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«CATTIVA PSICHIATRIA» a cura di G. Bonanno
«Dalla parte della Scienza» riportiamo le considerazioni scientifiche di uno psichiatra. (1) “Psichiatri stregoni del XXI secolo”. In fondo in fondo Migone, sculacciando la casta degli psichiatri, si limita appena alla polvere superficiale. La Psichiatria? Una forma di malpractice. “Una storia di abuso, di maltrattamenti (...) degli... psichiatri!”. Tutti prescrivono molti farmaci. Anche il santo cattedratico della Toscana prescrive molti farmaci. “Ho visto altri pazienti simili a questo, ‘maltrattati’ dalla psichiatria, e ho ragione di credere che questo modo di fare psichiatria sia abbastanza diffuso.” I migliori psichiatri sono quelli che trattano peggio i pazienti. Psichiatri stregoni senza cultura psichiatrica. Solo farmaci e omissione della ricerca scientifica internazionale. Mistificazioni delle case farmaceutiche. I neurolettici di “ultima generazione” pozioni di uno stregone, placebo. Antidepressivi poco efficaci. Quella che si basa solo sui farmaci non è una psichiatria scientifica. L’importanza della terapia della parola e della relazione empatica nella guarigione. È sempre possibile una graduale sospensione degli psicofarmaci. Informatori scientifici che nascondono proprio le informazioni scientifiche. Forse che tutti sono condizionati dai soldi delle case farmaceutiche e dal calcolo costibenefici? Perché la Psichiatria è “cattiva psichiatria”. Nemmeno un antipsichiatra. Peccato che la psicoterapia sia un intervento “umano” misurabile in ore di lavoro da remunerare. All’odore del denaro non resiste nemmeno l’intervento “umano” della psicoterapia. In fondo in fondo Migone rimane in una logica delle Utilità. Dopo tutto una critica mancata.
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«La “cattiva psichiatria” Paolo Migone
So benissimo che dal racconto di casi singoli è pericoloso trarre, per induzione, conclusioni generali, è però anche vero che storie di singoli pazienti possono far riflettere, ci permettono di costruire ipotesi a volte interessanti. Hanno cioè un importante valore euristico. È’ da un po’ di tempo, ad esempio, che rifletto su un modo molto diffuso di praticare la psichiatria che a mio parere può considerarsi quasi una forma di malpractice, cioè un modo scorretto, anche da un punto di vista scientifico, di aiutare i pazienti che soffrono per problemi psicologici (…). Tempo fa riflettevo su un paziente che si era rivolto a me con alle spalle una storia tipica di vari altri pazienti che ho visto, una storia per così dire di abuso, di maltrattamenti, ma non da parte dei familiari bensì, per così dire, degli… psichiatri! Questo paziente era stato visto da parecchi colleghi, accademici e non, chiaramente i maggiorenti della zona; tutti gli avevano prescritto molti farmaci, ma nessuno gli aveva parlato approfonditamente, nessuno l’aveva ascoltato con un po’ di pazienza. Anche lui poi, come fanno tanti, si era rassegnato ad andare in “pellegrinaggio” in una città toscana alla ricerca della migliore terapia che apparente-
mente il mercato potesse offrire, dove però era stato visto per pochi minuti, e neanche dal cattedratico ma da un’assistente che aveva redatto una scheda su di lui, e in seguito, quasi come in una catena di montaggio, il cattedratico l’aveva incontrato rapidamente senza quasi guardarlo in faccia e gli aveva prescritto molti farmaci. Questo lungo iter terapeutico si è evoluto in un continuo e lento peggioramento, per concludersi con due tentativi di suicidio. Pare che nessuno dei tanti e validi colleghi che l’aveva visto sia stato capace di venire incontro ai suoi bisogni, a capirli. Ho visto altri pazienti simili a questo, “maltrattati” dalla psichiatria, e ho ragione di credere che questo modo di fare psichiatria sia abbastanza diffuso. Sono soprattutto i gravi disturbi di personalità quelli che mettono in scacco l’efficienza di questa psichiatria. Sembra di assistere a un fenomeno paradossale, nel senso che i nostri migliori psichiatri, i cattedratici, quelli che hanno responsabilità nella formazione dei giovani, che sono più gravi; aggiornati, che scrivono sulle riviste del settore, che parlano ai congressi e sono autori di manuali di psichiatria, ecc., sono pro-
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prio quelli che trattano peggio i pazienti; pare non sappiano, per così dire, cosa sia la psichiatria, soprattutto quando si tratta di disturbi di personalità e in molti casi anche di disturbi depressivi. Quando dico che “maltrattano” i pazienti intendo dire che danno solo farmaci, come fossero il solo fattore terapeutico, in un modo ignorante perché trascurano il semplice fatto che tutta la ricerca scientifica internazionale dimostra invece la grande importanza della relazione interpersonale come agente della cura. Quello che io ho fatto a questo paziente è stato semplicemente di ascoltarlo, farlo parlare a lungo di sé, cercare di ricostruire la sua storia di vita, di dare un senso alla sua sofferenza. Certo, per fare psicoterapia occorre molto tempo, almeno un incontro alla settimana per alcuni mesi o anni, ma il risultato è superiore e forse anche – come vedremo dopo – meno costoso della somministrazione farmacologica (ovviamente possono essere dati anche i farmaci, ma quello che voglio dire è che è scorretto fare leva solo su quelli). Questo paziente tra l’altro era gravemente disturbato, aveva un disturbo della personalità per il quale i farmaci che gli avevano prescritto servivano veramente a poco, erano basati su certe mistificazioni propagandate dalle case farmaceutiche alle quali tanti colleghi credono, come fossero piccoli “deliri psicofarmacologici” che razionalizzano tutto il comportamento e il senso della vita di una persona. I famosi neurolettici di “ultima generazione” (con cui era stato imbottito, assieme ad antidepressivi, ansiolitici, ecc., in un grande cocktail) appaiono come pozioni di uno stregone, cioè placebo, se si pensa alla gravità della sua
patologia di personalità che implicava una notevole immaturità affettiva, una incapacità di capire se stesso e gli altri, una saltuaria impulsività, tratti istrionici molto marcati, rapide oscillazioni dell’umore, alcuni furti a persone care di cui poi si vergognava e si sentiva in dovere di restituire i soldi che aveva preso, ecc. Per fare un esempio della gravità di alcuni suoi sintomi, aveva l’impulso di andare a tutti i costi sotto casa dell’ultima donna che l’aveva lasciato e rigare con un punteruolo la sua macchina, gesto che aveva già fatto in passato e per il quale vi erano state anche conseguenze legali. Il mio intervento per questo suo sintomo fu molto semplice, e ve lo descrivo per dare una idea di cosa può voler dire fare psicoterapia in questi casi. Gli dissi: “Io capisco bene la ragione dei suoi impulsi e il suo problema nel regolarli, ma facciamo una cosa, lei deve promettermi che la prossima volta che ha questo impulso, prima di farlo aspetta un’ora di orologio. Se dopo un’ora sente ancora la voglia irrefrenabile di farlo, mi telefoni, ne parleremo e decideremo cosa fare. Io non posso impedirle di fare quel gesto, ma le chiedo solo di aspettare un’ora, poi vedremo cosa succederà e ne riparleremo”. Il paziente non fece più gesti di questo tipo, né mi telefonò. Mi disse poi: “Sa dottore, davvero non ci avevo mai pensato che si può aspettare prima di fare qualcosa, nessuno me lo aveva mai detto”. Con questo semplice intervento, ben noto sia ai comportamentisti (si pensi alla teoria dell’apprendimento) che agli psicoanalisti (si pensi ai noti concetti freudiani di “dilazione della scarica”, di “regolazione degli affetti”, di “funzioni
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dell’Io”, ecc.), il paziente imparò a regolare maggiormente la sua impulsività così che non dovette poi vergognarsi dei suoi gesti, pagarne i danni, ecc. L’humus in cui si radicavano questi sintomi era, manco a dirlo, una bassissima funzione riflessiva, che gli derivava tra le altre cose dall’ambiente familiare in cui era vissuto, estremamente povero psicologicamente e culturalmente anche se ricco economicamente (per dare una sola idea di quanto i familiari fossero poco capaci di capire i suoi bisogni, basti dire che una volta lo portarono con un inganno persino da un esorcista, al quale per fortuna lui seppe ribellarsi scappando dalla chiesa a gambe levate). Di fronte alla gravità e complessità di questa patologia di personalità, i farmaci che riceveva erano come gocce nel mare, eppure venivano considerai l’intervento specialistico migliore da tutti quegli psichiatri che l’avevano visitato. Nessuno aveva pensato che poteva giovargli una psicoterapia, e questo di per sé è un fatto abbastanza impressionante che rivela la mancanza di cultura “psichiatrica” da parte di tutti quegli psichiatri-stregoni del XXI secolo che lo avevano visitato prima. Con lui io feci come ho fatto con molti casi di questo genere, “reduci” dal fronte della psichiatria: all’interno di una buona relazione psicoterapeutica, diminuisco i farmaci molto lentamente, uno alla volta (mai due per volta perché altrimenti diventa difficile capire cosa può causare un eventuale peggioramento); nel giro di sei mesi o un anno o a volte anche due anni li tolgo tutti, e quasi sempre osservo che parallelamente alla diminuzione dei farmaci il paziente sta molto meglio, rinasce, fino ad arrivare, dopo
qualche anno di terapia (monosettimanale o bisettimanale, dipende dalle capacità economiche, nel suo caso fu bisettimanale), a un netto e stabile miglioramento, con la interiorizzazione di certe funzioni psicologiche (come la capacità a capire un po’ meglio se stesso e a prevenire l’insorgenza di certi sintomi o comportamenti patologici). Naturalmente non diminuisco i farmaci con tutti i pazienti, ma con quelli in cui mi sembra siano inutili (come ho detto, soprattutto in certi disturbi di personalità, e anche in quelle depressioni “caratterologiche”, cioè depressioni in pazienti con disturbi di personalità, quasi regolarmente curate con antidepressivi che non a caso sono in questi casi poco efficaci), mentre per altri pazienti, ad esempio psicotici, può essere pericoloso toglierli (a volte provo a diminuirli, a vedere quale è la dose minima di cui hanno bisogno, e in certi casi di episodi psicotici acuti possono essere tolti se il paziente viene seguito anche con una psicoterapia). Mi viene in mente adesso un altro caso simile, una ragazza molto intelligente che fu diagnosticata addirittura come “psicotica” (questa era solo una delle varie diagnosi ricevute, aveva sintomi plurimi non facili da inquadrare, cioè un grave disturbo di personalità), che era stata ricoverata più volte nei reparti psichiatrici della zona, e che era venuta da me carica di neurolettici e ansiolitici dopo aver peregrinato da vari psichiatri senza trarre giovamento. Sarebbe lungo qui raccontare la storia dettagliata di questa paziente, ricordo che ad esempio soffriva di crisi dissociative, definite anche “isteriche”, in cui si chiudeva per giorni in casa e non voleva vedere nessuno, a volte era violenta, si
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tagliava la pelle con delle forbici o delle lamette, e così via. Ricordo anche che ebbi subito una forte simpatia e stima per lei, e che il nostro rapporto terapeutico durò vari anni, sempre senza farmaci dopo che glieli avevo scalati lentamente durante i primi undici mesi con grande giovamento per lei. La mia netta sensazione fu che era migliorata grazie al rapporto affettivo con me, in cui si era aperta sempre di più, con una crescente fiducia. Era terrorizzata dalla sessualità, non aveva mai avuto fidanzati o rapporti con uomini, la mamma era morta da tempo e lei viveva sola col padre che era un uomo violento e poco capace di capirla (aveva persino ricevuto varie denunce per aver picchiato delle persone). Provenivano da un piccolo e isolato paese dell’Appennino, e ricordo che mi raccontava con grande angoscia di varie storie di incesto che erano avvenute in quel paese, di cui tutti erano a conoscenza (padri con figlie, fratelli che convivevano, ecc. – più che queste storie fossero vere o no, per me ovviamente era importante il fatto che esse occupassero molto i suoi pensieri, ritengo comunque che fossero vere). Non solo non aveva mai avuto rapporti con uomini, ma neppure aveva avuto sensazioni di piacere sessuale, neanche da sola. Il suo miglioramento fu tale che ad un certo punto si fidanzò con un ragazzo del suo paese, il quale era emigrato all’estero (entrambi tornavano al paese durante le vacanze estive, era lì che avevano cominciato a frequentarsi), ed ebbe dei rapporti sessuali, prima senza alcun godimento o sensazione, poi anche provando piacere. Riuscendo a vincere una forte opposizione del padre, andarono ad abitare insieme, e trovò un
equilibrio che mai aveva sperimentato in vita sua. La mia netta sensazione fu che questa paziente migliorò essenzialmente per lo spazio di comprensione che aveva avuto con me, per il fatto che riusciva a buttare fuori, raccontandomele, tutte le angosce che aveva, le storie che le facevano paura, trasformandole e ritrovando gradualmente un senso (proprio come secondo il classico modello freudiano della “cura della parola”). Forse migliorò anche perché sentiva che mi trovavo bene con lei, dato che, come ho detto prima, provavo una forte stima e simpatia per questa paziente. Era un piacere per me passare il tempo in sua compagnia, e attendevo il giorno della sua seduta. Trattare i pazienti in psicoterapia è abbastanza facile se il terapeuta ha ricevuto un buon training, ma richiede tempo (e a volte anche fatica nel caso di pazienti difficili). Il costo del tempo può sembrare il vero problema, infatti la psicoterapia non è affatto un intervento “tecnologico”, ma “umano”, misurabile in ore di lavoro da remunerare e in certi casi (non tutti) abbastanza impegnative a livello emotivo. Non a caso la psicoterapia viene sempre più relegata alle professioni non mediche (…). I medici preferiscono arroccarsi in un ruolo più tecnico, specialistico, e quindi più remunerativo in termini di costo orario, illudendosi che la questione della psichiatria possa risolversi nella prescrizione farmacologica (un po’ come per la dermatologia e le altre specialità mediche, che permettono maggiori guadagni perché la visita può durare solo pochi muniti e costare molto più di una seduta di psicoterapia, per cui il guadagno orario è altamente superiore). Se questa logica
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più funzionare per certe specialità mediche, dove in effetti vi è tutta una strumentazione sofisticata e altamente tecnologica (si pensi alla chirurgia, all’oculistica, ecc.), è una mistificazione pensare che, tranne rari casi, questa logica valga anche per la psicoterapia, che in un certo senso consiste in un training “umano”, di “crescita emozionale”, e non in un intervento rapido ad alta tecnologia. Costano di più le psicoterapie o i farmaci? Se è vero però che la psicoterapia richiede tempo e denaro misurabile in ore di lavoro, molti nostri colleghi continuano a ignorare che la ricerca scientifica ha dimostrato in modo inequivocabile che per molti disturbi, ad esempio per la depressione maggiore, l’efficacia della psicoterapia è nettamente superiore a quella dei farmaci. Non possiamo certo aspettarci che queste informazioni vengano divulgate dagli “informatori scientifici” delle case farmaceutiche, il cui obiettivo, per certi versi comprensibile, è proprio quello di occultare questo tipo di informazioni privilegiandone altre, e che rappresentano purtroppo buona parte della “educazione continua in medicina” che oggi ricevono i medici. Ma anche ai convegni spesso viene data una informazione distorta a causa dei condizionamenti delle case farmaceutiche, che oggi sono le sole che permettono la sopravvivenza stessa dei convegni (tanto è vero che ricordo che alcuni anni fa un importante congresso nazionale di psichiatria fu cancellato appunto per la mancanza di supporto delle case farmaceutiche). Per non parlare delle riviste del settore, la
cui esistenza dipende quasi interamente dalla pubblicità e dai finanziamenti delle case farmaceutiche, per cui i condizionamenti sono ovvi. In un articolo pubblicato sul n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane riportavo i risultati della ricerca di uno psicologo americano che dimostrava che i farmaci antidepressivi (gli SSRI, cioè gli “inibitori selettivi del reuptake della serotonina”, quelli che costano molto e che oggi vengono largamente prescritti anche perché mutuabili) sono poco efficaci, di pochissimo superiori al placebo (in modo statisticamente ma non clinicamente significativo); questo articolo (Migone, 2005), che a mio parere riportava dati di estremo interesse, uscì solo su Psicoterapia e Scienze Umane, che guarda caso è una delle poche riviste italiane che come precisa scelta non riceve finanziamenti di alcun tipo, né pubblici né privati, reggendosi solo sugli abbonamenti (e in America l’articolo di cui riportavo i dati era uscito in una rivista di psicologia, non di psichiatria, per di più una rivista telematica dell’American Psychological Association, ed essa stessa dovette essere chiusa due anni dopo perché era troppo costoso mantenerla, nonostante fosso solo su Internet per cui i costi erano già ridotti al minimo). A parte queste considerazioni, è molto diffuso oggi anche un altro luogo comune che andrebbe in parte rivisto, e cioè che la psicoterapia costa di più dei farmaci. Varie ricerche hanno dimostrato il grande risparmio economico, in termini di costi-benefici, della psicoterapia dei disturbi di personalità se paragonata alla terapia di routine, ad esempio per la diminuzione delle spese sanitarie (ricoveri, medicine, esami speciali-
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stici, ecc.) (…). Ad esempio Gabbard (…) sottolinea che in uno studio della Linehan et al. (1991) su pazienti borderline i giorni di ricovero dei pazienti trattati in psicoterapia erano stati in media 8,46 all’anno, paragonati ai 38,86 giorni di ricovero all’anno per i pazienti del gruppo di controllo; inoltre nel gruppo trattato con psicoterapia si era abbassato notevolmente il numero di automutilazioni, per cui è stato calcolato che la psicoterapia può far risparmiare circa 10.000 dollari all’anno per paziente (per una discussione sulla tecnica della Linehan per i borderline, rimando al mio articolo sul n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane: Migone, 2005). Simili risultati sono stati trovati anche dallo studio australiano di Stevenson & Meares (1992, 1999) sulla efficacia della terapia psicodinamica per pazienti borderline, dove è stato dimostrato che la terapia ha ridotto di metà le spese di ospedalizzazione: nell’anno precedente alla psicoterapia i costi di ospedalizzazione di un campione di 30 pazienti erano stati di 684.346 dollari australiani, con un range che andava da 0 a 143.756 dollari per paziente, mentre nell’anno successivo alla psicoterapia i costi di ospedalizzazione erano stati di 41.424 dollari australiani, con un range che andava da 0 a 12.333 dollari per paziente, quindi con un risparmio medio di 21.431 dollari all’anno per paziente. Se si calcola che una psicoterapia costa 13.000 dollari all’anno per paziente, il risparmio sarebbe di 8.431 dollari all’anno per paziente. Altri studi, ad esempio quello di Bateman & Fonagy (1999, 2000, 2003, 2006, 2008) sul “trattamento basato sulla mentalizzazione” (MBT: Bateman & Fonagy, 2004) per i borderline non han-
no fatto calcoli così precisi, ma è probabile che la bilancia costi-benefici sia simile. La identità debole della psichiatria italiana Per tornare alle considerazioni che facevo all’inizio, e cioè a un diffuso modo di praticare la psichiatria in termini non scientifici, basandosi solo sull’uso di farmaci, ci si può chiedere come mai si sia arrivati a questo punto. Un motivo ci deve essere se sono stati fatti progressi in diverse specialità mediche ma poco in psichiatria, dove è frequente quella pratica che, in modo provocatorio, ho chiamato “cattiva psichiatria”. A mio modo di vedere le cause possono essere rintracciate nella storia della psichiatria italiana, tradizionalmente priva di quella cultura psicodinamica e interpersonale che ad esempio vi è stata negli Stati Uniti, dove la diffusione della psicoanalisi è avvenuta ai primi decenni del Novecento mentre da noi solo a cavallo degli anni 1970, con circa mezzo secolo di ritardo (si pensi che Sullivan scrisse i suoi primi lavori negli anni 1920). In America, dove ho lavorato alcuni anni, ho potuto vedere un tipo di pratica psichiatria ben diversa, dove ad esempio lo psichiatra è abituato a parlare di più col paziente, ad ascoltarlo attentamente, a fare visite che assomigliano a “sedute”, cioè incontri settimanali per seguirlo a lungo, non una volta ogni qualche mese. Almeno nell’ambiente che ho conosciuto io, lo psichiatra passa più tempo col paziente, non gli prescrive solo farmaci. Il ritardo culturale della psichiatria italiana è anche legato al fatto che da noi la psichiatria si è scorporata dalla
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neurologia molto tardi, e i primi cattedratici erano ex-neurologi [e poi (…) quelli che andavano a dirigere i manicomi erano coloro che fallivano la carriera accademica in neurologia, cioè spesso erano i meno motivati, essendo la psichiatria considerata una disciplina meno prestigiosa della neurologia, di “seconda scelta”]. Tanti cattedratici di psichiatria italiani quindi sono stati notevolmente ignoranti in psicoterapia, eppure questa doveva rientrare nel bagaglio di conoscenze dei giovani psichiatri che loro dovevano formare. Non a caso, la formazione in psicoterapia (per non parlare della psicoanalisi, che però allora praticamente si identificava con la psicoterapia non essendo ancora nate le varie scuole di psicoterapia) si è diffusa prevalentemente nel privato, fuori alle università che non erano culturalmente equipaggiate a formare in psicoterapia (furono allora alcune case editrici a dare importanti strumenti di aggiornamento, ad esempio la Feltrinelli e la Boringhieri, le cui collane erano nate assieme alla rivista Psicoterapia e Scienze Umane, con un progetto unitario di Pier Francesco Galli che appunto si proponeva di svecchiare la cultura psichiatrica e psicoterapeutica italiane). (…).» (2)
65-72; http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsi ter/ruoloter/rt110-09.htm. 2
- Per la bibliografia completa, che la Redazione ha sospeso tra parentesi per una lettura più sciolta, fare riferimento a: Dalle Rubriche di Paolo Magone, “Problemi di Psicoterapia - Alla ricerca del ‘vero meccanismo d’azione’ della psicoterapia” pubblicate sulla rivista Il Ruolo Terapeutico dal 1987, al sito: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsi ter/ruoloter/rt110-09.htm.
(17/07/2010)
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- Paolo Migone è uno psichiatra, psicoanalista e docente universitario italiano. Vive e lavora a Parma. Si è formato prima in Italia, e poi negli Stati Uniti, nell'ambito della psicoterapia ad orientamento psicodinamico. Docente in diverse Università italiane (Parma, Università di Bologna, Aosta, San Raffaele di Milano), è attualmente il Direttore responsabile della rivista trimestrale "Psicoterapia e Scienze Umane". Dal Curriculum Vitae del dr. Paolo Migone, http://www.giulemanidaibambini.org/doc/CV_P aoloMigone.pdf. La “Cattiva psichiatria”, di Paolo Magone, in Il Ruolo Terapeutico, 2009, 110: Contraria-Mente/Appunti fuoriluogo e fuori cartella
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