento umanitario”. Giuliano Carmignani aveva sostenuto inoltre che lo zio aveva cercato di dimostrare “colla storia, coi dettami della scienza, colla filosofia, quelle dottrine che si erano manifestate e sostenute per la via del sentimento”48. Anche in Europa andava diffondendosi un pensiero abolizionista. Nei Paesi Bassi, Birnbaun, docente di diritto penale all’Università di Lovario, nel 1828, aveva preso posizione pubblicando una sua orazione di stampo abolizionista nei confronti della pena di morte, adducendo come motivazione la scarsa efficacia preventiva della abolizione della pena di morte avvenuta nel Granducato di Toscana nel 1786. Birnbaun asseriva che nell’episodio toscano Giovanni Carmignani ne aveva sostenuto il ripristino per “necessità politica” e quando, nel 1822, si era schierato contro la pena di morte non era in base all’esperienza toscana, ma perché aveva seguito i “principes de Bentham” (cioè del principio utilitaristico come base della morale e del diritto, e quindi della legislazione, guidata unicamente dall’intento di realizzare “la maggior felicità possibile per il più gran numero possibile di individui”, già enunciata da Beccaria). Nonostante il percorso abolizionista, la prima metà del 1900 purtroppo era dominata dal ricorso frequente alla pena di morte, sia per la presenza sempre più potente dei regimi totalitari in Europa, che per lo scoppio delle due guerre mondiali, momento storico che ne aveva favorito il ritorno.
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Marco Paolo Geri, Carmignani, Birnbaum e altri incidenti (momenti del dibattito ottocentesco intorno alla pena di morte), in l’Indice panale, 2010, pag. 401 e seg. 48 Giuliano Carmignani come citato da Marco Paolo Geri, Carmignani, Birnbaum e altri incidenti (momenti del dibattito ottocentesco intorno alla pena di morte), cit. pag. 403.
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La giustizia militare, infatti, prevedeva la pena capitale per reati come diserzione, insubordinazione, codardia di fronte al nemico: si tenga presente che l’applicazione della pena di morte era prevista nei codici militari in quasi tutti i Paesi del mondo.
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I.2.1 La Pena di Morte nella Legislazione Italiana I.2.2 Gli Stati preunitari
Il periodo storico antecedente l’unificazione dell’Italia (1815-1861) era stato contrassegnato da un ritorno al passato per quanto riguarda il sistema penale e la concezione della pena capitale, vi era una vera e proprio negazione di quanto sostenuto dal pensiero illuminista e tale sistema penale si contraddistingueva per una vera e propria “esaltazione del trono, del boia e della pena di morte”49. I vari regni che nel 1861 andranno a comporre quello che diventerà il Regno d’Italia erano dotati di autonome codificazioni. Risulta di fondamentale importanza ricordare il Codice penale del Regno di Sardegna, promulgato nel 1859, per comprendere i motivi per cui la legislazione penale del nuovo Regno d’Italia aveva conosciuto i natali solo nel 1889, esattamente ventotto anni dopo l’unificazione. Il 20 novembre 1859 veniva promulgato il Codice penale sardo (succeduto al Codice penale albertino del 1839), in cui la pena di morte rappresentava ancora un baluardo e elemento imprescindibile. Basti citare alcuni articoli del codice per comprenderne l’importanza: l’art. 153 puniva con la pena capitale l’attentato alla Sacra persona del Re; l’art. 154 prospettava la stessa sorte nei confronti di chi attenta ai membri della famiglia reale; l’art. 531 puniva con la condanna a morte i colpevoli di parricidio, veneficio, infanticidio e assassinio. L’adozione di questo codice come simbolo dell’unificazione aveva trovato l’opposizione del governo provvisorio toscano, che aveva emanato un editto, il 30 aprile 1859, con cui si decretava che in Toscana la pena di morte era abolita. In virtù di questo decreto la legislazione penale italiana del 1860 risultava essere divisa in due parti: da un lato la Toscana e la Repubblica di San Marino, che aveva abolito la pena di morte nel 1848, e il resto della penisola che, invece, aveva mantenuto la pena capitale50.
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Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 75. Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 133 e seg.
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Nel febbraio del 1860 Carlo Cattaneo, noto filosofo, scrittore e politico repubblicano aveva pubblicato un articolo: “Della pena di morte nella futura legislazione italiana”, apparso nella rivista “Il Politecnico”, ove aveva sostenuto la mancanza di un effetto deterrente della pena di morte, ricordando l’esempio della “Leopoldina”51. Nel suo saggio proponeva un invertimento dei ruoli: la Toscana non doveva rappresentare l’eccezione, il nuovo Regno d’Italia avrebbe dovuto appoggiare una politica abolizionista della pena di morte. L’autore fondava le proprie tesi, innanzitutto, sulla necessità di progresso e civiltà: ammettere la pena capitale avrebbe significato un imbarbarimento di quella umanità della pena auspicata dagli illuministi e, in particolare, da Beccaria. Sottolineava il pericolo nel concedere al potere regio tale potere: “Dalla ferocia di un assassino ci si può a volte difendere. Ma da una feroce reazione politica nessuno, nessuno, è sicuro”. In secondo luogo la tesi in questione mirava a dimostrare che la pena di morte non avrebbe portato ad una diminuzione dei delitti, ma invece sarebbe stato causa di un loro aumento: è inutile opporre violenza a violenza52. Cattaneo si era dimostrato maggiormente “estremista” rispetto a Beccaria (il marchese milanese non escludeva il ricorso alla pena di morte, pur se solo in due casi), la sua lotta era finalizzata a una totale abolizione. A far da eco alle idee rivoluzionarie del politico repubblicano troviamo due grandi penalisti del tempo: Francesco Carrara e Pietro Ellero, che nel 1861 avevano fondato il “Giornale per l’abolizione della pena di morte”, diretto a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di eliminare la pena capitale, sostanzialmente considerata illegittima53. L’elemento di novità, sottolineato da questo giornale, risiedeva nel fatto che, per la prima volta, la lotta veniva fronteggiata non solo da uomini di dottrina, ma ricomprendeva le più disparate classi sociali che per la prima volta avevano trovato la cooperazione dei giuristi, quali i magistrati, da sempre, tradizionalmente d’accordo con il potere.
51
Mario Caravale, Pena senza morte, in Questione giustizia, 2008, pag. 60. Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 139 e seg. 53 Mario Caravale, Pena senza morte, cit. pag. 60. 52
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Nei primi due numeri Francesco Carrara aveva pubblicato il suo saggio dal titolo: “Una lezione dettata nella regia università di Pisa”, nel quale indicava le ragioni giuridiche che giustificavano la loro lotta. Non si voleva eliminare la pena di morte per motivi utilitaristici, la pena di morte era illegittima perché contraria all’unico fondamento della ragione di punire: il principio della tutela giuridica “voluto dalla suprema legge dell’ordine”54. Grazie a queste resistenze culturali e all’esempio della Toscana, i vari progetti ministeriali che, come nel periodo degli Stati preunitari, comprendevano nel novero delle loro sanzioni la pena di morte, non erano riusciti a influenzare quello che poi sarà il primo codice penale unico per tutto il Regno d’Italia. I quattro progetti dei governi della sinistra, rispettivamente del 1874, 1877, 1883 e 1887, diretti alla soppressione della pena di morte con la sostituzione dell’ergastolo, ad esclusione di alcuni reati previsti dai codici militari, erano riusciti a influenzare il primo codice penale dell’unificazione: il codice Zanardelli, entrato in vigore nel 188955. Per comprendere pienamente quanto strenua fosse stata l’opposizione alla pena di morte e quanto insormontabile il confine che divideva abolizionisti e mantenitori della pena di morte merita soffermarsi brevemente sui progetti e proposte formulate dal 1861 al 1874, prima dell’avvento della sinistra al governo. Nel 1861, l’allora ministro della Giustizia Giovan Battista Cassinis riteneva il codice sardo del 1859 come unico possibile pretendente al trono della legislazione penale, considerando tale corpus normativo come il migliore d’Europa, ricordando che, rispetto alle altre legislazioni penali europee, il numero di delitti per cui era prevista la condanna a morte era sensibilmente inferiore. Ma come sostenevano gli abolizionisti, per voce di Ellero, nel suo proemio al “Giornale”: “Non dovesse giustiziarsi che un sol colpevole sulla terra, ancor perdura un gran misfatto per l’umanità”. Da questo si desume l’insoddisfacente compromesso ottenuto dal progetto presentato da Vincenzo Miglietti, ministro succeduto a Cassinis, il 6 gennaio 1962, che aveva prospettato un nuovo disegno di legge per l’unificazione del diritto penale che prevedeva l’ipotesi di pena capitale per solo quattro tipologie di reato56.
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Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 141 e seg. Giorgio Marinucci, La pena di morte, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2009, pag. 7. 56 Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 147 e seg.
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Per quanto riguardava gli abolizionisti, un ruolo di Spicco spetta a Stanislao Mancini, grande giurista e politico italiano che tra il 1864 e il 1868 aveva presentato due progetti, entrambi, di stampo abolizionista. Il primo trovava il voto favorevole della Camera, sulla base della giustificazione che non sussiste un differente valore della vita tra i cittadini toscani e il resto del Regno d’Italia; nel frattempo veniva formulato, per mano del ministro della Giustizia Giuseppe Vacca, un progetto normativo volto a codificare tutti i campi giuridici ad esclusione dell’ambito penale ove la problematica della pena di morte chiedeva tempi più dilatati. Il lavoro di Mancini aveva ottenuto, come già detto, il voto favorevole della Camera ma non del Senato, che era preoccupato di minare l’unità politica appena conquistata con una legislazione penale all’avanguardia e, inoltre, lo stesso Senato elogiava l’efficacia preventiva e d’intimidazione della pena capitale. Mancini aveva ribattuto all’opinione del Senato sostenendo che la pena di morte non aveva mai avuto efficacia deterrente e la convinzione che fosse l’unico strumento per mantenere l’ordine pubblico era dettata da un pregiudizio, perché nessuno fino ad allora aveva provato a mutare lo stato dell’arte, ma, basandosi solo sull’esperienza del passato, tale pena veniva considerata l’unica efficace per il solo fatto che era stata l’unica via intrapresa57. Il secondo progetto Mancini, ideato sulla scia del primo, aveva trovato, come antagonista, l’allora ministro guardasigilli Paolo Onorato Vigliani che, nel 1874, aveva inviato al Senato il suo progetto di codice, dove la pena di morte, per motivi di opportunità, veniva mantenuta, anche se con notevoli restrizioni e limitazioni. Il progetto, a causa della caduta del governo, non aveva ottenuto l’approvazione della Camera. La sinistra era salita al potere e il nuovo guardasigilli, Stanislao Mancini, aveva proposto nei progetti successivi quello che poi avrebbe rappresentato l’innovazione del codice del 1889: la soppressione della pena capitale58. Zanardelli, ministro della giustizia dal 1887 al 1891, giustificava l’abolizione sulla scia del pensiero di Beccaria: lo stesso politico italiano ricordava l’irreparabilità dell’errore giudiziario, possibile invece nei confronti delle altre sanzioni,
l’irreversibilità e
l’irrisarcibilità dei danni provocati dalla pena capitale59.
57
Italo Mereu, La morte come pena, cit. pag. 150 e seg. Giovanni tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 83 e seg. 59 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit., fasc. 1 pag. 22. 58
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L’eliminazione della pena di morte era stata accolta con favore dall’opinione pubblica e coloro che appoggiavano l’ideologia alla base del codice Zanardelli erano convinti della mancanza dell’effetto deterrente di tale pena, tanto da ritenere che non ci sarebbe stato un incremento di quella criminalità per cui in precedenza era prevista la condanna capitale.
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I.2.3 Il periodo del fascismo
Nei decenni successivi, le condizioni di instabilità e insicurezza dell’ordinamento italiano, causate dalla prima guerra mondiale, avevano fomentato l’idea che l’eliminazione della pena di morte fosse stato un passo azzardato e i primi simpatizzanti del regime fascista cercavano di sfruttare questa situazione per ripristinare tale pena60. Con l’avvento di Mussolini il percorso abolizionista aveva subito una battuta d’arresto: Il duce, nel 1925, aveva assunto, di fatto, poteri dittatoriali e grazie all’aiuto del guardasigilli Alfredo Rocco, aveva posto le basi per l’istaurazione di uno Stato totalitario, dove prevaleva la supremazia dello Stato e non del popolo, la libertà non era un diritto individuale ma un beneficio concesso dall’autorità statale, libero di limitarla o abolirla. La pena di morte, in tale contesto, risultava necessaria per mantenere l’ordine e la stabilità del governo61. Le tappe che avevano portato al reinserimento nell’ordinamento giuridico della pena di morte furono sostanzialmente due. La prima, a seguito di alcuni attentati a Mussolini, che avevano rappresentato il pretesto per ripristinarla, con la legge 25 novembre 1926 n. 2008: l’art. 1 prevedeva tale pena per i delitti volti a minare la vita, l’integrità e la libertà personale del re o del capo del governo e l’art. 2 per una serie di reati contro lo Stato62. Era stato proprio l’art. 2 a creare scalpore. Veniva legittimata la punizione dei crimina lesae maiestatis, estendendo la pena di morte ai crimini di cui all’artt. 104 del codice penale (attentato contro l’indipendenza e l’unità della Patria), 107 e 108 (violazione dei segreti concernenti la sicurezza dello Stato), 120 e 125 (attentati contro la pace interna)63. Successivamente, con R.D. 12 dicembre 1926 n. 2062, la pena capitale veniva estesa ai fatti di distruzione di edifici pubblici o privati e alle ipotesi di strage e attentati contro la sicurezza dello Stato64. La competenza giurisdizionale, in merito a delitti che comportavano l’applicazione della pena di morte veniva affidata a un apposito organo a composizione e procedura marziale: il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
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Antonio Battiati, Il problema della pena di morte nell’Itallia d’oggi, cit., pag. 574. Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 93 e seg. 62 Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit. fasc.1 pag. 7. 63 Vincenzo Manzini, Trattato di diritto penale italiano, volume III, UTET, Torino, 1981, pag. 70. 64 Giandomenico Salcuni, Il percorso verso l’abolizione della pena di morte, cit. pag. 8. 61
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I discorsi e i progetti di legge del giurista Rocco, raccolti nella “Trasformazione dello Stato”, edito nel 1927, aiutano a comprendere maggiormente il motivo della giustificazione e necessità di ricorrere alla pena capitale. In tale opera Rocco aveva sottolineato la sostanziale differenza tra lo Stato liberale-democratico antecedente e lo Stato fascista: quest’ultimo è sovrano e tutte le forze del paese sono soggette alla sua disciplina. Se i fini dello Stato erano prevalenti, era lecito l’uso di qualunque mezzo per realizzarli, compresa la pena di morte. Per il bene del governo Mussolini i dissidenti non potevano essere accettati: i deputati popolari, rappresentanti dell’opposizione, erano stati cacciati dai fascisti dalla camera dei deputati in sede di votazione per l’adozione dei “Provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato” (legge 25 novembre 1926 n.2008). In Senato la discussione sulla pena di morte era stata pacata, ma si erano sollevate voci dissidenti e contrarie al ripristino di questa sanzione: lo storico Giovanni Tamassia e il ministro delle finanze Leone Wollemborg sostenevano l’incapacità della condanna a morte di conseguire lo scopo della difesa dello Stato, sottolineando come i periodi storici maggiormente delinquenziali erano stati quelli in cui tale sanzione era prevista e che spesso, anziché frenare, tale pena fomentava la delinquenza. Lo stesso Enrico Ferri, criminologo italiano, che esaltava la mancata previsione normativa della sanzione capitale del codice Zanardelli, definendo inutile la pena di morte in quanto priva dell’efficacia deterrente e sottolineando come la giustizia fosse fallibile mentre la morte era irreparabile, aveva appoggiato il disegno di legge. Il 26 novembre 1926 la legge veniva approvata65. La seconda tappa, diretta a una piena e totale applicazione della pena di morte, era rappresentata dal codice Rocco del 1930, che sanciva a livello codicistico la pena capitale. L’art. 21 ne prevedeva l’applicazione per i delitti contro la personalità interna e internazionale dello Stato e per alcuni delitti comuni, tra i quali, in particolare, l’omicidio volontario aggravato66.
65 66
Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 93 e seg. Art. 21 cod. pen.: “La pena di morte si esegue, mediante la fucilazione, nell’interno di uno stabilimento penitenziario, ovvero in altro luogo indicato dal Ministro della giustizia. L’esecuzione non è pubblica, salvo che il Ministro della giustizia disponga altrimenti”. Testo dell’articolo riportato da: Vincenzo Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., pag. 76.
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La novità del codice consisteva nell’estensione della pena capitale oltre i limiti dei crimini politici e lo stesso, peraltro, presentava, in generale, un apparato sanzionatorio estremamente duro. La pena capitale aveva una funzione satisfattoria dal momento che nessun’altra pena placava maggiormente il sentimento offeso dei parenti e dell’opinione pubblica. Soddisfaceva la funzione di prevenzione individuale in quanto diretta a eliminare il reo: il guardasigilli non credeva nella funzione rieducativa della pena o, comunque, non la riteneva la sua funzione essenziale. Forte dell’appoggio dello Stato del Vaticano, che in quel periodo prevedeva la pena di morte nel suo ordinamento, Alfredo Rocco aveva fatto sue le parole di Tommaso d’Aquino per giustificare l’eliminazione dei criminali che rappresentavano un pericolo e, allo stesso tempo, per allontanare la corrente abolizionista, fondata essenzialmente sul pensiero di Beccaria, definito quest’ultimo portatore di ideologie straniere, lontano dallo spirito e dalle tradizioni italiane67. Il codice Rocco trovava il suo precedente nella già menzionata legge 26 novembre 1926, approvata dopo che l’asse Mussolini-Rocco aveva promesso al re Vittorio Emanuele III e al Parlamento che si sarebbe trattato di una normativa transitoria. Sarebbe dovuta rimanere in vigore solamente cinque anni e veniva definita necessaria per poter affrontare la situazione d’emergenza e ristabilire l’ordine. In tal modo si era evitato che l’entrata in vigore della legge fosse sottoposta, alla Camera, al dibattito relativo alla dura e duratura vexata quaestio della pena di morte. Il codice Rocco non solo aveva abrogato implicitamente le disposizioni sostanziali contenute nei Provvedimenti per la difesa dello Stato, perché la relativa disciplina dei reati politici era stata trasfusa nel titolo primo del secondo libro del codice, ma, con la previsione della pena di morte per reati comuni, la competenza giurisdizionale veniva attribuita alle Corti d’Assise68.
67 68
Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit. pag. 7 e seg. Giuseppe Mazzi, L’abolizione della pena nelle leggi militari di guerra, in Rassegna della giustizia Militare, 1994, pag. 97.
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I.2.4 Subito dopo il periodo fascista
La caduta del fascismo, avvenuta nel 1943, non segnava solamente la fine di un regime totalitario, ma anche un progressivo ritorno alle idee del Beccaria, dando vita ad un periodo di riforme volte a eliminare la sanzione capitale. La questione della pena di morte era stata affrontata seriamente dal nuovo governo democratico, il cui Presidente del Consiglio era Badoglio, nella seduta del Consiglio dei ministri del 4 maggio 1944, in cui si erano sollevate voci abolizioniste basate su argomentazioni relative alla atrocità della pena di morte e all’impossibilità di mantenere una sanzione prevista da un regime totalitario, sostenendo che il nuovo governo democratico dovesse fondarsi su nuovi principi69. Prima della fine della seconda guerra mondiale la pena di morte era stata abolita dall’art. 1 del d. lgt. 10 agosto 1944 n. 244. La soppressione non riguardava tutti le disposizioni di legge che prevedevano tale pena: per i delitti previsti dal codice penale, ma non per i delitti di collaborazione con i nazi-fascisti e per i reati fascisti che erano disciplinati da leggi speciali, mantenuti in vigore con il decreto n.159 del 27 luglio 1944. Oltre a queste fattispecie, la pena di morte veniva mantenuta per alcuni reati dal codice militare di guerra del 1941. Con il Decreto luogotenenziale 10 maggio 1945 n. 234: “Disposizioni penali di carattere straordinario” era stata ripristinata la pena di morte per reati quali: rapina, costituzione di bande armate finalizzate al compimento di reati contro la proprietà o di violenza contro le persone. Tale scelta legislativa era stata giustificata dall’incremento della criminalità, dovuto alla devastazione del Paese e alla penuria dei beni causati dalla fine del conflitto. L’adozione di tale provvedimento risultava necessario, nonostante si stesse riaffermando una concezione umanitaria della pena e una politica criminale affine al pensiero illuminista, dove l’efficacia deterrente della pena di morte era posta in discussione70.
69 70
Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit. pag. 599 e seg. Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit. pag. 8 e seg.
30
I.2.5 Dal 1948 ad oggi
La definitiva abrogazione della pena capitale, in riferimento ai delitti comuni, era avvenuta con l’entrata in vigore della Costituzione il primo gennaio 1948: l’art 27 co. 3 stabiliva che: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; il quarto comma invece, corollario del terzo, stabiliva che: “non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. La scelta del legislatore di abolire la pena di morte, quale sanzione di diritto comune, era ispirata al rispetto del diritto alla vita, inteso come valore primario. Tale opzione risultava coerente con il carattere democratico del nuovo ordinamento italiano, diretto a tutelare la vita e la dignità umana e a consacrare, a livello costituzionale, il duplice principio di rieducatività e umanità della pena71. Anche Aldo Casalinuovo, noto giurista del tempo, aveva sottolineato, prima dell’entrata in vigore della Costituzione, come la finalità della pena fosse quella di garantire la rieducazione del reo e di assicurare la funzione di prevenzione generale, finalità diverse ma egualmente importanti. Casalinuovo si faceva portavoce dello spirito abolizionista dell’Assemblea costituente, rivolto a consacrare nella carta costituzionale quello spirito di umanità della pena, considerato elemento imprescindibile da Beccaria. Lo stesso, poi, sosteneva che la pena capitale ne era contraria e non era in grado di soddisfare la finalità di rieducazione del reo sostenendo che la previsione, a livello normativo, della pena capitale da parte degli Stati fosse un segno di debolezza e incapacità di soddisfare il criterio di prevenzione speciale72. Merito del medesimo spirito abolizionista era stata la previsione del d.l. 22 gennaio 1948, che aveva soppresso la pena capitale per i delitti previsti dalle leggi speciali, diverse da quelli militari di guerra, sostituendo tale pena con l’ergastolo. Nonostante la legittimità conferita dalla Costituzione alla pena capitale, in riferimento all’applicabilità della stessa in tempo di guerra, ciò non avrebbe impedito un uso distorto di questa sanzione: strumentalizzarla per scagionare un pericolo oggettivo per
71
Giovanni Fiandaca, Commento all’art. 27, co .4 Costituzione, in Commento alla Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, Zanichelli, Bologna, 1991, pag. 346. 72 A proposito del pensiero di Aldo Casalinuovo si veda: Giovanni Tessitore, Fascismo e pena di morte, cit., pag. 575 e seg.
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la coesione dei reparti militari, per il raggiungimento dei fini perseguiti dallo Stato e non per punire la gravità del fatto commesso. Alla luce di numerose moratorie dell’esecuzione della pena di morte nel mondo73, con la l. 13 ottobre 1994 n. 589, approvata da tutti i gruppi parlamentari, veniva abolita la pena di morte per i delitti previsti dal codice militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, sostituendola con l’ergastolo74. Nonostante questo lungo percorso, problemi in merito a casi giudiziari che prevedevano la pena di morte potevano sorgere in materia di cooperazione penale tra Stati che prevedono la pena di morte e Stati abolizionisti. L’art. 11 della Convenzione europea di estradizione dispone che, in caso di richiesta da parte di uno Stato, in cui è ancora in vigore la pena di morte, di estradare un reo, nei cui confronti pende una condanna che prevede l’applicazione della sanzione capitale, lo Stato richiesto può rifiutarsi se lo Stato richiedente non fornisce assicurazioni sufficienti allo Stato richiesto che la pena capitale non sarà irrogata o, se irrogaata, non eseguita75. L’Italia, al momento della firma della Convenzione, aveva depositato una riserva che le avrebbe permesso di non estradare il reo nel caso in cui lo Stato richiedente avesse applicato la pena capitale. Tale riserva riguardava le sufficienti assicurazioni; dal momento che non rappresentavano, per l’Italia, idonea garanzia per escludere tassativamente l’applicazione della pena capitale e tale sanzione risultava non rispettosa del principio costituzionale di cui all’art. 27 co.4. In merito la Corte costituzionale aveva stabilito che, in concreto, le assicurazioni sufficienti non erano tali da escludere in assoluto la mancata applicazione della pena di morte e un eventuale estradizione da parte dello Stato italiano avrebbe comportato la violazione di un bene tutelato costituzionalmente: la vita, che imponeva una garanzia assoluta, garanzia assente in una norma che demanda valutazioni discrezionali. La Corte, dunque, riteneva l’estradizione ammissibile solo in presenza
di norme pattizie che
escludevano, categoricamente, l’applicazione della pena capitale o la sua conversione nella massima pena prevista76.
73
Si avrà modo di approfondire in seguito il tema della moratoria. Giuseppe Mazzi, L’abolizione della pena di morte nelle leggi militari di guerra, cit., pag. 97 e seg. 75 Il riferimento è alla “Convenzione Europea di estradizione”, approvata a Parigi, del 13 dicembre 1957, ratificata dall’Italia con l. n. 300 del 30 gennaio 1963. 76 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit. pag. 30 e seg. 74
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Questo orientamento trovava il suo precedente in un’ulteriore sentenza della Corte costituzionale77, che nel 1979 aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il r.d. 30 giugno 1870 n. 5726, attuativo del Trattato di estradizione stipulato tra Italia e Francia, nella parte in cui prevedeva la possibilità di rimandare il reo nel paese d’origine ai fini dell’applicazione della pena di morte. Era stato dichiarato illegittimo per violazione degli articoli 3 e 27 co.4 della Cost. Tale pronuncia risultava necessaria in seguito al fatto che la Corte di Cassazione, chiamata in causa più volte, si era sempre pronunciata a favore dell’estradizione di cittadini francesi condannati alla pena capitale o imputati di reati passibili di tale pena dal loro paese di appartenenza78. La Corte di Cassazione aveva giustificato tale posizione asserendo che l’illegittimità e l’inammissibilità della pena di morte si riferiva esclusivamente all’ordinamento italiano senza produrre ripercussioni nei rapporti internazionali, qualora, il divieto di estradizione per reati punibili con la pena di morte non fosse espressamente menzionato nel relativo trattato di estradizione79. La Corte costituzionale era arrivata a pronunciare tale sentenza paventando un ritorno, se pur indiretto, della pena di morte nelle pronunce dei giudici italiani80. La stessa sosteneva non si potesse consentire che in tema di valori e beni fondamentali per l’ordinamento interno le autorità italiano attuassero, nell’ambito della cooperazione con le autorità dello Stato richiedente, discriminazioni. Si considerava lesivo dei principi costituzionali che lo Stato italiano concorresse all’esecuzione di pene che in nessuna ipotesi e per alcun tipo di reati avrebbero potuto essere inflitte in Italia in tempo di pace, se non in virtù di una revisione costituzionale. La sentenza della Corte aveva una portata generale, estensibile a tutte le altre convenzioni, cui l’Italia era, o sarebbe stata in futuro, vincolata con Stati che applicavano ancora la pena capitale: aveva fatto proprio il principio della non sopravvivenza delle norme di adattamento di Trattati anteriori all’entrata in vigore della Costituzione, in contrasto con la carta costituzionale stessa81.
77
Corte cost., 21 giugno 1979, n. 54. Tullio Delogu, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione passiva, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1978, pag. 1466. 79 Giovanni Fiandaca, Commentario della Costituzione, cit., pag. 349 e seg. 80 Guido Salvini, Delitti punibili con la pena di morte ed estradizione dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, in Rivista italiana del diritto e procedura penale, 1980, pag. 220. 81 Giovanni Fiandaca, Commentario della Costituzione, cit., pag. 349 e seg. 78
33
Questi motivi erano i medesimi posti a fondamento della sentenza con cui la Corte Costituzionale
aveva negato l’estradizione di Pietro Venezia, reo di un omicidio
avvenuto in Florida, ritenendo le assicurazioni sufficienti non legittimate a fondare una richiesta di estradizione82. La Corte aveva dichiarato l’illegittimità degli art. 698 co. 2, c.p.p. e della l. 26 maggio 1984 n. 225 (ratifica ed esecuzione del Trattato di estradizione tra il governo italiano e quello degli Stati Uniti) nella parte in cui dava esecuzione all’art. 9 del trattato, per contrasto con gli artt. 2 e 27 co. 4 Cost83. Si manifestava, dunque, un crescente operato da parte del governo diretto a sopprimere definitivamente dal nostro ordinamento una pena ritenuta disumana e in contrasto con i dettami costituzionali. La totale eliminazione di ogni riferimento normativo alla pena capitale in Italia avvenne con la legge costituzionale 2 ottobre del 2007, che, revisionando l’art. 27 della Costituzione, eliminò l’inciso finale del 4 co.: “Se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Questo ultimo tassello del percorso abolizionista è stato realizzato grazie anche all’operato del sistema CEDU in materia84. Il Consiglio d’Europa, fronte compatto contro la pena di morte, disumana e contraria all’art. 3 della CEDU85, esortava i sistemi penali delle moderne società civili ad abbandonare l’applicazione di questa sanzione. Il primo passo intrapreso nel solco del percorso abolizionista, decisivo e fondamentale, è stato compiuto il 28 aprile 1983 con l’apertura alla firma del Protocollo n. 6 alla CEDU che disponeva l’abolizione della pena di morte in tempo di pace. Sino ad allora l’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevedeva l’applicazione della pena di morte senza alcun limite, purchè inflitta da un tribunale competente in base a una legge che la prevedesse86. Vi era stata unanime accettazione delle prescrizioni del Protocollo n. 6 da parte degli Stati membri del Consiglio, ad eccezione della Russia e del Principato di Monaco.
82
Corte Cost., 27 giugno 1996, n. 223. Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit. pag. 30 e seg. 84 Il riferimento è alla “Convenzione Europea per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà Fondamentali”, approvata a Roma, del 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con l. n. 848 del 4 agosto 1955. 85 Art. 3 CEDU: “Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti. 86 Luciana Goisis, La revisione dell’art.27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, cit., fasc. 4 pag. 1678 e seg.
83
34
Data l’unanime adesione, non solo la ratifica del Protocollo n. 6 aveva iniziato a costituire condicio sine qua non per far parte del sistema CEDU, ma gli organi del Consiglio d’Europa avevano cercato di eliminare il limite alla totale abolizione della sanzione capitale previsto dall’art. 2 del Protocollo che ammetteva la stessa per atti commessi in tempo di guerra o in caso di imminente pericolo di guerra. Si era giunti cosi al Protocollo n. 13 alla CEDU, entrato in vigore il primo luglio 2003 che prevedeva l’abolizione della pena di morte anche in tempo di guerra. Questo Protocollo era dotato di propria autonomia perché non era stata accettata la tesi secondo cui quest’ultimo avrebbe abrogato implicitamente l’art. 2 del Protocollo n. 6, che faceva salvo il diritto degli Stati di prevedere la pena capitale per reati commessi in tempo di guerra o di pericolo imminente di guerra. Si lasciava così sostanzialmente la possibilità agli Stati, che non avevano ratificato il Protocollo n. 13, o, per i futuri aderenti alla CEDU, la possibilità di ratificare solo il Protocollo n. 6, impegnandosi a rispettare solo il divieto della pena di morte in tempo di pace87. Nonostante la previsione costituzionale di cui all’art. 27 co. 4 ponesse il divieto della pena di morte in tempo di pace e nonostante il riferimento costituzionale fosse stato inserito nella prima parte della Costituzione, configurandolo come proiezione dell’art. 2 Cost. che garantiva la tutela della vita, riconosciuta come bene fondamentale, primo dei diritti inviolabili, l’inciso finale dell’art. 27 co. 4 lasciava vivo lo spettro della sanzione capitale. L’abrogazione, ad opera della l. n. 589 del 1994, delle disposizioni delle leggi militari di guerra contemplanti la pena capitale era avvenuta con legge ordinaria, per cui, in base alla Costituzione, al legislatore non era preclusa la possibilità di reintrodurla con legge di pari rango88. Solo la revisione del testo costituzionale avrebbe consentito di eliminare l’antinomia tra l’inciso finale dell’art.27 co. 4 e con il resto della disposizione, rivolto alla risocializzazione del reo (che non poteva prescindere
dalla
sua
esistenza),
ma
anche
con
gli
altri
valori
sanciti
costituzionalmente: artt. 1, 2, 3 che prevedevano una piena tutela della persona umana.
87
Andrea Saccucci, L’abolizione della pena di morte in tempo di guerra nel Protocollo n. 13 alla Convenzione europea, in I diritti dell’uomo, cronache e battaglie, Roma, 2004, pag. 36 e seg. 88 Giovanni Fiandaca, Commentario della Costituzione, cit., pag. 348 e seg.
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La stessa dottrina costituzionale aveva sottolineato come tale previsione risultasse incompatibile con quanto disciplinato all’art. 52 Cost. co. 3: “L’ordinamento delle forze armate si uniforma allo spirito democratico della Repubblica” e tale spirito si busa sulla tutela della dignità umana. Alla luce di tutti questi valori e principi il Parlamento aveva approvato la legge costituzionale 2 ottobre 2007 n. 1, entrata in vigore il 25 ottobre 200789. A seguito dell’approvazione di tale provvedimento si erano create le condizioni necessarie affinchè l’Italia potesse ratificare ed eseguire (con legge 15 ottobre 2008, n. 179) il Protocollo numero 13 addizionale alla CEDU. L’adesione dell’Italia a tale protocollo aveva avuto un immediato corollario giurisdizionale: il divieto al ricorso alla pena capitale entrava a far parte degli obblighi convenzionali, permettendo così ad ogni individuo, potenziale vittima di questa sanzione disumana, di azionare dinnanzi alla Corte di Strasburgo un diritto soggettivo90.
89
Luciana Goisis, La revisione dell’art. 27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, cit., pag. 1655 e seg. 90 Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quaderni costituzionali, Bologna, 2011, pag. 593.
36
Cap. II – Il cammino verso l’abolizione della pena di morte
II.1. Motivazioni e dibattiti pro e contro la pena di morte
Ancora oggi Il problema della pena capitale e della relativa abolizione è molto delicato; è una tematica dibattuta in tutto il mondo, non solo nei Paesi che applicano questa sanzione, ma anche nelle legislazioni che hanno abrogato questa pena disumana. Come si può apprendere dalla storia, l’opposizione tra abolizionisti e sostenitori della sanzione capitale è stata ed è causa di forti scontri: a partire dal periodo della lotta, diretta all’eliminazione della pena capitale, intrapresa dagli illuministi e da Beccaria nel XVIII secolo, fino ad arrivare ai giorni nostri. Nonostante le teorie di grandi giuristi e uomini di scienza, tese ad umanizzare il sistema penale e volte a dimostrare l’inutilità della pena capitale, il dibattito tra queste due fazioni è ancora vivo. Come sostiene Norberto Bobbio, noto filosofo italiano, “se noi guardiamo al lungo percorso della storia umana più che millenaria dobbiamo riconoscere, ci piaccia o non ci piaccia, che il dibattito per l’abolizione della pena di morte si può dire appena cominciato”91.
91
Norberto Bobbio in Amnesty International – Regione Toscana, Né utile né necessaria. Contro la Pena di morte, Giunti, Firenze, 1997, pag. 19 e seg.
37
Una delle cause dello scontro tra abolizionisti e conservatori può essere individuata nella differente prospettiva con cui ci si rapporta alla sanzione capitale. Il dibattito pro e contro la pena di morte rimane in bilico tra ragioni di tipo eticomorale e ragioni di tipo giuridico, le quali attengono, esclusivamente, al settore del diritto. Affrontare il tema della pena di morte, intesa come sanzione penale, facendosi influenzare da sollecitazioni culturali, che trovano la loro ragione d’essere in campi esterni al diritto, potrebbe far perdere di vista il momento della qualificazione giuridica della morte come pena; arrivando a confondere il concetto di pena, finalizzata alla rieducazione del reo e alla sua risocializzazione, con il concetto di vendetta, volta, esclusivamente, a ripagare il dolore e il danno personale subito dai familiari della vittima92. La vendetta, come sostiene Ernst Bloch, famoso filosofo tedesco, trova le sue radici nella “legge del taglione”, secondo uno schema rozzamente retributivo della pena che arriva a prevaricare il criterio della proporzione93. I conservatori trovano la giustificazione del ricorso a tale sanzione partendo dal presupposto che, essendo il diritto penale un sistema di controllo, ed essendo la pena lo strumento necessario all’attuazione di questo, sarebbe del tutto lecita l’applicazione della pena capitale: il reo, da un punto di vista giuridico, è nemico dell’ordinamento costituito, non rispetta le regole imposte dal diritto vigente e quindi, di conseguenza, non devono essere applicate nei suoi confronti le garanzie del diritto penale. In un’ottica utilitaristica l’autore di un delitto grave come, a titolo di esempio, un omicidio, può essere mandato al patibolo. I sostenitori della pena di morte legittimano il ricorso dando un’interpretazione favorevole alle loro tesi delle teorie della prevenzione generale allargata e della prevenzione generale integratrice94. La teoria della prevenzione generale allargata individua nella pena capitale un’efficacia deterrente e una funzione di orientamento culturale, ottenibile nel momento in cui il livello di severità della pena coincide con ciò che la società, in un determinato periodo
92
Pasquale Troncone, Brevi riflessioni intorno al fondamento e allo scopo del diritto di punire con la morte, in Rivista penale, 2010, pag. 241 e seg. 93 Ernst Bloch, Diritto naturale e dignità umana, Giappichelli, Torino, 2005, pag. 229. 94 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit. pag. 16.
38
storico, considera giusto95. La teoria della prevenzione generale integratrice sostiene che la pena capitale non soddisfa solamente esigenze preventive nella fase della minaccia, ma anche in quella dell’inflizione della pena, rendendo certo il diritto e acquisendo la fiducia dei consociati nei confronti della norma, sapendo che lo Stato agirà nei confronti dei delitti più efferati o dei delitti contro la personalità dello Stato96. Gli abolizionisti contestano l’interpretazione data dai conservatori a tali tesi dal momento che, applicando una pena così disumana e severa, rivolta solamente ad eliminare colui che rappresenta un pericolo, il reo non sarebbe più visto come fine, ma come mezzo per conseguire gli scopi di politica criminale che la società considera giusti. Per quanto possa essere efferato il delitto e per quanto giusta possa essere una pena esemplare per placare gli animi dei cittadini e per rendere obiettivo il controllo della società, questo scopo non può essere raggiunto attraverso la strumentalizzazione del reo97. Lo stesso Giuseppe Bettiol, penalista e politico italiano, per confutare la tesi volta alla conservazione della pena capitale, sostiene che in uno Stato di diritto, nel momento in cui l’autorità giudiziaria deve irrogare una pena per un determinato crimine, l’entità della sanzione dipende strettamente dalla realtà socio-culturale e socio-politica dello Stato stesso. Bettiol esclude la legittimità e l’ammissibilità della pena di morte sostenendo che, grazie al livello di civiltà raggiunta dalla maggior parte degli Stati, l’applicazione di tale sanzione non risponderebbe a finalità retributive ma avrebbe solo finalità terroristiche98. Ritiene che la pena di morte, ponendosi come retribuzione eccessiva, non possa soddisfare una funzione preventiva: la sanzione capitale è idonea solo a terrorizzare la coscienza dei consociati, non è in grado di educarla. Tale educazione sarebbe conseguibile solo con la minaccia di una pena giustamente retributiva.
95
Antonio Pagliaro, La riforma delle sanzioni penali tra teoria e prassi, in Rivista italiana di diritto e Procedura penale, 1979, pag. 1189 e seg. 96 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit. pag. 17. 97 Claus Roxin, Considerazioni di politica criminale sul principio di colpevolezza, in Rivista italiana di Diritto e procedura penale, 1980, pag. 373 e seg. 98 Per un approfondimento di Giuseppe Bettiol: Antonio Battiati, Il problema della pena di morte nell’Italia d’oggi, cit., pag. 593 e seg.
39
Un sistema penale che prevede la pena capitale nel novero delle sue sanzioni, più che emendare il reo, preferisce privarlo del bene della vita, l’unico considerato proporzionalmente commensurabile a quello sottratto alla vittima del delitto. Bettiol arriva così a contrastare l’accettabilità della pena capitale e ad escludere categoricamente la sua efficacia per quanto riguarda la prevenzione dei delitti99. Anche il sociologo David Garland confuta le teorie della prevenzione generale allargata e della prevenzione generale integratrice, sostenendo che la pena di morte non possa avere efficacia deterrente e intimidatoria perché, nella società moderna, l’applicazione della pena si è trasformata da rituale passionale e pubblico ad una procedura professionale: la finalità della sanzione è punire il reo e permettere una sua riabilitazione100. Lo stesso Albert Camus, filosofo francese, sostiene l’inutilità e la mancanza di efficacia deterrente della pena capitale. Giustifica questa sua concezione riportando, come esempio, i delitti commessi per odio, gelosia, vendetta, che invadono la psiche e non consentono al reo di fermarsi dal compiere un efferato delitto, pensando alle conseguenze penali che possono derivare dalla sua azione101. Norberto Bobbio spiega le ragioni che contrappongono abolizionisti e conservatori, illustrando le diverse concezioni della pena capitale partendo dalla concezione retributiva e dalla concezione preventiva. La prima, fatta propria dai conservatori, si fonda sulla regola della giustizia come uguaglianza: chi ha compiuto un’azione malvagia è giusto che venga colpito dallo stesso male che ha causato ad altri. La concezione preventiva, adoperata dagli abolizionisti per dimostrare che la pena di morte è inutile, poggia le proprie fondamenta sul fatto che la sanzione capitale sarebbe giustificabile solo se si potesse dimostrare che la sua efficacia deterrente è superiore a qualsiasi altra pena. Le due concezioni si differenziano anche da un punto di vista etico: il pensiero conservatore della pena capitale si basa su di un’etica dei principi e della giustizia, mentre il pensiero abolizionista su di un’etica utilitaristica.
Giuseppe Bettiol, Diritto penale, 100 edizione, CEDAM, Padova, 1978, pag. 53. David Garland, Pena e società moderna, Il Saggiatore, Milano, 1999, pag. 102 e seg. 101 Albert Camus, La pena di morte, Newton Compton, Roma, 1972, pag. 125. 99
100
40
Per i primi la pena capitale è un male necessario, per i secondi è un male non necessario: i sistemi penali possono utilizzare altre sanzioni che hanno maggior efficacia deterrente102. Alcune teorie dirette a giustificare l’abolizione della pena di morte, ricercano il fondamento ed i limiti del diritto penale in principi di libertà o nei diritti umani: la teoria della prevenzione speciale positiva postula che si ponga in atto un percorso rieducativo nei confronti del reo. Tale teoria è incompatibile con la concezione dell’applicazione della pena capitale: anche il più perverso dei criminali può redimersi. Se, anziché rieducato, il reo viene eliminato, non gli si concede di percorrere la via del perfezionamento morale103. Alla concezione della pena come emenda, diretta alla rieducazione del reo, si contrappone la concezione della pena come difesa sociale, giustificando, quindi, la pena capitale: il singolo individuo, ovvero il reo, non deve essere tutelato e non interessa un suo reinserimento nella collettività; fondamentale è la difesa della società stessa104. Tale concezione della pena di morte, diretta alla difesa della comunità, implica la possibilità dello Stato di ricorrervi in situazioni di pericolo, quando viene ad essere minata la sua stessa esistenza. Come il singolo individuo potrebbe essere autorizzato, per legittima difesa, a privare del bene della vita un’altra persona qualora la sua esistenza fosse in gravissimo pericolo, lo stesso può valere per lo Stato secondo la massima “ciò che vale per l’individuo non si vede perché non debba valere, anche per lo Stato”105. Tale tesi, come puntualizza Norberto Bobbio, è inaccettabile. La legittima difesa presuppone l’elemento della costrizione e l’attualità del pericolo e lo Stato non si trova mai nella posizione di dover eliminare un individuo per salvaguardare la propria esistenza106.
102
Norberto Bobbio, Né utile né necessaria. Contro la pena di morte, cit., pag. 19 e seg. Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione della pena di morte, cit., pag. 18 e seg. 104 Norberto Bobbio, Né utile né necessaria. Contro la pena di morte, cit., pag. 19 e seg. 105 Alessandro Malinverni, Agente provocatore, in Novissimo digesto italiano, UTET, Torino, 1958, pag. 399. 106 Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997, pag. 197 e seg. 103
41
La pena di morte, difatti, viene applicata da parte delle autorità statali a seguito di un procedimento giudiziario, non viene applicata immediatamente dopo il compimento del delitto perché lo Stato non si trova nella situazione di dover eliminare il reo per proteggere la collettività di cui è rappresentante. Non si tratterebbe di legittima difesa ma di omicidio legalizzato, perpetrato a freddo, premeditato107. La società moderna è in possesso di mezzi che prevedono la limitazione della libertà del condannato senza negare ai criminali la possibilità di redimersi108. Tra gli argomenti più convincenti contro la pena di morte, il più tradizionale e discusso è l’errore giudiziario: teorizzato da Beccaria ed elemento portante su cui Zanardelli ha fatto leva per eliminare qualsiasi riferimento alla pena di morte nel codice del 1889. Infatti, data la fallibilità di qualsiasi sistema processuale, è sempre possibile un errore che può essere riparato: per tutte le altre tipologie di sanzioni è possibile, ma non per la pena di morte. Il carattere definitivo della pena di morte contrasta, per esempio, con l’istituto processuale della revisione del processo, presente nell’ordinamento italiano, che può essere proposta in ogni tempo ed è previsto all’art. 629 c.p.p. 109 I fautori della pena di morte replicano che l’argomento vale anche per l’ergastolo, dal momento che tale sanzione non permette la restituzione degli anni passati a scontare una pena non dovuta e, non essendo proporzionalmente patrimonializzabili, non è possibile un risarcimento in forma specifica110. Anche Michel Focault, sociologo francese, si schiera a favore del movimento abolizionista. Non solo sottolineando l’impossibilità di riparare un eventuale errore giudiziario nel caso in cui fosse stata indebitamente inflitta una pena capitale, ma anche puntualizzando come la pena debba essere tale che il reo abbia un “piccolo interesse in più” ad evitarne gli effetti anziché commettere il delitto: “se il motivo di un delitto è il vantaggio che ci si rappresenta, l’efficacia della pena è nello svantaggio che ci si attende; ciò che fa della pena il cuore della punizione non è la sanzione di sofferenza, ma la pena dell’idea della pena. Ciò che deve essere massimizzato è la rappresentazione della pena, non la sua realtà corporale”111.
107
Norberto Bobbio, Né utile, né necessario. Contro la pena di morte, cit., pag. 19 e seg. Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997, pag. 197 e seg. 109 Antonio Battiati, Il problema della pena di morte nell’Italia d’oggi, cit., pag. 569 e seg. 110 Carlo Alberto Nicoletti, Sì, alla pena di morte?, CEDAM, Padova, 1997, pag. 269 e seg. 111 Michel Focault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, pag. 125 e seg. 108
42
Come si può notare dai dibattiti tra abolizionisti e conservatori, dalle teorie espresse per giustificare o contrastare tale pena, è difficile, se non quasi impossibile trovare un elemento di congiunzione che sappia soddisfare la sete di vendetta dei conservatori e la tutela dei diritti umani: in particolar modo il diritto alla vita, valore assoluto ed elemento imprescindibile della lotta abolizionista. Coloro che lottano per eliminare dagli ordinamenti giudiziari la pena di morte dovrebbero far leva su di un principio assolutamente indiscutibile, di matrice morale: il comandamento “non uccidere”. Uccidere chi ha ucciso è un qualcosa di maggiore del delitto stesso: l’assassinio legale è incomprensibilmente più atroce e orrendo dell’assassinio “brigantesco”. Norberto Bobbio, parafrasando John Stuart Mill, famoso filosofo britannico del 1800, esprime un concetto fondamentale: “Credo fermamente che la scomparsa totale della pena di morte dal teatro della storia sia destinata a rappresentare un segno indiscutibile di progresso civile. L’intera storia del progresso umano è stata una serie di transizioni attraverso cui un costume o un’istituzione dopo l’altra sono passate dall’essere presunte necessarie all’esistenza sociale, nel rango di ingiustizie universalmente condannate. Sono convinto che anche questo sia il destino della pena di morte. Se mi chiedete quando si compirà questo destino, vi rispondo che non lo so. So soltanto che il compimento di questo destino sarà un segno indiscutibile di progresso morale”112.
112
Norberto Bobbio, Né utile, né necessario. Contro la pena di morte, cit., pag. 39 e seg.
43
II.2 L’Europa e il suo apporto alle moratorie
Nel paragrafo precedente sono state illustrate le tematiche più importanti del dibattito tra abolizionisti e conservatori esponendo, principalmente, il pensiero dei filosofi e dei giuristi italiani, dal momento che l’Italia è lo Stato che ha dato e dà il maggior impulso, in seno all’ONU113, ai fini della promozione della moratoria della condanna capitale: è indiscussa e riconosciuta, da tutti gli Stati del mondo, la nostra leadership politica su questo tema114. Un importante apporto alla causa abolizionista, in Europa, a partire dagli anni novanta, viene dato dalla quasi totalità degli Stati Europei: ad eccezione della Bielorussia che applica la sanzione capitale per punire numerosi crimini ordinari115, non esistono Paesi che, ad oggi, applicano la pena di morte in tempo di pace. La pena di morte è stata abolita in alcuni Stati con legge costituzionale: a titolo di esempio, ricordiamo la Francia che, nel 2007, ha inserito nella Costituzione l’art. 66-1 che sancisce il divieto della condanna capitale116, e il Belgio che, nel 2005, ha introdotto l’art. 14 bis nella Carta costituzionale sancendo l’abolizione definitiva della pena di morte117. In altri Paesi è stata abolita anche, o solo con, norme di rango ordinario118. Alcuni Stati, tra cui l’Albania, la Lettonia e la Russia, applicano la sanzione capitale solo per i crimini di guerra119 (vedi tabb. 1-1bis-1ter per un quadro completo sull’Europa al 2013).
113
ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite vede i natali il 26 giugno 1945 a San Francisco ed è la più Importante organizzazione intergovernativa. Hanno aderito all’ONU 193 Stati su un totale di 202. L’Italia ha ratificato lo Statuto dell’ONU con la l. n. 848, del 17 agosto 1957. 114 Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit., pag. 594. 115 Luciana Goisis, La revisione dell’art. 27, co. 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, cit., pag. 1672. 116 Maria Dicosola, Francia. Promulgata la legge costituzionale relativa al divieto di pena di morte, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2007, pag. 707. 117 Emanuele Pedilarco, Belgio. Inserito in Costituzione l’art. 14 bis che vieta la pena di morte, in Diritto Pubblico e comparato, 2005, pag. 1159. 118 Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit. pag. 10. 119 Luciana Goisis, La revisione dell’art.27, co.4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, cit., pag. 1672.
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Tab. 1 La pena di morte in Europa Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Albania
Abolita
1995
2007
Andora
Abolita
1943
1990 (Costituzione)
Austria
Abolita
1950
1968 (Costituzione)
Bielorussia
Utilizzata come punizione legale Abolita
16 marzo 2011
/
Belgio
Bosnia e Erzegovina
Abolita
1863 reati comuni 1950 per crimini di guerra Mai
Bulgaria
Abolita
1989
1998
Croazia
Abolita
1973
1990 (Costituzione)
Cipro
Abolita
1962
2002
Rep. Ceca
Abolita
1989
1990 (Costituzione)
Danimarca
Abolita
1950
1978
Estonia
Abolita
1991
1998
Finlandia
Abolita
1944
1972 (Costituzione)
Francia
Abolita
1977
1981
Georgia
Abolita
1995
1997
Germania
Abolita
G. Ovest 1956 G. Est 1981
Ovest 1949 Est 1987
Grecia
Abolita
25/08/1972
2001 (Costituzione)
Ungheria
Abolita
1988
1990
Islanda
Abolita
1830
1995
Irlanda
Abolita
1954
1990
Italia
Abolita
1947
1948 (Costituzione) 1994 (Guerra) 2007 (Costituzione)
45
1996 (Costituzione) 1995 (Costituzione)
Tab. 1-bis La pena di morte in Europa Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Lettonia
Abolita
1996
Liechtenstein
Abolita
1785
1999 (reati comuni) 2012 (guerra) 1987
Lituania
Abolita
1995
1998
Lussemburgo
Abolita
1949
1979 (Costituzione)
Macedonia
Abolita
1988
1991 (Costituzione)
Malta
Abolita
1943
2000
Isola di Man
Abolita
1872
1993
Moldavia
Abolita
1985
1995
Monaco
Abolita
1847
1962 (Costituzione)
Montenegro
Abolita
Nessuna dall’indipendenza
Paesi Bassi
Abolita
1952
1982 (Costituzione)
Norvegia
Abolita
1948
1979
Polonia
Abolita
1988
1997
Portogallo
Abolita
1849
1976
Romania
Abolita
1989
1990 (Costituzione)
Russia
Abolita di fatto
1999
San Marino
Abolita
1468
1865
Serbia
Abolita
1992
1995
Slovacchia
Abolita
1989
1990 (Costituzione)
Slovenia
Abolita
1957
1989 (Costituzione)
Spagna
Abolita
1975
1995
Svezia
Abolita
1910
1972
46
Tab. 1-ter. La pena di morte in Europa120 Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Svizzera
Abolita
1944
1938 (ordinari)
Transnistria
Mai utilizzata
Mai
1992 (guerra)
Turchia
Abolita
1984
2004 (Costituzione)
Rep. Turca di Cipro del Nord Ucraina
Mai utilizzata
Mai
/
Abolita
1997
2000
Regno Unito
Abolita
1964
1965-1998
Città del Vaticano
Abolita
1870
1969
Unione Europea
120
Abolizione è uno dei criteri per l’adesione
Le tabelle sono state elaborate sulla base dei dati riportati dal Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit.
47
Ripercorrendo la storia del vecchio continente è doveroso ricordare che la salvaguardia del diritto alla vita ha portato gli Stati europei abolizionisti, negli anni novanta, a dover risolvere il problema della cooperazione penale, in ambito internazionale, per quanto riguarda l’estradizione di soggetti imputati di gravi delitti perseguibili, nel luogo della presunta commissione del fatto, con la condanna capitale121. Potrebbe accadere infatti che un individuo appartenente ad uno Stato commetta un reato grave in un Paese nel quale sia prevista la pena capitale per il reato commesso o, viceversa, una persona commetta un delitto nel suo Paese di appartenenza (passibile di condanna capitale), e si trovi in un altro Stato in cui non sia prevista la pena di morte. In tal caso si verifica un problema di conflitto di leggi penali tra le autorità statali in questione sulla competenza a giudicare il presunto colpevole di un reato simile e sul diritto di punirlo qualora risulti colpevole122. E’ noto infatti che, nel rapporto tra Stati, vige il principio di territorialità come regolamento della sfera di applicabilità delle norme penali, il quale, essendo espressione della sovranità statale, sancisce il diritto di ciascuno stato ad applicare le proprie norme penali nei confronti dei propri cittadini e per i fatti illeciti commessi nel proprio territorio (spazio aereo, acque territoriali, navi e aereomobili in navigazione in alto mare e nello spazio aereo internazionale)123. Da tale principio discende il criterio del locus commissi delicti secondo il quale il luogo in cui è stato commesso il reato autorizza i relativi organi giudiziari a giudicare il presunto colpevole124. Questo problema ha fatto si che venissero stipulati accordi internazionali bilaterali inizialmente e multilaterali successivamente per evitare che i cittadini dei Paesi che lottano contro la pena di morte, o temporaneamente ospiti in tali Stati, fossero soggetti a questa pena disumana. A titolo di esempio, oltre a quella già citata tra Italia e Stati Uniti nel primo capitolo, possiamo ricordare la Convenzione internazionale stipulata tra Italia e Marocco che all’art. 31 co. 2 stabilisce che “[…] se il crimine, per cui è richiesta l’estradizione, è
121
Silverio Annibale, La pena di morte nel diritto internazionale e comunitario, in Democrazia e diritto, 1995, pag. 410 e seg. 122 Silverio Annibale, La pena di morte nei rapporti internazionali posti in essere dagli Stati, in Rivista Penale, 2005, pag. 1296. 123 Silverio Annibale, La pena di morte nel diritto internazionale e comunitario, cit. pag. 411. 124 Silverio Annibale, Pena di morte nel diritto internazionale e comunitario, in Apollinaris, 1996, pag. 287.
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punito con la pena capitale dalla legge dello Stato richiedente, tale pena sarà sostituita con quella prevista per il medesimo reato dalla legge del Paese richiesto”. Possiamo ricordare, sempre a titolo di esempio, che la Convenzione italo- ungherese, all’art. 14 prevede che, ad estradizione compiuta, la pena capitale “[…] non verrà applicata o, se essa è già stata pronunziata, non sarà eseguita”125. Queste convenzioni rappresentano un passo decisivo nella lotta contro la pena di morte, che troverà il suo sbocco a livello internazionale nelle risoluzioni approvate dall’ONU. Da quanto appena descritto e ponendo a confronto l’esperienza europea con quella del resto del mondo il vecchio continente risulta essere il più sensibile a questa tematica. Nell’ambito dell’Unione Europea, in conformità con uno degli obiettivi della politica estera e di sicurezza comune, è di fondamentale importanza il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Bisogna ricordare la dichiarazione sulla abolizione della pena di morte, allegata al Trattato di Amsterdam, dove si prende atto che la pena di morte è stata abolita nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione dopo la ratifica del Sesto Protocollo alla Convenzione europea dei diritto dell’uomo del 1983. In essa viene esplicitato che nessun candidato può aderire all’Unione fino a quando annoveri tra le proprie sanzioni penali la pena capitale. La stessa Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, sancisce che: “nessuno possa essere condannato alla pena di morte, né giustiziato” (art.2) specificando, inoltre, che: “nessuno può essere allontanato, espulso, o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani e degradanti” (art.19)126. Sempre a dimostrazione dell’impegno profuso dall’Europa in tale ambito è necessario e utile menzionare “gli orientamenti per una politica dell’Unione europea nei confronti dei paesi terzi in materia di pena di morte”, adottati dal Consiglio Europeo127, in cui l’Unione europea si prefigge, per poter attuare una abolizione universale della pena di
125
Silverio Annibale, La pena di morte nei rapporti internazionali posti in essere dagli Stati, cit., pag. 1296. 126 Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit., pag. 589. 127 Questi orientamenti miravano a dotare l’Unione Europea (l’UE) di uno strumento operativo per la lotta contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti nelle sue relazioni esterne.
49
morte, di chiedere ai Paesi che eseguono questa pena disumana, di limitarne l’applicazione128. La lotta contro l’applicazione della sanzione capitale, intrapresa dalle istituzioni del governo europeo, non si è limitata solamente alla previsione di trattati o protocolli dedicati a questa tematica: bisogna ricordare che anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo129 ha portato all’emanazione di una sentenza, nota come sentenza Soering130, che si è pronunciata, per la prima volta, sui rapporti tra la massima pena e l’art. 3 della CEDU che vieta, in modo assoluto e categorico, le pene e i trattamenti inumani e degradanti131. E’ di fondamentale importanza affrontare questa vicenda per chiarire in che modo la pena di morte sia giunta dinnanzi alla Corte di Strasburgo. Jen Soering era un giovane cittadino della Repubblica Federale di Germania che aveva commesso un duplice assassinio nella contea di Bedford, nello Stato della Virginia degli U.S.A., uccidendo con un numerosi colpi di coltello i genitori della sua compagna, contrari alla loro relazione. Circa un anno dopo Soering e la ragazza prima citata vengono arrestati in Inghilterra per reati contro il patrimonio. Successivamente a quest’ultimo avvenimento sia gli Stati Uniti, sia la Repubblica Federale della Germania, richiedono al Regno Unito l’estradizione di Soering. A seguito della richiesta avanzata dagli U.S.A., a causa della possibilità che in Virginia il reo potesse essere soggetto a irrogazione della pena capitale, le autorità britanniche, a norma del trattato anglo-americano di estradizione del 1972, richiedono assicurazioni sul fatto che non venga applicata la pena capitale in caso di estradizione. Nonostante tali assicurazioni si limitassero ad un impegno del procuratore di Bedford a segnalare al giudice, al momento della determinazione della pena, che il Regno Unito si augurava che tale sanzione non venisse applicata, le autorità britanniche disponevano la consegna di Soering agli U.S.A. Nel frattempo l’accusato aveva inoltrato agli organi di Strasburgo ricorso individuale contro il Regno Unito adducendo la violazione degli artt. 3 e 13 della CEDU132. La Corte europea ha esortato il governo britannico a sospendere 128
Luciana Goisis, La revisione dell’art. 27, co. 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, cit., pag. 1681 e seg. 129 La Corte europea dei diritto dell’uomo (Corte EDU), istituita nel 1959, è legittimata a conoscere dei ricorsi sia individuali che da parte degli Stati nel caso in cui si lamenti il mancato rispetto delle disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli Addizionali. 130 Corte EDU, grande camera, sent. 7 luglio 1989, ric. n. 14038/88, Soering c. Regno Unito. 131 Mario Chiavario, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Giuffrè, Milano, 1969, pag. 65 e seg. 132 Art. 13 CEDU: “ Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano
50
l’esecuzione del provvedimento di consegna dell’accusato e in effetti Soering è rimasto in stato di arresto nel Regno Unito. La Corte, successivamente, ha escluso la violazione dell’art. 13 e anche dell’art. 3, dal momento che quest’ultima si sarebbe verificata nel momento in cui l’estradando fosse stato consegnato agli Stati Uniti. Tale decisione della Corte è stata criticata da parte del Regno Unito alla luce del rapporto tra norme: riguardava la possibilità di ricavare da una disposizione così generale come l’art. 3 CEDU, e per di più in via interpretativa, dei limiti all’estradizione, oggetto, quest’ultima, delle convenzioni tra Stati. La Corte ha giustificato la sua decisione adducendo due giustificazioni. Per prima cosa i giudici di Strasburgo contrapponevano al rapporto formale di genere a specie tra norme una relazione sostanziale che si basava su un diverso grado gerarchico delle norme in questione: sottolineando la natura assolutamente fondamentale del diritto alla vita, valore universale delle società democratiche, che è compito del Consiglio d’Europa tutelarlo tutte le volte che tale diritto viene messo in pericolo. In secondo luogo viene posto a confronto l’art. 3 della CEDU con all’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, dove viene espressamente stabilito il divieto di estradizione nel caso in cui questo comporti il rischio di cui sopra: viene proposta un’interpretazione dell’art. 3 CEDU che, alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite, consenta di attribuire anche al primo la legittimità a limitare l’estradizione. Un elemento fondamentale, da sottolineare, risiede nel fatto che la Corte europea può esercitare poteri di controllo autorevole e penetrante sul concreto esercizio discrezionale della scelta fatta dagli Stati in merito alla concessa o meno estradizione dell’estradando133. Come accennato in apertura l’Unione Europea, e, in particolar modo l’Italia, hanno svolto e svolgono un ruolo fondamentale per quanto riguarda le moratorie dirette a sospendere l’applicazione della pena di morte134.
stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”. 133 Francesco C. Palazzo, La pena di morte dinnanzi alla Corte di Strasburgo, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1990, pag. 367 e seg. 134 Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit., pag. 3.
51
E’ doveroso ricordare che l’Italia, infatti, nel 1994, a mezzo del governo, presenta, per la prima volta nella storia, una proposta di Risoluzione per la moratoria universale della pena di morte dinnanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che, tuttavia, non viene approvata a causa di 8 voti contrari. Successivamente, nel 1997, il Governo italiano formula una proposta di Risoluzione pro moratoria alla Commissione dell’ONU per i diritti umani di Ginevra, che viene poi approvata con la maggioranza assoluta dei voti. L’iniziativa si amplia oltre i confini del territorio italiano nel 1999 quando la moratoria viene presentata all’Assemblea Generale dell’ONU non dal Governo italiano, ma dall’Unione Europea in quanto tale, anche se poi la proposta della Risoluzione viene ritirata. Una data fondamentale, che segna il percorso abolizionista intrapreso collettivamente dall’Italia e da tutti gli altri Paesi dell’UE, è il 19 dicembre 2006: L’Unione Europea comunica al Palazzo di Vetro che 85 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno sottoscritto una “Dichiarazione di associazione” contro la pena di morte con la quale si chiede all’Assemblea Generale di affrontare il tema in futuro. Iniziava così il periodo che avrebbe portato alla risoluzione del 2007135. L’Italia ha condotto una vera e propria azione diplomatica per sensibilizzare i Paesi nei confronti della tematica dell’abolizione della pena capitale e superare la ritrosia dei Paesi conservatori contrari alle moratorie che fanno leva sul presupposto giuridico in base al quale la pena di morte, rientrando nell’ambito del diritto penale, rappresenta una questione afferente alla sfera interna e intangibile della sovranità dello Stato, che trova la sua giustificazione nell’art. 2 par. 7 dello Statuto ONU136. L’azione italiana e dei sostenitori dell’abolizione della pena di morte si fonda sull’art. 1, par. 3 dello Statuto ONU e sulla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, volti a garantire il rispetto dei diritti umani e le libertà fondamentali di ogni persona umana,
135
Elisabetta Zamparutti, Rapporto 2008 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, Reality Book, Roma, 2008, pag. 20 e seg. 136 Art. 2, par. 7, Statuto ONU: “Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni interne di uno Stato, che sono di competenza di quello Stato, né obbliga gli Stati membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamentazione in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive secondo quanto previsto dal Capitolo VII”.
52
senza alcuna distinzione137. Il successo dell’iniziativa che ha visto agire in prima fila l’Italia, d’intesa con gli altri Paesi europei, ha avuto sicuramente il suo peso per quanto riguarda la moratoria del 2007138. Le tappe dell’iniziativa italiana iniziano il 27 luglio 2006, data in cui viene approvata all’unanimità la mozione con la quale: “Il Parlamento impegna il governo italiano a presentare alla prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite una proposta di risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in consultazione con i partner dell’Unione europea”. Successivamente, agli inizi 2007, vi è stata la dichiarazione della Presidenza del Consiglio e del Governo che rinnovano l’impegno “ad avviare le procedure formali perché questa Assemblea generale delle Nazioni Unite metta all’ordine del giorno la questione della moratoria universale sulla pena di morte”. A seguito di queste iniziative, il 13 aprile 2007, il Consiglio dei ministri ha incaricato il titolare della Farnesina a discutere della moratoria al Consiglio dell’Unione europea. In seguito, a fine giugno, al Consiglio affari generali UE è arrivata, all’unanimità, l’autorizzazione a presentare il progetto di risoluzione sulla moratoria della pena capitale alla sessantaduesima assemblea generale dell’ONU. Inizia così un percorso a livello mondiale che segnerà la storia del cammino verso l’abolizione della pena di morte139.
137
Art. 1, par. 3, Statuto ONU: “Ottenere la cooperazione internazionale nella soluzione di problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario e nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”. 138 Assemblea generale dell’ONU, risoluzione 62/149, approvata a New York il 18 dicembre 2007. 139 Nadia Plastina, Dicembre 2007: le Nazioni Unite approvano la risoluzione per la moratoria universale della pena di morte, in I diritti dell’uomo, 2008, pag. 62 e seg.
53
II.3 Le Moratorie del 2007/2008
La risoluzione del 2007, finalizzata all’introduzione di una sospensione universale della pena di morte, costituisce un importante traguardo nella battaglia rivolta all’abolizione della pena di morte: per la prima volta un’ organizzazione internazionale affronta effettivamente un problema che tocca tutti gli angoli del nostro globo140. Indice del fatto che il tema comincia a sensibilizzare la gran parte dei Paesi nel mondo è sottolineato dal fatto che hanno votato a favore della moratoria 104 Paesi, 54 hanno espresso parere contrario, 29 si sono astenuti e 5 erano assenti al momento del voto141. Nonostante questo ampio seguito, la Risoluzione viene criticata in seno alla sessantaduesima Assemblea generale delle Nazione unite: i conservatori sottolineano che la pena di morte non sia proibita dalle norme internazionali in materia di diritti umani142; altri aggiungono che la scelta del sistema politico, giudiziario e penale rientri nelle scelte della sovranità statale e quindi sia nella potestà dello Stato la scelta
140
di
Andrea Pugiotto, L’abolizione Costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit. pag. 594. 141 Si riportano in nota i dati relativi alla votazione: Voti favorevoli 104: Albania, Algeria, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Benin, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Burkina, Faso, Burundi, Cambogia, Canada, Capo Verde, Cile, Cipro, Colombia, Congo, Costa d’Avorio, Costarica, Croazia, Danimarca, Ecuador, El Salvador, Estonia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Grecia, Guatemala, Haiti, Honduras, Irlanda, Islanda, Isole Marshal, Israele, Italia, Kazakistan, Kirghizistan, Kiribati, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia (ex Repubblica Iugoslava di), Madagascar, Mali Malta, Mauritius, Messico, Micronesia (Stati federali della), Moldova, Monaco, Montenegro, Mozambico, Namibia, Nauru, Nepal, Nicaragua, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Panama, Paraguay, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Romania Ruanda, Russia, Samoa, San Marino, Sao Tomè e Principe, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna Sri Lanka, Sudafrica, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Timor Est, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Ucraina, Ungheria, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Venezuela. Dati riportati dal Rapporto 2008 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit. pag. 268. Voti contrari 54: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Bahamas, Bahrein, Bangladesh, Barbados, Belize, Botswana, Bruenei Darussalam, Ciad, Comore, Corea del Nord, Dominica, Egitto, Etiopia, Giamaica, Giappone, Giordania, Grenada, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Isole Salomone, Qwait, Libia, Malesia, Maldive, Mauritania, Mongolia, Myanmar, Nigeria, Oman, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Qatar, Saint kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadines, Singapore, Siria, Somalia, Stati Uniti, Sudan, Suriname, Tailandia, Tonga, Trinidad e Tobago, Uganda, Yemen, Zimbabwe. Astensioni 29: Bielorussia, Bhutan, Camerun, Corea del Sud, Cuba, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Figi, Gibuti, Guinea Equatoriale, Gambia, Ghana, Guinea, Kenya, Laos, Libano, Lesotho, Liberia, Malawi, Marocco, Niger, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Swaziland, Tanzania, Togo, Vietnam, Zambia. Assenti 5: Guinea Bassau, Perù, Senegal, Seychelles, Tunisia. Dati riportati dal Rapporto 2008 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit., pag. 269. 142 Queste sono le dichiarazioni dei rappresentanti degli Stati di: Barbuda, Barbados, Singapore, Egitto.
54
applicare la pena di morte ai reati più gravi a scopo deterrente143. I conservatori accusano, inoltre, i promotori della risoluzione di non aver posto il problema cercando un dibattito: come sostengono i rappresentanti dello Stato di Singapore la questione è stata posta “not as a debate but as a lecture”. Oltre a quanto detto i conservatori accusano i Paesi proponenti la risoluzione di non tener conto della loro posizione sottolineando che i diritti umani risultano comunque rispettati anche negli ordinamenti che applicano la pena capitale, dal momento che gli stessi Stati che ancora ricorrono a questa sanzione hanno sottoscritto delle convenzioni internazionali a tutela di quei diritti e applicano la pena osservando il principio del due process e della indipendenza della magistratura144. A seguito di queste opposizioni gli abolizionisti giustificano la loro azione in virtù del fatto che la pena di morte, come enunciato nei primi due paragrafi preambolari della risoluzione 62/149, comporta la violazione dei principi della Carta (Il testo si apre con un significativo “guided by the priciples contained in the Charter of the United States) e la violazione di diritti umani internazionalmente riconosciuti; in particolar modo è necessario tutelare il diritto alla vita e quello di non subire torture e altri trattamenti o punizioni crudeli, degradanti e inumani145. La loro lotta è finalizzata a dimostrare che la pena capitale non ha alcuna funzione retributiva, che non assolve una funzione terapeutica in vista del graduale processo di guarigione della vittima, che la pena capitale non soddisfa la funzione di tutelarne la dignità146. La pena capitale, sostengono i promotori della risoluzione, non solo offende la dignità umana, ma una moratoria servirebbe a promuovere lo sviluppo progressivo dei diritti dell’uomo, in quanto non è per nulla provata l’efficacia deterrente della pena di morte e, ulteriore elemento, è frequente l’errore giudiziario che diviene irreparabile se la pena viene eseguita.
143
Queste sono le dichiarazioni dei rappresentanti degli Stati di: Singapore, Bielorussia, Nigeria, Egitto, Cina, Bahamas, Siria. Quest’ultima ha affermato inoltre che la risoluzione “undermined human dignity because it ignored the rights and the values of the victims” 144 Egeria Nalin, Attività delle organizzazioni internazionali. Nazioni Unite. Assemblea Genrale (62° sessione, 2007) – Questioni sociali, umanitarie e culturali, in La Comunità Internazionale, 2008, pag. 528. 145 Antonio Marchesi, L’Assemblea generale delle Nazioni Unite invita gli Stati a stabilire una moratoria delle esecuzioni capitali, in Diritti umani e diritto internazionale, Napoli, 2008, fasc. 2 pag. 398 e seg. 146 Francesca Maria Benvenuto, I nuovi traguardi del dialogo universale sull’abolizione della pena di morte: cresce il consenso, s’indeboliscono le obiezioni, in Diritti dell’uomo, Roma, 2011, pag. 26.
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Inoltre, per ribattere alle accuse, mosse dagli Stati conservatori, di voler imporre, come assolute, le decisioni prese alla luce della sessantaduesima Assemblea generale, gli abolizionisti replicano che la risoluzione si limita a ribadire l’invito a stabilire una moratoria delle esecuzioni per giungere a una definitiva abolizione; inoltre viene chiesto agli Stati mantenitori di garantire ai condannati a morte i diritti minimi sanciti dall’allegato alla risoluzione del 25 maggio 1984147 del Consiglio Economico e Sociale148; di informare, ai fini di tale controllo, il Segretario Generale dell’uso della condanna capitale e delle garanzie applicate al condannato149. Vengono, inoltre, esortati gli Stati conservatori a circoscrivere i reati punibili con tale pena: accogliendo e riaffermando la regola, prevista anche dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, per cui la pena di morte deve essere limitata ai “most serious offences”; tale categoria viene interpretata, dal Comitato dei diritti umani150, in maniera progressivamente più restrittiva151. Tale informativa da fornire al Segretario generale non è fine a sé stessa, in quanto lo stesso è incaricato di informare l’Assemblea Generale, alla prima sessione utile, dei dati di cui è venuto a conoscenza. Questo tipo di attività è indice del fatto che la questione della pena di morte non rappresenta un problema riservato a scelte politiche interne che il fronte degli Stati conservatori è riuscito a portare sul piano internazionale per due volte di seguito (nel 1994 e nel 1999). L’approvazione della risoluzione 62/149 ha l’effetto di superare quelle due battute d’arresto e rendere di international concern la problematica della pena. Tale primo passo è diretto ad ottenere un riscontro sul piano giuridico: dal momento che gli Stati 147
Risoluzione 1984/50 del 25 maggio 1984 del Consiglio Economico e Sociale. Il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC), sottoposto all’autorità dell’Assemblea Generale, ha il compito di coordinare l’attività economica e sociale dell’ONU e delle sue agenzie e istituzioni specializzate. Riveste un ruolo chiave per stimolare la cooperazione internazionale per lo sviluppo. Si occupa delle consultazioni con le organizzazioni non governative (ONG), mantenendo così aperto un legame vitale tra le Nazioni Unite e la società civile. Il Consiglio è dotato di organismi sussidiari che si incontrano regolarmente e riferiscono al Consiglio stesso. La Commissione sui Diritti Umani, ad esempio, verifica il rispetto dei diritti umani nel mondo. 149 Il Segretario generale dell’ONU è a capo del Segretariato delle Nazioni Unite, che rappresenta uno degli organismi più importanti dell’organizzazione. Viene nominato dall’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Il Segretario generale rappresenta l’organo principale di coordinamento dell’ONU. 150 Il Comitato dei diritti umani esamina periodicamente le relazioni inviate dagli Stati membri dell’ ONU riguardanti il rispetto del trattato delle Nazioni Unite noto come Patto internazionale sui diritti Civili e politici, entrato in vigore il 23 marzo 1976. Il comitato è composto da 18 membri nominati Dagli Stati membri dell’ONU. 151 Egeria Nalin, Attività delle organizzazioni internazionali. Nazioni Unite. Assemblea Generale (62° Sessione, 2007) – Questioni sociali, umanitarie e culturali, in La Comunità Internazionale, cit., pag. 528 e seg.
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promotori non sono presenti solo in una determinata area continentale, ma la richiesta dell’abolizione proviene da una coalizione di Paesi rappresentativa di aree diverse, si auspica che si possa formare una prassi conforme a quanto raccomandato dalla risoluzione del 2007, si costituisca una opinio juris e si giunga alla formazione di norme consuetudinarie che implichino l’arresto dell’applicazione della pena di morte152. Affinchè si formi una norma consuetudinaria in campo internazionale è necessaria e imprescindibile la preesistenza di due requisiti essenziali: la diuturnitas, ovvero il comportamento costante ed uniforme di ogni Stato nei confronti di una determinata situazione e l’opinio juris ac necessitatis, cioè il convincimento che tale comportamento sia regolato dal diritto internazionale. Per quanto concerne il secondo requisito, anche se vi è un convincimento per lo più generale che il diritto internazionale umanitario sia ormai parte integrante nella legislazione penale degli Stati (ma non in tutti), non si può altrettanto affermare per il primo elemento153. Come è stato dimostrato, l’approvazione della risoluzione del 2007 viene accompagnata da numerosi e polemici dibattiti. Nella sessantatreesima sessione dell’Assemblea generale la nuova risoluzione si limita a riaffermare la moratoria154. Viene espresso il compiacimento per la graduale affermazione della volontà di abolire la pena di morte e del fatto che l’applicazione della pena di morte tende a limitarsi sempre di più ai crimini più gravi: l’Assemblea si compiaceva per le conclusioni raggiunte dal rapporto del Segretario Generale sull’attuazione del 2007155.
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Antonio Marchesi, L’Assemblea generale delle Nazioni Unite invita gli Stati a stabilire una moratoria delle esecuzioni capitali, cit., pag. 399 e seg. 153 Silverio Annibale, Pena di morte nel diritto internazionale e comunitario, cit., pag. 294. 154 Risoluzione 63/168, approvata a New York il 18 dicembre 2008. 155 Egeria Nalin, Attività delle organizzazioni internazionali. Nazioni Unite. Assemblea Generale (630 sessione, 2008)- Questioni sociali, umanitarie e culturali, in La Comunità Internazionale, 2010, pag. 457.
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La risoluzione del 2008 ha trovato il voto favorevole di 106 Paesi, 46 si sono espressi a sfavore, 34 si sono astenuti e 6 Paesi risultavano assenti156. Nonostante la risoluzione del 2008 dimostri una sempre più ampia sensibilizzazione nei confronti della tematica volta all’abolizione della pena di morte, non sono mancate le critiche da parte degli Stati conservatori, che hanno rimarcato la funzione della pena capitale volta alla protezione dei cittadini e la sua natura di “issue criminal justice” anziché di “human right issue”157: ancora una volta vengono sottolineate le violazioni del principio di non ingerenza e di sovrana uguaglianza degli Stati e quindi contrastanti con la Carta delle Nazioni Unite e che i Paesi mantenitori applicano il divieto di esecuzione nei confronti di minori e donne incinte158. La risoluzione del 2008, pur comportando, come già detto, un aumento dei Paesi che si sono espressi a favore dell’abolizione della pena di morte, non presenta ulteriori elementi di novità rispetto alla risoluzione del 2007.
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Si riportano in nota i dati relativi alla votazione, indicando in corsivo le novità rispetto ai votanti e ai Voti della risoluzione del 2007: Voti favorevoli 106: Albania, Algeria, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Benin, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Burkina Faso, Burundi, Cambogia, Canada, Capo Verde, Cile, Cipro, Colombia, Congo, Costa d’Avorio, Costarica, Croazia, Danimarca, Ecuador, El Salvador, Estonia, Etiopia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Grecia, Guinea Bissau, Haiti, Honduras, Irlanda, Islanda, Isole Marshall, Israele, Italia, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Macedonia (ex Repubblica Iugoslava di), Madagascar, Mali, Malta, Mauritius, Messico, Micronesia (Stati federali della), Moldova, Monaco, Montenegro, Mozambico, Namibia, Nauru, Nepal, Nicaragua, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Panama, Paraguay, Perù, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Romania, Ruanda, Russia, Samoa, San Marino, Sao Tomè e Principe, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Somalia, Spagna, Sri Lanka, Sudafrica, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Timor Est, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Ucraina, Ungheria, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Venezuela. Voti contrari 46: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Bahamas, Bangladesh, Barbados, Belize, Botswana, Brunei Darussalam, Cina, Comore, Corea del Nord, Dominica, Egitto, Giamaica, Giappone, Grenada, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Isole Salomone, Quwait, Libia, Malesia, Maldive, Mongolia, Myanmar, Nigeria, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Qatar, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadines, Singapore, Siria, Stati Uniti, Sudan, Tailandia, Tonga, Trinidad e Tobago, Uganda, Yemen, Zimbabwe. Astensioni 34: Bahrein, Bielorussia, Bhutan, Camerun, Corea del Sud, Cuba, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Figi, Gambia, Ghana, Gibuti, Giordania, Guatemala, Guinea, Kenya, Laos, Lesotho, Libano, Liberia, Malawi, Marocco, Mauritania, Niger, Oman, Repubblica Cetroafricana, Senegal, Sierra Leone, Suriname, Swaziland, Tanzania, Togo, Vietnam, Zambia. Assenti 6: Ciad, Guinea Equatoriale, Kiribati, Repubblica Democratica del Congo, Tunisia, Seychelles. Dati riportati dal Rapporto 2009 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, a cura di Elisabetta Zamparutti, Reality book, Roma, pag. 217 157 Queste sono le dichiarazioni dei rappresentanti degli Stati di: Singapore e Cina. 158 Egeria Nalin, Attività delle organizzazioni internazionali. Nazioni Unite. Assemblea Generale (630 sessione, 2008), cit., pag. 457.
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II.4 La Moratoria del 2010 Di stampo totalmente innovativo risulta invece la risoluzione del 2010159: in merito, soprattutto, al rapporto di informativa concernente le esecuzioni da presentare al Segretario Generale presso l’ONU160. Con la risoluzione del 2010 cresce ulteriormente il fronte pro moratoria: 108 Paesi si esprimono a favore, 41 a sfavore, 36 si astengono, 7 sono assenti161. Finalità di questa Risoluzione è ottenere dagli Stati assicurazioni circa le garanzie minime che devono essere presenti nei processi capitali, l’impegno da parte di questi di rendere pubblici i dati sulle condanne a morte e sulle esecuzioni e fornendo tutte le informazioni necessarie al Segretario Generale delle Nazioni Unite, tenuto a sua volta a informare l’Assemblea Generale sullo stato di attuazione della risoluzione e delle raccomandazioni in essa contenute.
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Risoluzione 65/206, approvata a New York il 21 dicembre 2010. Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue coseguenze ordinamentali, cit., pag. 594 e seg. 161 Si riportano in nota i dati relativi alla votazione, riportando in corsivo le differenze rispetto alla Risoluzione del 2008: Voti a favore 108: Albania, Algeria, Andorra, Angola, Argentina, Armenia, Australia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bhutan, Bolivia, Bosnia-Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Burkina Faso, Burundi, Cambogia, Canada, Capo Verde, Cile, Cipro, Colombia, Congo, Costarica, Croazia, Danimarca, El Salvador, Estonia, Filippine, Finlandia, Francia, Gabon, Georgia, Germania, Grecia, Guatemala, Guinea-Bissau, Haiti, Honduras, Irlanda, Islanda, Isole Marshall, Israele, Italia, Kazakistan, Kirghizistan, Kiribati, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Madagascar, Maldive, Mali, Malta, Messico, Micronesia (Stati Federati della), Moldova, Monaco, Mongolia, Montenegro, Mozambico, Namibia, Nauru, Nepal, Nicaragua, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Palau, Panama, Paraguay, Perù, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Romania, Ruanda, Russia, Samoa, San Marino, Sao Tomè e Principe, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Somalia, Spagna, Sri Lanka, Sudafrica, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Macedonia (ex Repubblica Iugoslava di), Timor Est, Togo, Turchia, Turkmenistan, Tuvalu, Ucraina, Ungheria, Uruguay, Uzbekistan, Vanuatu, Venezuela. Voti contrari 41: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Arabia Saudita, Bahamas, Bangladesh, Barbados, Belize, Botswana, Brunei Darussalam, Cina, Corea del Nord, Egitto, Etiopia, Giamaica, Giappone, Grenada, Guyana, India, Indonesia, Iran, Iraq, Qwait, Libia, Malesia, Myanmar (Birmania), Pakistan, Papua Nuova Guinea, Qatar, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadines, Singapore, Siria, Stati Uniti, Sudan, Swaziland, Tonga, Trinidad e Tobago, Uganda, Yemen, Zimbabwe. Astensioni 36: Bahrein, Bielorussia, Camerun, Comore, Corea del Sud, Cuba, Dominica, Emirati Arabi Uniti, Eritrea, Figi, Gambia, Ghana, Gibuti, Giordania, Guinea, Isole Salomone, Kenia, Laos, Libano, Lesotho, Liberia, Malawi, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Oman, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Sierra Leone, Suriname, Tailandia, Tanzania, Vietnam, Zambia. Assenti 7: Benin, Ciad, Costa d’Avorio, Guinea Equatoriale, Mauritius, Seychelles, Tunisia. Dati riportati dal Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, a cura di Elisabetta Zamparutti Reality Book, Roma, pag. 271 e seg. 160
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Infine viene fatto un appello ai Paesi conservatori: di stabilire una moratoria, mentre ai Paesi abolizionisti viene richiesto di non reintrodurre la sanzione capitale162. La risoluzione del 2010 rappresenta un ulteriore tassello verso l’abolizione di questa pena: ancora una volta si richiede agli Stati che prevedono nel loro sistema giudiziario questo tipo di pena di ridurre ulteriormente il novero dei reati perseguibili con la pena di morte. L’elemento di eccezionale rilevanza e novità, rispetto al 2007 e 2008, come accennato poco sopra, è rappresentato dal fatto che si invitano gli Stati a fornire un dettagliato memorandum riguardo ai casi di applicazione di queste pena e, in base ai dati raccolti, si invitano gli Stati a un dibattito internazionale volto a condividere le reciproche esperienze attraverso un dialogo continuo e costruttivo163. Nonostante l’indiscusso apporto della risoluzione del 2010, che ha trovato ulteriore seguito da parte degli Stati, viene criticata dagli abolizionisti per il fatto di non aver valore vincolante. Tale critica, tuttavia, non tiene conto di un fattore determinante ricordato dall’on. Sergio D’Elia: “lo strumento della moratoria è l’unico capace di tradurre in tempi politici i tempi storici dell’abolizione della pena capitale nel mondo; inoltre l’esperienza storica attesta come tutti i Paesi che hanno deciso di abolire la pena di morte sono passati […] attraverso moratorie” 164. Ulteriore argomento ripresentato dai Paesi che in seno all’Assemblea hanno votato contro l’abolizione della pena di morte viene individuato nel mancato rispetto della c.d. domestic jurisdiction: avendo gli Stati piena libertà nello sviluppo dei propri sistemi penali, richiamando, come già successo nelle precedenti risoluzioni, l’art. 2, par. 7 della Carta delle Nazioni Unite, sostengono che qualsiasi ingerenza da parte di autorità o istituzioni straniere sia illegittima165. Dello stesso avviso risultano essere anche gli Stati Uniti d’America che però hanno preferito, sulla scia della “strategia silenziosa” già intrapresa nelle risoluzioni precedenti, non esporsi e lasciar esporre le tesi, che essi stessi condividono, ai Paesi minori, fervidi sostenitori della pena di morte.
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Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit., pag.595. 163 Francesca Maria Benvenuto, I nuovi traguardi del dialogo universale sull’abolizione della pena di morte: cresce il consenso, s’indeboliscono le obiezioni, cit., pag. 26. 164 Il discorso di Sergio D’Elia è riportato da Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit., pag.595. 165 Benedetto Conforti, Diritto internazionale, VII ed., Editoriale scientifica, Napoli, 2006, pag. 184 e seg.
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La scelta adottata dagli U.S.A. può essere spiegata alla luce del fatto che, essendo una delle più grandi potenze mondiali, di stampo democratico, hanno preferito intraprendere la loro battaglia volta alla conservazione della pena capitale senza esporsi e senza apparire come le colonne portanti di questa iniziativa volta alla conservazione della pena capitale166. La debolezza di questa argomentazione viene sottolineata dagli Stati abolizionisti argomentando come tale divieto di ingerenza rappresenti sì un obbligo di carattere generale, ma è altrettanto vero che non riflette un principio di diritto cogente e come tale avente carattere inderogabile. L’obbligo non rappresenta l’espressione di una norma imperativa di diritto internazionale generale: non bisogna dimenticare che l’estensione del c.d. dominio riservato è stabilita dal diritto internazionale stesso (la domestic jurisdiction indica le materie, di cui lo Stato ha sovranità assoluta, libere da obblighi internazionali) che vede lentamente diminuire la sua portata in funzione degli interessi internazionali167. Inoltre è bene ricordare che le risoluzioni, non essendo atti vincolanti, non sono di per sé in grado di violare l’art. 2 par. 7, della Carta suddetta, per cui qualsiasi violazione invocata è priva di fondamento: tale violazione sussisterebbe solo nel caso in cui la risoluzione avesse efficacia di legge168. In seno alla sessantacinquesima Assemblea Generale gli Stati conservatori, per prima la Siria, sostengono che la pena di morte, rientrando nel novero delle questioni puramente penali, non abbia a che vedere con la tematica della tutela dei diritti umani. Anche questa argomentazione è priva di fondamento perché il sistema penale deve essere conforme agli obblighi internazionali in materia dei diritti umani, che rappresentano, allo stesso tempo, la ragion d’essere e il limite del diritto penale: lo Stato, quando punisce, deve necessariamente fare ricorso a una sanzione che sia rispettosa dei diritti fondamentali della persona umana169. Da ultimo l’Egitto, che ha votato contro la risoluzione del 2010, richiama la violazione del rispetto delle credenze religiose delle singole comunità statali e per questo accusa i
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Francesca Maria Benvenuto, I nuovi traguardi del dialogo universale sull’abolizione della pena di morte: cresce il consenso, s’indeboliscono le obiezioni, cit., pag. 27. 167 Patrick Daillier- Alain Pellet, Droit international publique, Paris, L.G.D.J. 2001, pag. 438 e seg. 168 Francesca Maria Benvenuto, I nuovi traguardi del dialogo universale sull’abolizione della pena di morte: cresce il consenso, s’indeboliscono le obiezioni, cit., pag. 27. 169 Andreana Esposito, Il diritto penale “flessibile”. Quando i diritti umani incontrano i sistemi penali, Giappichelli, Torino, 2008.
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sostenitori della risoluzione di voler promuovere una politica di imperialismo dei valori occidentali a discapito delle tradizioni giuridiche e religiose di alcuni Paesi170. Anche tale tesi risulta priva di fondamento dal momento che, sebbene la comunità internazionale debba preservare e tutelare le tradizioni storiche, culturali e religiose degli Stati, sussiste, in capo a questi, un obbligo internazionale di promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali171.
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Francesca Maria Benvenuto, I nuovi traguardi del dialogo universale sull’abolizione della pena di morte: cresce il consenso, s’indeboliscono le obiezioni, cit., pag. 29. 171 Dichiarazione e programma d’azione, Conferenza mondiale sui diritti umani, Vienna, 14-25 giugno 1993.
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II.5 Comitati, Associazioni, Campagne
Fino ad ora sono stati ricordati illustri Autori nel campo giuridico, politico, sociologico nonchè istituzioni europee e internazionali che hanno occupato un ruolo centrale nel percorso diretto all’eliminazione della sanzione capitale. In questa “battaglia” non si possono non menzionare quelle Associazioni, italiane e internazionali, che operano in prima linea su questo fronte. Occorre ricordare che queste associazioni svolgono un ruolo centrale nel promuovere le moratorie. La strategia abolizionista è condotta in prima linea da “Nessuno tocchi Caino”172: un’organizzazione non governativa, una lega internazionale a cui hanno aderito anche parlamentari, fondata nel 1993 a Bruxelles. Il nome dell’associazione è tratto dalla genesi nella Bibbia, ove non vi è scritto solo il principio “occhio per occhio, dente per dente”, ma anche: “il Signore pose su Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato”; il cui significato è, quindi, rintracciabile nella massima: “giustizia senza vendetta”173. Il 18 dicembre 2007 l’approvazione della risoluzione presentata dal Governo di Romano Prodi, Massimo D’Alema ed Emma Bonino all’Assemblea Generale delle Nazioni ha rappresentato il coronamento di una campagna condotta per oltre quindici anni da Nessuno tocchi Caino e dal Partito Radicale Nonviolento174, volta a dimostrare che la pena di morte lede la sfera dei diritti umani, viola il principio della dignità e della sacralità della vita umana175.
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Antonio Marchesi, L’assemblea generale delle Nazioni Unite invita gli Stati a stabilire una moratoria delle esecuzioni capitali, cit., pag. 397. 173 www.nessunotocchicaino.it. 174 E’ un’organizzazione non violenta gandiana. Dal 1995 Il Partito Radicale è registrato come Organizzazione non governativa (ONG). 175 Rapporto 2008 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit., pag. 7 e seg.
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Oltre alla risoluzione del 2007 l’associazione ha rivestito un ruolo determinante anche nella presentazione della risoluzione del 2012: Nessuno tocchi Caino ha chiesto all’Assemblea Generale dell’ONU di rafforzare il testo della risoluzione attraverso la richiesta dell’abolizione del segreto di Stato in merito alle esecuzioni, dal momento che molti Paesi, tra cui la Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita, non forniscono dettagli riguardanti i casi e le modalità in cui applicano la pena capitale. La mancanza di informazione dell’opinione pubblica è anche causa di un maggior numero di esecuzioni: per questi motivi vengono definiti come i primi Paesi-boia al mondo176. In seconda battuta, questa organizzazione, non governativa, ha richiesto all’Assemblea Generale dell’ONU di esortare i Paesi mantenitori a limitare l’applicazione di tale pena ai reati più gravi, dal momento che il Patto Internazionale sui diritti civili e politici prevede che “nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi”177. Per reati più gravi si intendono quelli con conseguenze letali o estremamente gravi, come hanno puntualizzato gli organismi dell’ONU. Inoltre viene richiesto che l’assemblea generale solleciti l’abrogazione della sanzione capitale che per certi reati è prevista non commutabile con altre pene: a titolo di esempio si ricordano reati di natura economica e droga, come previsto in alcuni Paesi tra cui Cina, Corea del Nord e Iran. Oltre a queste richieste si esorta l’ONU ad istituire la figura di un Inviato Speciale che oltre a monitorare lo stato dell’arte riguardante l’applicazione della pena capitale, abbia il compito di persuadere i Paesi conservatori178. La lotta all’abolizione da parte di questa associazione ritiene fondamentale che i Paesi che hanno votato e votano a favore della moratoria proseguano tale cammino rispettando la posizione presa in ogni circostanza: negando ogni tipo di collaborazione nella sua pratica nel mondo.
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www.nessunotocchicaino.it. Stralcio dell’art. 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, adottato a New York, il 16 dicembre 1966 (entrato in vigore il 23 marzo 1976). Ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, reso esecutivo con l. n. 881 del 25 ottobre 1977. 178 Per la moratoria delle esecuzioni capitali e la fine dei “Segreti di Stato” sulla pena di morte, consultabile su www.nessunotocchicaino.it. 177
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Esempi del divieto di importazione di organi o tessuti da Stati, la cui legislazione ne autorizza la vendita e il prelievo da cadaveri di cittadini condannati a morte179; nel divieto di esportazione di strumenti utilizzabili per applicare la pena capitale (o la tortura o altri trattamenti degradanti e inumani)180. Queste previsioni normative, relative al divieto di esportazione, rappresentano un ulteriore passo verso l’abolizione della pena di morte181. Grazie a queste normative Nessuno tocchi Caino ha ottenuto che la casa farmaceutica Hospira chiudesse in Italia la produzione del Pentothal, farmaco usato per giustiziare i condannati a morte in America, dal momento che risulta essere un paradosso che l’Italia, leader nella lotta contro la pena di morte, autorizzi una casa farmaceutica a produrre sul suolo italiano tale farmaco. La fine del Pentothal e la difficoltà di procurarsi il suo sostituto, il Pentobarbital, ha determinato moratorie di fatto delle esecuzioni più o meno brevi in alcuni Stati della Federazione americana e non solo182. La campagna contro la pena di morte viene sostenuta da “Nessuno tocchi Caino” anche in cooperazione con associazioni situate in Paesi dove la pena di morte è ancora in vigore e dove, quindi, risulta maggiormente necessaria: insieme alla National Association of Criminal Defense Lawyers (NACDL), situata negli Stati Uniti d’America inizia nel 2000 il progetto “we, on death row” (noi, nel braccio della morte). L’iniziativa è rivolta a sensibilizzare le persone sulla tematica della pena di morte e a sottolineare l’efferatezza e l’inumanità della pena. Tale progetto non solo ha suscitato forti reazioni in America, ma anche nel resto del mondo e, elemento imprescindibile da sottolineare, soprattutto tra i parenti delle vittime dei reati. Vengono presentate diverse fotografie rappresentanti i condannati a morte e vengono riportate le interviste loro fatte da parte dei giornalisti di “News-week”. Successivamente, tali fotografie sono state pubblicate su un catalogo dell’azienda Benetton, sensibile alla problematica della pena capitale: tale iniziativa è risultata di 179
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L. n. 91 del 1 aprile 1999: art. 19 co. 4, Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti. 180 D.lgs. n. 11 del 12 gennaio 2007: art. 2, Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del Regolamento (CE) n. 1236/2005, concernente il commercio di determinate merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte, la tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. 181 Andrea Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, cit., pag. 588 e seg. 182 Le prospettive della campagna di nessuno tocchi Caino, consultabile su: www.nessunotocchicaino.it.
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forte impatto, dal momento che è innegabile che il circuito mediatico e cartellonistico abbiano un impatto emotivo superiore a qualsiasi appello diplomatico. Grazie a queste associazioni si può ampliare la cornice geografica della lotta contro la pena di morte183. Tra le altre associazioni, schieratesi in prima fila per promuovere le moratorie dal 2007 ad oggi, bisogna ricordare Amnesty International184: fondata nel 1961 da un avvocato inglese di nome Peter Benenson, è un’Organizzazione non Governativa indipendente, una comunità globale di difensori dei diritti umani che si riconosce nei principi della solidarietà internazionale. Amnesty International conta due milioni e ottocentomila soci e la sezione italiana ne conta settantamila: segno del forte riscontro e impatto di questa organizzazione. Tale associazione, dedicandosi alla promozione e tutela dei diritti umani, da sempre si batte per cercare di portare a compimento il cammino verso l’abolizione della pena di morte. L’azione abolizionista inizia subito dopo la sua nascita con appelli volti a fermare le esecuzioni dei prigionieri di coscienza: termine coniato dalla stessa Organizzazione internazionale e si riferisce a chiunque viene imprigionato in base a determinate caratteristiche: per esempio la razza, la religione e altre. Col passare del tempo il suo raggio di azione si è ampliato e adesso lotta contro la pena di morte a prescindere dalla tipologia dei reati per cui viene comminata: il suo obiettivo è cancellare la sanzione capitale, contraria ai diritti di libertà e dignità dell’uomo. Per aumentare il suo raggio d’azione e diffondere il messaggio della disumanità della pena capitale Amnesty International è membro fondatore della Coalizione mondiale contro la pena di morte185, che organizza ogni anno, il 10 di ottobre, la “Giornata Mondiale contro la pena di morte”, che ha come obiettivo quello di effettuare una pressione concreta e periodica sui governi e le istituzioni per l’abolizione della pena di morte nel mondo. L’iniziativa ha avuto inizio il 10 ottobre del 2003, riscontrando un fortissimo successo, tanto che, ogni anno, viene riproposta e nel 2012, anno in cui cadeva la decima Gionata Mondiale, Amnesty International ha illustrato i passi significativi fatti
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Stefano Carnazzi, Assassinati. La pena di morte dagli albori ai giorni nostri e oltre, Stampa Alternativa, Roma, 2001, pag. 89 e seg. 184 Antonio Marchesi, L’assemblea generale delle Nazioni Unite invita gli Stati a stabilire una moratoria delle esecuzioni capitali, cit., pag. 397. 185 Fondata a Roma il 2 maggio 2002, la Coalizione mondiale si compone di organizzazioni impegnate nel campo dei diritti umani, di associazioni legali, di sindacati e di autorità locali e regionali che hanno unito le forze per lavorare insieme con l’obiettivo di eliminare la pena di morte nel mondo.
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nell’ultimo decennio nonostante la resistenza dei Paesi mantenitori la pena di morte186. In tale occasione Amnesty International ha stilato una dichiarazione dei dieci motivi per dire no alla pena di morte: viene puntualizzato, innanzitutto, come la sanzione violi il diritto alla vita e per questo viene richiamato il principio sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, secondo cui: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti” 187. Viene enfatizzato, come sempre dagli abolizionisti, il problema dell’errore giudiziario, ricordando che negli Stati Uniti d’America più di centotrenta detenuti nel braccio della morte sono stati rilasciati a seguito di elementi sopraggiunti che hanno dimostrato la loro innocenza dopo la chiusura del processo. Viene rimarcata la mancata efficacia deterrente, dato che nessuno studio ha mai dimostrato che la pena di morte sia più efficace di altre punizioni. I rappresentanti di Amnesty International sottolineano che infliggere la pena di morte al reo non reca alcun sollievo ai familiari della vittima: “un’esecuzione non può ridare vita alla vittima né cancellare la sofferenza provata dalla sua famiglia”. Questi dieci motivi riportati da Amnesty International sono fondamentali per capire le motivazioni su cui si basa la sua opposizione188. L’operato delle Associazioni contro l’abolizione della pena di morte si dimostra sempre più necessario ed efficace per compiere il lungo cammino rivolto a cancellare dai sistemi penali di tutto il mondo questa pena disumana.
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10 motivi per dire NO alla pena di morte, consultabile su www.amnesty.it. Adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Qui si fa riferimento all’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani. 188 Dichiarazione dei 10 motivi per dire NO alla pena di morte, consultabile sul sito www.amensty.it.
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II.6 Mappatura dei Paesi che hanno abolito la pena di morte e quelli mantenitori
Fig.1 Mappatura della pena di morte nel mondo
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Mappatura consultabile sul sito www.amnesty.it
68
Il rapporto 2012 di “Nessuno tocchi Caino” ci dice che i Paesi abolizionisti sono 99, gli Stati abolizionisti per crimini ordinari 7, gli abolizionisti de facto (cioè che non eseguono sentenze capitali da almeno dieci anni, oppure vincolati a livello internazionale a non applicare la pena capitale) 44, i Paesi che applicano la moratoria 5 e gli Stati mantenitori 43190. I dati riportati dimostrano come la lotta, intrapresa da coloro che vogliono eliminare la pena di morte dagli ordinamenti dei Paesi di tutto il mondo, è proficua: basti pensare che dagli anni settanta, quando i Paesi mantenitori erano 138, il numero degli stessi è diminuito in maniera considerevole191. Questo a dimostrazione del fatto che la lotta delle associazioni e delle istituzioni internazionali intrapresa attraverso le moratorie è stata proficua: l’impegno di fornire informazioni al segretario generale dell’ONU ha sicuramente avuto, come dimostrano i dati statistici, l’effetto di frenare l’applicazione di questa pena. Purtroppo, in alcuni Stati, come Cina e Vietnam, la questione della pena di morte è coperta da segreto di Stato e le notizie delle esecuzioni sono riportate, in minima parte, dai media statali. In Iran, dove non esiste il segreto di stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sono fornite dai giornali previa autorizzazione del regime. Infine, in Arabia Saudita e Giappone, le esecuzioni diventano di dominio pubblico solo dopo essere state effettuate. Negli Stati Uniti d’America, pur essendo una delle più potente e importanti democrazie mondiali, sussiste ancora, nel novero delle sanzioni penali, la condanna capitale: è ancora in vigore in 33 Stati della federazione, più il governo federale e l’amministrazione militare. E’ abolita in 16 Stati, nel Distretto di Columbia e nello Stato di New York una parte della legge capitale è stata dichiarata incostituzionale nel 2004 dalla Corte d’Appello, ma non formalmente abrogata. Il fatto però che il Parlamento non abbia messo in calendario una nuova legge per emendare quella dichiarata incostituzionale porta a pensare e a definire New York il 170 Stato abolizionista.
190
In appendice l’ordine dettagliato riportato dal Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit., pag. XVII e seg. morte nel mondo, cit., pag. XVII e seg. 191 Il novero dei Paesi abolizionisti e mantenitori è consultabile su www.amnesty.it.
69
Data la particolarità della situazione americana se ne parlerà approfonditamente nel capitolo successivo192. Si riportano le seguenti tabelle per un quadro completo sulla pena capitale nel mondo. La pena di morte in America: AMERICA DEL NORD Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Antigua e Barbuda
1991
Bahamas
Abolita di fatto (non esecuzioni da 10 anni) Abolita di fatto
2000
Barbados
Abolita di fatto
1984
Belize
Abolita di fatto
1985
Bermuda
Abolita
1977
2000
Canada
Abolita
1962
1976
Costa Rica
Abolita
1859
1877
Cuba
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita
2003
Dominica Rep. Domenicana El Salvador
192
Anno abolizione
1986 e oltre 1966 (Costituzione)
Grenada
Riservata a circostanze eccezionali Abolita di fatto
1973
1978
Guatemala
Abolita di fatto
2000
Haiti
Abolita
1972
1987 (Costituzione)
Honduras
Abolita
1940
1956 (Costituzione)
Giamaica
2003
Messico
Forma di punizione legale Abolita
1937
2005
Nicaragua
Abolita
1930
1979 (Costituzione)
Panama
Abolita
1903
1903 (Costituzione)
1983 (per altri crimini)
Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit., pag. 5.
70
Tab. 2-bis La pena di morte in America Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Saint Kitts e Nevis
Abolita di fatto
1998
Santa Lucia
Abolita di fatto
1995
St. Vincent e Granadine Trinidad e Tobago
Abolita di fatto
1995 1999
Turks e Caisos
Forma di punizione legale Abolita
Stati Uniti d’America
Forma di punizione legale
2012
Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Argentina
Abolita
1916
Bolivia
Abolita
1974
Brasile
1855
1985
2001 (per alcuni crimini)
Colombia
Riservata a circostanze eccezionali Riservata a circostanze eccezionali Abolita
1984 (altri crimini) 2009 (definitivo) 1997 (per alcuni crimini) 2009 (definitivo) 1979 (per alcuni crimini)
1909
1910 (Costituzione)
Ecuador
Abolita
Guyana
Forma di punizione legale Abolita
Mai
Anno abolizione
2002
AMERICA DEL SUD
Cile
Paraguay Perù
1906 (Costituzione) 1997 1928
1992 (Costituzione)
1979
1979(per altri crimini)
Suriname
Riservata a circostanze eccezionali Abolita di fatto
1982
Uruguay
Abolita
1905
Venezuela
Abolita
1909(Costituzione) 1863 (Costituzione)
71
La tab. 3 riporta la situazione nella pena di morte nei paesi Africani. Dei 56 paesi, in 19 è abolita, in 24 è abolita di fatto, in 13 è attiva come forma di punizione legale. Tab. 3 La pena di morte in Africa Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Algeria
Abolita di fatto
1993
Angola
Abolita
Benin
Abolita
1987
Botswana
2012
Burkina Faso
Forma di punizione legale Abolita di fatto
1988
Burundi
Abolita
2000
Camerun
Abolita di fatto
1997
Capo Verde
Abolita
1835
Rep. Centrafrica
Abolita di fatto
1981
Ciad
Forma di punizione legale Abolita di fatto
2003 1996
Comore
Anno abolizione
1992 (Costituzione) 2010
2008
1981 (Costituzione)
Rep. Democratica del Congo Rep. del Congo
Abolita di fatto
2003
Abolita di fatto
1982
Costa d’Avorio
Abolita
Nessuna
2000
Gibuti
Abolita
Nessuna
1995
Egitto
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita di fatto
2011
Guinea Equatoriale Eritrea Etiopia
2010 1993
Gabon
Forma di punizione legale Abolita
2007 1981
Gambia
Abolita di fatto
1981
72
2010
Tab. 3-bis La pena di morte in Africa Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Ghana
Abolita di fatto
1993
Guinea Bissau
Abolita
1986
Guinea
Abolita di fatto
2001
Kenya
Abolita di fatto
1984
Lesotho
Abolita di fatto
1995
Liberia
Abolita di fatto
2002
Libia
2010
Madagascar
Forma di punizione legale Abolita di fatto
1958
Malawi
Abolita di fatto
1992
Mali
Abolita di fatto
1980
Mauritania
Abolita di fatto
1987
Mauritius
Abolita
1987
Marocco
Abolita di fatto
1993
Mozambico
Abolita
1986
1990 (Costituzione)
Namibia
Abolita
1988
1990 (Costituzione)
Niger
Abolita di fatto
1976
Nigeria
2006
Ruanda
Forma di punizione legale Abolita
1998
2007
Repubblica Araba
Abolita
1976
1991
São Tomé e Príncipe
Abolita
Mai
1990 (Costituzione)
Senegal
Abolita
1967
2004
73
Anno abolizione
1993 (Costituzione)
1995
Tab. 3-ter. La pena di morte in Africa Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Seychelles
Abolita
Mai
1993 (Costituzione)
Sierra Leone
Abolita di fatto
1998
Somalia
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita
2012
Somaliland Sudafrica Sudan
1991
1997
Swaziland
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita di fatto
1983
Tanzania
Abolita di fatto
1994
Togo
Abolita
1978
2009
Tunisia
Abolita
1991
2011
Uganda
Forma di punizione legale Abolita di fatto
2006
Sudan del Sud
Zambia Zimbabwe
2011 2012
1997
Forma di punizione legale
2003
74
Nella tab. 4 è riassunta la situazione in Asia: nei 49 Stati: in 11 è abolita, in 8 abolita di fatto, in 29 è attiva come forma di punizione legale, 1 attiva solo in caso di circostanze eccezionali. Tab. 4 La pena di morte in Asia Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Afghanistan
2004
Armenia
Forma di punizione legale Abolita
1991
2003
Azerbaigian
Abolita
1992
1998
Bahrain
2006
Bhutan
Forma di punizione legale Abolita
1974
Brunei
Abolita di fatto
1957
Cambogia
Abolita
Cina
2010
Timor Est
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita
Hong Kong
Abolita
1966
India
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale Riservata a circostanze eccezionali Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale
2013
Taiwan
Bangladesh Indonesia Iran Iraq Israele
Giappone Giordania Kazakistan
Anno abolizione
2004
1989
2005 1999 1993
2005 2006 2012 2007 1962
2012 2005 2003
75
1954 (per altri crimini)
Tab. 4-bis La pena di morte in Asia Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Corea del Nord
Forma di punizione legale Abolita di fatto
2012
Corea del Sud Kuwait
1997 2005
Kirghisistan
Forma di punizione legale Abolita di fatto
Laos
Abolita di fatto
1989
Libano
Forma di punizione legale Abolita
2004
Macao Malesia
Mai esistita
Maldive
Forma di punizione legale Abolita di fatto
Mongolia
Abolita
Birmania
Abolita di fatto
1993
Nagormo Karabakh
Abolita di fatto
Mai
Nepal
Abolita
1979
Oman
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita
2001
Pakistan Palestina Filippine Qatar Arabia Saudita Singapore
Anno abolizione
2001 1952 2012
1997 (Costituzione)
2012 2010 2000
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale
2001 2012 2007
76
2006
Tab. 4-ter. La pena di morte in Asia Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Sri Lanka
Abolita di fatto
1976
Siria
Forma di punizione legale Forma di punizione legale Forma di punizione legale Abolita
2004
Forma di punizione legale Abolita
2002
Tagikistan Tailandia Turkmenistan Emirati Arabi Uniti Uzbekistan Vietnam Yemen
Anno abolizione
2004 2003 1999
2005
Forma di punizione legale Forma di punizione legale
2005 2010
77
2008
Nella tab. 5 è presentata la situazione dell’Oceania.Dei 16 paesi, in 11 è abolita, in 3 è abolita di fatto e in 2 è riservata a circostanze eccezionali193. Tab. 5 La pena di morte in Oceania Paese
Modalità di utilizzo della pena
Ultima esecuzione
Anno abolizione
Australia
Abolita
1967
1985
Isole Cook
Kiribaty
Riservato a circostanze eccezionali Riservato a circostanze eccezionali Abolita
1979
Isole Marshall
Abolita
Nessuna dall’indipendenza Nessuna
1986 (Costituzione)
Micronesia
Abolita
Nessuna
1986 (Costituzione)
Nauru
Abolita di fatto
Nessuna
Nuova Zelanda
Abolita
1957
1989
Niue
Abolita
Palau
Abolita
Nessuna
1994
Papua Nuova Guinea Samoa
Abolita di fatto
1950
Abolita
1950
2004
Isole Salomone
Abolita
Nessuna
1978
Tonga
Abolita di fatto
1982
Tuvalu
Abolita
Nessuna
1978
Vanuatu
Abolita
Nessuna
1980
Figi
193
Le tabelle sono state elaborate sulla base dei dati riportati dal Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit.
78
Cap. III- Gli Stati Uniti d’America e la pena di morte
III.1 L’Europa critica l’applicazione della pena di morte negli U.S.A.
Gli U.S.A. vengono criticati aspramente dagli Stati facenti parte dell’Unione Europea, che reputano non ammissibile che una delle più importanti e moderne democrazie del mondo applichi ancora una condanna barbara, arcaica e disumana come la pena capitale. Le critiche più severe provengono dall’Italia che, come già trattato ampiamente nel capitolo precedente, risulta essere in prima linea ed una voce di spicco nella campagna rivolta ad eliminare o, quantomeno, a sospendere la pena capitale dagli ordinamenti di tutti i Paesi che, ancora oggi, annoverano la condanna a morte tra le pene da infliggere ai rei, condannati per delitti di estremità gravità; questo si verifica, ad esempio, negli Stati Uniti d’America per il reato di omicidio. Per comprendere quanto attuale ed in primo piano sia il percorso intrapreso dagli abolizionisti europei è utile e necessario ricordare che, nel 2001, in occasione della visita in Europa da parte dell’allora Presidente degli Stati Uniti George Walker Bush, le principali accuse rivolte contro gli U.S.A. non riguardavano né il riscaldamento globale, né la difesa missilistica, tematiche, al tempo, di estrema attualità, ma avevano ad oggetto la questione della pena di morte. Le contestazioni non erano supportate solo dai manifestanti scesi per le strade, ma, anche, dai governi europei194.
194
Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit., pag. 4.
79
Un attacco così severo era giustificato anche dal fatto che, proprio in questo periodo, si manifestava ancora più marcata la volontà di alcuni membri della Corte Suprema americana di non confrontarsi con le tendenze europee195: i Paesi dell’U.E. mettevano in luce, grazie alla loro esperienza e storia giuridica, l’incostituzionalità della pena di morte, sanzione ancora più barbara se inflitta a persone mentalmente ritardate. Il Presidente della Supreme Corte William Rehnquist, che aveva votato a favore dell’applicazione della pena di morte nei confronti di questi soggetti nella sentenza Atkins v. Virginia196, replicava: “non riesco a vedere come le scelte di altri Paesi relativi alla punizione dei loro cittadini possano formare un qualche sostegno alle conclusive determinazioni della Corte; e se è vero che talune nostre precedenti opinioni hanno guardato al <> per dare maggiore forza a valutazioni relative alle evoluzioni degli standard di civiltà, abbiamo in seguito esplicitamente respinto l’idea che le prassi punitive di altri Paesi possano servire a stabilire i prerequisiti dei primi otto emendamenti, rispetto a una prassi che è accettata presso il nostro popolo”197. Sempre nel 2001 George W. Bush veniva criticato e attaccato dagli abolizionisti del vecchio Continente: pur sostenendo, il Presidente, che gli Stati Uniti guardavano alla pena di morte in una prospettiva riparatoria, gli abolizionisti evidenziavano come tale giustificazione trovava spazi minimi per accreditarsi rispetto a una società, come quella americana, che pone al centro dei suoi valori intoccabili i diritti dell’uomo. Gli abolizionisti sostenevano, inoltre, che rappresentasse una contraddizione il fatto che gli U.S.A., democrazia moderna e ancorata a valori costituzionali di rispetto della persona umana, ricorressero ancora alla pena capitale. L’approccio pragmatico degli Stati Uniti alla pena capitale ne giustifica il ricorso in termini funzionalsitici di scopo, come intimidazione diretta a impedire la commissione di crimini atroci; tanto che George W. Bush, in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle, sottolineava come la pena di morte rappresentasse uno strumento di speciale deterrenza per eliminare il terrorismo in forma organizzata. Il Patrioct Act198, del tredici novembre 2001, scelta
195
La Corte Suprema è stata istituita il 24 settembre 1789. E’ l’unico tribunale disciplinato dalla Costituzione americana ed è composta da nove giudici: il Chief Justice of the United States (il Presidente) e otto Associates Justices, tutti nominati a vita. 196 Atkins v. Virginia, 536 U.S. 2002 (dichiara incostituzionale la pena di morte inflitta ai mentally retarded). questa sentenza verrà analizzata approfonditamente nel proseguo della tesi. 197 Chief Justice Rehnquist, dissenting, Atkins v. Virginia, 2002, pag. 4 e seg. 198 Il Patrioct Act : Uniting and Strenghtening America by Providing Appropriate Tools
80
estrema dell’apparato normativo americano, rappresenta il paradigma della violazione dei diritti umani attraverso il ricorso sistematico alla sanzione capitale e a forme di tortura. Il Patriot Act è espressione del barbaro principio secondo cui la pena capitale rappresenta lo strumento maggiormente efficace a dimostrazione dell’uso della forza: la vita umana non ha alcun valore al cospetto della sicurezza statale199. Ulteriore attacco da parte degli abolizionisti europei nei confronti dell’applicazione della pena di morte, da parte degli U.S.A., verso rei colpevoli di crimini terroristici, si ha con l’impiccagione di Saddam Hussein, avvenuta il 30 dicembre 2006. In questo caso sostengono sia sbagliato, disumano e, peraltro, senza efficacia deterrente punire con la pena di morte i delitti commessi dai terroristi. Sottolineano come sia scorretto porre in relazione la morte di un individuo con quella dell’autore di un omicidio in virtù di una pena presente nel sistema giudiziario. E’ di fondamentale importanza distinguere il concetto di vendetta, che rappresenta il lato oscuro delle teorie retributive, da quello di giustizia. Alla luce di questo pensiero la pena di morte inflitta a Saddam Hussein sarebbe risultata sproporzionata per difetto rispetto a tutti i crimini commessi. Una simile situazione viene definita da Massimo Donini, docente di diritto penale, come il “paradosso retributivo dei crimini più gravi”: impedirebbe alla giustizia di degenerare nella vendetta e in pene atroci, senza violare il rispetto della dignità umana200, che rappresenta il fondamento dell’identità umanistica del diritto penale e che si traduce nell’ulteriore corollario del “principio dell’incommensurabilità tra persona e fatto commesso, in base al quale nessun tipo di pena irrogata a una persona può essere commensurabile al fatto commesso”201. Donini sostiene che la personalità del terrorista Saddam non si esaurisca in quel fatto per annullarsi nello stesso. “Il valore della persona è perciò necessariamente incommensurabile rispetto al significato di singoli fatti posti in essere dalla persona Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001. Si tratta di una legge federale americana, adottata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, diretta a inasprire i poteri della polizia e dei corpi di spionaggio statunitensi quali: FBI, CIA E NSA, con lo scopo di ridurre gli attentati terroristici negli Stati Uniti, intaccando la privacy dei cittadini americani. 199 Pasquale Troncone, Brevi riflessioni intorno al fondamento e allo scopo del diritto dello Stato di punire con la morte, cit., 242 e seg. 200 Massimo Donini, La condanna a morte di Saddam Hussein. Riflessioni sul divieto di pena capitale e sulla necessaria sproporzione della pena nelle gross violations, in Cassazione penale, 2006, pag. 6 e seg. 201 Massimo Donini, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale fra differenziazione e sussidiarietà, Giuffrè, Milano, pag. 269 e seg.
81
stessa. Ne consegue che non c’è fatto commesso che determini in capo al suo autore la perdita dell’umanità, della sua dignità e del suo valore”202. Tale considerazione, quindi, vale anche per i crimini terroristici, che causano la morte di una molteplicità di persone, dove la vita del reo è opposta a quelle delle vittime. Anche in questa circostanza, data l’incommensurabilità tra il fatto e la persona del reo, non è possibile “barattare” la sua vita con quella delle vittime, qualunque sia il loro numero. Non è l’uccisione del terrorista ad alleviare e ripagare la perdita subita dai familiari della vittima203. Ulteriori elementi, diretti a contestare l’applicazione della pena capitale negli Stati Uniti d’America, sono rintracciabile nell’analisi dei costi e nel fatto che la pena di morte può determinare situazioni da cui non si possono eliminare, completamente, gli eventuali errori giudiziari. Per questo motivo le sentenze, che comportano l’applicazione della pena di morte, sono soggette a riesame, anche venti anni dopo il processo, e ciò comporta costi elevati. Si tratta di una macchina giudiziaria immensamente costosa: condannare a morte un individuo ha un costo sproporzionato rispetto a quello di una condanna all’ergastolo e provoca ripetuti traumi ai familiari delle vittime, che devono convivere con la possibilità di un nuovo processo, l’escussione di nuovi testimoni e con differimenti dell’esecuzione all’ultimo minuto: last minute stays204. Negli Stati Uniti, a differenza dei sistemi giuridici europei, gli uffici giudiziari sono soggetti a bilanci finanziari che devono essere rigorosamente rispettati. Se un procuratore vuole portare avanti un processo in cui poter chiedere la pena di morte deve fornire un elevato numero di prove, a dimostrazione della legittimità della richiesta della condanna capitale; sono necessarie maggiori analisi di laboratorio e maggiori escussioni di testimoni rispetto a un procedimento giudiziario ordinario e lo Stato deve (dovrebbe!) garantire avvocati d’ufficio realmente capaci e preparati per questi tipi di processo.
202
Massimo Donini, La condanna a morte di Saddam Hussein. Riflessioni sul divieto di pena capitale e sulla necessaria sproporzione della pena nelle gross violations, cit., pag. 12. 203 Giandomenico Salcuni, Il cammino verso l’abolizione delle pena di morte, cit. pag. 25. 204 Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit., pag. 20 e seg.
82
L’imputato nei cui confronti viene richiesta l’applicazione della pena capitale potrebbe presentare ricorsi e appelli contro la sua condanna, superiori a quelli previsti per i procedimenti nei quali non è richiesta, a danno del presunto colpevole, la death penalty. In questo caso il procuratore mette in moto un meccanismo che drena le casse dello Stato (togliendo fondi per altre attività) e che, comunque, non scongiura l’errore giudiziario. Ciò che dovrebbe far riflettere è il fatto che anche un’elevata percentuale dei familiari delle vittime è contraria all’applicazione della pena di morte. A titolo di esempio possiamo ricordare che il 5 febbraio 2011, in Connecticut, 76 familiari di vittime di omicidio hanno inviato una lettera al Parlamento per chiedere di abolire la pena di morte. Nella lettera hanno spiegato la loro posizione: “La pena di morte in Connecticut offre una falsa promessa, che rimane inevasa, lasciando le famiglie frustrate e arrabbiate dopo aver affrontato processi che durano anni… E per rimanere abbracciato al suo sistema inefficace , lo Stato spreca milioni di dollari che potrebbero essere utilizzati per aiutare le famiglie delle vittime […] alcuni sostengono di stare dalla parte dei familiari delle vittime dichiarandosi favorevoli alla pena di morte per gli omicidi particolarmente odiosi. Noi abbiamo difficoltà a comprendere una tale posizione… Con la nostra esperienza, possiamo dire che ogni omicidio è odioso, una tragedia per i parenti. La pena di morte ha l’effetto di elevare alcuni familiari delle vittime al di sopra di altri familiari delle vittime. Il Connecticut dovrebbe saper fare meglio di così205”. Tutte queste motivazioni espresse contro la pena di morte, congiuntamente a quelle presentate nel secondo capitolo, sono dirette a far sì che il ramo conservatore degli Stati Uniti d’America comprenda che la pena capitale non ha alcuna efficacia: né deterrente, né retributiva.
205
Lettera riportata dal Rapporto 2012 di Nessuno tocchi Caino- La pena di morte nel mondo, cit., pag. 28 e seg.
83
III.2 La pena di morte in America ha efficacia deterrente?
Uno studio scientifico diretto a verificare l’efficacia deterrente della pena di morte si basa, necessariamente, su indagini criminologiche condotte sulla pena capitale nell’ordinamento statunitense206. Tali studi sono diretti a verificare se la condanna a morte sia in grado di assolvere una finalità preventiva. Lo scopo di questa indagine empirica consiste nel verificare se la previsione, a livello legislativo, e l’irrogazione della pena di morte siano in grado di influenzare il tasso di criminalità207. Al fine di comprendere l’esatto oggetto di riferimento di questi studi è necessario dare una definizione di deterrenza. In tal senso si farà riferimento alla definizione data dalla National Academy of Science Panel208: “La deterrenza (deterrence) è l’effetto di intimidazione delle sanzioni penali sull’attività delle persone (diverse dal reo condannato)” e include “tutti i meccanismo psicologici per mezzo dei quali le sanzioni penali scoraggiano il crimine” come “gli effetti di convalida normativa e di definizione morale della pena”209. Da questa definizione si possono evidenziare due differenti aspetti della efficacia generalpreventiva della pena capitale: l’aspetto dell’intimidazione, studiata per mezzo di dati statistici dei tassi di criminalità, ed il profilo dell’orientamento culturale, relativo agli effetti educativi e di creazione di abitudini di rispetto della legge che la sanzione penale può generare. Questi effetti sono noti con il nome di general prevention o longterm deterrence (prevenzione generale)210.
206
Johannes. Andenaes General deterrence Revisited: Research and Policy Implications, in Journal Criminal Law & Criminology, Northwestern University School of Law, 1975, volume 66, pag. 343. 207 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2006, pag. 1372. 208 Definizione data dalla National Academy of Science Panel e riportata da Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1367 e seg. 209 Così come riportato da Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1373. 210 Johannes Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, in Teoria e Prassi della prevenzione generale dei delitti, a cura di Mario Romano e Federico Stella, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 37 e seg.
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Questi studi sono diretti a verificare se la pena capitale abbia maggior efficacia deterrente dell’ergastolo e se da tali risultati si possano ottenere dati utili anche ai fini dell’attuazione di una corretta politica criminale211. Parlando dell’efficacia deterrente è necessario procedere ad un’ulteriore precisazione: dalla deterrence (prevenzione generale) occorre distinguere la special deterrence, intesa come l’effetto intimidatorio della pena esercitato sulla singola persona, piuttosto che sulla collettività. Questo effetto di prevenzione speciale deve essere inteso non come finalizzato alla risocializzazione del reo, ma come diretto alla protezione dei cittadini attraverso l’eliminazione dei colpevoli passibili di pena capitale. Si parla, in tal caso, di prevenzione speciale, più precisamente di effetto di neutralizzazione (incapacitation). Oltre a questa distinzione bisogna ricordare quella relativa alla deterrenza assoluta e relativa: la prima, nota come absolute deterrence, fa riferimento all’efficacia deterrente che ha una sanzione penale in re ipsa, la seconda, nota come marginal deterrence, fa riferimento all’efficacia deterrente di una sanzione comparata con un’altra212. Le indagini statistiche, in questo settore, sono rivolte a verificare non se la pena di morte abbia efficacia generalpreventiva rispetto ai reati per cui è comminata, ma se la possegga con riferimento alle altre sanzioni, in particolar modo rispetto alla carcerazione a vita213. Occorre sottolineare che gli studi in esame hanno come oggetto d’indagine il reato di omicidio, unico reato nei confronti del quale, negli Stati Uniti d’America, a partire dagli anni sessanta, è prevista la pena capitale214. Queste indagini criminologiche mettono in luce anche l’effetto opposto alla deterrenza che potrebbe presentare la condanna a morte, ovvero “l’effetto brutalizzante” e, quindi, un effetto persuasivo anziché dissuasivo215. 211
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1374. 212 Franklin E. Zimring e Roy Hawkins, Capital Punishment and the American Agenda, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, pag. 179 e seg. 213 Robert D. Bartels, Capital Punishment: The Unexamined Issue of Special Deterrence, in Iowa Law Review, University of Iowa College of Law, 1983, vol. 63, pag. 601 e seg. 214 William C. Bailey e Ruth D. Peterson, Murder, Capital Punishment, and Deterrence: A Review of the literature, in The Death Penalty in America: Current Controversies, a cura di Hugo Adam Bedau, Oxford University Press, New York-Oxford, 1997, pag. 137. 215 William J. Bowers e Glen L. Pierce, Deterrence or Brutalization: What is the effect of Execution?, in Crime and Deliquency, Boston, Northester University, 1980, volume 26 pag. 453 e seg.
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Come per la prevenzione generale, anche in questo caso, si possono ipotizzare due “volti” dello stesso effetto: nel breve periodo le esecuzioni potrebbero causare un incentivo della criminalità, per effetto di una identificazione del potenziale agente con lo Stato in qualità di giustiziere. D’altro canto, però, la crudeltà dell’esecuzione può, nel lungo periodo, causare il disprezzo, nella collettività, del valore della vita. Le indagini empiriche si sono focalizzate sulle quattro caratteristiche della pena capitale, già individuate da Beccaria, che rafforzano l’efficacia persuasiva della condanna a morte e sono: la severità della pena, la certezza della stessa, la celerità con cui viene inflitta e, infine, la pubblicità che viene data alla stessa216. L’efficacia deterrente, per permettere alla sanzione penale di avere effetto preventivo nei confronti dell’attività criminale, deve essere tale da annullare il vantaggio che può derivare dall’attività criminale stessa217. Dal momento che il possibile delinquente, prima di porre in essere il reato, soppesa costi e benefici dell’azione delittuosa, sarà maggiormente dissuaso dal commettere il reato se i costi della stessa si presentano più elevati dell’eventuale utilità tratta: quanto più severa sarà la sanzione penale prevista per quel reato e certa e celere sarà l’inflizione della stessa, tanto maggiore sarà la conoscenza della sua esistenza da parte dell’agente218. Le indagini criminologiche volte a verificare se la pena capitale ha efficacia deterrente hanno preso in esame tutte queste variabili: sia singolarmente che in connessione tra loro per studiarne l’influenza sui tassi di omicidio.
216
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1376. 217 William J. Bowers, Glen L. Pierce Deterrence or Brutalization: What is the effect of Execution?, cit., pag. 453. 218 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1376.
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Gli studi empirici che andrò a presentare si sono concentrati inizialmente sulla severità della pena; successivamente farò riferimento alle indagini svolte nella seconda metà degli anni settanta sulla verifica dell’influenza del grado di certezza della pena capitale, in riferimento ai tassi di omicidio. Infine si prenderanno in esame gli studi sulla celerità con cui la sanzione capitale viene inflitta e la pubblicità delle esecuzioni219.
219
Johannes Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, cit., pag. 45 e seg.
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III.3 Indagini empiriche sull’efficacia deterrente della pena di morte compiuti dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’70 negli Stati Uniti d’America
Nel periodo storico preso in considerazione le indagini empiriche dirette a verificare l’efficacia deterrente della condanna capitale fanno riferimento allo strumento della comparazione (comparative studies), ovvero al confronto dei tassi di omicidi, all’interno di un medesimo Stato, prima e dopo l’abolizione, l’introduzione o, eventualmente, la reintroduzione della pena capitale. Nel primo caso la pena di morte, avrebbe maggior efficacia deterrente marginale rispetto alla carcerazione a vita solo se si riscontrasse un aumento dei tassi di omicidio in seguito all’abolizione della pena di morte. Nel secondo caso, invece, l’ipotesi sarebbe confermata se vi fosse un tasso di omicidi maggiore negli Stati abolizionisti. In entrambi i casi si parte dall’assunto che sussista una correlazione negativa tra la previsione legale della pena di morte e i tassi di omicidio220. Questi studi comparativi non dimostrano, comunque, l’efficacia deterrente della pena capitale; anzi, dimostrano il contrario. Le indagini empiriche svolte sui tassi di omicidio prima e dopo l’abolizione, l’introduzione o la reintroduzione non evidenziano alcuna efficacia deterrente della pena capitale: anzi, il numero degli omicidi negli Stati conservatori risulta essere superiore rispetto a quelli che hanno eliminato questa pena. Sembrerebbe quasi dimostrato così che la pena capitale ha effetto criminogeno221. Uno studio comparativo sul tema in questione è stato effettuato da Thorsten Sellin, che ha dimostrato che il differenziale percentuale dei tassi di omicidio tra Stati abolizionisti e conservatori può essere influenzato da diversi fattori: economici, politici, culturali, sociali. Per risolvere tale problema e poter controllare, nello svolgimento del lavoro statistico, queste variabili, Sellin confronta la curva della criminalità punibile con la pena di morte in diciotto Stati, prendendo come riferimento temporale quattro decadi (1920-1963), raggruppandole in base alla omogeneità dei fattori elencati in precedenza.
220
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1376 e seg. 221 William J. Bowers, Glen L. Pierce Deterrence or Brutalization: What is the effect of Execution?, cit., pag. 83 e seg.
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Dai dati ottenuti Sellin appura che la previsione legislativa della pena di morte non influenza i tassi di omicidio222. A simili risultati, è doveroso ricordare, arrivano pure William Bailey e Scott Peterson che procedono ad un’analisi comparativa dei tassi di omicidio, prendendo come campione di riferimento gruppi di Stati abolizionisti e conservatori, riferendosi al periodo che va dal 1987 (anno in cui sono riprese le esecuzioni negli Stati Uniti d’America) al 1993. Il loro studio dimostra che non esiste alcuna correlazione tra minor tasso di omicidi e death penalty jurisdictions223. I successivi studi, a differenza delle analisi empiriche svolte da Sellin, prendono in considerazione un fattore diverso dalla severità della pena, ovvero la certezza della sanzione: studiando la percentuale di criminalità si esamina non la semplice previsione legale della pena capitale, ma l’effettiva irrogazione ed esecuzione della stessa224. Fino agli anni Settanta le indagini criminologiche volte a verificare l’efficacia deterrente della sanzione capitale non tengono conto della variabile ora in esame, ad eccezione degli Studi di Schuessler e Bailey. Quest’ultimo dimostra che il tasso di omicidio non diminuisce in relazione al grado di certezza di applicazione della pena di morte225. Tuttavia, come affermato da Bailey, questi risultati non sono totalmente attendibili in quanto, negli anni presi in esame, le esecuzioni non sono state numerose e quindi non si può escludere totalmente un rapporto di proporzionalità tra indici di esecuzione e indici di criminalità226. Gli studi di Isaac Ehrlich, diretti a verificare l’efficacia deterrente, provano che l’applicazione della pena di morte diminuisce il tasso di omicidio. Ehrlich dimostra i risultati delle sue indagini empiriche criticando l’approccio scientifico di Sellin: quest’ultimo, nei suoi studi, non aveva preso in considerazione le variabili sociodemografiche e di politica criminale che possono influire nella comparazione tra Stati.
222
Thorsten Sellin, Homicides in Retentionist and Abolitionist States, in Capital Punishment, a cura di Thorsten Sellin, Harper e Row, New York, 1967, pag. 135. 223 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1378 e seg. 224 William C. Bailey e Ruth D. Peterson, Murder, Capital Punishment, and Deterrence: A Review of the Literature, a cura di Ugo Adam Bedau, The Death Penalty in America: Current Controversies, cit., pag. 138. 225 Michael K. Shuessler, The Deterrence Effect of the Death Penalty, in Annals, 1952, volume 284, pag. 54 e seg. 226 William C. Bailey e Ruth D. Peterson, Murder, Capital Punishment, and Deterrence: A Review of the Literature, cit., pag. 426 e seg.
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In particolar modo si riferisce al fatto che Sellin non prende in considerazione la variabile della certezza della pena227. Tale requisito, invece, viene posto al centro dell’indagine di Ehrlich, analizzando la probabilità di essere incriminati per il reato di omicidio, la probabilità di condanna e di esecuzione una volta condannati. Egli considera anche altre variabili sociodemografiche e politico-criminali, associate al tasso di omicidi negli U.S.A., nell’arco temporale intercorrente dal 1933 al 1969. La novità di questo studio consiste nell’utilizzare una metodologia statistica che si avvale della tecnica dell’analisi econometrica denominata multiple regression analysis e dell’analisi multivariata228. Grazie a questo tipo di analisi statistica si possono isolare, tramite un processo di purificazione matematica, gli effetti di una singola variabile su un’altra, escludendo l’interferenza di tutte le variabili in grado di influenzare i risultati. La metodologia usata da Ehrlich per stabilire se e quale effetto le esecuzioni esercitino sui tassi di omicidio, consiste in un’analisi dei cambiamenti dei tassi delle prime in riferimento ai secondi, in costanza delle altre variabili (variabili di controllo) lungo il corso del tempo. Ehrlich, con questo tipo di analisi, detta time-series analysis, dopo aver aggregato i dati su base nazionale e annuale, dimostra che in America, nell’arco temporale sopra citato, si verifica, tenute costanti le variabili socio-economiche e politico-criminali di controllo, una correlazione negativa, in riferimento al tasso delle esecuzioni e il tasso degli omicidi, talmente significativa da affermare che “una esecuzione in più, all’anno, per il periodo considerato avrebbe potuto prevenire, in media, da sette a otto omicidi”229. Lo stesso avanza anche l’ipotesi che la diminuzione del rischio di esecuzioni, avvenuta nel periodo 1960-1969, arco temporale in cui vi era stata una moratoria delle esecuzioni indetta dalla Corte Suprema, poteva spiegare l’aumento di criminalità: quasi del 25%, avvenuta in quel periodo.
227
Isaac Herlich, The deterrence effect of Capital Punishment: a Question of life and death, in American Economic, Review, 1975, vol. 65, n. 3, pag. 397. 228 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1380 e seg. 229 Isaac Herlich, The deterrence effect of Capital Punishment: a Question of life and death, cit., pag. 402 e seg.
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Ehlrich, pur riscontrando un’efficacia assai maggiore, quanto all’omicida potenziale, della probabilità di essere scoperto, rispetto a quella di essere condannato, o di essere giustiziato, trae, così, conferma dell’efficacia deterrente delle esecuzioni fino a quel momento negata dalla totalità degli studiosi230.
230
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1380 e seg.
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III.4 Gli studi di Ehrlich sull’efficacia deterrente vengono confutati
Le indagini empiriche svolte da Ehrlich denotano una crescita, nell’ambito delle indagini criminologiche, dell’interesse degli uomini di scienza statunitensi per gli studi sull’efficacia generalpreventiva della pena di morte231. Facendo sempre ricorso all’analisi multivariata, questi studiosi sovvertono i risultati ottenuti da Ehrlich, smentendo l’efficacia deterrente della pena capitale. A differenza delle indagini effettuate da Sephen Layson232, la maggior parte degli studi effettuati privano di fondamento e credibilità il lavoro svolto da Ehrlich. Le critiche si rivolgono soprattutto alla carenza delle elaborazioni sotto il profilo spazio-temporale. Le analisi time-series sono soggette ad errori, suscettibili di stravolgere l’intera indagine quando l’aggregazione dei dati avviene su base nazionale. I primi ad accorgersi di questi problemi furono Peter Passel e Jhon Taylor: eliminando i dati relativi agli anni successivi al 1962 l’efficacia deterrente risulta compromessa233. Alla medesima conclusione pervengono i ricercatori William Bowers e Glenn Pierce, riscontrando una relazione diretta, anziché inversa, fra le esecuzioni e i tassi di omicidio, in riferimento al periodo storico 1935-1964, quando le esecuzioni sono al massimo livello234. Incisiva è la revisione dello studio di Ehrlich, commissionata dalla National Academy of Science, agli economisti Lawrence Klein, Brian Forst e Victor Filatov, i quali hanno evidenziato difetti nell’indagine di Ehrlich, relativa, soprattutto, alla manipolazione posta in essere al fine di dar credito alla tesi dell’efficacia deterrente: l’eliminazione degli ultimi anni della serie temporale porta a risultati differenti235. Altri studiosi contestano gli studi di Ehrlich, tra cui possiamo ricordare l’indagine di Forst che, per verificare la fondatezza degli studi del primo, in base ai quali il declino delle esecuzioni, nel corso degli anni settanta, avrebbe causato un aumento della 231
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1381 e seg. 232 Sthephen Layon, Homicide and deterrence a Reexamination of the United States Time-Series Evidence, in Southern Economic Journal, 1985, vol. 32, pag. 68 e seg. 233 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1381 e seg. 234 William J. Bowers e G. Pierce, The illusion of Deterrence in Isaac Ehrlich’s Research on Capital Punishment, in Yale Low Journal, 1975, volume 85 pag. 187 e seg. 235 L.R. Klein, B. Forst, V. Filatov, The deterrent Effect of Capital Punishment: An Assesment of the Evidence, in The Death Penalty in America, a cura di Hugo Adam Bedau, , Oxfor University Press, London, 1982, pag. 138 e seg.
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commissione di quei delitti puniti con la pena capitale, effettua una studio sul rapporto tra esecuzioni capitali e tassi di omicidio, tra il 1960 e il 1970, in trendadue Stati statunitensi. La critica principale di Forst alle indagini del collega è rivolta al fatto che le rilevazioni statistiche effettuate non avrebbero dovuto prendere in considerazione gli Stati che, anche prima dell’arco temporale preso in esame, non applicavano più la pena di morte e, quindi, utili al solo fine di falsare e avallare la tesi di Ehrlich. Forst include nei suoi studi una serie di variabili sociali, demografiche e politiche, arrivando a sostenere che la curva di cirminalità, negli anni settanta, è pressochè uguale in tutti gli Stati. Altri fattori, diversi dalle esecuzioni, influenzerebbero i tassi di omicidio236. Forst ha il merito di aver indirizzato le sue ricerche al periodo degli anni sessanta e settanta, nel quale si era verificata l’abolizione di fatto in U.S.A. della pena capitale, periodo probante per verificare l’assunto secondo cui l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti d’America causerebbe un incremento della criminalità237. Forst afferma: “la nostra conclusione che la pena di morte […] non previene l’omicidio è particolarmente solida”238. Altri studiosi, oltre a Forst, dimostrano la non persuasiva efficacia deterrente della pena capitale239. Da questi studi emerge come non abbia alcuna influenza sui tassi di omicidio la severità della pena di morte e torna utile, a tal fine, riportare le parole di Beccaria: “la certezza di un castigo, benchè moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile unito con la speranza dell’impunità”240. Ai fini di una corretta analisi degli studi dedicati a verificare o sfatare l’efficacia deterrente della pena capitale, è necessario ricordare che vengono svolte indagini che prendono in esame altre variabili oltre la severità e la certezza della pena. Tra questi vanno ricordati gli studi diretti a vagliare l’incidenza della celerità e pubblicità dell’esecuzione sui tassi di omicidio241, che hanno dimostrato come la celerità non 236
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1383 e seg. 237 L.R. Klein, B. Forst, V. Filatov, The deterrent Effect of Capital Punishment: An Assesment of the Evidence, cit., pag. 762. 238 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1383 e seg. 239 William C. Bailey, Deterrence and the Death Penalty for Murder in Utah: A time-series Analisis, in Journal of Contemporary Law, 1978, volume 5, pag. 1 e seg. 240 Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., pag. 78. 241 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1384 e seg.
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abbia grande influenza deterrente. Come sostenuto da Johannes Andenas: “per l’opinione pubblica la cosa più importante è che la macchina della giustizia funzioni, che il colpevole non sfugga la pena; se poi funziona rapidamente lentamente , questo ha meno importanza”242. Per quanto riguarda la variabile della pubblicità è stato dimostrato che l’uso della pena di morte scoraggia l’omicidio nella misura in cui sia conosciuto e percepito dai potenziali criminali come certo pronto e severo. Le prime indagini empiriche volte a verificare questa ipotesi, applicando il metodo della comparazione del tasso di omicidi, presi in esame nel periodo antecedente un’esecuzione nota e pubblicizzata, riscontrano un aumento degli omicidi anziché una loro diminuzione. Questi studi, però, hanno solo valore indiziario, a causa delle aree geografiche e degli archi temporali, brevi, presi in esame e della mancata considerazione di altre variabili, tra cui l’apporto fondamentale dei mass media sull’andamento della criminalità243. Dell’influenza dei mass media se ne occupa Stack attraverso l’analisi multivariata. Stack effettua un’analisi del tipo time series per il periodo compreso tra il 1950 e il 1980, nella quali i tassi di omicidio mensili vengono studiati in relazione ad una serie di valori indicativi dell’ammontare di pubblicità giornalistica dedicata alle esecuzioni, tenuto conto di alcuni fattori in grado di influenzare le statistiche sugli omicidi. Il ricercatore verifica un decremento significativo dei tassi di omicidio nei mesi con esecuzioni altamente pubblicizzate. Stock affermava che “sedici esecuzioni con elevato livello di pubblicità avrebbero potuto salvare 480 vite”244. L’attendibilità dell’indagine di Stock viene messa in discussione da Bailey e Patterson, che replicano lo studio per lo stesso periodo temporale: 1950-1980 e 1981-1986. I due ricercatori confutano l’efficacia deterrente dimostrata da Stack anche per quanto riguarda gli Stati U.S.A. abolizionisti: il fatto che questi non prevedano la pena capitale non dimostra che vi sia stato un aumento dei crimini rispetto agli Stati conservatori,
242
Johannes Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena, cit., pag. 40. 243 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1387. 244 Steven Stack, Publicized Executions and Homicide, 1950-1980, in American Sociology Review, Ohio State University, 1987, volume 52, pag. 532 e seg.
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puniti con la pena di morte245. Ciò è dimostrato dal fatto che i due ricercatori verificarono un’incongruenza negli studi di Stack, pervenendo a risultati diversi nell’indagine: accertano che il rapporto tra tassi di omicidio e pubblicità delle esecuzioni risulta essere causale246. Da ultimo è necessario ricordare le indagini, svolte sempre da Bailey e Peterson, dirette a verificare, empiricamente, l’efficacia deterrente della pena capitale. Prendono come termine di riferimento non la generalità dei potenziali criminali, ma i soli effettivi destinatari di questa sanzione. Gli stessi restringono, ulteriormente, il campo d’indagine, facendo riferimento ai soli felony murder, ovvero gli omicidi compiuti come conseguenza di altro reato. Il campo è ristretto a questa tipologia di reati dal momento che rappresenta la fattispecie criminosa più frequente tra i reati perseguibili con la pena di morte. Nel 1991 sottopongono a verifica empirica la relazione tra pubblicità delle esecuzioni e i tassi di felony murder, non riscontrando alcuna significativa variazione247. In tempi più recenti si sono occupati dell’efficacia deterrente della pena di morte Richard Posner e Gary Becker, ritenuti i padri dell’analisi economica del diritto. Nel 2006, grazie a due articoli pubblicati sull’ Economists’ Voice, spiegano il motivo per cui ritengono utile, ai fini della prevenzione di crimini molto gravi, la previsione della sanzione capitale248. I due economisti sostengono che nel valutare la necessità sociale di mantenere la pena di morte devono prendersi in considerazione tre fattori: l’efficacia deterrente marginale della stessa, il rischio di condannare a morte un innocente e i costi marginali connessi all’applicazione della sanzione capitale rispetto alla carcerazione perpetua. Ritengono che il guadagno, per quanto riguarda la deterrenza e la riduzione dei costi, supera ampiamente il rischio di condannare un innocente che, a loro giudizio, è minimo. Difatti, i processi diretti a infliggere la pena di morte hanno una durata superiore ai procedimenti ordinari e il tempo che, in media, trascorre tra la condanna e l’esecuzione (dieci anni), nonché la possibilità di fare ricorso al test del DNA, possono 245
William C. Bailey e Ruth D. Peterson, Murder, Capital Punishment, and Deterrence: A Review of the Literature, cit., pag. 146. 246 Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1388. 247 William C. Bailey e Ruth D. Peterson, Murder, Capital Punishment, and Deterrence: A Review of the Literature, cit., pag. 367. 248 Richard Posner e Gary Becker come riportati da Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1391 e seg.
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far emergere in tempo utile, per riparare ad eventuali errori giudiziari, le prove a discolpa del condannato innocente249. Tra i limiti di attendibilità delle indagini descritte viene giustamente segnalata la mancanza di verifica degli aspetti soggettivi e di percezione: la severità e la certezza oggettiva (pena di morte o ergastolo, esecuzioni e tempi di attesa) non forniscono alcuna informazione sulla severità e certezza percepita dai soggetti. Quando vi è una forte motivazione ideologica (omicidi politici o reati di terrorismo) la stima soggettiva del rischio di incorrere in una pena severa viene ridimensionata e accettata come strumento di lotta politica. Anche nel caso di omicidi commessi per motivi passionali, sessuali e di altre specie è difficile, comunque, ritenere che il criminale possa fare scelte razionali che consentano di compiere una valutazione tra impulso all’omicidio e meccanismo intimidatorio della pena prevista: una politica criminale basata sulla funzione deterrente della pena severa non può ottenere significativi risultati in termini di riduzione dei reati250.
249
Luciana Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, cit., pag. 1391 e seg. 250 Luciano Eusebi, La pena in crisi, il recente dibattito sulla funzione della pena, ed. Morcellania, Brescia, 1990, pag. 22.
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III.5 L’opinione pubblica statunitense contro la pena di morte
Dopo aver dato conto di ricerche e indagini volte a misurare l’efficacia deterrente della pena di morte, è il caso di esporre le motivazioni che hanno indotto, e inducono, parte dell’opinione pubblica a voler fermare l’applicazione della sanzione capitale negli Stati Uniti. Come primo argomento, a favore dell’abolizione, l’opinione pubblica fa leva sulla altissima probabilità di incorrere in un errore giudiziario251. Per dimostrare che si tratta di una problematica di non poco conto gli statunitensi invocano contro la pena di morte i dati riportati dal Rapporto Liebman252: in un arco temporale di ventitrè anni (1973-1995) il tasso complessivo di errori è stato del 68%, portando alla morte numerosi innocenti253. Gli abolizionisti hanno più volte rimarcato come il problema dell’errore giudiziario non sia indipendente e autonomo, ma sia l’anello di una catena fallata in più punti. Prima di affrontare questa ulteriore tematica risulta necessario fare una precisazione: i sostenitori statunitensi della pena di morte ritengono che l’errore giudiziario, che causa la morte di un numero indeterminato di soggetti innocenti, possa essere scongiurato ricorrendo all’esame del DNA254. Per i conservatori il ricorso al confronto del DNA costituirebbe un’arma infallibile255. Gli abolizionisti, pur ritenendo che il test del DNA, effettivamente, possa essere utile, a volte necessario, ai fini di una corretta individuazione del
251
Giorgio Marinucci, La pena di morte, cit., pag. 17. Si tratta di un’indagine condotta dalla Columbia Law School in cui si dimostra, incontrovertibilmente, che più di 2 processi su 3 sono sfociati in condanne a morte dal 1976 al 1995 sono minati da errori preliminari, procedurali e sostanziali: tali che, se conosciuti, avrebbero portato all’annullamento della condanna. 253 Stefano Carnazzi, Assassinati. La pena di morte dagli albori ai giorni nostri e oltre, Stampa Alternativa, Roma, 2011, pag. 67 e seg. 254 D.N.A.: acido desossiribonucleico, è un composto chimico macromolecolare che codifica le Informazioni genetiche relative ad un essere vivente. E’ un polimero, presente nel nucleo di tutte le cellule, formato da due catene di nucleotidi, intrecciate tra loro a formare una doppia “elica”. Ogni nucleotide è costituito da carboidrati e gruppi fosforici, con una base azotata attaccata ad ogni carboidrato. Le basi sono: adenina (A), timina (T), citosina (C), guanina (G). A,T,C e G, nella catena nucleotidi, si appaiano in modo costante: l’adenina con la timina (A-T, T-A) e la citosina con la guanina (C-G, G-C). Ciò che differenzia il DNA di un essere da un altro non è quindi la sequenza in cui si appaiano le basi, ma la sequenza degli appaiamenti. E’ per questo motivo che il codice genetico di una persona è unico, diverso da quello di ogni altra, tranne nel caso di fratelli gemelli. 255 Michela Miraglia, La ricerca della verità per condannare ed assolvere: il test del DNA e l’esperienza statunitense, in Diritto penale e processo, 2003, pag. 1555. 252
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colpevole, sostengono, tuttavia, che l’eventuale test possa essere inutile o addirittura fuorviante per due motivi: in primo luogo il test del DNA ha sicuramente un ruolo determinante nelle casistiche dei crimini sessuali dove è più facile individuare un campione da sottoporre al test di cui sopra, ma non nei casi in cui la fattispecie dell’omicidio, punito con la pena capitale, è conseguenza, a titolo di esempio, di una rapina, che rappresenta il crimine “tipo” da cui può derivare, successivamente, l’uccisione della vittima. In secondo luogo l’opinione pubblica statunitense ricorda che, anche nel caso di reati sessuali, l’esame del DNA non porterebbe necessariamente ad individuare il reale colpevole; il ritrovamento di una traccia biologica sul luogo in cui si è consumato il reato non consente di dedurre, con assoluta certezza, che il soggetto, cui il campione di DNA appartiene, sia l’autore del reato stesso. Nel caso di stupro si potrebbe paventare l’ipotesi di una commistione di campioni, nel caso in cui la fattispecie delittuosa avvenga successivamente, e a distanza di tempo ragionevole, ad un rapporto sessuale consenziente; oppure nel caso in cui, ipotesi rara ma non trascurabile, l’apparente vittima acconsenta ad un rapporto che in seguito denuncia come violenza256. Come detto in precedenza l’errore giudiziario si iscrive in una cornice molto più complessa. Gli abolizionisti statunitensi, sempre riferendosi ai dati acquisiti dal Rapporto Liebman, sottolineano che i processi capitali sono contaminati da così tanti errori che risulta necessario esperire diverse ispezioni giudiziarie per rilevarli, permanendo, tuttavia, gravi dubbi sul “se” vengano rilevati, comunque, tutti. Per sovvertire una sentenza capitale è necessario che gli errori siano determinanti e, dal momento che gli imputati si trovano ad essere difesi da avvocati d’ufficio, nella maggior parte dei casi impreparati e poco professionali, che non ricercano prove dirette a rilevare l’errore determinante, necessario ai fini dell’assoluzione della persona sottoposta a processo, anche in considerazione che la polizia e gli inquirenti che scoprono questo tipo di prove possono sopprimerle (si pensi a tracce biologiche che potrebbero scagionare il condannato), tutti questi dati parlano a favore della soppressione della pena capitale non solo per questioni attinenti la sua disumanità, ma
256
Michela Miraglia, La ricerca della verità per condannare ed assolvere: il test del DNA e l’esperienza statunitense, cit., pag. 1560 e seg.
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anche perché il processo può risultare viziato da errori procedurali e sostanziali che lo possono rendere iniquo e imparziale257. Alla luce di queste problematiche due degli Stati U.S.A., che prevedevano all’interno del loro sistema penale la condanna a morte, tra il 2002 e il 2003, hanno adottato la moratoria delle sentenze capitali. La prima moratoria è stata disposta dal Governatore dell’Illinois, George Rayan, il 31 gennaio del 2000 che, contestualmente, ha incaricato una commissione di quattordici membri al fine di studiare il sistema della pena di morte, essendo convinto che molte condanne fossero frutto di errori sostanziali e procedurali258. Il governatore ha dichiarato: “Non posso tollerare un sistema che nella sua amministrazione ha dimostrato di cadere troppe volte in errore e si è avvicinato troppo all’incubo peggiore: l’uccisione di un innocente per mano dello Stato”259. Il Governatore Rayan, infatti, quale ultimo atto del suo mandato, ha commutato la condanna a morte di 167 detenuti in attesa di esecuzione in detenzione a vita. Quello che più rileva, a dimostrazione del fatto che la lotta all’abolizione non è fine a sé stessa, è che, nel 2002, l’Illinois Judiciary Committee ha approvato (con 8 voti favorevoli contro 4 contrari) il progetto di legge che prevede l’abolizione della pena di morte: primo passo verso l’abolizione definitiva260. Il secondo Stato a stabilire una moratoria dell’esecuzione delle condanne capitali è lo Stato del Maryland. Il Governatore Parris Glending, nel 2003, ha adottato una moratoria sulla base di studi, al tempo ancora in corso, effettuati da una commissione nominata ad hoc che doveva verificare se la death penalty fosse stata applicata sulla base di discriminazioni razziali261. Oltre ai problemi inerenti ai possibili vizi procedurali dei processi diretti a infliggere la pena capitale, l’opinione pubblica statunitense sostiene che risulta incompatibile con il sistema politico e istituzionale americano, definito democratico, la condanna capitale. Austin Sarat, docente di giurisprudenza nel Massachussets, sostiene che questa pena disumana danneggi lo spirito democratico della Nazione: con essa si sviluppano sia l’idea della vendetta, che ha corrotto le corti, le istituzioni e la cultura americana, sia le 257
Stefano Carnazzi, Assassinati, cit., pag. 69 e seg. Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, in Diritto penale e processo, 2002, pag. 1158. 259 Intervento di George Ryan riportato da Nessuno tocchi Caino, La pena di morte nel mondo-Rapporto 2002, a cura di Elisa Zamparutti, Padova, 2002, pag. 149. 260 Michela Miraglia, La ricerca della verità per condannare ed assolvere: il test del DNA e l’esperienza Statunitense, cit., pag. 1563. 261 Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158.
258
99
divisioni razziali, generate anche dal numero sproporzionato di persone di colore sottoposte alla pena di morte. Lo stesso Sarat denuncia il fatto che una percentuale troppo ampia di cittadini statunitensi è a favore della sanzione capitale. Questo è indice del fatto che vi è una un’idea diffusa di giustizia semplicistica (occhio per occhio, dente per dente)262. Gli americani vivono in uno “ Stato che uccide”, dove la violenza si scontra con altra violenza e dove la misura della sovranità popolare risiede nell’abilità di fare leggi che possano legittimare la pena di morte e di tradurre queste leggi in un quieto ed irresponsabile massacro. Ancora oggi quando lo Stato uccide lo fa attraverso procedure burocratiche nascoste alla vista e per le quali nessuno, in particolare, è responsabile. Sempre lo stesso autore svela le forze che sostengono la Killing culture americana, tra le quali la retorica politica, il pregiudizio razziale e il desiderio idilliaco di un mondo senza ambiguità morale. La pena capitale, secondo l’autore, in ultima istanza, lascia gli americani più divisi, ostili ed indifferenti alle complessità della vita, e molto più lontani dal risolvere i mali della Nazione americana. In sostanza, li lascia in una democrazia impoverita263.
262
Austin Sarat, When the State Kills: Capital Punishment and the American Condition, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 2001, pag. 110 e seg. 263 Silvia Illari, La dottrina statunitense in tema di diritti, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2003, pag. 579.
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III.6 la maggioranza dell’opinione pubblica è favorevole o contraria alla pena di morte?
I dati ricavati da rilevazioni statistiche, compiute negli Stati Uniti d’America, volti a verificare la percentuale di cittadini statunitensi a favore o contrari alla pena di morte, dimostrano che, nel corso del tempo, l’opinione pubblica ha cambiato spesso idea al riguardo. Basti pensare che nel 1935 la sanzione capitale incontrava il favore del 60% della popolazione, nel 1966 il 47% e, infine, nel corso degli anni ‘90 sì è attestato intorno al 70-75%264. E’ necessario ricordare che, nel quarantennio intercorso tra il 1952 e il 1992, sono state compiute indagini dirette a verificare se, all’interno della popolazione, vi fossero categorie di cittadini maggiormente inclini alla pena di morte. Dagli studi effettuati era emerso che la popolazione maschile risultava essere maggiormente favorevole rispetto a quella femminile: per entrambe le categorie prese in considerazione le percentuali crescevano in maniere costante; dal 78% degli anni ’50 fino a valori superiori all’80% negli anni successivi. La popolazione femminile presentava lo stesso trend anche se con una percentuale a favore della pena capitale inferiore del 10% rispetto agli uomini. Sempre le medesime indagini dimostravano che, comparando le varie etnie ed isolando le percentuali dei bianchi rispetto ai neri, la pena di morte trovava maggior favore tra i primi: ciò veniva spiegato dal fatto che i neri, nel corso della storia degli Stati Uniti d’America, erano stati vittime, per questioni razziali, dell’ applicazione arbitraria di questa pena. Da un punto di vista politico, invece, notiamo che i Repubblicani e i Conservatori, rispetto ai Democratici e ai Liberali, presentavano percentuali di favore nettamente superiori265. Diverse indagini criminologiche hanno discusso i limiti delle singole domande, di tipo dicotomico, usate nelle indagini sulla popolazione generale per studiare il discrimine che divideva conservatori e abolizionisti all’interno della popolazione statunitense266.
264
Phoebe C. Ellsworth e Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, in The Death Penalty in America- Current Controversies a cura di Hugo Adam Bedau, , Oxford University Press, 1996, pag. 90. 265 Robert M. Bohm, American death penalty opinion, 1936-1986: A critical Examination of the Gallup polls, in The death penalty in America: Current research, a cura di Robert M. Bohm, , Cincinnati, 1991, pag.133 e seg. 266 Neil Vidmar e Phoebe C. Ellsworth, Public opinion and the death penalty, in Standford Law Review,
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Le risposte a questo genere di domande, formulate nel corso delle indagini volte a vagliare la percentuale di cittadini U.S.A. favorevoli o contrari alla pena capitale, non erano totalmente attendibili. Chiedere, semplicemente, all’intervistato se fosse favorevole o contrario alla pena di morte non era sufficientemente probante perché non emergeva il motivo per cui fosse a favore o contro la sanzione capitale, che cosa in realtà conoscesse su questo argomento, come e a chi avrebbe dovuto essere applicata e, perché, da ultimo, non si poteva verificare se il suo pensiero fosse realmente personale o se venisse influenzato dalle opinioni degli altri: questi erano aspetti che sarebbe stato importante conoscere. Quanto appena detto risulta di primaria importanza in quanto la previsione della pena di morte nel sistema giudiziario degli Stati Uniti dipende dal supporto popolare del momento. Nel 1972, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha affermato che la pena capitale è una “cruel and unusual punishment”, e quindi incostituzionale, tutti i giudici hanno ritenuto che la legalità della pena capitale dipendesse dalla sua accettabilità in base agli standards contemporanei (Furman v. Georgia267). La Corte Suprema ha mantenuto questa posizione quando diversi giudici hanno espresso perplessità sulla validità delle indagini di opinione come fonte di informazione sui contemporary standards268. Nel 1972 la decisione della Corte Suprema, nel caso Furman, lasciava dei dubbi sulla legalità della pena di morte. La Corte sosteneva che tutte le sentenze esistenti sulla pena capitale nel Paese fossero incostituzionali perché imposte sotto un sistema che permetteva un uso arbitrario della pena capitale da parte dei giudici, senza dover seguire procedure che guidassero l’operato dell’autorità procedente. Quattro anni dopo, quando la Corte si pronunciò sulla pena capitale dichiarandola costituzionale (Gregg v. Georgia269), il pubblico era assolutamente a favore della pena di morte. E’ da rilevare, tuttavia, che il supporto popolare non può essere sufficiente a legittimare il mantenimento della pena di morte. Franklin Zimring e James Hawkins, nel 1986, sottolinearono che, nei precedenti trent’anni, la pena capitale era stata abolita nella Germania dell’ovest, in Gran
Standford Law School, Standford, 1974, pag. 1245 e seg. Tale sentenza, qui solo menzionata, verrà approfondita nel prosieguo. 268 Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 91 e seg. 269 Tale sentenza, qui solo menzionata, verrà approfondita nel prosieguo. 267
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Bretagna, Canada, Francia, nonostante l’opinione pubblica fosse a favore della sanzione capitale. Lo stesso potrebbe accadere negli Stati Uniti. D’altra parte il supporto popolare può essere necessario per continuare a utilizzare la pena di morte in questo Stato270. Il tema della pena capitale rivestiva un ruolo di fondamentale importanza nella società statunitense ed era oggetto di continuo dibattito in seno all’opinione pubblica. Quanto appena affermato è fondato su dati statistici: la Associated Press, nel 1986, verificò che il 65% della popolazione degli Stati Uniti d’America era particolarmente sensibile al dibattito riguardante la sanzione capitale. Un sondaggio dell’ABC News riferiva che, nel corso delle elezioni presidenziali del 1988, che vedeva contrapposti George Bush e Michael Dukakis, su un campione di 23.000 votanti, il 27% degli stessi, ai fini della votazione, era interessato a sapere come i due probabili leader intendessero affrontare la problematica relativa alla death penalty: secondo item, nel corso della campagna elettorale, l’opinione pubblica era maggiormente interessata alle loro posizioni per quanto riguarda la pena di morte piuttosto che alle modalità con cui intendessero risolvere le problematiche relative alla droga (26%), alla cultura (21%) e alla sicurezza sociale (19%). Altro aspetto fondamentale da sottolineare è il fatto che nel corso di queste indagini la distribuzione delle risposte alle domande nei sondaggi sulla pena di morte variava da un’indagine all’altra anche in un breve lasso di tempo. Il range delle differenze nelle risposte mutava dall’1% al 5% ed erano facilmente spiegate dall’errore casuale e dalla quantità di possibili problemi nel disegno e nell’implementazione della ricerca. Quello che è maggiormente importante è l’assenza di differenze sistematiche tra i risultati di sondaggi competitivi che esprimono le loro domande sulla pena capitale in modo diverso. Ad esempio la domanda generalmente posta dalla General Social Survey (GSS) era: “Do you favor or oppose the death penalty for persons convicted of murder?” prima, nel 1981, la domanda tipo della Gallup era: “Are you in favor of the death penalty for persons convicted of murder?”.
270
Franklin E. Zimring, James Hawkins, Capital punishment and the America agenda, cit. 1986.
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La Harris generalmente domandava: “Do you believe in capital punishment (the death penalty) or are you opposed?”. Nessuna differenza tra questi diversi format ha un impatto rilevante sulle risposte. Ad esempio, in base alle indagini del GSS, compiute nel 1970, il 66% era a favore, il 30% contrario, il 5% indeciso. Secondo i sondaggi della Gallup: favorevoli alla pena capitale il 66% e contrari il 26%, indecisi 7%; i risultati acquisiti dall’indagine espletata dalla Harris erano espressi da queste percentuali: a favore il 67%, contrari il 25% e indecisi 8%271. Prima degli anni ’70 non veniva chiesto agli intervistati il perché fossero a favore o contro la pena di morte. Nonostante alcuni ricercatori avessero tentato di farlo, i risultati da loro ottenuti evidenziavano che chiedere le ragioni dell’opposizione nei confronti della pena di morte non desse, necessariamente, la possibilità di scoprirne la vera ragione272. Ellsworth e Ross, nel 1983, riscontrarono, per esempio, che i cittadini statunitensi intervistati tendevano a rispondere non in base a ciò che realmente pensavano, ma fornivano risposte riprendendo le motivazioni più comuni riscontrabili tra i leader conservatori o abolizionisti, a seconda dell’inclinazione dell’intervistato. Ulteriore variabile che impediva una corretta valutazione di quali fossero le reali ragioni che supportavano le motivazioni a favore o contro la pena di morte dei due schieramenti (abolizionisti e conservatori) dell’opinione pubblica era riscontrata dai due autori nell’aspetto emozionale, che poteva variare a seconda del periodo storico e dal fatto che una maggior pubblicità, da parte dei mass media, delle esecuzioni capitali, poteva incrementare o decrementare le relative percentuali273. Ci sono due metodi per chiedere alla gente le ragioni del loro orientamento nei confronti della pena di morte: la prima è di fornire una lista di possibili ragioni a favore o contro e chiedere di scegliere tra queste. La seconda, meno comune, è quella di fare una domanda aperta: “perché sei a favore o contrario alla pena di morte?”.
271
Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 93 e seg. 272 Stuart H. Schuman e Rose Presser, Question and answer in attitude surveys, San Diego, Academic Press, 1981. 273 Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 95 e seg.
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Il primo metodo fa nascere problemi già indicati da Ellsworth e Ross e cioè che la scelta della risposta risulti condizionata dall’elenco di possibilità proposte. Il secondo metodo è potenzialmente più utile dal momento che non suggerisce le ragioni possibili e potrebbe dare delle risposte più valide.
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III.7 L’opinione pubblica: l’aspetto della deterrenza e della retribuzione della pena di morte
Alla fine degli anni settanta, negli Stati Uniti d’America, una parte della popolazione favorevole all’uso della pena capitale giustificava l’applicazione della stessa sostenendo che avesse efficacia contro i crimini. In questo periodo, infatti, il dibattito diretto a legittimare o meno tale efficacia era causa di forti scontri tra abolizionisti e conservatori: indagini statistiche, pur evidenziando una crescita della percentuale di americani favorevoli alla pena di morte dal 1972 al 1992, dal 58% al 75%, riscontravano che la convinzione dell’efficacia deterrente di tale pena, nei confronti del crimine, rimanesse stabile intorno al 55%274. Questi dati supportano, pertanto, la conclusione che la propensione dell’opinione pubblica, diretta a giustificare la condanna capitale, non fosse influenzata dalla possibile efficacia deterrente della stessa. Ulteriore ragione, addotta dai conservatori, a favore della previsione legislativa della pena di morte, era riscontrabile nel suo essere retributiva, intesa nell’eccezione di vendetta e di “life for a life” (la legge del taglione). Nelle indagini svolte dalla ABC News, dalla Gallup e Harris, tra gli anni ’85 e ’90, l’aspetto della retribuzione: a life for a life era stata la ragione più ricorrente espressa dagli intervistati. Quando i ricercatori rendevano noto agli intervistati i costi della macchina della giustizia in relazione ai Capital cases, evidenziando che l’ergastolo comportava oneri economici molto inferiori, non riscontravano un cambiamento di percentuale a favore del ramo abolizionista, forse in ragione del fatto che i fautori di questa condanna ritenevano non si potesse attribuire un costo alla vita. Solo pochi intervistati, il 20%, consideravano l’incapacitation, cioè togliere al criminale la possibilità di compiere nuovi delitti, motivo valido per la pena di morte275.
274
C.W. Thomas e F.C. Foster, A sociological perspective on public support for capital punishment, in American Journal of Orthopsychiatry, 1975, pag. 641 e seg. 275 Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 96 e seg.
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William J. Bowers, nel 1993, ritenne che tali sondaggi registrassero una propensione superiore a favore della pena di morte in virtù del fatto che, nella maggior parte delle interviste, non venivano poste alternative alla pena capitale e, comunque, se fosse stata indicata un’alternativa, questa era la “life imprisonment”, presentata senza ulteriore specificazione. Negli anni ’70 infatti non si differenziava la life imprisonment con la life imprisonmente without parole276. Le cose cambiano dopo gli anni ’90: in alcune indagini emerse che solo il 4% delle persone intervistate, compresi anche alcuni giurati, ritenevano che i condannati alla prigione a vita passassero veramente l’intera esistenza in prigione, mentre la durata media della “life sentence” era di 15,6 anni277. Bowers, per ovviare a questa ignoranza degli intervistati, formulò in modo diverso la domanda: “se l’omicida condannato in questo Stato ha una condanna di prigione a vita con nessuna possibilità di tornare nella società voi preferireste questa pena come alternativa alla pena di morte?”. In tutti e cinque gli Stati (California, Florida, Georgia, Nebraska, New York) in cui venne svolta l’indagine, la maggioranza degli intervistati rispose optando per la carcerazione a vita. Aggiungendo poi che al condannato sarebbe stato richiesto di lavorare in prigione come operaio, per guadagnare soldi che sarebbero andati alle famiglie delle loro vittime, si determinò una diminuzione di percentuale di persone favorevoli alla pena di morte. Analoghi risultati ottenne, nel ’93, Dieter con un’indagine svolta su piano nazionale arrivando alla conclusione che l’incapacitation e la retribution giocassero un ruolo determinante nella scelta degli intervistati, diretta a vagliare se preferissero applicare una sanzione estremamente dura come la pena di morte o l’ergastolo. L’opinione pubblica voleva, assolutamente, essere sicura che l’omicida non avesse più la possibilità di compiere ulteriori gravi crimini che potessero causare la morte di innocenti una volta usciti dalla prigione e non ritenevano che il semplice life imprisonment fornisse questa garanzia.
276
William J. Bowers, Margaret Vandiver, New Yorkers want an alternative to the death penalty: Executive summary of a New York survey, Boston: Criminal Justice Research Center, Northeastern University, 1991. 277 Sally Costanzo, Mark Costanzo, Life or death decisions: An analysis of capital jury decision making under the special issues sentencing framework, in Law and Human Behaviour, 1994, pag. 151 e seg.
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Volevano inoltre essere sicuri che l’omicida non tornasse a vivere come un normale e libero cittadino perché, in virtù del crimine commesso, non meritava di tornare a far parte di una società sana. Gli intervistati, inoltre, approvavano l’opzione di risarcire economicamente le famiglie delle vittime attraverso il lavoro svolto dai criminali in carcere278. Naturalmente restavano alcune questioni aperte, tra cui: è giusto ritenere che non esista alcuna possibilità che il prigioniero debba ritornare alla società? La domanda life without parole è ben compresa dalla gente come alternativa alla pena di morte o come espressione di cinismo nei confronti del sistema carcerario? Questi sono alcuni degli spunti per successive indagini sull’argomento. Molti criminologi affermavano che gli orientamenti nei confronti della pena di morte non fossero basati su considerazioni razionali ma fossero, fondamentalmente, orientamenti simbolici, facilmente influenzabili dalle emozioni suscitate dalla pubblicità negativa o positiva delle esecuzioni pubblicizzate dai mass media. Nonostante la popolarità di questa idea, difficilmente venivano poste, nelle indagini, domande relative alle emozioni. I ricercatori erano abbastanza consapevoli che gli intervistati potessero essere riluttanti ad esprimere le emozioni alla base delle loro opinioni. Ellsworth e Ross, nel 1988, a seguito di un indagine, volta a verificare l’incidenza delle emozioni nella scelta a favore o contro la pena di morte, ottennero dati che dimostravano che il 79% delle persone a favore della pena di morte sosteneva che, talora, provano un senso di offesa personale quando l’omicida era condannato ad una pena diversa dalla pena capitale e il 34% sosteneva che la morte dell’omicida desse loro un senso di personale soddisfazione279.
278
William J. Bowers, Margaret Vandiver, New Yorkers want an alternative to the death penalty: Executive summary of a New York survey, cit., 1996. 279 Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 100 e seg.
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III.8 L’opinione pubblica e le ragioni per opporsi o legittimare la pena capitale
Dagli anni ’30 i criminologi, negli U.S.A., cominciano a svolgere indagini dirette a capire cosa pensa l’opinione pubblica contraria alla pena di morte. I ricercatori approfondiscono i dettagli sulle ragioni e si accorgono che il gap tra le ragioni utilitaristiche (la deterrenza e i costi) e le ragioni basate sui valori (la ricompensa) sono meno evidenti. In un’indagine svolta da Gallup, in anni diversi, precisamente nel 1985, nel 1986 e, infine, nel 1991, viene evidenziato che, rispettivamente, il 61%, 71% e 65% di coloro che si oppongono alla pena di morte affermano che non giustificherebbero l’applicazione della condanna capitale nemmeno se la stessa avesse effetto deterrente, a riprova che l’opinione contraria alla pena di morte è molto forte e non è basata su considerazioni utilitaristiche. Gli oppositori sottolineano, oltretutto, il rischio di eseguire condanne di innocenti e l’ impossibilità di un percorso riabilitativo, volto alla risocializzazione del reo, è menzionata molto frequentemente come ragione per opporsi alla pena capitale. Nel 1981, nel 1985 e nel1991, in tre indagini, compiute dall’ABC Washington Post e della Gallup poll news service, la ragione più comunemente addotta è wrong to take a life, ovvero taking a life solves nothing. La gente che afferma ciò è circa il 40% e la successiva ragione più comune risente di un impronta religiosa: punishment should be left to God. La parte dell’opinione pubblica a favore della pena di morte pensa che uccidere sia un reato talmente grave che riconosce la giusta pena solo nel binomio: a life for a life. Nella sentenza Furman v. Georgia il giudice Marshall sostiene che i fautori della pena capitale giustifichino la pena capitale in quanto non conoscono, precisamente, le pene alternative a questa sanzione280. Per prima cosa il pubblico americano favorevole alla death penalty ignora molti aspetti e conseguenze di questa pena: non sono a conoscenza degli studi empirici volti a dimostrare che questa condanna non è in grado di dissuadere l’omicida dal compiere il delitto.
280
Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 100 e seg.
109
In secondo luogo, sostiene sempre il giudice Marshall, se i conservatori fossero al corrente della mancata efficacia deterrente della sanzione capitale arriverebbero a definirla immorale e incostituzionale. Virtualmente tutti gli studi pubblicati sulla relazione tra opinioni sulla pena di morte e livello di conoscenza dei fatti tengono sempre presente questi due dati menzionati da Marshall. A fondamento di quanto appena sostenuto Sarat e Vidmar, nel 1976, intervistano 181 residenti del Massachusset, traducendo in percentuali le valutazioni fatte da Marshall: molti degli intervistati sono a conoscenza del fatto che la pena capitale raramente viene inflitta ed è “soggetta a discriminazione”: il 59% degli intervistati sostiene che i ricchi siano maggiormente tutelati rispetto ai poveri (maggiori disponibilità economiche consentono di ricorrere a difensori più preparati e maggiormente disposti a svolgere correttamente le attività difensive, in virtù delle maggiori entrate economiche che ottengono da questi clienti), ma pochi sanno che alcuni studi dimostrano che non ha efficacia deterrente, solo il 36% degli intervistati ha riconosciuto tale effetto alla pena capitale281. Sarat e Vidmar concludono che le ipotesi di Marshall siano supportate in parte. I loro intervistati erano ben informati sull’uso della pena capitale, ma non dei suoi effetti. Ellsworth e Ross forniscono ulteriori dettagli sulla base di una indagine condotta su cinquecento californiani, nel 1974, che dimostra una chiara ignoranza riguardo gli effetti della death penalty. La maggior parte degli intervistati, dal 54% all’89% non è a conoscenza del fatto che la maggior parte delle Nazioni europee abbiano abolito la pena di morte, che il confronto delle percentuali di criminalità negli U.S.A. e nel vecchio Continente dimostra la non deterrenza della pena di morte e che la pena di morte è più costosa della prigione a vita. In generale gli oppositori alla pena di morte rispondono più correttamente alle domande riguardanti gli effetti della pena capitale, anche se ciò non significa necessariamente che siano più informati.
281
Austin Sarat, Neil Vidmar, Public opinion, the death penalty, and the eight amendment: Testing the Marshall hypothesis, in Wisconsis Law Review, 1976, pag. 171 e seg.
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E’ possibile che i due gruppi, ovvero oppositori e sostenitori della pena capitale, siano ugualmente ignoranti, ma, che comunque, ciascuno tenda ad essere d’accordo con gli items che supportano la posizione della loro “fazione”282.
282
Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit. pag. 105 e seg.
111
III.9 Secondo l’opinione pubblica chi dovrebbe essere condannato a morte?
La Corte Suprema, nel 1972, dichiara incostituzionale la pena capitale: la discrezionalità conferita ai giurati, nel decidere chi debba essere condannato alla pena capitale, è così illimitata, non esistendo procedure ah hoc che possano limitare questo loto potere, che la loro decisione risulta, in ultima analisi, arbitraria (Furman v. Georgia). Alcuni Stati cercano di limitare tale arbitrarietà istituendo una pena capitale obbligatoria: un condannato, per una specifica categoria di omicidi, automaticamente, viene punito con la sanzione capitale. Successivamente, nel 1976, la Corte Suprema ritiene che la pena di morte obbligatoria sia incostituzionale (Woodson v. North Carolina, Roberts v. Louisiana)283. Quando gli intervistati devono scegliere tra obbligatorietà o discrezionalità nell’applicazione della pena scelgono la seconda: nell’indagine condotta dalla Gallup, negli anni 1973-1976 e 1983, circa il 30% degli intervistati sono a favore della obbligatorietà della pena, mentre oltre il 50% è a favore di un’applicazione discrezionale della stessa. La maggior parte degli intervistati preferisce che, in merito all’applicazione della pena di morte, il giudice possa fare una distinzione caso per caso. Dal 1972 al 1990 vengono condotte alcune indagini a livello di opinione pubblica per rilevare la tipologia di omicidi per cui si debba applicare la pena di morte. Le domande rivolte erano del tipo: “sei d’accordo con la pena di morte nel caso del crimine x?”, dando la possibilità di scegliere una di tre risposte già formulate: per tutti, per alcuni, per nessuno; la risposta più frequente coincideva con la seconda possibilità offerta, ovvero per alcuni284.
283 284
428 U.S. (1976) 153. Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 105 e seg.
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In genere l’opinione pubblica opta per la condanna a morte per punire crimini particolarmente gravi come l’omicidio e delitti compiuti in seno alla criminalità organizzata: è aumentato dagli anni ’70, fino agli anni ’90, il favore per la condanna a morte per crimini commessi in corso di azioni terroristiche o rapimenti, dal 30% al 50%; mentre sono diminuite, invece, le percentuali di supporto per omicidi di poliziotti o di guardie carcerarie. Nel 1986, per la prima volta, vengono indicate, come meritevoli di condanna a morte, le molestie sessuali sui bambini; mentre, in seguito a una sensibilizzazione da parte dei movimenti femministi per la tutela dei reati contro le donne, è aumentato il supporto alla condanna a morte per lo stupro: da 32% nel 1978 ad oltre il 50% dopo il 1985. Tra gli anni 1980 e 1990, in un indagine condotta da Gallup, in cui si chiedeva agli intervistati per quali reati avrebbero promosso la condanna a morte, il 14% degli stessi dichiara di essere a favore della pena di morte per coloro che forniscono droghe agli adolescenti. Negli anni ’90 il 42% della popolazione dichiara di essere “strongly favored” e il 31% “favored” alla pena di morte per i trafficanti di droghe285. Tre gruppi, composti da donne, giovani e ritardati mentali, sono stati disaggregati dal resto della popolazione in alcune indagini. Nel 1936 si svolge la prima indagine, ad opera di Gallup, sull’opinione degli americani circa la pena di morte inflitta agli adolescenti: il 28% dichiara di essere a favore della pena di morte per le persone di età inferiori ai vent’uno anni, nel 1953 la percentuale scende al 19% e nel 1957 all’11%, ma nel 1965 la percentuale risale al 21% e nel 1988 il 44% degli intervistati è a favore della pena di morte per i ragazzi di età inferiore a diciotto anni. Nel 1989 il 57% degli intervistati è a favore della pena di morte inflitta ai minori di sedici anni286.
285
Elizabeth Rapaport, The death penalty and gender discrimination, in Law e Society Review, 1991, pag. 367 e seg. 286 Phoebe C. Ellsworth, Samuel R. Gross, Hardening of the Attitudes: Americans’ View on the Death Penalty, cit., pag. 108 e seg.
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Per quanto concerne le donne, in una indagine condotta nel 1936, il 58% delle persone intervistate è a favore della pena di morte inflitta a persone di sesso femminile; nel 1953 la proporzione scende al 51% (data l’esiguità di donne che commettono omicidi non sono più state fatte indagini disaggregate per sesso). Un discorso a parte deve essere fatto per i ritardati mentali. Nel 1988 solo il 21% della popolazione statunitense è favorevole alla pena di morte comminata nei loro confronti; nel 1989 la proporzione sale al 27% e nel 1989 la Corte Suprema sostiene che non viene offesa la moralità pubblica dalla esecuzione della pena capitale in soggetti affetti da problemi mentali (Penry v. Linaugh)287. Interessante risultati ottenuti da alcune indagini dimostrano che la popolazione è maggiormente incline a giustificare la pena di morte in astratto piuttosto che in casi concreti: l’ipotesi dei ricercatori è che molti criminali sembrano meno crudeli di quanto non appaiano nelle visioni e negli incubi che vengono alla mente quando si fanno domande sulla pena capitale288. In conclusione il supporto dell’opinione pubblica a favore della pena di morte è, in ogni tempo, piuttosto elevata, sia nel senso della percentuale di cittadini americani a favore della pena capitale, che nella intensità della loro convinzione; tuttavia risulta necessario evidenziare il fatto che molti sono convinti sostenitori della pena capitale, ma conoscono ben poco su di essa e non hanno alcun desiderio di incrementarne la conoscenza. Ciò non meraviglia, poiché il loro orientamento non è basato su conoscenze, ma è radicato su quanto sentito dire dai mass media locali e difficilmente cambiano opinione. Da quanto appena illustrato si evince che l’opinione dei cittadini statunitensi non è stabile e ferma, ma è sempre soggetta a cambiamento, muta come il clima politico, e, i media sono in grado di cambiare le percezioni della gente.
287 288
492 U.S. 302 Anthony N. Doob e J. Roberts, Social psychology, social attitude, and attitudes towards sentencing, in Canadian Journal of Behavioural Science, 1984, pag. 269 e seg.
114
III.10 L’opinione pubblica statunitense al giorno d’oggi e il confronto con il passato
L'opinione pubblica americana ha avuto, come visto in precedenza, nei confronti della pena di morte, atteggiamenti variabili nel tempo. Dall'inizio degli anni cinquanta alla metà degli anni sessanta si nota una flessione della percentuale dei soggetti favorevoli alla pena capitale, andamento che si inverte in seguito a due fondamentali sentenze: quella di Furman v. Georgia del 1972 e quella di Gregg v. Georgia del 1976, quando la Corte Suprema degli U.S.A. dichiara legittima la pena capitale. Si registra una percentuale di favorevoli stabile intorno ai due terzi degli intervistati sino agli anni ottanta e novanta, con un massimo dell' 80% degli intervistati. All' inizio del ventunesimo secolo si registra una graduale riduzione arrivando al 65%, anche per effetto di due sentenze della Corte Suprema, pronunciate nel 2002 e nel 2005289,che hanno dichiarato incostituzionale la pena capitale inflitta ai minori ed ai ritardati mentali. Questo trend si è mantenuto arrivando sino al 61% nel 2012. Mai nessuna indagine criminologica aveva riscontrato uno share così basso di sostegno alla pena capitale. I dati riferiti provengono da sondaggi Gallup che hanno posto ai campioni osservati sempre la stessa domanda nel corso degli anni: "Sei favorevole alla pena di morte per una persona colpevole di omicidio?" e con le stesse modalità290. Le variazioni di opinione del popolo statunitense nei confronti dell'esecuzione capitale hanno avuto ripercussioni anche nel mondo politico. Nel 2012 i Conservatori ed i Repubblicani, pur presentando ancora percentuali favorevoli superiori a quelle dei Democratici e Liberali, hanno ridotte il consenso del 4-5% rispetto ai primi anni novanta. In seno al Partito Liberale più del 70% si dichiara contrario a questa pena con una percentuale decisamente superiore rispetto agli anni ottanta e novanta, periodo in cui si attestava intorno al 50 %291.
289
Queste sentenze verranno trattate approfonditamente nel prosieguo. www.deathpenaltyinfo.org, PUBLIC OPINION: 2012 Gallup Poll Support Death Penalty Remains Near 40-Year Low. 291 www.deathpenaltyinfo.org, US Death Penalty Support Stable at 63%. 290
115
Valutando la popolazione intervistata in base al sesso, nelle varie interviste non si sono riscontrate differenze statisticamente significative anche se nei maschi esiste un trend positivo: la percentuale è uguale al passato e superiore a quella delle donne. Anche per la razza le ricerche compiute dalla Gallup e dalla Harris nel 2012 dimostrano che non vengono raggiunte differenze statisticamente significative nelle variazioni di percentuali tra bianchi e neri; i bianchi sono tuttavia sempre più favorevoli alla pena di morte in percentuale maggiore292. Comparando le indagini criminologiche effettuate dall'inizio di questo secolo ad oggi, si evidenzia che uno dei fattori determinanti l'aumento del numero di cittadini statunitensi favorevoli alla pena capitale risiede nel costo delle esecuzioni e del mantenimento nel braccio della morte dei condannati. Mentre alla fine degli anni '90 gli studi compiuti dalla Gallup, dalla Harris e dalla ABC News mostravano come i favorevoli alla pena di morte non venissero influenzati dall'elevato costo sostenuto dagli Stati per mantenere i condannati e per l'esecuzione delle condanne capitali, nel 2012, grazie al maggior apporto dei mass media, che avevano riportato i valori relativi ai costi della pena di morte, parte dell'opinione pubblica
ha
abbracciato
la
tesi
abolizionista.
Alcuni
avevano
cambiato
orientamento ritenendo che, in un periodo di crisi economica che colpisce tutti i Paesi del mondo, sia preferibile investire il denaro in altri settori. Altri, dal momento che le indagini criminologiche dimostrano costantemente la dubbia efficacia deterrente della pena di morte, ritengono utile sostituire questo tipo di sanzione penale con l' ergastolo293. A riprova un sondaggio della CNN, del 2011, evidenziava che il 60% degli intervistati considerava più efficace l' ergastolo, considerandolo maggiormente deterrente, e solo il 40% riteneva utile la pena di morte nei confronti dei criminali colpevoli di omicidio. Questi dati avvalorano i risultati ottenuti dall'indagine compiuta dal DPIC (Death Penalty Information Center) nel 2010: il 61% degli intervistati preferiva alla pena di morte altre sanzioni.
292 293
www.gallup.com, US Death Penalty Support Stable at 63%. www.deathpenaltyinfo.org, PUBLIC OPINION: Gallup Poll Reports Lowest Support Death Penalty Nearly 40 Years.
116
Di questo 61% il 39% considerava maggiormente efficace l'ergastolo con l'obbligo di lavoro retribuito al fine di ripagare le famiglie delle vittime. Togliere la vita al colpevole non reca alcun sollievo ai familiari294. Gli U.S.A. sono una Confederazione, per cui ci possiamo aspettare diversi risultati a seconda dello Stato o della Regione presa in esame. In considerazione della storia statunitense è possibile riscontrare dati nettamente divergenti tra Nord e Sud: infatti i livelli di esecuzioni variano da più di 100 ad 1 tra il Sud ed il Nord-Est. Se si considerano le percentuali di cittadini favorevoli alla pena capitale nelle stesse regioni vediamo che le percentuali sono analoghe. Non sembra quindi esserci una stretta correlazione tra sentimento popolare e numero di condanne eseguite nei diversi Stati. Il fenomeno non è stato approfondito, e pochissime e non esaustive sono le ricerche sulle motivazioni295. Nei 2012 è stato condotto un sondaggio dalla "Puplic Policy Pollin" in North Carolina che ha evidenziato come il 68% dei residenti preferisca sostituire alla pena capitale il carcere a vita, ed il 63% sostiene che convenga abrogare la pena di morte, dato l'elevato costo delle procedure relative ai condannati, ritenendo che il denaro risparmiato possa essere meglio utilizzato per combattere la criminalità e per assistere le famiglie delle vittime296. Un'altra indagine del 2012 compiuta dal "Los Angeles Times" dimostra come in California sia aumentata la percentuale di cittadini contrari alla pena di morte una volta resi edotti dell'impatto finanziario sulle casse dello Stato (la California avrebbe risparmiato 130 milioni di dollari) e della dubbia efficacia deterrente. Il Texas, uno degli Stati più attivi e maggiormente propensi a dar corso alle condanne capitali, nel 2011 ha emesso "solamente" otto condanne alla pena capitale rispetto alle 48 del 1999.
294 295
296
www.gallup.com, US Death Penalty Support Stable at 63%. Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, il Mulino, 2009, pag. 34 e seg. www.deathpenaltyinfo.org, PUBLIC OPINION: Strong Majority of North Carolinians Prefer Life Without Parole Over the Death Penalty.
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Dei 35 Stati Federali, in cui si applica la pena di morte, poco meno di un terzo (Colorado, Connecticut, Idaho, Kansas, New Hampshire, South Dakota, Wyoming) l'ha applicata e raramente nell'ultimo decennio, un altro terzo la infligge solo in sede processuale e, di rado, arriva ad eseguirla (California, Indiana, Kentucky, Maryland, Missisipi, Montana, Nebraska, Nevada, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Tennessee, Utha, Washington), solo l'ulteriore terzo la applica regolarmente (Alabama, Arizona, Arkansas, Delaware, Florida, Georgia, Louisiana, Missouri, North Carolina Oklahoma, South Carolina, Texas, Virginia)297. La DPIC ha verificato che nel 2011, negli Stati Uniti, le condanne a morte emesse sono state 78, con una diminuzione del 75% rispetto a quelle pronunciate nel 1994, e quelle eseguite 43. Non stupisce che i risultati ottenuti dalla RT Strategies dal 2007 ad oggi evidenzino che una maggioranza dei cittadini statunitensi (58%) ritenga necessaria l'abrogazione o quantomeno una moratoria della pena di morte298. Purtroppo i favorevoli ad essa, pur essendo diminuiti con il tempo, rappresentano un percentuale ancora elevata; questo può spiegare la “peculiarità” della politica americana rispetto a quella di altre nazioni299. Il crescente consenso dell'opinione pubblica nei confronti dello spirito abolizionista ha influenzato anche l'opinione e l'orientamento di coloro che potremmo definire "addetti ai lavori", ovvero i Procuratori ed i boia. A tale riguardo riporterò alcune loro dichiarazioni: Allen Ault, un funzionario in un penitenziario, ormai pensionato, ha recentemente sottolineato le difficoltà degli agenti carcerari che partecipano alle esecuzioni con queste parole: "Stai uccidendo qualcuno, non c'è modo di negarlo, specialmente quando sai che diverse persone sono state riconosciute innocenti dopo l'esecuzione grazie a nuove prove scientifiche, e non sei davvero sicuro che la persona che stai giustiziando stasera o la settimana prossima sia veramente colpevole. L'altra cosa che tutti noi sappiamo è che molte ricerche indicano che la pena di morte non ha effetto deterrente…sembra così illogico dire alle persone che non vogliamo che uccidano e che, per dimostrarlo, uccidiamo noi".
297
David Garland, La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo, Il Saggiatore, Milano, 2013, pag. 68 e seg. 298 www.nessunotocchicaino.it, La pena di morte nel 2011: il rapporto di fine anno del Death Penalty. 299 Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag. 36 e seg.
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Anche Jeanne Woodford, ex guardiano nel braccio della morte di San Quintino in California, da sempre sostenitore della pena capitale, ha affermato: "La mia esperienza a San Quintino mi ha permesso di vedere la pena di morte da tutti i punti di vista. Avevo un incarico ed ho cercatodi farlo in maniera professionale. La pena di morte non è utile a nessuno; non serve alle vittime, non serve alla prevenzione. C'è solo l'aspetto "punitivo". Infine riportiamo le parole dell'ex Procuratore Distrettuale di Los Angeles, Gil Garcetti, accanito sostenitore della pena capitale: "La pena di morte in California non funziona, e non può funzionare, nel modo che i suoi sostenitori vorrebbero: E' anche un tipo di pena incredibilmente costosa, e quei soldi sarebbero spesi molto meglio per tenere i ragazzi a scuola per tenere professori e tutori nelle scuole e, più in generale, dedicando ai giovani le risorse necessarie. I soldi delle nostre tasse dovrebbero essere spesi per prevenire i crimini invece che per le esecuzioni di chi li ha già commessi. Così avremmo meno vittime…chi sopravvive ad un crimine può ritenere che una condanna a morte porti sollievo ,ma per i più questo sollievo non c'è stato"300. Riportando alcuni dati tratti dai sondaggi più recenti un sondaggio dell'ABC News/ “Washington Post" dell'aprile 2001 osserva che più di 7 persone su 10 valutano positivamente l'eliminazione della minaccia che "l'assassino possa uccidere ancora", ma, contemporaneamente, il 68% teme il rischio di esecuzioni sbagliate, il 63% teme i rischi di disparità giudiziali ed il 60% la ritiene giusta perché consente la chiusura definitiva della vicenda dolorosa delle vittime. L'opinione pubblica, tuttavia, manifesta significativi mutamenti301.
300 301
www.nessunotocchicaino.it, La pena di morte nel 2011: il rapporto di fine anno del Death Penalty. Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag. 35 e seg.
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III.11 l’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’Amerca: il divieto delle cruel and unusual punishments e l’apporto della Corte Suprema americana
Dopo aver riportato come si esprime l’opinione pubblica nei confronti della pena di morte, è necessario rievocare il percorso intrapreso dalla giurisprudenza statunitense, soprattutto ai fini di una corretta comprensione dei motivi per i quali la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha dichiarato incostituzionale la sanzione capitale inflitta ai minorenni e ai mentally retarded. Risulta fondamentale, inoltre, ripercorrere la storia dell’ottavo emendamento, per comprendere le ragioni in base alle quali la massima autorità giudiziaria statunitense ha deciso differentemente dalle precedenti statuizioni adottate in materia. Nel 1791 venne ratificato l’VIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, il quale recita nel seguente modo: “Excessive bail shall not be required, nor excessive fines imposed, nor cruel and unusual punishments inflicted.302 Dal momento che, in sede di ratifica, non si verificarono dibattiti e disaccordi in merito alla sua formulazione, è rimasto ambiguo l’esatto significato del divieto di cruel and unusual punishment303. In mancanza di un’interpretazione uniforme sono stati individuati tre significati differenti dell’ottavo emendamento. Alcuni Stati U.S.A., al tempo, intendevano tale formula sulla base del principio di proporzionalità, nel senso che le pene più crudeli dovevano essere destinate, esclusivamente, ai reati più gravi: worst crimes, basandosi sulla massima: “occhio per occhio, dente per dente”304. Una seconda interpretazione intendeva, per punizioni crudeli e inconsuete, quelle non autorizzate dalle leggi e quindi al di fuori dell’autorità della corte. Questa seconda definizione prevedeva che fosse il Parlamento a stabilire le pene e a delimitarne la cornice e i confini che gli organi giurisdizionali dovevano rispettare;
302
L’VIII emendamento così dispone: “Non si dovranno esigere cauzioni eccessivamente onerose, né imporre ammende altrettanto onerose, né infliggere pene inconsuete e crudeli”. 303 William Finley Swindler, Source and Documents of United States Costitutions, Oceana Publications, New York, 1973. 304 Leonard W. Levy, Origins of the Bill of Rights, Yale University Press, 1999, pag. 231 e seg.
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l’inosservanza delle leggi avrebbe comportato, in questo frangente, l’applicazione di una pena cruel and unusual305. Alla stessa definizione giungeva il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America James Irdell, nel 1750, il quale interpretava le parole cruel and unusual punishment come una limitazione al potere giudiziario in base a ciò che veniva stabilito dal Parlamento: “[…] went to an abuse of power in the Crown Only, but wew never intended to limit the authority of Parliament”306. Il terzo significato della clause: cruel an unusual punishmente, come inteso nel tardo XVIII secolo, si riferiva solo ai metodi di punizione. Nell’infliggere la pena non si rispettava il principio di proporzionalità: pene severe, quali la pena capitale, venivano applicate senza tener conto della gravità del reato307. L’ottavo emendamento, quindi, non forniva un’interpretazione in grado di delimitare, tassativamente, i confini dell’applicazione della sanzione capitale, lasciando invariato il modus agendi dei singoli Stati di applicare tale pena per qualsiasi reato, senza seguire i limiti imposti dal principio di proporzionalità. Tale clause veniva interpretata come divieto di infliggere pene e torture crudeli e barbare, come era invece pratica comune in Europa nel corso del XIII secolo308. Alla luce di queste interpretazioni difformi, un ruolo determinante è stato svolto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti che, attraverso la pronuncia di specifiche sentenze, ha enunciato alcuni principi su cui si basa l’ottavo emendamento309. La Corte, con la sentenza United States v. Weems, stabilisce che sono incostituzionali (in rapporto all’ottavo emendamento) le sentenze che violano il principio di proporzionalità310.
305
Stuart Banner, The death penalty-an american history, Harvard University Press, London, 2002, pag. 232 e seg. 306 Lois G. Schwoerer, The declaration of Rights, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1981, pag. 92. 307 Stuart Banner, The death penalty-an american history, cit. pag.233 e seg. 308 Joseph Story, Commentaries on the Constitution of the United States, Boston, 1833, Hiliard, Gray and Company, 1833, pag. 710 e seg. 309 Stuart Banner, The death penalty-an american history, cit., 235 e seg. 310 United States v. Weems, 217 U.S. 349 (1910).
121
Questa statuizione della Supreme Corte, del 1910, riguardava la condanna di un funzionario pubblico filippino ai lavori forzati a vita e all’interdizione da molti diritti civili per aver commesso il reato di falsificazione di atti pubblici311. La Corte aveva ritenuto cruel and unusual punishment la condanna inflitta dalla Corte Suprema delle isole Filippine, in quanto troppo severa e quindi sproporzionata rispetto al crimine commesso312. Il secondo principio affermato dal massimo organo della giurisdizione statunitense riguardava il fatto che gli standards di riferimento, per stabilire se la punizione risultasse essere cruel and unusual, cambiano con il trascorrere del tempo. Quanto affermato viene riportato nella sentenza del 1958, Trop v. Dulles313: nel caso in esame Albert Trop viene privato della cittadinanza americana, dopo essere stato condannato per diserzione dell’esercito nella seconda guerra mondiale. La Corte Suprema dichiarava incostituzionale, in quando in contrasto con il disposto dell’ottavo emendamento, la sanzione inflitta al reo: “[…] the words of the Amendment are not precise, their scope is not static. The Amendment must draw its meaning from the evolving standards of detency that mark the progress of a maturing society”. La privazione della nazionalità americana risultava essere una pena cruel and unusual, in quanto eccedeva i limits of civilized standards degli Stati Uniti d’America del 1958314. In base a quanto appena affermato si può notare che l’espressione cruel and unusual punishment, originariamente intesa come protezione contro metodi di esecuzione barbarici e assimilabili alla tortura, sì è, con il tempo, estesa fino a ricomprendere nel suo significato il concetto di proporzionalità e divenire espressione del senso comune della collettività (standards of decency that mark the progress of a maturing society). L’esame degli evolving standards of decency viene applicato dalla Corte Suprema a tutti i casi di controversie riguardanti l’interpretazione dell’ottavo emendamento: tanto da diventare una costitutional rule necessaria e imprescindibile ogni volta che la stessa è chiamata a decidere se la punizione risulta essere cruel and unusual315.
311
Le Isole Filippine, nel 1910, erano una colonia statunitense e quindi soggetta agli organi giurisdizionali degli Stati Uniti d’America 312 Larry Charles Berkson, The concept of Cruel and Unusual Punishment, Lexington, Lexington Books, 1975, pag. 71 e seg. 313 Trop v. Dulles, 356 U.S. 89 (1958). 314 Stuart Banner, The death penalty-an american history, cit., 237 e seg. 315 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, in Danno e Responsabilità, 2006, pag. 824 e seg.
122
L’applicazione di questo principio ha fatto sì che il massimo organo giurisdizionale statunitense, nel 1972, con la sentenza Furman v. Georgia316, dichiarasse incostituzionali le leggi penali statali relative alla pena di morte, questo perché la disciplina codicistica dei singoli Stati lasciava troppa discrezionalità alla giuria nella scelta tra condanna a morte e ergastolo, senza prevedere un elemento discriminante per la scelta. La mancanza di qualsiasi parametro normativo in grado di limitare la discrezionalità della scelta della giuria per la Corte Suprema comportava la violazione dell’VIII emendamento che sancisce il divieto delle cruel and unusual punishments. Con tale sentenza venivano imposti standards processuali che hanno permesso di limitare il potere discrezionale delle giurie317. La specificazione di tali criteri avvenne con la sentenza Gregg v. Georgia318, esattamente quattro anni dopo, nel 1976, che ha dichiarato costituzionale la pena di morte, sovvertendo la decisione adottata nel 1972.319. La Corte ha affermato che la pena di morte non è incostituzionale e delinea una procedura ad hoc ancora oggi applicata nei Capital cases. La Corte Suprema ha stabilito che il processo sia diviso in due fasi: la prima fase (guilty phase), in cui la giuria deve concentrarsi tassativamente ed esclusivamente sul fatto che costituisce reato e decidere riguardo la colpevolezza dell’imputato. Se la giuria stabilisce la colpevolezza del soggetto è necessario passare alla seconda fase (sentencing phase), dove la giuria deve statuire tra la death penalty e la carcerazione a vita320. E’ necessario sottolineare che la Supreme Corte, per quest’ultima fase, ha stabilito delle linee guida che la giuria deve seguire tassativamente: queste consistono in un’elencazione di aggravanti e attenuanti, contenute nei Capital Statues di ciascuno Stato U.S.A321. Le circostanze aggravanti in grado di legittimare la pena capitale sono: l’omicidio plurimo, l’omicidio realizzato come conseguenza di altro reato, l’omicidio su commissione e la tortura. Per quanto riguarda le attenuanti, volte a escludere la
316
Furman v. Georgia, 408 U.S. 238 (1972). Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana; la pena di morte, cit. pag. 825. 318 Gregg v. Georgia, 428 U.S. 153 (1976). 319 Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag.30 e seg. 320 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit. pag. 825. 321 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, in Il Foro Italiano, 2009, pag. 479 e seg. 317
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condanna a morte in favore dell’ergastolo, sono individuabili nella minore età, nei disturbi mentali e in altri fattori322. La Corte Suprema ha stabilito che la giuria possa optare per la pena capitale solo nel caso in cui ritenga che le aggravanti siano prevalenti sulle attenuanti323. Nonostante il fatto che la stessa Supreme Corte consideri compatibile con l’VIII emendamento la pena di morte, ciò non significa che ne sia ammesso un uso privo di qualsiasi limitazione324. Proprio partendo da questo punto di vista si può capire quale sia stato l’approccio della Corte Suprema nei confronti della death penalty: “la sua ammissibilità in astratto non può tradursi in una giustificazione ex ante della sua regolamentazione”325. La pena di morte, per non essere applicata arbitrariamente e per non essere qualificata come trattamente cruel and unusual deve rispettare determinati limiti; tali limiti sono stati precisati dalla Corte Suprema, nel corso del tempo, attraverso varie sentenze326. Le principali limitazioni enunciate dalla Corte possono essere inquadrate in quattro categorie: soggettive, oggettive, procedurali ed esecutive. Nel corso degli anni sono stati individuati determinati soggetti che, in ragione del loro status, devono essere trattati diversamente dalla generalità delle persone e, quindi, non possono essere oggetto di punizioni quali la pena di morte perché non potrebbero comprendere il significato e gli effetti di tale pena, risultando, così, una pena crudele e inconsueta327. Un primo elemento di differenziazione è dato dall’età: la sentenza Thompson v. Oklahoma328,
del
1988,
pronunciata
dalla
Corte
Suprema,
ha
dichiarato
incostituzionale, per violazione dell’VIII emendamento, la possibilità di condannare a morte quei soggetti che, al momento della commissione del reato, non avevano ancora compiuto sedici anni, avvalendosi, al fini di questa decisione, di studi scientifici
322
Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag. 31. Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit., pag. 483. 324 Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. 325 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 479. 326 Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag. 30 e seg. 327 Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, in Cassazione penale, 2005, pag. 3553. 328 Thompson v. Oklahoma 487 U.S. (1998) 815. 323
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secondo cui l’inesperienza e la non completa maturità degli infrasedicenni non permetterebbe loro di comprendere le conseguenze della propria condotta329. Per scongiurare la possibilità di applicare la pena capitale ai quei soggetti, che pur essendo ultrasedicenni, sono ancora minorenni, è stata pronunciata nel 2005 la sentenza Roper v. Simmons330, adducendo motivazioni similari a quelle enunciate nel caso prima menzionato331. Ulteriore categoria esclusa dalla assoggettabilità alla pena di morte è costituita dalle persone affette da disturbi psichici o versanti in uno stato di totale incapacità naturale332. A tal proposito, con una sentenza del 1986, Ford v. Wainwright333, la Corte Suprema si è occupata del caso in cui un soggetto ritenuto imputabile al momento della condanna ha poi manifestato, nel braccio della morte, disturbi psichici gravi. In tal caso la Supreme Corte ha ritenuto cruel and unusual l’applicazione della condanna a morte nei confronti di questo soggetto, dal momento che tali disturbi non gli permettevano di comprendere la gravità del reato compiuto334. Tale decisione è stata successivamente circoscritta con la sentenza Penry v. Lynaugh335, del 1989, con la quale la Corte ha statuito che, alla luce dell’VIII emendamento, la pena di morte non si possa considerare cruel and unusual se al momento del fatto il reo era nelle condizioni psichiche di comprendere la gravità del fatto336. Una pronuncia di incostituzionalità tout court della pena di morte applicata nei confronti dei mentally retarded si ha con la sentenza Atkins v. Virginia337 del 2002338. Per quanto riguarda le limitazioni oggettive la Corte Suprema ha elaborato una giurisprudenza volta ad individuare i reati per cui è ammissibile la pena di morte. Con
329
Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 483. 330 Roper v. Simmons 543 U.S. (2005) 551. Tale sentenza verrà analizzata nel proseguo della tesi. 331 Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, cit. pag. 3553 e seg. 332 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 483. 333 Ford v. Wainwright 447 U.S. 399. 334 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 483 e seg. 335 Penry v. Lynaugh 492 U.S. (1989) 302. 336 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 483 e seg. 337 Atkins v. Virginia 536 U.S. (2002) 304. Questa sentenza verrà analizzata nel proseguo della tesi. 338 Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 483 e seg.
125
la sentenza Kennedy v. Luoisiana339, del 2008, la Corte ha decretato che la pena capitale possa essere applicata solo per il reato di omicidio, escludendo dall’applicazione di questa pena fattispecie come lo stupro e la rapina340. Per quanto concerne le decisioni prese in ambito procedurale la Corte, per ovviare al problema della mancanza di avvocati preparati e capaci di adottare una linea difensiva appropriata, ha ritenuto necessario stabilire l’obbligatorietà dell’assistenza di un legale di fiducia o d’ ufficio, il quale deve trovarsi nella condizione di conoscere gli atti del procedimento e deve fare in modo che il processo si sviluppi nel rispetto delle garanzie processuali difensive riconosciute dall’ordinamento341. A tale riguardo la difesa tecnica deve essere assicurata sin dalla fase preliminare dell’imputazione, come statuito nella sentenza Hamilton v. Alabama342, nel 1961343. Per quanto riguarda le limitazioni da un punto di vista esecutivo la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali tutte le forme di applicazione della pena di morte eccetto quella indotta con l’iniezione letale, tale decisione è stata adottata con la sentenza Baze v. Rees344, del 2008, che testimonia la perdurante adesione alla tesi della piena compatibilità della pena di morte con la Costituzione e con i valori da essa espressi345.
339
Kennedy v. Luoisiana 554 U.S. (2008) 407. Paolo Passaglia, La pena non condannata: la morte resta, in linea di principio, una pena non crudele né inusuale, cit. pag. 485 e seg. 341 Giuseppe Tucci, Thurgood Marshall e l’<> ruolo della schiavitù negli Stati Uniti: un confronto con l’Italia e con l’Europa dei diritti, in Rivista critica del diritto privato, 2011, pag. 526 e seg. 342 Hamilton v. Alabama 368 U.S. (1961) 521. 343 Franklin E. Zimring, La pena di morte. Le contraddizioni del sistema americano, cit. pag. 122 e seg. 344 Baze v. Rees 553 U.S. (2008) 345 Presentazione di Cristina de Maglie, al libro La pena di morte. Le contraddizioni del sistema penale americano, a cura di Franklin E. Zimring, cit., pag. 7 e seg.
340
126
III.12 La sentenza Atkins v. Virginia alla luce dell’VIII emendamento
Nonostante il corso della storia degli Stati Uniti d’America mostri che la sanzione capitale, dal periodo coloniale ai giorni nostri, ha subito, con il passare del tempo, forti limitazioni da un punto di vista procedurale e oggettivo, segno di un percorso diretto ad evitare un’applicazione indiscriminata della pena capitale, non si può non evidenziare che la previsione di Capital cases in una delle più grandi, se non addirittura la più grande, democrazie del mondo risulta essere un paradosso. Un ulteriore passo avanti compiuto dalla lotta diretta all’abolizione della pena di morte è rappresentato dalla sentenza Atkins v. Virginia346, che, nel 2002, sancì l’incostituzionalità, per contrasto con l’VIII emendamento della Costituzione statunitense, della pena capitale inflitta ai mentally retarded. Tale sentenza risulta di particolare importanza perché la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America sovvertì il suo precedente storico: Penry v. Lynaugh347, suscitando una forte eco anche nel resto del mondo348. Ai fini di una corretta comprensione della decisione della Supreme Corte è necessario ripercorrere l’excursus processuale della sentenza Atkins. Il 16 agosto del 1997, a mezzanotte, Renard Atkins e il suo amico William Jones, armati di fucile semiautomatico, incontrarono Eric Nesbitt, gli rubarono il denaro che aveva con sé, lo costrinsero a recarsi ad un bancomat e ad effettuare un prelevamento bancario; successivamente, venne accompagnato dai due uomini prima menzionati in un luogo isolato dove venne colpito da otto colpi di arma da fuoco in seguito ai quali morì. Questa è il “succinto e asettico resoconto” dei fatti contenuto nella majority opinion della Corte Suprema, intenzionata a pronunciare una declaratoria di incostituzionalità per l’applicazione della pena capitale nei confronti dei ritardati mentali.
346
Atkins v. Virginia 536 U.S. 304 (2002) Penry v. Lynaugh 492 U.S. (1989) 348 Vittorio Zucconi, Usa, La Corte Suprema ci ripensa “Mai più minorati al patibolo”, in La Repubblica, 21 giugno 2002, pag. 13. 347
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I fatti risultano essere, invece, più cruenti e gravi quando ad esporre la vicenda è il giudice Anthony Scalia, giudice della Supreme Corte e noto “conservatore” della pena capitale. Scalia iniziò così la sua ricostruzone dei fatti: “Dopo aver passato la giornata a bere e a fumare marijuana, l’imputato Daryl Renald Atkins e il suo complice hanno guidato fino ad un convenience store, con l’intenzione di derubare un cliente. La loro vittima era Eric Nesbitt, un militare di stanza alla base aerea di Langley; lo hanno rapito, lo hanno portato ad un distributore automatico di banconote e costretto a prelevare 200 dollari. L’hanno fatto salire in macchina, l’hanno portato in una zona deserta, ignorando le sue preghiere di lasciarlo andare. Secondo la deposizione di Jones, Atkins ha ordinato a Nesbitt di uscire dall’auto e, dopo pochi passi, gli ha sparato una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto volte colpendolo al costato, al petto, all’addome, alle braccia e alle gambe”. La descrizione degli eventi fatta da Scalia, ricostruzione tutt’altro che razionale, è diretta a risvegliare nel lettore lo sdegno per la gravità dei fatti, onde preparare il “terreno emotivo” adatto per contrastare la motivazione della majority opinion. Non a caso sottolinea la crudeltà di come è stato posto in essere il delitto, ricordando il numero degli spari e l’elencazione delle parti anatomiche colpite. Ricostruendo l’iter della vicenda è necessario sottolineare che la death penalty venne inflitta ad Atkins in seguito al riconoscimento di due aggravanti: future dangerousness e vileness of the offense349. Nel corso della sentencing phase la difesa voleva far valere il risultato della perizia psichiatrica: il dottor Nelson dichiarò che l’imputato poteva essere considerato midly mentally retarded. Il collegio difensivo faceva leva sul fatto che il disturbo dei soggetti mentally retarded è causato da un mancato sviluppo psichico, caratterizzato dalla compromissione delle abilità cognitive, linguistiche, sociali e motorie, che contribuiscono al livello globale di intelligenza.
349
Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158.
128
Il ritardo è diagnosticato attraverso la misurazione del Q.I. che in questi soggetti è inferiore a 70; un Q.I. medio si attesta intorno a 100, impedendo al soggetto di comprendere appieno la finalità di una pena così severa e rendendola, quindi, priva di qualsiasi efficacia, se non quella di eliminare il reo350. La pubblica accusa controbattè quanto appena detto sostenendo che non si trattasse di ritardo mentale, seppur lieve, ma di antisocial disorder. In seguito all’ordine della Corte Suprema della Virginia di rinnovare la fase della sentencing, dichiarata nulla a causa di un vizio procedurale, la sentenza di condanna a morte venne riconfermata sia dalla giuria, che dalla Corte Suprema della Virginia, che non accolse i motivi della difesa secondo cui Atkins dovesse essere considerato mentally retarded. Il caso giunse alla Corte Suprema, che decise di esaminarlo sulla base “della drammatica spaccatura apertasi nella legislazione statale negli ultimi anni” in merito alla legittimità di condannare a morte i minori351. Da quando approdò alla Supreme Corte il caso Penry v. Lynaugh, nel 1989, erano passati tredici anni; con questa sentenza la Corte degli Stati Uniti dichiarò conforme al dettato Costituzionale, contenuto nell’VIII emendamento, la pena di morte inflitta ai ritardati mentali perché, al tempo, non si poteva ancora individuare, a livello nazionale, una posizione generalmente contraria all’applicazione di questa pena nei confronti di questa categoria di soggetti352. Ancora una volta la Supreme Corte si trovava a dover fornire una risposta a questa domanda: “L’esecuzione di persone mentally retarded è incostituzionale perché cruel and unusual?”. La maggioranza della Corte optò per una risposta affermativa, richiamando il criterio utilizzato per interpretare l’VIII emendamento nella causa Trop v. Doll, ovvero all’evolving standards of decency353.
350
Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 824. Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158 e seg. 352 Vittorio Zucconi, Usa, La Corte Suprema ci ripensa “Mai più minorati al patibolo”, cit., pag. 13. 353 Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, in Cassazione penale, 2005, pag. 3554. 351
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I giudici della Corte Suprema, ritenendo superato il concetto di cruel and unusual del XVIII secolo, hanno considerato corretto interpretarlo alla luce dell’evoluzione del pensiero della società354. Come indicatori di tale cambiamento ed evoluzione sono stati presi in considerazione dati oggettivi, tra cui: le leggi federali e statali, espressione della maggioranza dei cittadini, e le decisioni prese dalle giurie, espressione del common sense popolare. Secondo la majority opinion il fatto che un numero elevato di Stati avesse eliminato questa pratica nei confronti dei ritardati mentali è probante dell’evoluzione del concetto di decency, sufficiente ai fini di una declaratoria di incostituzionalità. Il giudice estensore, al fine di anticipare critiche al riguardo, evidenziò come non rappresentasse condicio sine qua non il fatto che il numero degli Stati abolizionisti fosse numeroso, ma che fosse sufficiente la “consistenza nell’ambito del cambiamento”. “La maggioranza è concorde e sceglie di uniformarsi all’evoluzione in esame, data per provata per due ordini di motivi. Il primo collegato a quelli etichettati macabramente con realismo cinico <> della pena di morte: retribution e deterrence, che non possono essere raggiunti nel caso in cui un crimine sia commesso da una persona mentally retarded. Il secondo relativo al fatto che le ridotte capacità mentali dei soggetti di cui si sta trattando possono determinare errori nel corso del processo da cui consegue l’applicazione della pena capitale, in sostituzione di una sanzione meno severa. Si tratta della possibilità che la persona psichicamente labile non sia in grado di tenere un atteggiamento collaborativo con il proprio difensore, indispensabile per preparare una solida difesa, che a causa della <> mostri un atteggiamento di disinteresse verso il reato contestato, che può essere interpretato dai giurati come una mancanza di rimorso per lo stesso o, ancora, che confessi un crimine che non ha commesso”355. La motivazione venne attaccata duramente dal giudice Anthony Scalia, esponente della dissenting opinion. Il giudice sostenne che fondare la decisione della Corte Suprema su di una maggioranza qualitativa e non quantitativa delle legislazioni statali che 354
Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158 e seg. 355 Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158 e seg.
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vietavano la death penalty nei confronti dei ritardati mentali, per dimostrare il mutamento degli evolving standards of decency, non significasse basare la decisione su dei dati oggettivi, ma su convinzioni della maggioranza ottenuta in seno alla Supreme Corte. Un altro duro attacco venne posto in essere dal Chief Justice Rehnquist356, che sosteneva poco probante il riferimento all’opinione dei Paesi stranieri357. Questo riferimento del giudice Rehnquist è dovuto alla presenza di una nota nella sentenza che richiamava la Risoluzione numero 1253, con cui l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa aveva proclamato, ufficialmente, la contrarietà della pena di morte in relazione all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta le torture e le pene disumane. L’assemblea, inoltre, aveva dichiarato che fosse inconcepibile il fatto che gli U.S.A., riconosciuti quali “osservatori”, applicassero ancora la pena di morte; che assumendo lo status di osservatori si erano impegnati ad accettare “i principi della democrazia, della Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”, diritti vantati da parte di tutti i cittadini soggetti alla giurisdizione statunitense. Inoltre, a riprova dei seri impegni assunti dagli Stati Uniti d’America, veniva menzionata nella motivazione l’istituzione di un Comitato per gli affari giuridici e i diritti umani, con il compito di verificare i progressi degli U.S.A. in riferimento al trattamento sanzionatorio verso i mentally retarded, stabilendo che, in caso di mancate modifiche, avrebbero perso il loro status speciale di osservatori. Alla luce di quanto sostenuto possiamo affermare che l’evoluzione degli standards of decency e il rispetto degli obblighi derivanti dai patti conclusi con le maggiori organizzazioni internazionali hanno portato ad una sentenza di incostituzionalità tout court per le condanne a morte inflitte ai ritardati mentali, segnando un passo decisivo nel percorso abolizionista358.
356
Il Chief Justice è il termine inglese per indicare il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. 357 Maria Elisabetta de Franciscis, La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in materia di pena di morte, in Rassegna Parlamentare, 2003, pag. 167 e seg. 358 Michela Miraglia, Pena di morte: inizia una riflessione critica da parte delle Corti U.S.A.?, cit., pag. 1158 e seg
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III.13 La sentenza Roper v. Simmons in rapporto all’VIII emendamento della Costituzione americana: un ulteriore passo verso l’abolizione totale della pena capitale
Insieme alla sentenza Atkins v. Virginia, che ha dichiarato incostituzionale la pena di morte inflitta ai mentally retarded, si è deciso di esaminare un’altra sentenza della Corte Suprema, che ha dichiarato illegittima la condanna a morte inflitta ai minori di anni diciotto per reati di omicidio, unica fattispecie per cui è prevista la sanzione capitale negli U.S.A.. Ci si riferisce alla sentenza Roper v. Simmons359 che verrà esaminata non solo perché ha dichiarato, tout court, incostituzionale la pena di morte inflitta ai minorenni, ma anche perché, come nel caso Atkins, la Supreme Corte ha abbracciato una tesi abolizionista, lasciando trasparire, leggendo le motivazioni delle due sentenze, come la lotta dei Paesi occidentali e dell’ONU, contrari alla death penalty, stia iniziando ad influenzare non solo l’orientamento dell’opinione pubblica statunitense, ma anche il pensiero e i valori dei giudici della Corte Suprema. Come nel caso dei ritardati mentali il massimo organo giurisdizionale statunitense adotta tale decisione, presa a stretta maggioranza (5 voti contrari alla pena di morte e 4 a favore), in quanto la pena di morte, in questo caso, risulta essere contraria ai dettami dell’VIII emendamento, che vieta le cruel and unusual punishment360. Ai fini di una corretta comprensione è necessario, prima di affrontare i motivi che hanno portato a questa pronuncia, ripercorrere l’excursus processuale della sentenza Simmons. Nella città di Fenton, Missouri, nel 1995, un giovane di 17 anni, con due amici, suoi coetanei, entrò in casa di una donna, con cui aveva avuto dei “dissapori” causati da un incidente automobilistico, la derubò e la costrinse, con la forza, a salire sulla cima di un ponte e, una volta bendata e legata, la gettò nel fiume. In seguito, la vittima, morì per annegamento361.
359
Roper v. Simmons 543 U.S. (2005) 551. Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, cit. pag. 3552. 361 Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, 2004, pag. 1515. 360
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Dalle indagini risultò che il Simmons, prima di compiere l’omicidio, avesse convinto gli amici adducendo come motivazione il fatto che per i minori non fosse prevista la pena di morte e quindi non avrebbero subito serie conseguenze per il loro crimine. L’imputato venne condannato a morte in primo grado. Tale pena era prevista, al momento del fatto, dallo Stato del Missouri, che non la vietava per i minori di anni diciotto. In tutti i gradi di gravame la condanna per il Simmons venne confermata, questo perché l’applicazione della pena di morte nei confronti degli infradiciottenni non era considerata illegittima, giacchè la conformità alla Costituzione era stata affermata dalla sentenza Standford v. Kentucky, del 1989362. Dal momento che nel 2002 la Corte Suprema aveva dichiarato la pena di morte inflitta ai mentally retarded incostituzionale, in quanto violava l’VIII emendamento, sovvertendo il precedente Penry v. Lynaugh, del 1989, i difensori di Simmons fecero ricorso presso la Supreme Corte dello Stato del Missouri, adducendo come motivi, ai fini dell’annullamento della sentenza, i medesimi fatti valere nel caso Atkinson. La Corte, investita della revisione, la accolse e annullò la condanna capitale, convertendola in ergastolo363. In virtù di questa decisione la pubblica accusa si rivolse alla Corte Suprema degli Stati Uniti, dal momento che la sentenza del 1989, alla luce del principio dello stare decisis, doveva considerarsi vincolante, e lo Stato del Missouri rivendicava il proprio potere di poter applicare la pena di morte. La decisione della Supreme Corte di dichiarare incostituzionale la pena di morte per gli juveniles venne presa, come già detto, da una maggioranza di 5 giudici. La majority opinion venne redatta dal giudice Anthony Kennedy, a cui aderirono i giudici Stevens, Ginsburg, Breyer e Souter; Stevens redasse anche una concurring opinion per replicare alle dissenting opinion dei giudice Sandra O’Connor, Scalia, Thomas e il Chief Justice Rehnquist364.
362
Standford v. Kentucky 536 U.S. (1989) 361. Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, cit. pag. 3555. 364 Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit., pag. 1516. 363
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Nella stesura della motivazione il giudice Kennedy evidenziò come dal 1989, ovvero dall’emanazione della sentenza Standford, si fosse creato un national consensus negli Stati Uniti secondo cui risultava illegittimo prevedere la pena capitale per i minori di anni 18. Incompatibilità avvalorata dal fatto che gli standards di riferimento per stabilire se una pena risultasse essere cruel and unusual mutavano con il tempo: principio già enunciato nella sentenza Tropp v. Dolls, del 1958365. Il giudice Kennedy, al fine di supportare la presa di posizione della majority opinion, ricordò che l’VIII emendamento, facente parte del Bill of Rights, era parte integrante di quegli emendamenti volti a garantire la tutela giudiziaria degli imputati, e che fosse necessario “leggere” l’emendamento in questione alla luce del principio di proporzionalità: ovvero la sanzione deve essere proporzionata all’offesa366. “La pena di morte di per sé sarebbe crudele. Sicchè una lettura <> dell’VIII emendamento condurrebbe a credere che la pena di morte dovrebbe essere esclusa tout court. Storicamente invece è ragionevolmente certo che il costituente americano del 1791 non intendeva la morte come pena crudele e inconsueta. I precedenti storici contenevano norme volte a bandire forme di punizione inedite, fantasiose, inutilmente umilianti tratte dall’esperienza della madre patria Inghilterra. Gli esempi di pene crudeli e inconsuete, infatti, erano solitamente tratti da episodi inglesi del XVI e XVII secolo (frustate, gogne, cammini forzati per distanze insostenibili, squartamenti, decapitazioni) […]. Scrive dunque Kennedy che l’VIII emendamento nell’esigere sanzioni graduate e proporzionate all’offesa riaffermava il concetto per cui i pubblici poteri dovessero rispettare la dignità della persona”367. Come ricorda Kennedy l’espressione cruel and unusual punishments non deve essere interpretato come principio statico, ma secondo la sua storia la tradizione, i precedenti e i terms of decency, che sono espressione di una società (quella statunitense) in continua evoluzione368.
365
L. W. Levy, Origins of the Bill of Rights, cit., pag. 231. Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, cit. pag. 3553. 367 Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1516 e seg. 368 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 827. 366
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A dimostrazione di questo mutamento il giudice ricordò l’excursus giudiziario della Supreme Corte, evidenziando come anche nel caso dei mentally retarded, nel 2002, era stato sovvertito il precedente Penry v. Lynaugh e, allo stesso modo, per quanto riguarda i minori, si poteva “violare” lo stare decisis del caso Standford: ciò era legittimato dal mutamento dell’orientamento dei cittadini statunitensi e dei governi nei confronti delle pene da applicare a queste categorie di soggetti. Sempre il giudice Kennedy, al riguardo, ricordava che dei cinquanta Stati degli U.S.A. solo venti prevedono la pena di morte per i minori infradiciottenni, di questi Stati non tutti operavano un’applicazione rigida e tassativa della death penalty, basti pensare al caso Standford dove l’imputato venne graziato dal governatore. Il giudice evidenziò anche che il cammino diretto all’abolizione della pena di morte nei confronti dei minori di anni 18, seppur più lento rispetto a quello intrapreso per i mentally retarded (per i minori dal 1989 al momento della sentenza solo 5 Stati avevano eliminato la condanna capitale per gli juveniles), era stato graduale e continuo: dal 1989 nessuno Stato dell’America del Nord aveva reintrodotto la pena capitale per i minori. “L’evoluzione più lenta si può spiegare con il fatto che essa evidentemente si era avviata prima ma era pervenuta allo stesso risultato. Sicchè sarebbe stato paradossale ritenere legittima la pena di morte per i minori in ragione di un cambiamento più lento ma più risalente e invece legittima la pena di morte per i disabili, su cui i parametri di decenza si erano evoluti più tardi anche se più rapidamente”369. Kennedy sosteneva, inoltre, che i minori fossero soggetti meno maturi e meno capaci di assumersi responsabilità: è per questo motivo che non possono votare, rivestire la carica di giudici popolari o, ancora, sposarsi senza il permesso dei genitori. La maggioranza ritenne fosse incostituzionale applicare la condanna a morte nei confronti dei minori per tre ordini di ragioni. Per prima cosa il giovane presenta immaturità e mancato sviluppo del senso di responsabilità ed è più soggetto, rispetto ad un adulto, a subire influenze negative e pressioni esterne.
369
Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1518 e seg.
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In secondo luogo sosteneva che la minore età non fosse un mero fatto cronologico ma rappresentasse una situazione particolare del soggetto che porta il legislatore a concedergli un trattamento differenziato, privandolo di molti diritti e libertà. In terzo luogo è sbagliato considerare equipollenti gli sbagli dei minori e degli adulti, essendo i primi più facilmente recuperabili. Da ultimo, come nel caso Atkins, si evidenzia che la pena di morte non avrebbe avuto alcuna efficacia retributiva e deterrente370. Il fatto che i minori abbiano un carattere ancora in formazione portò la Corte a concludere che la commissione di un crimine efferato da parte di questi soggetti non fosse la prova di una personalità assolutamente irrecuperabile371. Come nel caso Atkins, quelle che dovrebbero essere le finalità della pena di morte, ovvero quelle deterrenti e retributive, non avrebbero avuto alcuna efficacia. Entrambi, minori e ritardati mentali, sono accomunati dalla stessa “semplicità mentale”372. Il giudice evidenziò come la giuria popolare, che inflisse la condanna a morte al Simmons, giudicò la minore età come aggravante; al riguardo obiettò che “le comuni regole della psichiatria forense, valide nell’applicazione giurisprudenziale, vietano di considerare come verificabile con perizie la irrimediabile pericolosità degli imputati minori. Se allora l’esperienza specialistica è in grado di escludere a priori un accertamento di tale irreversibile minaccia per la collettività insita nella personalità di un minore , perché lasciare le giurie –ben più esposte alle intemperie culturali e del costume- il potere di dare un simile giudizio? […] lo statuire che i minori di 18 anni non possono essere colpevoli a tal punto da meritare la pena di morte è suscettibile di sollevare perplessità. Occorre tuttavia che da qualche parte il limite venga tracciato e gli sembra davvero che il limite della maggiore età possa costituirne uno difendibile”373.
370
Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, in Cassazione penale, Milano, 2005, pag. 3556 e seg. 371 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 827 e seg. 372 Maria Elisabetta de Franciscis, La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in materia di pena di morte, cit. pag. 180. 373 Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1519 e seg.
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Sempre a riprova dell’evolversi degli standards of decency il giudice Kennedy riportò, a titolo d’esempio, molte esperienze giuridiche straniere che avevano eliminato dai propri ordinamenti la pena capitale, evidenziando, oltretutto, che solo pochi Paesi, oltre agli U.S.A., applichino ancora la pena capitale nei confronti degli juveniles (Arabia Saudita, Cina, Congo, Iran, Nigeria, Pakistan). Oltre a quanto appena ricordato puntualizzò che il Regno Unito, sulla cui storia ed esperienza giuridica aveva poggiato le fondamenta il diritto statunitense, contempla una previsione analoga a quella dell’VIII emendamento americano ed ha, da tempo, abolito la pena di morte e prima ancora, nel 1948, l’aveva abolita come sanzione da applicare nei confronti dei minorenni. Per tutti questi motivi, continua Kennedy, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha dichiarato incostituzionale la pena di morte inflitta ai minorenni374. Oltre a quanto sostenuto dal ramo abolizionista della Supreme Corte è doveroso ricordare anche quanto sostenuto dai giudici favorevoli alla pena di morte, ed esporre le ragioni della loro opposizione a una declaratoria di incostituzionalità. Per quanto riguarda la dissenting opinion è necessario riportare il pensiero dei giudici Sandra O’Connor e Anthony Scalia, i maggiori sostenitori della pena capitale in seno alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America. O’Connor fece subito intendere che era d’accordo sul fatto che l’VIII emendamento enunciasse il principio della proporzione della pena al fatto e che spettasse loro, in quanto membri della Supreme Corte, applicare tale principio alla luce degli standards of decency, che contraddistinguono il progresso di una società in evoluzione; concorda anche sul fatto che sussistano analogie in merito alle situazioni soggettive dei minori di anni 18 e dei mentally retarded. Nonostante questo preambolo accusò la maggioranza di aver violato il vincolo del precedente giudiziario, lo stare decisis375.
374
Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1519 e seg. 375 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 825 e seg.
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In secondo luogo contestò le ricerche empiriche volte a dimostrare che si fosse creata una convinzione generale che l’applicazione di tale pena ai minori risultasse in contrasto con l’VIII emendamento, e quindi risultasse cruel and unusual376. Per controbattere a quanto sostenuto dal giudice Kennedy, che sosteneva l’importanza della “coerenza della direzione del cambiamento” (in senso abolizionista), affermò che tale cambiamento non era univoco come nel caso dei disabili: non solo, per i minori, era stato più lento, ma addirittura due Stati (Virginia e Missouri) hanno previsto norme di legge che prevedevano l’applicazione della death penalty agli infradiciottenni. Tale decisione risultava, a suo parere, arbitraria, in quanto non spettava alla Corte procedere ad una applicazione così categorica del principio di proporzione, delegittimando il potere dei singoli Stati di individuare le pene in modo adeguato a seconda della loro politica criminale377. L’opinione espressa da Scalia evidenzia subito il motivo delle differenti ragioni che contrappongono i giudici abolizionisti e quelli conservatori della Corte Suprema: motivo fondamentale è la differente interpretazione data all’VIII emendamento. Scalia sostiene sia stato frainteso e tradito il pensiero di Alexander Hamilton, uno dei firmatari della Costituzione degli Stati Uniti, che aveva voluto e stabilito che il potere giudiziario fosse indipendente e faceva affidamento su giudici “composti e astretti da regole precise e precedenti”. Violare lo stare decisis della sentenza Standford, per Scalia, significava cambiare la Costituzione. Secondo il giudice le disposizioni della Costituzione andavano interpretate alla luce del significato dato, illo tempore, dai padri costituenti, facendo riferimento, pertanto, a quei momenti storici, sociali e giuridici. Scalia, pur volendo, a suo modo per assurdo, concedere qualcosa al criterio del national consensus, sosteneva che non potesse esserci stato un cambiamento di opinione pubblica da quando era stata emanata la sentenza Penry. Rafforzava il suo pensiero rilevando che tra gli Stati che avevano abbracciato la tesi abolizionista nei confronti della pena di morte inflitta ai ritardati mentali non potessero essere computati i 12 Stati che non la contemplavano affatto; perciò se il totale di riferimento
376
Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1519 e seg. 377 Michela Miraglia, U.S.A.: i minori non muoiono più di giustizia, in Cassazione penale, Milano, pag. 3559 e seg.
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era di soli 18 Stati, contro i 38 che ancora la applicavano, tale percentuale risultava essere una minoranza. Per Scalia le pene cruel and unusual, e quindi incostituzionali, erano la gogna, la torsione del pollice e altre; incostituzionali in quanto erano considerate tali dai padri costituenti. La motivazione di Scalia, seppur lineare e coerente nel suo sviluppo, subì un duro colpo dalla concurring opinion del giudice John Paul Stevens, che controbattè a quanto sostenuto da Scalia, evidenziando il motivo cardine per cui si era arrivati a questa decisione. Spiegò il motivo della “violazione” del precedente costituito dalla sentenza Standford e del perché fosse necessario abbracciare, in questi casi, una linea abolizionista. Il giudice sosteneva che: “se si leggesse l’VIII emendamento oggi con le lenti con cui fu scritto e letto alla fine del XVIII secolo, negli U.S.A. si potrebbe ritenere legittimata l’esecuzione di chi ha commesso un fatto all’età di sette anni. L’interpretazione evolutiva della Costituzione è invece un fatto che essa stessa impone, come John Marshall ha insegnato. E se grandi giuristi del suo tempo come Alexander Hamilton fossero membri della Corte oggi, ci si potrebbe aspettare da loro che aderirebbero all’opinion di Kennedy”378.
378
Marco Cesare, La pena di morte negli Stati Uniti: nuovi sviluppi e vecchi contrasti, in Giurisprudenza Costituzionale, cit. pag. 1520 e seg.
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III.14 Breve conclusione
Alla luce delle due pronunce riguardanti l’incostituzionalità dell’applicazione della pena di morte nei confronti dei mentally retarded e dei minori, si può presumere che gli Stati Uniti d’America stiano compiendo un ulteriore passo verso l’abolizione totale della condanna capitale379. Dal momento che le sentenze della Supreme Corte considerano solo singoli aspetti della pena capitale ci si auspica che, in futuro, vengano presi in considerazione ulteriori aspetti sostanziali380. Non si può negare che il ruolo svolto dalla Corte Suprema sia stato determinante al fine di evitare un esercizio discriminatorio e arbitrario da parte delle giurie popolari, chiamate a decidere sulla condanna a morte o l’ergastolo dei colpevoli di omicidio. Nonostante le varie pronunce della Supreme Corte abbiano, con il tempo, “perfezionato” il procedimento processuale dei Capital cases, prevedendo limitazioni di carattere soggettivo, oggettivo, procedurale ed esecutivo, come già trattato in precedenza, ciò non è sufficiente ad eliminare, definitivamente, la pena capitale dall’ordinamento statunitense; anzi, il percorso da intraprendere per arrivare ad una abrogazione totale della death penalty risulta essere ancora molto lungo. Nonostante le ultime statuizioni riguardanti la death penalty rappresentino un chiaro segno del fatto che gli U.S.A. stiano compiendo “un ulteriore passo nella giusta direzione” è necessario381, al fine di eliminare uno degli aspetti meno accettabili agli occhi dell’osservatore europeo, che la Corte rivesta un ruolo più incisivo e responsabile; meno ancorata ai poteri legislativi dei singoli Stati che non le permettono di essere totalmente indipendente e libera di effettuare una scelta di stampo radicale (la totale eliminazione della pena di morte), essendo il massimo organo giurisdizionale americano la sede più appropriata per attuare una riforma dedita all’abolizione totale della pena di morte, ed essendo l’unico organo autorizzato a decretare l’incostituzionalità della legge382.
379
Maria Elisabetta de Franciscis, La giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in materia di pena di morte, cit. 380 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 829. 381 V.Z. Smith, The Abolition of Capital Punishment for Persons under the Age of Eighteen in the United States of America. What’s Next?, in Human Rights Law Review: Oxford Journals, Oxford, 2005, pag. 393 e seg. 382 Elisabetta Botti, L’ottavo emendamento della Costituzione americana: la pena di morte, cit., pag. 829.
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“E’ vero che alcuni giudici hanno sottolineato che il problema della legittimità della pena di morte è <>; che comporta <> come quelli di <> e che <>. Ma se il riconoscimento dell’umanità dell’esecuzione per iniezione letale pesa – per dirla alla Antonio Cassese come un <>, deliberata recentemente in sede Onu, e riapre – come afferma Giorgio Marinucci- un <> tra i paesi europei che da tempo hanno abolito la pena capitale e gli Stati della confederazione statunitense”383. Fino a quando gli Stati Uniti d’America annovereranno la death penalty nel loro ordinamento sarà impensabile poterla definire la più grande democrazia del mondo.
383
Presentazione di Cristina de Maglie, al libro La pena di morte. Le contraddizioni del sistema penale americano, a cura di Franklin E. Zimring, cit., pag. 7 e seg.
141
ANALISI DI UNA CASISTICA DI CONDANNATI A MORTE Giunti al termine del lavoro di tesi ritengo opportuno soffermarmi su alcuni dati empirici relativi all’applicazione ed esecuzione della pena di morte. Dalla rassegna degli studi effettuati, sulla base delle statistiche messe a disposizione dalle fonti ufficiali U.S.A., non emergono evidenze attendibili sull’effetto preventivo e deterrente della pena di morte negli Stati Uniti d’America: sia sotto il profilo della severità e certezza della pena, che della celerità di applicazione. In altri termini la paura di essere scoperto per aver commesso un delitto molto grave, di essere processato e di essere condannato a morte non scoraggia il soggetto con problemi sociali, psicologici o caratteriali, spesso sotto l’effetto di droghe o alcool, dal commettere reati anche efferati. Oltre agli evidenti e discutibili limiti delle metodologie utilizzate, legati al fatto di porre in relazione dati aggregati (tassi di omicidi, frequenze di condanne, esecuzioni capitali), non convince l’ipotesi, posta in termini troppo generici e semplicistici, dell’effetto deterrente e preventivo di una legge penale che preveda la pena di morte, dal momento che non tiene in conto la complessità dell’essere umano, la sua multidimensionalità: fattori biologici, psicologici, culturali, familiari, sociali sono alla base delle motivazioni e dei comportamenti criminali dei soggetti che si trovano in situazioni scatenanti, indipendentemente dalle leggi penali vigenti. Alla luce di tali considerazioni e nella convinzione che per prevenire un evento occorre conoscere i fattori causali e di rischio, quelli inibenti o favorenti, modificabili o inevitabili (a titolo di esempio: età, razza), ho ritenuto interessante cambiare la prospettiva di approccio: partendo dall’effetto (l’applicazione della condanna a morte) andare alla ricerca di alcuni fattori causali del comportamento delittuoso.
142
Avendo la possibilità di accedere all’archivio di uno degli Stati U.S.A. non abolizionista, il Texas, ho condotto un’analisi descrittiva della casistica, cercando di trarne alcune indicazioni operative384.
384
La fonte dei dati è stata l’archivio degli “offenders information sheets” del Death Row del Texas department of criminal justice, consultabile sul sito www.tdcj.state.tx.us, relativi al periodo 19762010. Da questa fonte ho estrapolato i dati per calcolare le percentuali dei grafici che seguono e degli altri che si trovano in Appendice.
143
Le evidenze più significative
La maggior parte dei condannati è costituita da maschi (96,82%), per tre quarti in età inferiore ai trent’anni, con un range dai 17 ai 50 anni. Le razze più rappresentate sono: la nera (40%), la bianca (32%) e l’ispanica (27%). Le condizioni socio economiche deducibili dalla professione e dal livello di scolarità sono in prevalenza medio-basse (69,75%), con un trend crescente (confrontando tra loro le razze) dalla razza bianca (67%), a quella nera (76,4%), a quella ispanica (85%). I soggetti senza occupazione - studenti o disoccupati al momento del crimine - sono solo il 6%. La metà dei condannati (51,91%) non aveva mai avuto problemi in precedenza con la giustizia. Nel 50% dei casi gli omicidi sono stati commessi nel corso di furti o rapine (felony murder), mentre gli omicidi di primo grado (murder in the first degree), cioè gli omicidi volontari premeditati e su commissione, riguardano il 15% dei casi, mentre il 25,5% sono omicidi perpetrati dopo violenze sessuali su donne, minori e familiari. Il mezzo più utilizzato è l’arma da fuoco (56%), soprattutto tra i giovani di età inferiore ai vent’anni (63,5%), mentre nel 27% dei casi l’omicidio è stato commesso con percosse, mezzi contundenti, strangolamento e nel 16,2 % con armi da taglio. Nel 62% dei casi l’assassino agisce da solo. Oltre la metà degli omicidi sono commessi nella casa della vittima (51%), mentre nel 42% in luoghi pubblici, per strada, a scuola, nei negozi. Non si riscontrano relazioni di rilievo tra tipologia del delitto e razza e status socioeconomico, mentre si evidenziano associazioni significative con le modalità di comportamento: la presenza di complici è più elevata negli ispanici (56%), nei soggetti in condizioni socio economico più bassa (85%) e nei giovani di età inferiore a 20 anni (47%). Interessanti sono le differenze di genere, nonostante le donne condannate a morte costituiscano un’esigua minoranza. L’età media del crimine è più elevata nelle donne: 31,2 anni, contro 26,55 negli uomini, mentre la razza più rappresentata è la bianca, con una percentuale del 50% e le condizioni socio-economiche delle condannate sono più elevate rispetto a quelle degli uomini: 50% delle donne contro il 23% degli uomini. 144
Nel 40% dei casi i reati commessi dalle donne sono omicidi in famiglia, prevalentemente infanticidi, compiuti con armi improprie, ovvero non armi da fuoco, e spesso senza complici; mentre nel 50% dei casi le donne partecipano a omicidi nel corso di furti o rapine quasi sempre nelle abitazioni delle vittime, e sempre con complici. Il numero di vittime è di 487, pari a una media di 1,55 per condannato, con un range da uno a sei. Il 20% delle vittime di omicidio sono di età inferiore ai 18 anni e il 42,55% sono donne.
145
Indicazioni operative
I gruppi più a rischio sono i maschi giovani: sia neri, bianchi e ispanici in condizioni economiche medio-basse. Poiché più dell’85% dei delitti è stato commesso nel corso di attività criminali quali: furto, rapina, violenza sessuale, l’omicidio sembra più un evento non pianificato, ma conseguenza di reazioni improvvise di personalità violente e psicologicamente disturbate, nei confronti delle quali ben poco potere deterrente possono esercitare anche pene molto severe quale la pena capitale. Analogamente, nel caso delle donne condannate, emergono comportamenti legati a problemi di relazione familiare, non necessariamente connessi a condizioni economiche, che in particolari contesti o situazioni possono sfociare in crisi violente e incontrollate. Anche in questi casi ben poco efficaci risulterebbero minacce di pene severe quali la condanna capitale. Sembrerebbe, invece, più efficace l’istituzione o il potenziamento di reti di supporto psico-sociali, non solo nei confronti dei parenti delle vittime, come negli ultimi anni organizzato dal Texas Department of Clinical Justice, ma anche nelle comunità, soprattutto nei confronti degli adolescenti, più vulnerabili ed esposti al rischio di farsi influenzare ed entrare a far parte della criminalità organizzata e nei confronti delle giovani madri che versano in stato di sofferenze familiari e solitudini depressive. Un altro elemento critico è quello del facile accesso alle armi soprattutto da parte dei giovani, tema di grande attualità in questi ultimi periodi per la popolazione americana e che impegna, seriamente, anche il Presidente Barack Obama385. Di seguito si riportano tabelle riassuntive di quanto finora esposto:
385
Texas Department of Criminal Justice, consultabile sul sito: http/www.tdcj.state.tx.us/
146
Fig. 11 Tipo di reati: Omicidi in corso di
60
furti o rapine
50,32 50 40
Stupro
eeeeeeeeeeee 30
Liti e violenze
25,16
24,52
20 10 0 1
2
147
3
Tab. 12 Mezzi utilizzati per gli omicidi commessi 100 %
90
Mezzi
N
%
Armi da fuoco (1) Percosse, corpi contundenti (2) Armi da taglio (3) Annegamento-Incendio (4) TOTALE
176 81 51 6 314
56,05 25,80 16,24 1,91 100
80 70 60
56,05
50 40 25,8
30
16,24
20 10
1,91 0 1
2
3
148
4
Identikit modale dei condannati Sesso Maschio 100
96,82
%
Età < 30 anni
90 80
Stato Socio-Economico Medio-basso
75
69,75
70
Razza
60 50
neri bianchi
40 40
ispanici
32 30
27
20 10 0
Anamnesi giudiziaria e Reati commessi 100 %
90 80
Tipi di reato: omicidi in corso o dopo
60
Mezzo Armi da fuoco
70 Senza precedenti 51,91
Furti/Rapine
56,05
50,5
50 40 Stupro/pedofilia 30
24,5
20 10 0
149
Liti e violenze 25,16
Relazione tra sesso del condannato e razza
Sesso
Neri N
Bianchi %
N
Ispanici %
N
Altro* %
Totale
N
%
Maschio
123
40,46
95
31,26
82
26,97
4
1,31
304
Femmine
4
40,00
5
50,00
1
10,00
/
/
10
127
40,45
100
31,85 83
26,43
4
1,27
314
TOTALE
* Indiani d’America, asiatici, vietnamiti
150
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE In base agli argomenti affrontati in questa tesi ho cercato di dare un modesto contributo al dibattito pro e contro la pena di morte, da lungo tempo in bilico tra ragioni di tipo etico-morali, ragioni di tipo giuridico e ragioni di tipo scientifico. Ho cercato di dimostrare la disumanità, la barbarità e l’inutilità della pena di morte, alla luce non solo di quanto sostenuto dai grandi del passato, primo tra tutti Beccaria, ma anche menzionando le lotte e l’impegno abolizionista delle organizzazioni non governative, degli Stati europei, tra cui, un ruolo determinante è stato svolto, e viene svolto, dall’Italia, e dell’ONU, che quotidianamente si battono per eliminare tale pena dagli ordinamenti giuridici dei Paesi che, ancora oggi, prevedono la condanna a morte nel loro sistema sanzionatorio, che risulta un attentato ad ogni assetto che si consideri democratico e ai diritti umani. Fondati e pesanti sono i dubbi che da sempre ha sollevato la previsione della pena di morte: in primis, si staglia il grave rischio di commettere un errore irreparabile. Tale rischio è presente non solo negli animi degli abolizionisti moderni, ma ha attraversato le lotte e i dibattiti da sempre, da Cesare Beccaria ad oggi. La lotta abolizionista è diretta a dimostrare l’inutilità della pena di morte, che non permette, in caso di errore, di restituire all’innocente la vita; per questo motivo ritengo sia necessaria la previsione, in luogo della sanzione capitale, dell’ergastolo. Ciò anche alla luce del fatto che la carcerazione perpetua ha maggior efficacia deterrente e generalpreventiva; mai come in questo caso è di estrema attualità Cesare Beccaria, che sosteneva: “Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse.
151
Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorna sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza”. Oltre a questi validi motivi, che dimostrano l’inutilità della sanzione capitale, è necessario ricordare che la previsione della pena di morte in un ordinamento giuridico dà allo Stato un potere troppo grande, che troppe volte lo trasforma in assassino; anche in questo caso, a dimostrazione di quanto appena detto, mi trovo a dover citare quanto sostenuto da Beccaria: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Questo è quanto sosteneva il filosofo milanese nel 1764. Ho voluto ricordare la data perché, ancora oggi, nel momento in cui viene giustiziato un innocente, si legalizza l’omicidio: in questo caso non si può sostenere che tale atto sia diretto a ristabilire l’ordine naturale attraverso un barbaro principio vendicativo, riassumibile nella massima: “occhio per occhio, dente per dente”. In questi casi lo Stato non solo compie un omicidio, ma gioca con la vita delle persone e dei suoi cari, degli “assassinati”, vittime di un meccanismo malato cui molti Stati ricorrono ancora oggi. Ammettendo, per assurdo, che la pena di morte abbia una qualche efficacia deterrente e retributiva, ammettendo di legittimare lo Stato, in quanto autorità, a ricorrere a questo tipo di sanzione, tale meccanismo avrebbe la finalità di punire un assassino, che ha tolto la vita ad un innocente e di ripagare, eliminando il reo, i familiari delle vittime. Lo Stato sarebbe unicamente un intermediario tra il male e il bene, agirebbe unicamente per ristabilire l’ordine, per “proteggere” i suoi consociati, per educarli.
152
Ma quando lo Stato condanna a morte un innocente non lo fa in quanto autorità, in quanto intermediario; non sta punendo una persona colpevole di un delitto efferato quale è l’omicidio. Quando punisce, per via di un errore, o condanna un colpevole, per di più a distanza di tempo, lasciandolo nell’angosciosa attesa dell’esecuzione, diventa esso stesso un omicida. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: “Se lo Stato sbaglia, chi paga per l’errore commesso?”. Alcune considerazioni personali Ho deciso di affrontare il tema della pena di morte perché da alcuni anni intrattengo un rapporto epistolare con un condannato a morte in Texas, nel Polunsky Unit. Spesso ho domandato alla matricola #999526 cosa volesse dire vivere nell’attesa di essere condannato e cosa pensasse della pena di morte. La matricola #999526, quando mi parlava, e mi parla, della sua esperienza e delle sue vicende processuali puntualizza sempre un concetto (riporto esattamente le parole da lui usate): “Chi ha sbagliato è giusto che paghi!”. La matricola #999526 è stata condannata con l’accusa di aver sparato ad una coppia di gestori di un piccolo supermercato, che sono morti in conseguenza della sparatoria. Nel corso del processo, essendo molto povero e non potendo retribuire un avvocato di fiducia valido, è stato assistito da un avvocato d’ufficio. Il problema degli avvocati d’ufficio negli U.S.A. riguarda la scarsa preparazione e professionalità nell’affrontare le vicende giudiziarie dei propri assistiti. Ciò non mi stupisce dopo aver constatato che negli U.S.A., nel corso dei Capital cases, il sistema giudiziario non si preoccupa di garantire un’adeguata difesa agli imputati; l’unico fine da perseguire è “mettere alla gogna” i presunti colpevoli di omicidio. Basti pensare che un giudice texano, nel corso di un processo da cui poteva derivare l’applicazione della death penalty, pronunciò queste parole: “La Costituzione richiede che l’imputato sia assistito da un difensore, non che lo stesso debba rimanere sveglio durante il processo”386.
386
Michela Miraglia, La ricerca della verità per condannare ed assolvere: il test del DNA e l’esperienza statunitense, cit., pag. 1555 e seg.
153
Leggendo quanto mi scrive e le affermazioni di alcuni giudici statunitensi si intuiscono i motivi dei tanti errori giudiziari che possono verificarsi nei Capital cases. Ritengo necessario sottolineare il fatto che la matricola #999526, nel corso di questi 10 anni trascorsi in carcere, ha avuto la possibilità di riflettere sugli errori commessi e di capire gli sbagli compiuti. Recentemente mi ha scritto: “Non capisco! Il carcere, pur essendo io ignorante perché non ho studiato, non dovrebbe avere un fine rieducativo? Non dovrebbe migliorare le persone? Non penso sia giusto che debba passare il resto della mia vita in carcere. Sono migliorato, non sono più il ragazzo ispanico stupido e ribelle di 10 anni fa… non capiscono che sono una persona nuova?”. Ho deciso di riportare esattamente le parole della matricola #999526 perché traspare, a mio parere, cosa realmente pensa e prova un condannato che si trova nel death row. Nel corso di questa digressione mi sono riferito a lui come la “matricola #999526” e non l’ho mai menzionato con le sue reali generalità, non per motivi di privacy, ma perché scrivendogli, se indirizzassi le lettere a Joseph Gamboa non gli verrebbero nemmeno recapitate: per via della politica adottata dall’istituto penitenziario. Trovo sconcertante che questi condannati, oltre a subire quella che la maggior parte dei popoli democratici ed evoluti considera una tortura, vengano ridotti a una semplice combinazione numerica. Per questi motivi ho deciso di dedicare la tesi al mio pen pal Joseph Gamboa. Anzi, alla matricola #999526.
154
Appendice
Tab.1 Composizione della casistica per sesso 3,18% Maschi
155
Femmine
Sesso
N
%
Maschi 304 Femmine 10 TOTALE 314
96,82 3,18 100
Tab. 2 Composizione della casistica per razza 100 %
90
Razza
80
Neri (N) Bianchi (B) Ispanici (I) Altro *(A) Totale
70 60 50 40,45 40
N
%
127 100 83 4 314
40,45 31,85 26,43 1,27 100
31,85 26,43
30 20 10
1,27 0 Neri (N)
Bianchi (B)
Ispanici (I)
Altro *(A)
* Indiani d’America, Asiatici
Luogo
156
N
%
100 %
Texas (T) 204 Altri USA (AU) 79 Tab. 3 Composizione della casistica per luogo di nascita Altro * (A) 32 Totale 314
64,97 25,16 9,87 100
90 80 70
64,97
60 50 40 30
25,16
20 9,87 10 0 T
AU
A
* Asia, Europa
Tab. 4 Composizione della casistica per professione 100 %
90
Professione
N
%
Impieg./Artig. (I) Operaio/Man. (O) Disocc./Studente (D) Totale
76 219 19 314
24,20 69,75 6,05 100
80 69,75 70 60 50 40 30
24,2
20 6,05
10 0 I
O
157
D
Tab.5 Composizione della casistica per scolarità
37,70% < 10 (L) > 10 (M)
Scolarità < 10 (L) > 10 (M) Totale 62,30%
158
N
%
195 62,30 118 37,70 314 100
Tab. 6 Composizione della casistica per età all'ingresso nel penitenziario Età
N
< 20 21-25) 26-30 31-35 36-40 > 41 Totale
74 82 78 31 35 14 314
100 %
90 80 70 60 50
% 23,57 26,11 24,84 9,87 21,02 11,15 4,46 100
40 30
26,11
23,57
24,84
21,02
20 10
4,46
0 < 20
21-25)
26-30
31-40
> 41
Tab. 7 Distribuzione della casistica per anno di ingresso nel penitenziario (per quinquiennio) Per quinquiennio
100 %
1976-1980 (1) 1981-1985 (2) 1986-1990 (3) 1991-1995 (4) 1996-2000 (5) 2001-2005 (6) 2006-2010 (7) Totale
90 80 70 60 50 40
N
%
11 5 22 46 72 104 54 314
3,50 1,59 7,01 14,65 22,93 33,12 17,20 100
33,12
30 22,93
20
17,2
14,65 10
7,01
3,5
0 1
1,59 2
3
4
159
5
6
7
Tab. 8 Composizione della casistica per periodo di ingresso nel penitenziario dal 1976-2000 e dal 2001-2010
1976-2000 2001-2010
50,3
(> 2001)
(< 2000)
Periodo
N
%
49,7
1976-2000 156 49,7 2001-2010 158 50,3 Totale 314 100
Tab. 9 Composizione della casistica per condanne precedenti all'ingresso
No Si
Precedenti Condanne
48,1 51,9
160
No Si Totale
N
%
163 51,9 151 48,1 314 100
Tab. 10 Tipo di reati delle condanne precedenti (condannati = 151) 100 %
Tipo di Reato condanne precedenti
90
Rapina o Furto (1) Omicidio violenza (2) Stupro - Rapimento (3) Gravi effrazioni (4) Droghe – Armi (5) Pedofilia (6)
80 70 60
54,3
50 40
N
%
82 19 12 13 21 4 151
54,3 12,5 7,9 8,6 13,9 2,8 100
30 20
13,9
12,5
8,6
7,9
10
2,8
0 1
2
3
4
5
6
Tab. 11 Tipo di reato della condanna a morte 100 %
Reato Condanna*
N
%
Rapina o Furto (1) Liti, tensioni razziste o relegiose-politiche(2) Violenza omicidio (3) Omicidio premeditato o su commissione (4) Omicidi di famigliari (5) Stupro- Sesso (6) Pedofilia (7)
158 19 13 47 22 45 10 314
50,32 6,05 4,14 14,97 7,01 14,33 3,18 100
90 80 70 60 50,32 50 40 30 20
14,97
10
6,05
4,14
2
3
14,33 7,01 3,18
0 1
4
161
5
6
7
Tab. 12 Mezzi utilizzati per gli omicidi commessi 100 %
90 80
Mezzi
N
%
70
Armi da fuoco (1) Percosse, corpi contundenti (2) Armi da taglio (3) Annegamento-Incendio (4) TOTALE
176 81 51 6 314
56,05 25,80 16,24 1,91 100
56,05
60 50 40
25,8
30
16,24
20 10
1,91 0 1
2
3
4
Tab. 13 Luogo in cui è stato commesso il delitto 100 %
Luogo
N
%
In casa della vittima (1) In casa dell’assassino (2) Per strada (3) In negozi, uffici, etc. (4) In auto, bus, treno (5) TOTALE
162 17 49 66 20 314
51,59 5,41 15,61 21,02 6,37 100
90 80 70 60 51,59 50 40 30 21,02 15,61
20 10
6,37
5,41
0 1
2
3
4
162
5
Tab. 14 Conseguenze dei delitti commessi: vittime uccise e trend temporale (per quinquennio) degli uccisi/pro capite dei condannati Periodo
Uccisi N
1976-1980 1981-1985 1986-1990 1991-1995 1996-2000 2001-2005 2006-2010 Totale
%
11 12 30 75 104 171 84 487
2,26 2,46 6,16 15,40 21,36 35,11 17,25
Condannati N % 11 5 22 46 72 104 54 314
Uccisi/Condannati
3,00 1,59 7,01 14,65 22,93 33,12 17,20 100
1 2,5 1,36 16,3 1,30 1,64 1,55 1,55
3
2,5
2,5
2 1,64
1,63
1,55
1,5 1,36 1
1,3
1
0,5
0 1976-1980
1981-1985
1986-1990
1991-1995
163
1996-2000
2001-2005
2006-2010
Tab. 15 Relazione tra periodo d'ingresso al penitenziario e razza del condannato
Periodo
Bianchi N
Neri %
N
%
Ispanici e altri * N %
Totale
1976-2000
50
32,0
67
42,94
39
25,0
38
2001-2010
50
31,6
60
37,97
48
30,37
158
100
31,85
127
40,45 87
27,70
314
* altro= asiatici-europei
χ (₂) = 1,304 2
P= 0,52
100 %
90 80 70 60 50
Neri Bianchi
42,94
Ispanici e altri* 37,97
40 32
31,6
30,37
30
25
20 10 0 I+II
III
I+II
164
III
I+II
III
Tab. 16 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario ed età del condannato all’ingresso Periodo
N. soggetti
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
156 158 314
X
ds
27,95 29,64
t di Student
6,90 8,49
1,94
P≠ 0,05
Tab. 17 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario e luogo di nascita del condannato Periodo
Texas N
%
(I) 1976-2000 88 (II) 2001-2010 116 204
56,41 73,42 64,97
Altre Zone USA N % 49 30 79
Altro*
31,41 18,99 25,16
Totale
N
%
19 12 31
12,18 7,59 9,87
χ (₂) = 9,9811 2
156 158 314
P<0,007
100 % 90 Texas
80
73,42
70 60
56,41
50 USA Altre Zone 40 31,41 30 Altro
18,99
20
12,18 7,59
10
165
0 I
II
I
II
I
II
Tab. 18 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario e professione del condannato Periodo
Impiegato/ Artigiano N %
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
49 27 76
31,41 17,09 24,20
Operaio/Contadino N % 100 119 219
Disoccupato/Studente N %
64,10 75,32 69,75
7 2 9
4,49 7,59 6,05
χ (₂) = 9,32 2
Totale 156 158 314
P<0,009
100 % 90 Operaio/Contadino 80
75,32
70
64,1
60 50 Impiegati/Artigiani 40 31,41 30 17,09
20
Disoccupato/Studente 7,59 4,49
10 0 I
II
I
166
II
I
II
Tab. 19 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario e scolarità del condannato Periodo
Livello < 10
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
107 89 196
68,58 56,33 62,42
> 10 49 69 118
Totale 31,42 43,67 37,58
156 158 314
χ (₂) = 4,8436 2
1976-2000
P<0,028
2001-2010
31,42 > 10
> 10
43,67
< 10 < 10
56,33
68,58
100
% 90
80
< 10 70
68,58 56,33
60
> 10 50
43,67
40
31,42 30
20
10
167
0
I
II
I
II
Tab. 20 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario e precedenti condanne subite dal condannato Periodo
Nessuna condanna
1976-2000 2001-2010
75 88 163
48,08 55,70 51,91
1 o più condanne 81 70 151
Totale
51,92 44,30 48,09
156 158 314
χ ( ) = 1,825 2
1
2001-2010
1976-2000
si
P<0,17
no
44,3 48,08
si no
51,92
55,7
100 % 90 80 70 60 50
55,7
51,92
48,08 44,3
40 30 20 10 0
168
Tab. 21 Relazione tra periodo di ingresso al penitenziario e tipo di reato commesso per la condanna capitale
Periodo
Furto/Rapina con omicidio
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
86 72 158
55,13 45,57 50,32
Stupro/Pedofilia omicidi in famiglia 31 46 77
Violenze e omicidi
19,87 29,11 24,52
39 40 79
25,00 25,32 25,16
χ ( ) = 4,1627 2
2
Totale
156 158 314
P<0,125
100
% 90
80
Furto/Rapina
70
60
55,13
50
45,57
40
Stupro/Pedofilia omicidi famigliari Omicidi/Violenze 29,11
30
25,32
25 19,87
20
10
0
I
II
I
169
II
I
II
Tab. 22 Relazione tra periodo e mezzo utilizzato per il delitto Periodo
Armi da fuoco
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
88 88 176
56,41 55,70 56,05
Percosse, mezzi contundenti 35 46 81
22,44 29,11 25,80
Pugnali/Coltelli 28 23 51
17,95 14,56 16,24
χ ( ) = 4,6381 2
3
Fuoco/Acqua 5 1 6
Totale
3,21 0,63 1,91
156 158 314
P<0,20
100 % 90 80 70 60
armi da fuoco
56,41
55,7
50 Percosse
40
29,11
30
pugnali/coltelli
22,44
17,95
20
14,56 fuoco/acqua
10
3,2
0,63
0 I
II
I
II
I
170
II
I
II
Tab. 23 Relazione tra periodo e luogo in cui è avvenuto il reato Periodo
Abitazione della vittima
(I) 1976-2000 (II) 2001-2010
89 73 162
57,05 46,20 51,59
Abitazione dell’assassino 3 12 15
Per strada, negozio, etc.
1,93 7,60 4,78
64 73 137
41,02 46,20 43,63
χ ( ) = 7,559 2
2
Totale 156 158 314
P< 0,02283
100 % 90 80 70 60
abitazione della vittima 57,05 per strada, negozi, etc.
50
46,2
46,2 41,02
40 30 abitazione dell'assassino
20
7,6
10 1,93 0 I
II
I
171
II
I
II
Tab. 24 Relazione tra età al reato e precedenti condanne Età al reato <20 21-30 31-40 >40
Condanne precedenti (no) 56 77 22 8 163
75,68 48,13 33,33 57,87 51,91
χ ( )= 2
3
Condanne precedenti (si) 18 84 44 6 151
26,94
Totale
24,32 51,87 66,67 42,13 48,09
74 160 66 14 314
p<0,0001
100 % 90 no condanne precedenti 80
si condanne precedenti
75,68
66,67
70 57,87
60
51,87 48,13
50
42,13 40
33,33
30
24,32
20 10 0 < 20
21-30
31-40
> 40
< 20
172
21-30
31-40
> 40
Tab. 25 Relazione tra età al reato e tipo di reato Età al reato
<20 21-30 31-40 >40
Furto/Rapina
42 84 26 6 158
56,76 52,50 39,40 42,85 50,32
Stupro/Omicidi Famigliari pedofilia 15 40 20 2 77
Violenze e Omicidi
20,27 25,00 30,30 14,30 24,52
17 36 20 6 79
Totale
22,97 22,50 30,30 42,85 25,16
χ ( ) = 7,567 2
74 160 66 14 314
p= 0,2716
6
100 % 90 80 70 60
Furti/Rapina 56,76 52,5 Violenze e Omicidi
50 42,85 39,4
40
42,85
Stupro/Omicidi Famigliari 30,3
30
30,3
25
22,97 22,5
20,27 20
14,3
10 0
< 20
21-30 31-40 >40
< 20
21-30 31-40 >40
173
< 20
21-30 31-40 >40
Tab. 26 Relazione tra età al reato e mezzo utilizzato per il delitto Età al reato
<20 21-30 31-40 >40
Armi da fuoco
47 91 31 7 176
63,51 56,88 46,97 50,00 56,05
Percosse, mezzi contundenti, fuoco, acqua 15 43 23 6 87
20,27 26,87 34,85 42,85 27,70
χ ( )= 2
6
Pugnali/coltelli
12 26 12 1 51
Totale
16,22 16,25 18,18 7,14 16,25
6,575
74 160 66 14 314
p = 0,3619
100 % 90 80 70
Armi da fuoco
63,51 56,88
60
46,97
50
Percosse
50
42,86 40
Pugnali/coltelli
34,85 26,87
30 20,27 20
16,22 16,25
18,18 7,14
10 0 < 20
21-30 31-40 > 40
< 20
21-30 31-40 > 40
174
< 20
21-30 31-40 > 40
Tab. 27 Relazione tra età al reato e luogo del delitto Età al reato
Abitazione della vittima
<20 21-30 31-40 >40
35 79 36 12 162
47,30 49,38 54,55 85,72 51,59
χ ( )= 2
6
3,34
Abitazione dell’assassino 2 10 3 0 15
2,70 6,25 4,54 / 4,78
P = 0, 155
In strada o in luoghi pubblici 37 71 27 2 137
50,00 44,37 40,91 14,28 43,63
Totale 74 160 66 14 314
Fischer’s Exact Test= 0,186
100 % 90 80
85,72 nell'abitazione della vittima
70 60 50
In strada o in luoghi pubblici
54,55 47,3
50
49,38
44,37 40,91
40 30 nell'abitazione dell'assassino
20
14,28
10
6,25 2,7
0
< 20
21-30 31-40 > 40
< 20
4,54
21-30 31-40
175
< 20
21-30 31-40 > 40
Tab. 28 Relazione tra età al reato e presenza di complici Età al reato
Complici No
<20 21-30 31-40 >40
39 98 48 11 196
Totale si
52,70 61,25 72,72 78,57 62,42
35 62 18 3 118
χ ( ) = 7,618 2
3
47,30 38,75 27,28 21,43 37,58
74 160 66 14 314
P < 0,0546
100 % 90
no 78,57
80 72,72 70
si
61,25 60 52,7 47,3
50
38,75
40
27,28
30
21,43 20 10 0
< 20
21-30
31-40
> 40
< 20
176
21-30
31-40
> 40
Tab. 29 Relazione tra precedenti condanne e tipo di reato Periodo
Furto/Rapina
No Si
80 78 158
49,08 51,66 50,32
Stupro/Omicidi Famigliari 43 34 77
Violenze e Omicidi Premeditati
26,38 22,52 24,52
40 39 79
χ = 0,6322 2
24,54 25,83 25,16
Totale
163 151 314
p<0,72
100 % 90 80 70 Furto/Rapina 60 50
49,08
51,66
40
Stupro/Omicidi Famigliari 26,38
30
22,52
Omicidi/Violenze 24,54
25,83
20 10 0 no
si
no
177
si
no
si
Tab. 30 - a) Relazione tra sesso del condannato ed età al crimine Sesso
N
Maschio Femmina
304 10
Età media 26,55 31,2
ds 0,41 2,95
t di Student
P
T = 1,9951
< 0,05
Tab. 30 - b) Relazione tra sesso del condannato ed età all’ingresso Sesso
N
Maschio Femmina
304 10
Età media 28,67 32,8
ds 0,44 2,80
178
t di Student T = 1,6542 ~ 0,10
Tab. 31 Relazione tra sesso del condannato e tipo di delitto Sesso
Maschio Femmina
Furto/Rapine
153 5 158
50,33 50,00 50,32
Stupro/Omicidio in famiglia 73 4 77
24,01 40,00 24,52
χ ( ) = 1, 953 2
Violenze e Omicidi Premeditati 78 1 79
Totale
25,66 10,00 25,16
304 10 314
p= 0,3767
2
100 % 90 80 70
Furto/Rapina
60 50,33
50
50
Stupro/Omicidio in famiglia 40
40 30
Violenza/Omicidio
25,66
24,01
20 10 10 0
M
F
M
179
F
M
F
Tab. 32 Relazione tra sesso del condannato e mezzo utilizzato Sesso Maschio Femmina
Armi da fuoco 176 0 176
57,89 0 56,05
χ ( )= 2
2
Percosse, mani, fuoco, acqua 81 6 87
26,65 60,00 27,71
13,26
p<0,001
Pugnali/coltelli 47 4 51
Totale
15,46 40,00 16,24
304 10 314
Fischer’s Exact Test= <0,0001
100 % 90 80 70 60
Percosse, mani, etc.
Armi da fuoco
Pugnali/coltelli
60
57,89
50 40 40 26,65
30 20
15,46
10 0 0
M
F
M
180
F
M
F
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"Gli Stati Uniti sono arrivati al punto in cui c'è rispetto ZERO per la vita umana. La mia morte è solo il sintomo di una più grande malattia...” James Beathard, giustiziato il 9/12/1999
"Per 17 anni il Procuratore Generale ha perseguitato l'uomo sbagliato. Un giorno verrà a saperlo. Non voglio che la mia morte sia vendicata, da nessuno. Invece, voglio che smettiate di uccidere la gente". Thomas L. Thompson, California, giustiziato il 14/7/1998
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