&
casamorbida altro abito artista
Accademia di Belle Arti di Firenze A.A. 2004/2005 casamorbida altro abito artista
&
Tesi di Giovanna Nicosia in Storia dell‘Arte Cattedra Prof.ssa Giuliana Videtta/Laura Vecere Relatrice Laura Vecere Scuola di Pittura Umberto Borella/Giovanna Fezzi
INDICE Casamorbida&altro Introduzione abito&artista Esordi Giacomo Balla
“TUTTI IN TUTA” Thayaht Rodchenko Tatlin Stepanova Archizoom Laurie Anderson Lucy Orta
ABITO COME PERFORMANCE SOCIALE Lygia Clark Helio Oiticica Maria Nordman Shirin Neshat Mariko Mori
ABITARE IL CORPO Rebecca Horn Louise Bourgeois Marina Abramovic Vanessa Beecroft
IN-VESTITURA Gilbert&George Joseph Beuys Remo Salvadori
Casamorbida&altro Introduzione
Casamorbida&altro nasce come un quaderno di ricerca che in questo caso si apre al confronto di due termini, abito&artista. L’analisi parte dai primi del Novecento fino ai giorni nostri e gli artisti che tracceranno questo percorso si caratterizzano per il loro particolare legame con l’abito. Ci accorgeremo, inoltre che, pur parlando di abbigliamento, il fenomeno “moda” rimarrà sempre lontano dal nostro discorso, perché gli abiti qui proposti sono più dei “costumi” abbastanza stabili nel tempo che non vogliono diventare maniacali forme camaleontiche per ingannare il tempo. Vedremo come un abito possa diventare il luogo di un‘espressione di desiderio individuale oltre che collettivo: un barometro del cambiamento che interpreta stimoli di identità - Rebecca Horn - e di sessualità - Louise Bourgeois - si compenetra con la tecnologia - Lucy Orta - la scienza - Tatlin - e il commercio - Mariko Mori. Un abito sarà sinonimo di stile, tramite esso ogni artista emergerà per un atteggiamento in particolare, un modo di pensare o perfino un’ideologia. L’abito è essenzialmente qualcosa che riesce sempre a fare “da ponte” tra un io e l’altro. In questo caso tra l’artista e la società (più o meno allargata) o tra l’artista e il suo alter ego. Infatti troveremo casi in cui un artista, quasi come per una liturgia, indossi un particolare abito soltanto per un giorno - la tuta bianco/nera di Remo Salvadori - o che assuma quotidianamente (in arte e in vita) un abito che ha l’equivalente in uno status di coerenza e responsabilità - l’abito di Gilbert&George - o addirittura in uno status dirompente e dissacrante - l’abito anti-neutrale di Balla. Ci saranno casi in cui un abito assumerà dei connotati “curativi ed energetici” da proporre direttamente ad un pubblico - Lygia Clark e Marina Abramovic - o casi che ci introdurranno nelle tradizioni di altre culture per s-velarci nuove visioni del corpo tra un mondo maschile e un mondo femminile - lo chador di Shirin Neshat. Emergerà la figura composta di un maestro più che la figura di un ‘soldato dell’esercito dell’opulenza’? Sarà allora come dice Francesco Bonami che la moda ha i suoi eserciti e l’arte i suoi disertori?
abito&artista
Esordi... Il Futurismo L’Arte nella vita quotidiana. L’ Italia, nel periodo compreso fra gli ultimi anni dell’Ottocento e lo scoppio della Prima guerra mondiale, è caratterizzata da un notevole sviluppo economico-industriale. Le scoperte scientifiche e tecnologiche non solo portano nuovi impulsi alla produzione, ma contribuiscono a cambiare il volto della società, che assume un aspetto decisamente moderno con la diffusione del motore a scoppio, dell’elettricità, l’ampliamento dei trasporti, l’utilizzo del telegrafo senza fili, del telefono e della nascita del cinema1.Dal punto di vista artistico, l’Italia si trova in grande ritardo rispetto alle ricerche pittoriche europee2. La rimessa in scena avviene soltanto nel 1909 con il Futurismo, primo movimento artistico organizzato secondo un programma di precisi progetti teorici, che in modo polemico e aggressivo, e con chiari riferimenti al progresso scientifico, tende al rinnovamento totale della società. Il teorico del movimento, nonché autore del Manifesto del Futurismo, è Filippo Tommaso Marinetti, che già nei primi mesi del 1910 a Milano, entra in contatto con giovani pittori, per lo più autodidatti e «stretti dalle difficoltà economiche di un apprendistato reso ancora più severo da un mercato asfittico per carenza di acquirenti e di occasioni espositive»3. I pittori che aderiranno al Futurismo (Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla), stilano ben presto Il Manifesto dei pittori futuristi, datato 11 febbraio 1910, che viene presentato l’8 marzo al pubblico, in una serata al Teatro Chiarella di Torino. «Stanato da accademie e da musei, luoghi adatti alla “passatistica” meditazione contemplativa», il futurista, deve essere in grado di adattarsi alla nuova civiltà delle macchine, «lasciandosi coraggiosamente ed entusiasticamente contagiare dai flussi veloci della moderna città industriale, della cui inedita estetica deve farsi scopritore e rivalutatore senza alcuna preclusione di campo. Con l’ “Arte-Azione” proposta dall’ideologia totalizzante del futurismo marinettiano, l’intervento artistico entra dunque prepotentemente nella vita, condizionando gli stessi comportamenti quotidiani: non la dannunziana “vita come opera d’arte”, ma l’ “Arte-Vita”, cioè la possibilità per l’invenzione fantastica e originale dell’artista di intervenire direttamente sull’oggetto, sull’ambiente, sui gesti quotidiani»4. Infatti sono i futuristi «a proporre agli inizi del secolo, un salto scalare che incrina le strutture monolitiche e ridotte del quadro e della scultura per includere il contesto ambientale»5. In tal senso «il Futurismo va definito come il primo movimento di avanguardia provvisto di un’ideologia globale, artistica ed extrartistica, abbracciante i vari campi dell’esperienza umana, dalla letteratura alle arti figurative e alla musica, dal costume alla morale e alla politica»6. La nascita dell’abito d’artista. È interessante notare come «le famose foto ufficiali di gruppo dei futuristi», così come molte caricature, «risalenti all’epoca delle “serate” e degli iniziali assalti ai teatri nei primi anni Dieci, mostrano, quasi fosse la divisa del movimento, fogge d’abito uniformi, di un’appuntabile serietà e decoro: completo scuro, camicia bianca con colletto inamidato e con cravatta a nodo o a farfalla francese (nel caso di Marinetti), scarpe nere a stringa, cappello in tinta, talora i guanti o per qualcuno il bastone da passeggio. Accessorio, per Marinetti immancabile, la sigaretta accesa fra le labbra o fra le dita. Un abbigliamento dunque, per niente eccentrico o stravagante, ma anzi convenzionalmente borghese, cittadino, che nel caso delle “serate” teatrali diventa costume di scena fisso per i futuristi»7. Ad esempio, il 5 febbraio 1921, la mostra di Parigi presso la Galleria Bernheim-Jeune, più che successo ottiene «un clamore di scandalo e il favore della novità»: i pittori che partecipano di persona all’evento parigino, quali Severini, Boccioni, Carrà, Russolo e Marinetti, si distinguono per il loro «giro di pubbliche relazioni, anche mondane, con l’emozione e gli abiti inappuntabili dei neofiti di successo»8. Secondo Maria Mimita Lamberti i futuristi sentono come la necessità di prendere le distanze dalla poetica dell’artista bohémien: Le foto dei futuristi a Parigi testimoniano un abbigliamento molto formale, da artisti mondanamente arrivati, che segnala visivamente e sul piano del costume un voluto distacco da una bohéme assai ravvicinata e da una carenza di mezzi ancora reale, Boccioni e Severini, che davano molta importanza al vestire, avevano adottato per ragioni economiche l’abito anarchico, con mantello e feltro, negli anni romani [Severini, Tutta la vita, p. 25], così come a Parigi Boccioni nel 1906 vestirà di buon grado la mise di velluto degli operai e degli artisti a sole 15 lire [Boccioni, Tutti gli scritti editi e inediti, pp. 335-36] e Severini dirà di aver odiato l’uniforme da bohémien, ma di preferire quella «bizzarria all’abito fatto orribile e rivelatore della miseria» [Severini, Tutta la vita, p. 39]. Sull’abito come segno di classe, e l’obsolescenza del modello dell’artista maledetto di fine secolo, ancora Severini si dimostra molto acuto segnalando l’antipatia sua e di Picasso per la «bohéme romantica alla Mürger, con capelli lunghi ecc.»: «eravamo, è vero, anche noi dei Bohémes, ma del nostro tempo, in tuta bleu o marrone, “casquette” ecc.; o magari “complet-veston” e “chapeau-melon”. Vi fu un momento in cui io non possedei che una tuta, con scarpe di corda dette “espadrilles”, e uno smoking, con i relativi scarpini di “soirée” [ibid., p. 90]9. Di questa iniziale “provocatoria esibizione di eleganza distaccata” futurista, ce ne parla pure il poeta Francesco Cangiullo10:
Finalmente la tela salì e il velario si ritirò metà a destra e metà a sinistra, tra la baraonda infernale, esponendo al bersaglio di una sala spaventosa i sette esemplari elegantissimi: Marinetti in stiffelius, magro, fiero, in primo piano; Palazzeschi biondo, in frac nero e panciotto azzurro; Boccioni in blusa; l’atletico Mazza in coda di rondine; Russolo, Altomare e Carrà in smoking. (Bello Dalmazio! ). A tale apparizione lo schiamazzo del pubblico, pigiatissimo e asfissiato, infierì con rabbuffi gratteschi, inconcepibili. Sembravano ammassi di mandrie di vacche e tori innanzi alla cappa rossa. Eretto e sorridente, il condottiero guardava dalla ribalta lo spettacolo, con occhio di stratega che si compiace. Nelle serate futuriste chi veramente dava spettacolo, facendo buffissima mostra di sé, era il pubblico. Ed ora, gli apostoli, un pò diversi da quelli della “cena” di Leonardo, si scambiavano qualche commento11. È evidente come, per Marinetti, il frac o lo smoking diventa l’abbigliamento preferito per le esibizioni pubbliche, come una sorta di uniforme adatta al «“disumanizzato” declamatore parolibero futurista»12. Un’altra giustificazione ci viene data da Marinetti stesso, quando, durante un’intervista in occasione della tournée del Teatro della sorpresa13, dice: «Mi presento in frac non per rispetto al pubblico ma per il rispetto al caffè-concerto, che è l’unica cosa rispettabile della vita»14. Ciononostante, Marinetti si concede alla bizzarria di indossare uno sgargiante panciotto di casa Depero15 , e di suggerire, come nel caso del Teatro di Varietà, l’introduzione di stravaganti elementi d’abbigliamento16. Se da una parte l’abito-divisa marinettiano rappresenta «l’anima macchinolatrica» del Futurismo, dall’altra entra in contrasto con chi, in quel momento, si propone in maniera più ludica ed entusiasta, come Giacomo Balla, o come Thayaht, anche se in temini più funzionali. I precedenti nell’Art Nouveau e nella Secessione Viennese. Prima di introdurre le sperimentazioni di Balla e Thayhat nel campo dell’abbigliamento, è da notare quali altre tendenze caratterizzano la moda corrente che tra l’altro prende le distanze da quell’ aspetto “desolante, funerario e deprimente”17 del costume borghese, da sempre modello di riferimento. Nella prima metà dell’Ottocento, l’abito è l’uomo sociale, serve a comunicare il proprio ruolo e status. Ma prima di tutto, vestirsi assume un’importanza primaria in quanto «l’uomo si veste prima di agire, di parlare, di camminare, di mangiare»18. «La scelta dell’abito appropriato non è ancora eleganza, ma è comunque una forma di buona educazione e di maniere adeguate»19. Nero e bianco sono i soli colori ammessi nella vita pubblica, specilamente per gli abiti maschili; è forse per questo che Baudelaire paragonerà i suoi contemporanei a tanti becchini20. L’abito femminile assume, invece, una valenza simbolica: comunicare le virtù di chi lo indossa. Anche se con un corpo occultato da un abito rigidissimo (fatto di corsetti e crinoline), le donne devono dimostrare di essere caste e virtuose, «degne del compito di formare una famiglia e allevare dei figli, essere semplici ed economiche per non mettere in crisi il patrimonio familiare, essere disinteressate alla vita pubblica, sia polica sia economica»21. Per raggiungere la liberazione del corpo (anche se ancora solo in ambito femminile) dalla schiavitù del busto e dell’abito pesante, dobbiamo aspettare gli inizi del XX secolo, quando diversi modelli ideologici, di volta in volta, terranno conto degli aspetti salutisti, naturali o estetici del vestire. Il filone più fecondo è stato quello di matrice estetica che interessa alla moda diversi artisti. Con l’esatto scopo di ridiscutere i modelli che la nuova società capitalistica e industriale stava cambiando, i Preraffaelliti, già alla fine degli anni quaranta, creano abiti adatti al loro tipo di pittura: indumenti morbidi che possono essere drappeggiati sul corpo al modo delle vesti delle madonne quattrocentesche22. Nel più puro gusto Art Nouveau, sono note anche le ricerche di Henry Van de Velde e della moglie Maria Sèthe (sposata nel 1894). Insieme portano avanti una sorta di crociata, in Austria e in Germania, per una riforma dell’abbigliamento femminile. Essa consiste nell’affermazione del miglioramento delle condizioni di lavoro, maschile e femminile, e nella liberazione dai condizionamenti del consumistico mercato della moda, in prospettiva di un abito più pratico, igienico e soprattutto essenziale.Nel giro di pochi decenni, il progetto di riforma del modello culturale borghese ottocentesco, proposto da Henry Van de Velde, comincia a diffondersi in tutta Europa. La rivoluzione del sistema delle arti applicate (che avrebbe dato origine al moderno design) in chiave estetica, è un salto culturale per la società borghese, che adesso viene educata dagli artisti ad un gusto più colto e raffinato. Sempre in questo periodo, e precisamente nel 1900 in Germania, presso Kaiser Wilhelm-Museum di Krefeld, Friederich Deneken organizza una mostra dedicata all’abbigliamento d’artista: è la prima volta che degli indumenti vengono esposti in un museo23. Esteticamente più interessanti sono i risultati raggiunti a Vienna da Gustav Klimt, esponente della Secessione, che disegna, per sé e per la sua compagna, modelli ispirati alla tradizione orientale. Abiti-camicia, dalla linea semplice e raffinati nella ricercatezza decorativa dei tessuti.
Quando sopraggiunge la carica riformatrice di Balla e Depero, quelli che fin qui sono stati dei tentativi di rinnovamento modernistico, finiscono con l’essere sostanzilamente iniziative aristocratico-estetizzanti: l’artisticità “aulica” dell’abito è «ben lontana da quell’interferenza nel quotidiano vissuto, anzitutto proprio della strada, quale luogo tipico della vita sociale moderna»24, che da adesso in poi attirerà i futuristi. Il vestito futurista diventa un modo per costringere l’arte a scendere nelle strade della città, anche se fin dall’inizio, il problema dei futuristi non sta nell’assumere i caratteri della metropoli, ma di determinare tali caratteri con l’intrusione di provocativi segni viventi dell’ emotività immaginativa25.
Giacomo Balla 1914
Il vestito antineutrale. Se dagli anni venti dell’800, il bianco e il nero si sono imposti nell’abbigliamento maschile come i più adatti alle occasioni formali, con unica eccezione concessa in una certa stravaganza nel panciotto, nero, inizialmente, è anche l’abito che Balla progetta nel 1912, e coloratissimo il panciotto da indossare sotto lo smoking. Una lettera datata 18 luglio 1912, scritta da Balla (ospite dei Löwenstein di Düsseldorf come decoratore) alla sua famiglia a Roma, ci conferma come la realizzazione dei primi abiti futuristi risale proprio in quei primi anni del novecento. I miei vestiti hanno fatto un vero furore, specialmente quello ultimo chiaro a quadretti, nientemeno non me lo hanno fatto più togliere e ho dovuto uscire per la città con loro per cui ero guardato da tutti in modo abbastanza, per me, insolito per cui continueremo a portarlo26. L’esistenza di altre lettere accompagnate da altrettanti bozzetti dimostra inoltre come in quei tempi Balla poteva esibire vari altri abiti, che, nelle “uscite” pubbliche, gli garantivano sicuramente una carica di eccezionalità in più. Anche Balla si comporta come i futuristi nelle loro prme “uscite” in gruppo; e tuttavia, al contrario dei colleghi milanesi, ricercatamente vestiti, ma nal gusto corrente, come dunque borghesi raffinati, propone una propria personale immagine del vestito. All’origine dei suoi progetti ci sono alcuni fattori decisivi. Uno tra questi è l’abitudine domestica di produrre in casa tanto oggetti e mobili quanto gli stessi elementi dell’abbigliamento, anzitutto per una ragione economica. È qui che va ricordata la sua casa-officina, che già alla fine degli anni dieci, costituiva un esemplare ambientazione futurista, oltre che essere un punto di riferimento e di ritrovo27. Questo è quello che Gherardo Dottori28, nel 1930, scrive a proposito della casa di Balla: In Balla tutto è coerente, armonioso, intonato. Ve ne persuadete da quando sonate il campanello della sua abitazione [già in via Oslavia, allora] sormontato dal nome bizzarro e coloratissimo, da quando vedete Balla nel suo studio, che indossa una giacchetta di taglio creata da lui, quando osservate tutti gli oggetti che lo circondano, che gli servono quotidianamente, o saltuariamente; dal martello al cavalletto, dal portacenere al porta-bullette, tutto creato da lui, od ha almeno una pennellata che conferisce a questi oggetti un carattere originale; fino alle cornici ed ai titoli dei quadri che sono, di questi, complementi simpaticissimi e necessari29. Virgilio Marchi30, invece, ci descrive i vestiti che Balla indossa quando incontra amici e nuovi venuti nella sua casa in via Paisiello: Scarpa nera verniciata e lacci chiari, calzoni a quadretti minuti, gilet e camicia multicolori, giacca scura a punta da una banda e rovesci viola, bastone quadro e un profumo inventato dalla sua gentile signora per le occasioni pomeridiane e e domenicali31. Delle disavventure di Balla in mise futurista ce ne parla pure Guglielmo Jannelli32, specialmente durante una intervista del 1925: Un momento! Debbo anzitutto parlarti della toilette di viaggio di Balla. Tu sai benissimo che tutti gli spolverini di questo mondo sono fatalmente grigi; Balla da quel grande colorista che è odia profondamente il grigio.
Ebbene, egli aveva dato un tocco dei nostri bei colori italiani al suo spolverino, dipingendovi linee di velocità sulle maniche, sulle tasche e sugli orli. E aveva coperta la visiera del suo berretto con linee forme e colori ultra futuristi. Giunto a Parigi Balla non ha abbandonato la sua mise e in pieno berretto e spolverino ballabile ha voluto lui solo incaricarsi della ricerca di un hotel...33. Balla ha un reale piacere dell’invenzione, infatti un altro elemento decisivo nel suo lavoro è la volontà di qualificare la propria presenza in un carattere di forte singolarizzazione: vestire cioè come artista nuovo, secondo un proprio canone di originalissima eccentrica eleganza. Balla non esita neanche a travestirsi da artista bohémien oppure ad adottare un abbigliamento più adatto a un clown o a un eccentrico, così come ne Le Serate Futuriste Francesco Cangiullo scrive: Nel foyer [Marinetti] s’intrattenne a parlare con un essere diabolico: piccolo e rosso come un frugolo; dai baffi di ferrofilato arroventato, mozzati a spazzolino per denti; dalle sopracciglia - sempre rosse - folte ed arricciate con le dita, a forma di ss diseguali; gli occhi celeste chiaro, talmente ipocriti da sembrare dolcissimi, la fronte come la tavoletta da bucato; due rughe gli scendevano già dagli estremi della bocca, coperte da una barbetta di gramigna fulva che alligna nei solchi. Un cappello di paglia che sembrava d’impiallicciatura. La cravattina di celluloide tremolante come di gelatina. Vestito a scacchi, scarpe nere e ghette di gesso: un clown. Un essere da circo equestre; eccentrico e assolutamente assurdo fuori del Caffè-concerto. Era costui, uno dei più grandi pittori d’Italia, riconosciuto dai passatisti e dai futuristi: Giacomo Balla34. Di certe altre bizzarre provocazioni, invece, ce ne parla Anton Giulio Bragaglia35: Quando era in borghese portava, almeno, una lampadina colorata dentro la cravatta a scatolina, munita di un trasparente in celluloide. Nei momenti elettrizzanti del discorso egli premeva il bottone e gli si accendeva la cravatta: erano i suoi acuti36. I disegni di stoffe che Balla progetta nel 1913 rompono decisamente con l’effetto tinta unita, o a quadretti o scacchi che fossero, dai vestiti progettati o realizzati nel 1912, a favore di una utilizzazione delle suggestioni di sintesi dinamica che la sua pittura andava elaborando in termini di «linea di velocità». Ciò dimostra come l’entusiamo con cui viene enfatizzata la modernità, non poteva non toccare uno degli elementi fondamentali del paesaggio sociale urbano: il modo di vestire di uomini e donne. In più Balla trasferisce nella fattura del vestito la stessa morfologia che parallelamente sviluppa sulle tele37. È chiaro che tutto quanto permette a Balla un’effettiva continuità di lavoro e vita, di arte-azione, nodo centrale della prassi artistica futurista. Ma le ulteriori ricerche progettuali sul vestito da uomo di taglio sinteticodinamico e su disegni di stoffe, dove l’attenzione si è intanto spostata sul cromatismo iridiscente integrato alle linee-forza di “velocità astratta” precedenti, si sistematizzano, fra il 1913 e il 1914, con l’elaborazione di un vero e proprio manifesto sull’abbigliamento.
Il Manifesto futurista del vestito da uomo, steso probabilmente verso la fine del 1913, presenta una prima versione francese datata 20 maggio 1914, Le vêtement masculin futuriste e una seconda versione ufficiale italiana, datata 11 settembre 1914, Il vestito antineutrale. Si pensa e si agisce come si veste. Poichè la neutralità è la sintesi di tutti i passatismi, noi futuristi sbandieriamo oggi questi vestiti antineutrali, cioè fantasiosamente bellicosi38. Il manifesto italiano è lanciato in volantino dalla Direzione del movimento futurista di Milano, corredato di sei bozzetti per abiti e modificanti, dedicati a vari futuristi, caratterizzati tutti da un taglio asimmetricamente squilibrante e giocati sulla cromaticità del tricolore italiano39. Le Dimostrazioni interventiste del 1914 sono il pretesto per indossare gli abiti antineutrali di Balla, efficacemente patriottici40. Delle agitazioni tedescofili (dirette contro i professori Chiovenda, De Lollis e Simoncelli) ce ne parla Francesco Cangiullo, che tra l’altro le vive in prima persona. L’episodio qui di seguito, dell’11 dicembre 1914, si riferisce a una delle sue dimostrazioni in abito tricolore balliano all’Università di Roma: ...La vista del lembo tricolore che, squarciando l’abbottonatura del loden, come labbri di ferita irredentista, [...] io gli mostravo [a Marinetti], lo elettrizzò d’ammirazione! Strinse le labbra convesse. Poi quasi mormorò: - Magnifico! - Avevo in tasca anche un berretto a spicchi tricolori, con una stella d’argento sul cucuzzolo: sembrava un meraviglioso frutto di mare. Non glielo feci vedere, per aveve in tasca una sorpresa. All’università mi sbottono con uno strappo l’impermeabile, tiro fuori il berretto: Il pandemonio... Applausi frenetici come per medaglia d’oro! Latrati spaventosi di cani idrofobi in vista di una fonte verde! Muggiti feroci di tori daltonici alla vista di un lembo rosso! Buffone! Pagliaccio! Bruciatelo vivo!41 Secondo Marinetti in quell’occasione «Tutta Roma era inondata dal manifesto di Balla: Il Vestito Antineutrale»42. Seguono anche altre manifestazioni, ma non vengono più utilizzati i vestiti antineutrali. Il 12 aprile 1915, Balla assieme a Corra, Marinetti, Settimelli e lo stesso Mussolini, vengono arrestati. È in questo periodo che Marinetti ricorderà una visita di Balla (dunque non imprigionato): Noi agitatori siamo incarrozzellati e portati in prigione cherubini ammanettati di raggi. La segregazione lercia è violata dallo stregone pittore maestro di sottigliezze soprasociali Giacomo Balla. Sgargiante agitatissima cravatta ciondoli di sughero coralli tappi di spumanti parole. Asimmetrica giacca con bottoni dipinti e contrastanti lembi tondo quadrato43. Il manifesto Ricostruzione Futurista dell’Universo44, firmato con Fortunato Depero nel marzo 1915, costituisce il compimento teorico del superamento della dimensione puramente pittorica e figurativa, verso, dunque, una chiara tendenza trasgressiva sinestetica, verso l’indagine che coinvolge più livelli
sensoriali, verso un’apertura operativa interdisciplinare, verso un’opera totale come sorta di rivoluzione antropologica. O come invece colga pienamente nel segno l’osservazione di Viazzi: L’esperienza futurista si delinea e profila, a ripercorrerla, come un vasto, complesso approccio alla realtà, ad ogni livello del suo essere e fare, [...] puntando tanto sulla costruzione ed organizzazione che sulla demolizione e sul dissolvimento. [...] Con questo sistema di spinte e controspinte, negazioni ed affermazioni, spostamenti ora improvvisi, bruschi, corti (brevissimi), ora prolungati, insistiti, lunghi, l’esperienza futurista istituisce una sua propria, specifica modalità di reversibile rapporto con l’esistente, fondata sull’interscambio tra cose e persone45. In questo quadro di realtà ricostruita, Guglielmo Jannelli, sottolinea come forse non tutti in Italia, si rendono conto dello sconvolgimento che la visione di Balla ha operato nella moda, nell’eleganza, nelle decorazioni degli ambienti, nell’arredamento della casa, nella struttura e nella forma degli oggetti, ecc. L’ossessione di Balla per il colore e il suo tipico dinamismo, danno ritmi mai sentiti. Difatti, sempre secondo Jannelli, l’anima della pittura di Balla è quell’irrompente visione ottimistica, allegra, coloratissima, movimentata, imprevista e spensierata che è in ogni sua pittura e, per chi lo conosca personalmente, in ogni sua parola. Del resto, l’arte decorativa di Balla non è che una continuazione ed una applicazione delle idee, delle esperienze, del temperamento, della visione di Balla pittore46.
NOTE 1 Claudia Salaris, Storia dei movimenti e delle idee Futurismo. Milano, Nuovo Gruppo Grafico, 1994, p. 6, “Il contesto storicoculturale”. 2 Op. cit., 1994, p. 6. Nel 1905 la Francia e la Germania sono i focolai dell’Espressionismo, Fauvisme e Die Brüke, movimenti artistici di tendenza anti-impressionista ben presto superati dal Cubismo (Francia, 1908), che pone le basi di una nuova concezione dello spazio, quasi come la “trasposizione visiva della scoperta della relatività di Einstein”. 3 Maria Mimita Lamberti, 1870-1915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell’arte italiana, vol. VII, Il Novecento. Torino, Einaudi, 1982, pp. 136-137. 4 Pia Lapini (a cura di), Abiti e costumi futuristi. Pistoia, Edizioni del Comune di Pistoia, 1985, p. 5, “Il Futurismo: l’arte della vita quotidiana”. 5 Germano Celant, Ambiente/Arte, Dal Futurismo alla Body Art. Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia, 1977, p. 8, “Futurismo”. 6 Luciano De Maria, Filippo Tommaso Marinetti e il Futurismo. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1973 (ed. cons. 2000), p. XIV, “Introduzione”. 7 Op. cit., 1985, p. 7. 8 Op. cit., 1982, pp. 151-152. 9 Ibidem, p. 152, n.33. 10 Il debutto futurista di Francesco Cangiullo è a 24 anni nel 1913. Quella che qui di seguito viene descritta è, invece, una delle serate del 1911 a Napoli al teatro Mercandante che, in ordine cronologico, equivale alla quarta di quelle futuriste, le prime tre serate, non meno burrascose, erano state a Milano, Trieste e Torino. 11 Francesco Cangiullo, Le serate futuriste Romanzo storico vissuto. Napoli, Edizione Tirrena, 1930, pp. 45-51.
12 Nel 1916 Marinetti pubblica il manifesto sulla Declamazione dinamica e sinottica dove si dice: “Il declamatore futurista dovrà dunque: 1) Vestire un abito anonimo (possibilmente, di sera, uno smoking), evitando tutti gli abiti che suggeriscono ambienti speciali. Niente fiori all’occhiello, niente guanti. 2) Disumanizzare completamente la faccia, evitare ogni smorfia, ogni effetto d’occhi [...] 3) Avere una gesticolazione geometrica, dando così alle braccia delle rigidità taglienti di [...] stantuffi e di ruote, per esprimere il dinamismo della parola in libertà”. 13 Op. cit., 1985, p. 7. Secondo Marinetti, “fra tutte le forme letterarie, quella che può avere una portata futurista più immediata è certamente l’opera teatrale” (La voluttà di esser fischiati, 1911), infatti il 21 novembre 1913, sul Daily-Mail, pubblica Il Teatro di varietà, dove proclama che “il Futurismo vuole trasformare il Teatro di Varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia” e nel 1915, con Il teatro futurista sintetico, Marinetti stesso, assieme a Settimelli e Corra, riaffermano che l’unico modo per “influenzare guerrescamente l’anima italiana” è il teatro che adesso diviene “sintetico-atecnico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale”. Il Teatro della sorpresa, sarà una “rivisitazione delle esperienze del teatro sintetico alla luce delle esilaranti e strabilianti” trovate del nuovo Varietà. 14 Op. cit., 1985, p. 7. L’intervista è di Vincenzo Tieri nel 1921, in occasione dello spettacolo al Salone Margherita della Compagnia Futurista del Teatro della sorpresa diretta dal canzonettista De Angelis. 15 Marinetti indosserà il panciotto di Depero nel ‘24, durante il periodo de Teatro della sorpresa. I panciotti di Depero, prodotti nella prima metà degli anni ‘20, nella sua «Casa d’Arte» roveretana, sono realizzati, seguendo disegni fantastici, con la tecnica dell’«assemblage» di stoffe colorate. In Enrico Crispolti, Il futurismo e la moda Balla e gli altri. Venezia, Marsilio Editore, 1986, “Il vestito da uomo”. 16 Per creare delle situazioni assurde, Marinetti obbliga per esempio “le chanteuses a tingersi il décolleté, le braccia, e specialmente i capelli, in tutti i colori finora trascurati come mezzi di seduzione. Capelli verdi, braccia violette, décolleté azzurro, chignon arancione, ecc. In Consigli futuristi agli attori. La truccatura, in «L’Italia Futurista», 8 luglio 1917) 17 Dal volantino in francese di Balla, Le vêtement masculin futuriste. Manifeste, 20 maggio 1914. 18 Morini Enrica, Storia della Moda. Milano, Skira, 2000, p. 66. 19 Ibidem. 20 Ibidem., pp. 66, 90, n.11. «Notate che l’abito nero e la redingote hanno non solo la loro bellezza politica, che è l’espressione dell’uguaglianza universale, ma anche la loro bellezza poetica, che è l’espressione dell’anima pubblica; - un’immensa sfilata di becchini borghese. Noi tutti celebriamo qualche seppellimento». 21 Op. cit., 2000, p. 67. 22 Ibidem, p. 132. Il progetto dei Preraffaelliti è molto più ampio e nel progetto Arts and Crafts di William Morris, viene coinvolto tutto il contesto della vita moderna. Quello che si prefigge è il ritorno ad una società in cui il lavoro e la creatività artigianale vengono collocate in una posizione preminente in un contesto in cui fratellanza, forza ideale e coesione sociale sono il naturale fondamento della convivenza. In tutto questo, che l’artificialità dell’abito, costruito per mostrare le differenze sociali, non ha senso. 23 Ibidem, p. 133. L’iniziativa ottiene un grande successo: Van de Velde, per l’occasione, presenta dei vestiti realizzati per la moglie, ricchi di innovazioni decorative, che vengono esaltate dal taglio molto semplificato a vita alta e gonna lunga e sciolta. All’iniziativa prendono parte diversi artisti: tra loro lo stesso Vasilij kandinskij. 24 Op. cit., 1986, p. 23. 25 Ibidem, p. 82. 26 Ibidem, p. 65. 27 In un tassello pubblicitario inserito in «Roma Futurista», a partire dal 25 gennaio 1920 (a.III, n. 67) Balla invitava a visitare la sua casa in via Niccolò Porpora 2 a Roma, suggerendo addirittura l’orario di apertura: «ogni domenica dalle 15 alle 19». 28 Pittore, nato nel 1884 a Perugia, dove è morto nel 1976. Fu il primo futurista ammesso nel 1924 alla Biennale di Venezia. Per la sua attività v. Gherardo Dottori di Guido Ballo, Editalia, Roma, 1970.
29 Gherardo Dottori, “Una visita alla mostra”, in Oggi e Domani, Roma, 30 giugno 1930. 30 Architetto e scenografo teatrale-cinematografico futurista. 31 Virgilio Marchi, “Giacomo Balla” in La Stirpe, a.VI, n. 3, Roma, marzo 1928, pp. 159-160. 32 Poeta e critico letterario futurista. 33 Geno Pampaloni, I futuristi italiani. Firenze, Le Lettere, 1977. 34 Op. cit., 1930, pp. 51-52. Questo scritto di Francesco Cangiullo è in occasione del suo debutto futurista a Roma, nel Padiglione Colonna a metà aprile del 1913. 35 Scenografo, regista teatrale e cinematografico, scrittore futurista. 36 Maurizio Fagiolo Dell’Arco, FuturBalla, Roma, Bulzoni, 1970, p. 96. 37 «Studiando gli schizzi e la produzione futurista di moda si possono fare alcune considerazioni: nei disegni delle stoffe, ciascun artista riproduce quelli che sono gli elementi fondanti della sua pittura - Balla le “compenetrazioni iridiscenti” o le linee spaziovelocità, Rizzo i moduli geometrici, Depero i disegni fantastici e cromatici del suo mondo ludico-magico. L’abito (con l’eccezione, come vedremo, della “tuta” di Thayaht) viene reinventato più nelle forme, nei tessuti, nei colori e con l’intervento di accessori». In Ezio Godoli, Il dizionario del Futurismo. Firenze, Vallecchi, 2001, pp. 743-744, “MODA”. 38 Rispetto alla prima versione in francese, questa parte conclusiva del Il Vestito Antineutrale è in chiave decisamente bellicosa. Anche i bozzetti iniziali non erano “tricolore”, e non si pensava ancora di escludere alcuni altri accostamenti che magari potessero ricollegarsi, ad esempio, a quelli della bandiera austriaca, il giallo-nero. 39 Op. cit., 1986, p. 79. Il carattere risalente in tale nuova stesura interventista è infatti notevolmente diverso da quello, sostanzialmente d’interesse dinamico-formale, che domina nella stesura precedente, nota appunto nella versione francese, pubblicata in un del tutto analogo volantino. I concetti erano i seguenti: il vestito tradizionale da uomo è stato ed è nero, appesantito da stoffe abbondanti e costretto da cinture; negazione della vita muscolare, psicologicamente depressivo, ed antigienico. Perciò le folle cittadine hanno, come nel passato, una tonalità e un’andatura funeree e deprimenti. Il nuovo vestito futurista, rompendo ogni supposta armonia del cosiddetto “buon gusto”, nell’uniformità statica simmetrica, propone al contrario di colorare e ringiovanire festosamente e dinamicamente le folle nelle vie brulicanti, fra svettanti architetture futuriste, attraverso la presenza di innumerevoli astrazioni nuove di ritmi dinamici, costituite appunto dagli abiti futuristi indossativi . 40 In realtà non si presentava dal maggio 1914 (data della prima pubblicazione del manifesto) un’occasione effettiva di “uscita” in gruppo dei futuristi con i nuovi vestiti immaginati da Balla. 41 Op. cit., 1930, pp. 211-219, “Gli abiti antineutrali tricolori”. 42 Marinetti e il Futurismo. Roma-Milano, Edizioni Augustea, 1929, p. 80. 43 Luciano De Maria, La grande Milano tradizionale e futurista. Milano, A. Mondadori, 1969, p. 143. 44 Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questafusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo ontegralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalbabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che mettono in moto. [...] Ogni azione che si sviluppa nello spazio, ogni emozione vissuta, sarà per noi intuizione di una scoperta. [Ad esempio] La necessità di variare ambiente spessissimo o lo sport ci fanno intuire il Vestito Trasformabile (applicazioni meccaniche, sorprese, trucchi, sparizioni d’individui). Op. cit., 1980, pp. 27-28. 45 Ibidem, p. 41. 46 Ibidem, p. 39.
Thayaht 1918
La tuta di Thayaht1 - A Firenze, l’opera di Ernesto Thayaht, e soprattutto il suo impegno nel settore della moda, rappresenta una delle più interessanti rielaborazioni delle tesi contenute nella Ricostruzione balliana. Thayaht, prima di aderire ufficialmente al Futurismo2, è protagonista di un episodio particolare: la progettazione della “tuta”. La “tuta”, un neologismo3 lanciato nel 1918 dallo stesso Thayaht, “deriva da ‘tutta’, cui veniva tolta la ‘t’ centrale, che nella sua grafia rappresenta in sintesi il modello dell’abito”4. Lo stesso Raffaello Bertoli, in un articolo su «Nazione sera» del 1958, ci conferma che la parola “tuta” non si ricollega affatto né al tutus latino, che tra l’altro esprime il concetto di una protezione né, come in un’altra attribuzione del 19225, al francese tout-de-même, dove la “tuta” equivale ad abito da fatica, per operai, motociclisti, un tutto unito, giacca e calzoni. L’invenzione della “tuta”, così come Thayaht dichiara, si lega ad una mentalità di economia povera tipica dell’immediato dopoguerra, come reazione al caro-vestiario, e contemporaneamente come reazione al grigiore corrente dell’abbigliamento, in particolare, maschile. La “tuta” intende essere un abito pratico, nuovo, tutto d’un pezzo, estetico, a buon mercato e fattibile in casa: Era di giugno e faceva già caldo a Firenze. I tessuti costavano cari ed il movimento delle folle era grigio per l’assoluta impossibiltà di cambiare i vecchi vestiti con qualcosa di nuovo e fresco. Pensai come l’elemento colore poteva rallegrare e agire come elemento ottimista sull’uomo e sulla donna, che lo portavano ed ancor più su coloro che questi colori vedevano sugli altri. Ci voleva qualcosa che rompesse l’abitudine ai colori spenti, ai colori misti di marrone, di grigio e di nero. Avevo negli occhi i colori festosi degli impressionisti. Un giorno, passando per Orsanmichele, vidi in una vetrina tessuti di cotone e di canapa a colori vivaci e a poco prezzo. Presi alcuni campioni e mi misi a lavoro. La confezione doveva essere di minima spesa e tale da potersi fare in casa, perchè il nuovo tipo d’abito fosse alla portata delle masse com’io avevo sognato. Diagrammi, prove, disegni e finalmente modelli, per i quali ebbi la collaborazione di mio fratello Ruggero [in arte Ram], anch’egli pittore. Poi mobilitai alcune amiche, abili con la macchina da cucire, e mi feci confezionare la prima “tuta” bianca, da me stesso tagliata, che può considerarsi il prototipo di quelle perfezionate, venute in seguito6. La “tuta” è inizialmente pubblicizzata dall’artista stesso, che la indossa sia come indumento quotidiano che di gala, come, tra l’altro, dimostrano molte fotografie del 19197 e dichiarazioni del tempo: Ho conosciuto Ernesto Michahelles giovinetto a Vallombrosa. Allora ci si ritrovava al tennis e all’arte, proprio, non ci si pensava. Subito dopo la guerra Ernesto Michahelles era diventato Thayaht e girava per Firenze in “tuta”, l’abito estivo tutto in un pezzo, che egli stesso aveva tagliato e diffuso per economia. Passò ancora qualche anno prima che lo rivedessi a Firenze stabilmente e, se non più in tuta, sempre però in abiti di gusto tutto suo. Allora, si era nel 1924-25, egli aprì una scuola, un laboratorio, delle esposizioni e aderì risolutamente al movimento futurista.
Quando ebbi l’occasione di avvicinarlo, un pò più a lungo, che nel saluto scambiato fuggevolmente in strada, trovai che all’esteriore pittoresco ed un pò eccentrico, corrispondeva nel carattere e nelle idee una strana mescolanza di un’ ingenuità e di astuzia, di senso pratico e di estetismo quasi superstizioso. Il tutto in buona fede con lampi geniali e inverosimili scarsezze. In una parola un’insieme di contrasti da spiegare benissimo quanto era in lui singolare, e nello stesso tempo da far accettare l’espressione del suo dandismo come un fatto genuino e spontaneo8. Una seconda diffusione della tuta avviene tramite una serie di volantini dattiloscritti autografi; dal Luglio 1920 il lavoro di Thayaht sarà invece sostenuto dal quotidiano fiorentino «La Nazione». “Tutti con la tuta” è lo slogan lanciato nel 1920: Per toglier l’ingordigia ai pescicani che ci hanno il vizio ormai di speculare li metteremo a terra come cani abbiam trovato il modo per risparmiare e i nostri sforzi non saranno vani. Non più giacchetta o taitte, neppure i pantaloni, ora un vestito unico anche per chi ha i milioni. Che grande novità che ognuno fa incantar! La chiamano la Tuta e universale presto sarà. Un camiciotto di tela ordinaria viene a costare circa trenta lire, quanto al colore e gusto sempre varia. Specie le donne si mettono a dire: Poveri sarti, vanno a gambe all’aria. Un Tony molti sembrano che fa i salti mortali, senza calzini e in sandali disprezza gli stivali. E poi per risparmiar tutti in capelli van, il cappellaio brontola che gli tocca serrar. Chi veste con la Tuta di turchino si può scambiar per automobilista e quando è sporco poi, pare un destino, vedere ci sembra del tram un fuochista. Ma di colore cambiano, c’è chi ce l’ha marrone, e tanti frati sembrano di Montefrosolone.
Nessun lo può negar, dico la verità, gli manca sol la chierica e un convento ci sembrerà. Chi ci ha la Tuta non si può purgare, perciò è proibito andar a Montecatini, se non altrimenti non sa come fare a andar di corsa ai camerini, tutta la tuta si deve calare. Allora c’è da ridere con quella confusione, per donne allor si scambiano con la “combinazione”. Solo ci mancherà per quella novità un poco di balletto e cipria fine in quantità9. Nei volantini10 successivi, iniziano a comparire specifiche tecniche, come i disegni per il taglio della tuta assieme ad alcune Avvertenze: L’artista Thayhat [si legge nelle Avvertenze, appunto] ha dato il nome di Tuta all’abito universale da lui ideato, per quattro ragioni: 1) tuta la stoffa (metri 4,50, alto 0,70) viene utilizzata e non rimane nemmeno uno sciavero, dunque c’è ECONOMIA DI TESSUTO; 2) è una combinazione tuta d’un pezzo col minimo di cuciture, dunque ECONOMIA DI FATTURA; 3) veste tuta la persona e con soli sette bottoni ed una semplice cintura si è già a posto, dunque ECONOMIA DI TEMPO; 4) fra poche settimane tuta la gente sarà in tuta e la maggior comodità, il senso del benessere, la completa libertà di movimento, darà a chi la indossa un senso di effettivo risparmio di energia. La consonante perduta si ritrova nella forma stessa della tuta che ha appunto la forma di una “T”. Nell’articolo de «La Nazione», del 2 luglio 192011, viene invece pubblicata la Tuta femminile, con altrettanti disegni per la realizzazione e Avvertimenti per le Tutiste: Negli ultimi vent‘anni, il costume maschile è stato di una rigidità quasi inamidata ed i tessuti che hanno servito a coprirci, sono stati preferibilmente di colore scuro ed incerto, per non far vedere la polvere e le macchie. La maggior parte degli uomini portavano uno stesso abito per degli anni, senza farlo lavare. La tuta è naturale reazione a questo incredibile stato di cose. La linea morbida e libera, il tessuto lavabile, la semplicità della fattura, la varietà e purezza dei colori, sono altrettanti attributi che fanno del nuovo indumento, l‘abito razionalmente moderno, che rompe definitivamente le stupide convenzioni del passato. Invece il vestito femminile, è stato negli ultimi dieci anni quasi sempre assai semplice, e niete affatto rigido. Per la donna, dunque, la tuta non rappresenta che una maggiore semplificazione e l‘abolizione totale delle stoffe inutilmente costose.
L‘eleganza infatti non ha niente a che fare con la qualità della stoffa. e non vi è nulla di più ridicolo di credere che una stoffa di prezzo possa conferire a chi l‘indossa un‘apparenza di grazia o di distinzione. Thayhat La tuta è un indumento che, se pare rispondere a quelle teorizzazioni che vogliono la vita del futurista improntata alla praticità, all’azione e al dinamismo, risulta d’altra parte contrario ai principi futuristi dell’abito stupefacente e provocatorio, e presenta piuttosto quegli elementi di razionalità proposti nello stesso periodo dai costruttivisti russi12. Dunque, l’adesione di Thayaht al Futurismo è parziale: sia perché uno spirito individualista come il suo rifuggiva dall’essere in qualche modo “etichettato”, sia perché, per sua stessa ammissione, si considerava più futurista degli stessi futuristi. Inoltre, come rivela Paolo Baldacci: Thayaht si può inquadrare solo parzialmente nel mondo cosiddetto secondo futurismo. [...] Se da un lato egli è il principale esponente di una corrente della scultura futurista, dall’altro ci appare come un originale rappresentante del cosmopolitismo déco. [...] In questo personaggio mai riducibile allo schema del futurismo tardo marinettiano, quasi industrial designer nelle sue forme e oggetti, viveva un’idea dell’arte come mestiere che era la stessa cosa degli artisti della Bauhaus, sia pure nel panorama italiano. Per Thayaht ogni oggetto d’arte non nasceva fine a se stesso, ma per una produzione; di qui la sua versatilità e il suo eclettismo, che lo rendono sensibile a suggestioni diverse: da Schlemmer alla “Neue Sachlichkeit”, a Klee, ma sempre con interpretazioni di alto livello13. Anche rispetto alla tuta dei costruttivisti e produttivisti russi l’affinità è notevole. Ma, mentre la tuta di Thayaht è un abito tout court, la prozodezda sovietica è un abito da lavoro, non soltanto operaio, ma variamente professionale. Ovviamente la tuta costruttivista si afferma sul fondamento di una ideologia sostanzialmente proletaria, che intende il lavoro quale nuovo modo di vivere e qualificarsi socialmante. La tuta di Thayaht rappresenta, soprattutto, un gesto comportamentale eversivo rispetto al consumo della moda, e benchè senza forti implicazioni ideologiche, conferma la formula del “fatelo da voi”14. La tuta, come semplificato e pratico abito moderno, a colori vivaci, che intercetta le istanze già considerate da Balla nel 191415, riscuoterà straordinario successo e popolarità specialmente a Firenze16. Anche «La Nazione» sembra soddisfatta per la riuscita del progetto di vendita dei modelli per il taglio della tuta in carta velina, infatti, in una delle colonne del quotidiano del 3 luglio 1920, scriveva: 1000 modelli di “tuta”. Ecco la più tangibile prova del grande successo della tuta. La nostra amministrazone ha distribuito al pubblico in circa dieci giorni, 1000 modelli tagliati in carta velina del nuovo abito universale per uomini disegnato dal pittore Thayaht. Se si tien conto che un solo modello entra in una cerchia numerosa di persone, si avrà un’idea della diffusione della tuta in Firenze e in Toscana.La nostra amministrazione continua a far confezionare i modelli della tuta che vengono messi in vendita al przzo di cent. 50 ciascuno. Nella prossima settimana, speriamo di poter mettere in vendita anche il modello della tuta femminile, tipo Thayaht.
Il successo di Thayaht è comunque complessivo; Paolo Baldacci ce lo descrive così: Si guardino i suoi piccoli album di progetti (orologi, collane, scatole, braccialeti) e si sentirà come, quest’uomo di fantasia, scultore, pittore, creatore di moda, inventore e appassionato astronomo, sia uno dei maggiori rappresentanti in Italia - e certamente il meno provinciale - della cultura cosmopolita delle arti decorative che animò l’Europa e l’America tra le due Guerre17. Di questo multiforme artista, dall’estro brillante, ricordiamo anche che la sua attività nel settore della moda era molto più estesa e che, specialmente dal 1918 fino al 1924, si caratterizza di una fruttuosa collaborazione con l’Atelier parigino di Madeleine Vionnet18. Alla Maison Vionnet, Thayaht cura l’immagine grafica e progetta abiti; molti suoi figurini pubblicitari vengono contemporaneamente pubblicati su “La Gazette du Bon Ton”19. È per questo che Thayaht sarà tra i pochi artisti ad essersi collocato in un processo produttivo reale della moda, e a suo livello molto alto20. Ed è, forse, l’unico caso di collaborazione diretta tra Futurismo italiano e Alta Moda francese, anche perché la ricerca degli avanguardisti italiani verteva più sul problema del rinnovamento dell’abbigliamento maschile21. In alcuni articoli degli anni Trenta su «Oggi e Domani»22, Thayaht sottolinea che «il nostro vestire potrebbe benissimo intonarsi verso colori limpidi e chiari piuttosto che verso colori scuri e fangosi». Occorre semplicemente «avere il coraggio di creare una nuova foggia di vestire, che sia legata intimamente col nostro stesso paesaggio e che in esso paesaggio delizioso risalti per gaiezza e non per malinconia, e sia la nota di massima vitalità». «Ci vuole più colore, più gaiezza disinvolta, più dinamismo; e meno grigiume, meno staticità, meno dignità prudente e inamidata, meno scetticismo pessimista riguardo il problema del vestire moderno». Nel 1932, assieme al fratello Ruggero Michahelles, Thayaht firma il Manifesto per la trasformazione dell’abbigliamento maschile23. Nel Manifesto vengono proposte, fantasiosamente, tutta una svariata gamma di modelli24 da produrre sempre verso la prospettiva del radicale rinnovamento del vestito da uomo: Già da molti anni la moda femminile si è sviluppata da basi estetiche ed igeniche, semplificando le vesti e liberando la donna dalle complicazioni passatiste. Concentriamo perciò la nostra attenzione sul problema dell’abbigliamento maschile che reclama radicali trasformazioni25. Thayaht punta al «nuovo vestiario sintetico futurista»: l’uomo deve essere capace di liberare il corpo da ogni infagottatura e costrizione; l’abito deve essere comodo, estetico e capace di adempiere meglio alle esigenze della vita d’oggi. Per ottenere questa libertà dobbiamo anzitutto sradicare il preconcetto passatista che l’uomo, per essere ben vestito, debba avere addosso i seguenti indumenti: Camiciola - mutande - calzini e giarrettiere - scarpe - camicia - goletto - cravatta - polsini con relativi gemelli o bottoni - pantaloni con quattro tasche
rovesce - cintura - cinturini e bretelle - gilet con altri quattro taschini - e con altro cinturino - giacca con tasche interne ed esterne - risvolte - filze di bottoni con occhielli falsi alle maniche - cappello di feltro o paglia con relativo nastro assortito - fodere di seta e marocchino in cuoio - impermeabile o pastrano - guanti - sciarpa al collo - ombrello o canna da passeggio secondo le stagioni26. Il Manifesto del 1932 è l’ultimo messaggio di Thayaht sull’abbigliamento e pare che lo stesso Marinetti, quando ormai Thayaht si era ritirato dalla scena pubblica, abbia detto di lui: “O che ne è di quello spilungone geniale? Di uomini che si trovino sulla perfetta via del Futurismo, che abbiano il Futurismo nel sangue, ce n’è pochi e Michahelles è fra i più intonati. A lasciarlo fare, molto vecchiume sarebbe spazzato e molte novità nascerebbero. Ce ne vorrebbero di più di tipi come lui! Effettivamente, già negli anni Cinquanta, Thayaht lascia definitivamente il campo dell’arte: stabilisce la propria dimora a Fiumetto, dedicando la maggior parte del suo tempo al CIRNOS, il centro di studi astronomici (e avvistamento UFO) da lui fondato. NOTE 1 Ernesto Michahelles (1893-1959), in arte Thayaht, è di antica origine anglo-svizzera, vive sino dall’infanzia a Firenze, presso la villa Ibbolson, sulle pendici fiorentine di Poggio Imperiale. La scelta del nome d’arte “Thayaht”, di origine forse indiana o tibetana, bifronte, con la “y” al centro, che per l’artista assurgeva a simbolo del geroglifico “nefer” (che significa vita, bellezza, virtù) e anche a valore della croce cristiana, è, di per sé, rivelatrice di molteplici curiosità esotiche ed esoteriche di Ernesto, figura, atipica per l’epoca, di raffinato esteta. (Carla Cerruti, Thayaht e Ram: Pseudonimi taglienti per fratelli differenti in Francesca Antonacci, Damiano Lapiccirella e Carla Cerruti (a cura di), THAYAHT E RAM dal Futurismo al Novecento. Roma, Francesca Antonacci, 2004) 2 Nel maggio 1929, a Lucca, Ernesto Thayaht presentato dall’amico pittore Primo Conti, incontra per la prima volta l’accademico d’Italia F. T. Marinetti al quale mostra le fotografie dei suoi lavori. Un’effige in acciaio del Duce, tanto entusiasma il Capo del Futurismo da indurlo a proporre all’artista di presentarlo al Capo del Governo. Il 3 giugno 1929, insieme ai futuristi Casavola a Azari, Thayaht viene presentato da S. E. Marinetti al Capo de Governo, il quale si compiace della scultura “Dux” che l’artista fiorentino gli offre in omaggio. Ernesto Thayaht entra così a far parte del gruppo futurista e subito partecipa alla mostra dei “33 Futuristi” alla Galleria Pesaro di Milano, dove presenta 3 sculture e 15 dipinti. (Fortunato Bellonzi, “Cenno Biografico”, pp. 25-37 in Antonio Maraini, F. T. Marinetti, Ernesto Thayaht. L’uomo presentato da Antonio Maraini. Lo scultore presentato da F. T. Marinetti. Firenze, Edizioni Giannini, 1932) 3 Anche se non sempre riconosciuta, la paternità e l’invenzione della “tuta” è di Thayaht. Questo è, infatti, quello che si può trovare nel Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo: tuta s.f. alla consolidata opinione, diffusa dal Panz. Diz., fin dal 1923, che si tratti del fr. tout- de- même “tutto della stessa stoffa”, O.Castellani Pollidori (Per l’etimologia di “tuta”, in SLI VIII, 1982, pp. 41-42, e ancora “tuta”, in SLI IX, 1983, pp. 208-232), premesso che si tratta di due referenti diversi (completo soprattutto femminile tout- de- même, vestito pratico tuta), è del parere che il nome sia stato suggerito dallo stesso inventore, l’artista Ernesto Michahelles, noto come Thayhat, dallo schema del modello, che rappresenta una T nel suo complesso per la versione maschile, sovrapposta ad una U ad angoli retti, e col taglio divaricante dei calzoni che può rappresentare una A. Durante la campagna di stampa per la diffusione della tuta, promossa dalla Nazione di Firenze nel 1920 (che contribuì in maniera decisiva alla diffusione del neologismo), furono rese note anche le intenzioni del fantasioso inventore, che pensava a tuta per tutta (con varie applicazioni: indumento che veste tutta la persona con utilizzo di tutta la stoffa e così via), sostituendo la t perduta con il modello a T della tuta. (Manlio Cortelazzo Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 1979, ed. cons. 1991) 4 Dalle dichiarazioni di Thayaht in Raffaello Bertoli, “Nacque a Firenze la tuta nello studio di un futurista”, in Nazione sera, Firenze, 11 novembre 1958. 5 Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Dizionario Etimologico Italiano. Firenze, Barbera, 1966, vol. V, p. 3936.
19 Op. cit., 2004. All’Università di Harward Thayaht segue un corso speciale sulla geometria dinamica e sulla colorazione scientifica. In modo particolare lo affascina la “simmetria dinamica” di Joy Hambidge. Frutto di lunghi anni di studio, essa si basa sulla simmetria naturale del corpo umano e delle piante, ed è oggetto di cicli di lezioni in tutta Europa, durante gli anni ‘19-’20 e in America negli anni immediatamente seguenti. Hambidge, autore di numerosi libri sulle teorie e sui vari metodi di applicazione in pittura, scultura e architettura, contrappone la simmetria dinamica a quella statica e sostiene che gli Egiziani e, poi, i Greci furono i primi popoli ad usarla istintivamente. Thayaht farà tesoro di questi concetti applicandoli soprattutto alla moda, in particolar modo durante il periodo di lavoro per l’Atelier Vionnet. 20 Op. cit., 1985, p. 135. 21 Morini Enrica, Storia della moda XVIII-XX secolo,. Milano, Skira, 2000, p. 137. 22 Thayaht, “Estetica del vestire. Moda solare, moda futurista”. Oggi e Domani, 23 giugno 1930, a. I, n. 10. Oppure Thayaht, “Vestire all’italiana”, Oggi e Domani, 3 agosto 1931. 23 Volantino del 20 settembre 1932, Tonfano, Forte dei Marmi. 24 Compresa la tuta del 1918, i modelli proposti da Thayaht sono in tutto 16: IL TORACO: maglietta senza maniche, scollata, senza bottoni, a taglio rettilineo, tessuto di cotone, lana o seta, per l’inverno come camiciola, per l’estate per il bagno o l’atletica; bianco e colori lavabili. IL CAMITTO: sorta di camicia anti-inceppante, senza tasche, a taglio quasi aderente, in tessuto elastico di cotone o di lino, due soli bottoni, bianco e colori chiarissimi, lavabili. IL CORSANTE: copri-torace con mezze maniche, due tasche, un solo bottone, tessuto di lana, seta, cuoio, gomma, secondo le stagioni, zone di vario colore. I FEMORALI: copri cosce, ampi e non aderenti, fermati sotto al ginocchio, quattro tasche, tre bottoni, tessuto opaco morbido in tela di lana, cotone, lino, seta, colori intensi, uniti o a disegni geometrici. I CONICI: copri gamba a taglio rettilineo conico, tre bottoni, due tasche, tessuto pettinato o lucido, leggerissimi per l’estate, in tinte fredde; lanosi per l’inverno, tinte calde. GLI ANCALI: copri anche, a taglio sportivo, succinto, chiusura a fibbia, due tasche, tessuto di cotone a colori vivaci, per spiaggia, bagno allenamenti. LA TUBARIA: copri gamba, ampio, chiuso alla caviglia, tessuto impermeabile, resistente, costura unica, due tasche, auto-chiusura. CALZARI E CALZILLI: copri piede di vario taglio, tessuto a maglia, da portarsi senza giarrettiera, bianchi o assortiti ai conici o ai femorali. AEROSCARPA: sorta di scarpa leggerissima, elastica, costruita in modo da aereare il piede, colori chiari o opachi per estate. LA SCAFA: scarpa massiccia e lucida, impermeabile in cuoio o gomma, ottone e alluminio, auto chiusura. LA SPIOVA: copricapo invernale, con paracqua estensibile sulle spalle, tessuti lucidi colorati impermeabili. L’ASOLE: zuccotto estivo leggero, con paraluce orientabile, in carta, tela, paglia, alluminio, celluloide, bianco, verde chiaro e azzurro elettrico. IL PARAVISTA: visiera da aggiungersi all’ASOLE, per proteggere gli occhi dal riflesso della strada o del cielo. IL RADIOTELFO: sorta di casco leggero per viaggio, munito di apparecchio radio-ricevente con auricolari snodati. LA LUCA: sorta di mantello invernale, lungo fino ai ginocchi, una sola manica, una tasca, senza bottoni, due costure, tessuto impermeabilizzato a doppia faccia, morbido, leggero, colori cupi e forti. IL TRIFERMO: sopratoraco con maniche tubolari fino ai polsi, golettone rovesciabile, tre bottoni, tasche interne, chiuso alla vita, tessuto fitto, sostenuto, colori neutri o misti. 25 Thayaht e Ram, Manifesto per la trasformazione dell’abbigliamento maschile, Volantino del 20 settembre 1932, Tonfano, Forte dei Marmi. 26 Dal 2° punto del Manifesto per la trasformazione dell’abbigliamento maschile, op. cit, 1932.
rovesce - cintura - cinturini e bretelle - gilet con altri quattro taschini - e con altro cinturino - giacca con tasche interne ed esterne - risvolte - filze di bottoni con occhielli falsi alle maniche - cappello di feltro o paglia con relativo nastro semplice cinta, e assieme a sandali: così appare Thayaht stesso, esibendola, in fotografie del tempo; in una delle quali porta un bastone da passeggio, a sottolineare il prestigio di un tale abito nuovo, che intende essere un vero e proprio vestito, e non un abito da lavoro, operaio, come poi invece diventerà. La tuta poteva essere accompagnata da un cappello a larghe falde, o da un berretto con visiera. (Enrico Crispolti, Il futurismo e la moda Balla e gli altri. Venezia, Marsilio Editori, 1986b, p. 132) Le foto sono oggi reperibili in Archivio Michahelles (Firenze). 8 Op. cit., 1932, pp. 5-11, “L’uomo”. Le dichiarazioni sono Di Antonio Maraini. 9 Thayaht, Tutti con la tuta, volantino pubblicitario con strofe originali dell’autore, Firenze, 1920 (Archivio Michahelles). 10 Un esempio è il volantino di Thayaht, Taglio della tuta, del 1919ca. 11 Ecco il tanto atteso modello della tuta femminile, disegnato dal pittore Thayaht; modello cosiddetto per le linee rette e della massima semplicità d‘esecuzione. Esso non giunge assolutamente nuovo alle nostre lettrici, perché prima ancora della sua pubblicazione, era stato conosciuto per mezzo di alcuni disegni esposti alla Esposizione delle Opere escluse e da alcuni campioni del nuovo abito indossati da ardite signore della nostra città. Il modello per tuta, ha già avuto, anzi il più grande successo, ed è bastato che tre quattro signorine uscissero in abito universale, perché se ne diffondesse rapidamente il tipo anche nelle classi più popolari, per cui non è raro incontrare delle graziose giovani operaie, che si son fatte il vestitino in tela grezza. Ci piace ricordare a questo proposito, l‘ingegnosità di alcune ragazze d‘un ricreatorio, che son riuscite a confezionarsi delle bellissime tute, utilizzando la stoffa di vecchi lenzuoli di famiglia, dimostrando così che l‘eleganza, si può raggiungere più che colla preziosità dei tessuti, col gusto del taglio e dell‘adattamento dei colori alla persona. Anche da parte di numerose signore dell‘aristocrazia e della borghesia più intelligente e sensibile della disciplina sociale, l‘abito universale è stato bene accolto e ve ne sono di molte che lo portano fieramente per le vie della città anche senza cappello; il che, secondo il modello di Thayaht, e secondo il criterio economico che ha suggerito la creazione della tuta sarebbe da cosigliarsi particolarmente. La tuta femminile è anche più semplice di quella maschile e può essere confezionata in casa, da qualsiasi mediocrissima cucitrice da famiglia. La spesa di stacco della stoffa è di L. 24,50, quanta ne importano, cioè m. 3,50, a L. 7 il metro. Come si vede, una spesa accessibile a tutte le borse, che capitalizza i vostri vecchi abiti, che avete pagati fior di quattrini, e vi consente di andare avanti per tutta la stagione, senza più spendere un soldo. 12 Vedi Varvara Stepanova e Vladimir Rodchenko. 13 Paolo Baldacci, Thayaht. Sculture pitture disegni dal 1913 al 1940. Milano, Galleria Philippe D’Averio, 1976. 14 Op. cit., 1985, pp. 133-134. Cfr. Da notare come lo stesso F. T. Marinetti, nel 10° punto del suo Manifesto futurista, Contro il lusso femminile (Milano, 11 marzo 1911), dichiara: Ogni donna bella, lasciando alle anziane e alle brutte il lusso come unica difesa, deve inventare una sua foggia di vestito e tagliarla da sé, facendo così del suo corpo, semplicemente adorno, un originalissimo poema vivente. 15 Abiti e costumi futuristi, op. cit., pp. 133-134. Da notare come lo stesso F. T. Marinetti, nel 10° punto del suo Manifesto futurista, Contro il lusso femminile (Milano, 11 marzo 1911), dichiara: Ogni donna bella, lasciando alle anziane e alle brutte il lusso come unica difesa, deve inventare una sua foggia di vestito e tagliarla da sé, facendo così del suo corpo, semplicemente adorno, un originalissimo poema vivente. 16 Op. cit., 1932, p. 25, “Cenno Biografico”. A dichiararlo è Fortunato Bellonzi. 17 Op. cit., 1976. 18 Op. cit., 2004. Madeleine Vionnet (1876- 1975), creatrice di moda famosissima negli anni Venti e Trenta, per prima applica il taglio “in sbieco” ai vestiti femminili dando maggior elasticità e morbidezza. I suoi abiti non contrastano ma seguono e assecondano i movimenti del corpo, rispondendo alla concezione moderna del vestito come seconda pelle da indossare senza busto né reggiseno né sottoveste, solo con slip. Le decorazioni sembrano nascere spontaneamente dal tessuto e la morbidezza degli abiti è tale che si indossano facilmente senza l’ausilio di bottoni, cerniere o simili accessori. Madeleine stessa non disegna figurino né schizzi ma crea direttamente su un manichino articolato; preferisce il bianco, il nero e le tinte pastello, prestando molta attenzione alla qualità delle stoffe. Nella seconda metà degli anni Trenta modifica la linea delle gonne formandole romanticamente a ruota. Chiude il suo atelier nel 1939 con la sensazione che il suo tipo di couture sia morto. Marcelle Chaumont, Pierre Balmain e Jacques Griffe sono stati i suoi allievi e protetti.
Arte e Rivoluzione La Russia nei primi decenni del XX secolo vive il trapasso tra la nuova e la vecchia arte “rivoluzionaria”. In quegli anni di trasformazione e di profonda crisi1, a segnare uno spartiacque è, inizialmente, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ma soprattutto la Nuova Politica Economica (NEP) del 1921. Era questo che la «Pravda» del 26 ottobre 1920 scriveva del paese, allora più arretrato d’Europa, con un’economia ancora in gran parte agricola, nonostante gli sforzi rivoluzionari dei bolscevichi: I lavoratori delle città, e in parte dei villaggi, si torcono per la fame. Le ferrovie non vanno avanti. Le case si guastano e vanno in rovina. Le città sono cumuli di sporcizia. Le epidemie si diffondono e la morte miete vittime dappertutto. L’industria è distrutta. Ciò che, invece, inaugura il processo per grandi tappe, dell’industrializzazione del paese è lo stalinismo instauratosi in Russia subito dopo la morte di Lenin (1924). Stalin prende il potere dell’Unione Sovietica animato dalla concezione marxista originaria, secondo la quale il socialismo era realizzabile solo sulla base di forze tecnico-produttive altamente sviluppate, infatti «solo quando il paese sarà elettrificato - affermava lo stesso Stalin - solo quando all’industria, all’agricoltura, ai trasporti sarà garantita la base tecnica della grande produzione moderna, solo allora avremo vinto definitivamente». Se questo, dunque, è il clima, anche la storia dell’arte, che non è un nastro che si srotola, ma un prisma che ruota intorno al proprio asse e mostra all’umanità l’una o l’altra delle sue facce (V.Burliuk)2, si sviluppa in prospettiva del regime politico della Russia dei Soviet, prima, della Russa staliniana, poi. L’arte dell’avanguardia si è trovata indifesa davanti al totalitarismo e agli slogan funesti di “arte per le masse” che stavano ormai conquistando lo spazio vitale, così come molti artisti innovatori, che aderiscono pienamente alla rivoluzione, sono consapevoli che nella Russia sovietica “può esistere esclusivamente l’arte ufficiale e nessun’altra”. Legandosi alla rivoluzione, gli artisti avanguardisti russi hanno messo fin dall’inizio i risultati della propria attività alle dirette dipendenze della situazione politica e delle oscillazioni improvvise della coscienza di massa. Nel 1925, ad esempio, in un’ampia propaganda per “la nuova arte socialista”, uno degli slogan più popolari diceva, “Il nostro scopo è il futuro”. I pittori russi del primo decennio postrivoluzionario, secondo il poeta futurista V. Kamensky, “vivevano in cima ad una montagna e per primi vedevano il ventaglio dell’aurora”. Ubriacati da un “entusiasmo straripante” avevano come scopo il futuro e fondavano la loro fede su un’utopia. É noto che i primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre sono stati contrassegnati da un’esplosione dell’attività creativa innovativa degli artisti cosiddetti “di sinistra”3, tra l’altro i primi a rispondere all’appello del potere sovietico per la creazione di una cultura socialista. Il pittore Rodchenko scrive: Noi, artisti si sinistra, siamo stati i primi a iniziare a lavorare con i bolscevichi e non solo siamo venuti ma abbiamo trascinato per i capelli i membri del “Mondo dell’Arte” e dell’Unione dei Pittori Russi. Inoltre ricordiamo affinché non si dimentichi: siamo stati i primi ad insegnare negli istituti artistici, siamo stati i primi a organizzare l’industria d’arte sovietica4. Secondo alcune affermazioni di uno dei più importanti critici d’arte sovietici, D. Sarabianov, “arrivare fino in fondo, mettere il punto, esaurire tutte le possibilità, è uno dei compiti dell’avanguardia russa5. Non a caso lo stesso Rodchenko, nel 1920, nel suo Diario scrive: Riguardo a dove andrà la pittura negli anni a venire, se sarà oggettiva o non-oggettiva [figurativa o nonfigurativa] e viste e considerate tutte le discussioni a questo proposito, preferisco tacere... È più facile fare previsioni per chi si tiene in disparte e analizza. Per me che invece sto creando è più facile sbagliare. Gli artisti oggettivi sostengono che avremo un’arte oggettiva, e viceversa per i non-oggettivi. Kandinskij ritiene che d’ora in avanti si procederà su binari paralleli. [...]
Noi non siamo in grado di vedere la natura. Ma neanche di riconoscerla, altro che vederla e mostrarla poi agli altri. Siamo ciechi, siamo fatti così, vediamo solo ciò che ci è stato tramandato per generazioni. Ogni nuovo modo di vedere provoca un rivolgimento. Ritengo che grazie ad essa [la creazione non-oggettiva] abbiamo potuto scoprire una miriade di cose nuove e oggetti nuovi. Alla banalità abbiamo già fatto il callo: il sole è giallo, il cielo azzurro, la luna blu... [...] E comunque in futuro la “necessità e il confort” soppianteranno la bellezza. Non è facile dire cosa ci riserva il futuro al suo posto, ma ritengo che la “creatività in quanto tale” avrà sempre modo di esprimersi6. Durante i primi anni del potere sovietico, nella pittura di sinistra la ricerca estetico-formale segue due correnti, una che parte da Van Gogh e Matisse, l’altra da Cézanne e dal Cubismo. A questo proposito, è indicativa l’ulteriore divisione in due gruppi dei pittori “di sinistra” fatta da B. Arvatov in un articolo del 1922: Kandinskij e Malevic nel primo gruppo e Rodchenko e Tatlin nel secondo. Inoltre Arvatov, nel valutare le ricerche estetico formali dei pittori, fa emergere l’atmosfera polemica che si era venuta a creare, in quegli anni, a proposito, sia degli esperimenti nel campo della forma astratta, che della graduale tendenza all’interrelazione fra le arti nonché al processo di “uscita” dalla pittura verso il mondo degli oggetti. I due principali episodi di arte astratta comprendono la poetica del Suprematismo7 e del Costruttivismo. Il compito base che si pongono suprematisti ed espressionisti (Kandinskij, Malevic e altri) [scrive Arvatov] è quello di costruire forme spettacolari, nelle quali essi vedono l’essenza stessa dell’arte. Le loro opere sono fine a se stesse, in quanto portano all’astrazione metafisica, e sono sopra e al di fuori della vita. Questi pittori vogliono dettare le loro leggi personali, leggi concepite nel loro studio. Il loro estetismo rappresenta il livello massimo di ogni estetismo. La seconda corrente (Cézanne, Picasso, Tatlin, Rodchenko), quella del costruttivismo, nega invece qualsiasi forma fine a se stessa; anzi, considera la forma non un fine ma un mezzo e, in un certo senso, la considera il risultato dell’opera creativa. Il costruttivismo si pone come compito l’elaborazione reale degli oggetti reali. A che scopo? Perché l’arte possa essere qualcosa di effettivamente sociale. Il costruttivismo è utile dal punto di vista sociale sia quando porta alla produzione industriale (l’ingegnere, il costruttore), sia quando viene appicato alla propaganda (il creatore di manifesti, di bandiere...)8. Il gruppo di lavoro dei Costruttivisti si forma nel marzo del 1921 ma, ancora prima della sua formale costituzione all’interno dell’ INChUK9 , esisteva già di fatto. Il termine Costruttivismo appare per la prima volta legato al nome del Gruppo di lavoro fondato da Rodchenko e Gan10. Gan, in una serie di pubblicazioni uscite tra il 1922 e il 1928, fa risalire la formazione del primo Gruppo di lavoro dei costruttivisti al 1920. La stessa indicazione risulta da un articolo sul Costruttivismo apparso sulla rivista “SA, Sovremennaja architektura” (Architettura contemporanea) nel 1926. Un articolo pubblicato sulla rivista Ermitaz nel 1922 riporta altre importanti notizie sulla storia della formazione del primo gruppo di lavoro dei costruttivisti. Il 13 dicembre del 1920 si è formato il primo gruppo di lavoro dei costruttivisti. Il pittore non oggettivo Aleksandr Rodchenko, la pittrice Varvara Stepanova (Varst) e l’agitatore di massa Aleksej Gan, esaminata la situazione dell’arte in rapporto alla svolta sociale e volendo dare un fondamento sociologico alle nuove correnti, hanno deciso di fare due nette distinzioni: da una parte ci sarà l’arte che continua la linea speculativa della creazione estetica, rappresentando la realtà in modo del tutto inconsapevole; dall’altra ci sarà l’arte, che inserendosi nel reale e attiva ricostruzione sociale, cerca forme di lavoro artistico che abbiano un preciso scopo sociale. Il passaggio di Aleksandr Rodchenko dalle composizioni piane astratte della creazione non figurativa, alle costruzioni di oggetti nello spazio reale; la schematizzazione pittorica e la meccanizzazione della figura umana che caratterizzano le opere di Varvara Stepanova e, infine, la cultura materialistica di Aleksej Gan (...) questi sono i motivi che uniscono gli artisti citati sul piano produttivo di un lavoro artistico cosciente.
I primi due, che hanno lavorato nel settore dell’arte figurativa, sono passati dalla composizione (di segno estetico) alla costruzione (secondo un principio produttivo); il terzo, dopo aver scoperto la magia e il fascino del teatro (l’arte scenica), è passato ad occuparsi del problema di come organizzare il tipo di vita della società lavoratrice (azione di massa). Orientati verso la futura cultura del comunismo e sulla base di una concreta analisi della situazione, hanno elaborato un programma e hanno cercato collaboratori. Il costruttivismo è diventato di moda11. Parallelamente alle ricerche artistico-sperimentali nel campo della pittura da cavalletto, i futuri creatori della prima organizzazione artistica di designer, iniziano dunque a superare il divario tra arte pura e design12. A guadagnare rapidamente terreno fu soprattutto l’idea che l’arte da “cavalletto” fosse un inutile inganno, capace soltanto di stilizzare la realtà. Come afferma il critico Osip Brik nel suo articolo «Dal quadro alla stoffa stampata»: La pittura su «cavalletto» non è soltanto inutile alla nostra cultura artistica contemporanea, essa è altresì il più potente freno al suo sviluppo...Soltanto quegli artisti che hanno compreso, una volta per tutte, che il lavoro legato alla produzione non è semplicemente una fra le forme d’arte, bensì l’unica possibile, soltanto questi artisti sono in grado di giungere alla soluzione del problema di una cultura artistica contemporanea13. Durante i primi anni del potere sovietico, nella pittura di sinistra la ricerca estetico-formale segue due correnti, una che parte da Van Gogh e Matisse, l’altra da Cézanne e dal Cubismo. A questo proposito, è indicativa l’ulteriore divisione in due gruppi dei pittori “di sinistra” fatta da B. Arvatov in un articolo del 1922: Kandinskij e Malevic nel primo gruppo e Rodchenko e Tatlin nel secondo. Inoltre Arvatov, nel valutare le ricerche estetico formali dei pittori, fa emergere l’atmosfera polemica che si era venuta a creare, in quegli anni, a proposito, sia degli esperimenti nel campo della forma astratta, che della graduale tendenza all’interrelazione fra le arti nonché al processo di “uscita” dalla pittura verso il mondo degli oggetti. I due principali episodi di arte astratta comprendono la poetica del Suprematismo7 e del Costruttivismo. Il compito base che si pongono suprematisti ed espressionisti (Kandinskij, Malevic e altri) [scrive Arvatov] è quello di costruire forme spettacolari, nelle quali essi vedono l’essenza stessa dell’arte. Le loro opere sono fine a se stesse, in quanto portano all’astrazione metafisica, e sono sopra e al di fuori della vita. Questi pittori vogliono dettare le loro leggi personali, leggi concepite nel loro studio. Il loro estetismo rappresenta il livello massimo di ogni estetismo. La seconda corrente (Cézanne. Picasso, Tatlin, Rodchenko), quella del costruttivismo, nega invece qualsiasi forma fine a se stessa; anzi, considera la forma non un fine ma un mezzo e, in un certo senso, la considera il risultato dell’opera creativa. Il costruttivismo si pone come compito l’elaborazione reale degli oggetti reali. A che scopo? Perché l’arte possa essere qualcosa di effettivamente sociale. Il costruttivismo è utile dal punto di vista sociale sia quando porta alla produzione industriale (l’ingegnere, il costruttore), sia quando viene appicato alla propaganda (il creatore di manifesti, di bandiere...)8. Il gruppo di lavoro dei Costruttivisti si forma nel marzo del 1921 ma, ancora prima della sua formale costituzione all’interno dell’ INChUK9 , esisteva già di fatto. Il termine Costruttivismo appare per la prima volta legato al nome del Gruppo di lavoro fondato da Rodchenko e Gan10. Gan, in una serie di pubblicazioni uscite tra il 1922 e il 1928, fa risalire la formazione del primo Gruppo di lavoro dei costruttivisti al 1920. La stessa indicazione risulta da un articolo sul Costruttivismo apparso sulla rivista “SA, Sovremennaja architektura” (Architettura contemporanea) nel 1926. Un articolo pubblicato sulla rivista Ermitaz nel 1922 riporta altre importanti notizie sulla storia della formazione del primo gruppo di lavoro dei costruttivisti. Il 13 dicembre del 1920 si è formato il primo gruppo di lavoro dei costruttivisti. Il pittore non oggettivo Aleksandr Rodchenko, la pittrice Varvara Stepanova (Varst) e l’agitatore di massa Aleksej Gan, esaminata la situazione dell’arte in rapporto alla svolta sociale e volendo dare un fondamento sociologico alle nuove correnti, hanno deciso di fare due nette distinzioni: da una parte ci sarà l’arte che
continua la linea speculativa della creazione estetica, rappresentando la realtà in modo del tutto inconsapevole; dall’altra ci sarà l’arte, che inserendosi nel reale e attiva ricostruzione sociale, cerca forme di lavoro artistico che abbiano un preciso scopo sociale. Il passaggio di Aleksandr Rodchenko dalle composizioni piane astratte della creazione non figurativa, alle costruzioni di oggetti nello spazio reale; la schematizzazione pittorica e la meccanizzazione della figura umana che caratterizzano le opere di Varvara Stepanova e, infine, la cultura materialistica di Aleksej Gan (...) questi sono i motivi che uniscono gli artisti citati sul piano produttivo di un lavoro artistico cosciente. I primi due, che hanno lavorato nel settore dell’arte figurativa, sono passati dalla composizione (di segno estetico) alla costruzione (secondo un principio produttivo); il terzo, dopo aver scoperto la magia e il fascino del teatro (l’arte scenica), è passato ad occuparsi del problema di come organizzare il tipo di vita della società lavoratrice (azione di massa). Orientati verso la futura cultura del comunismo e sulla base di una concreta analisi della situazione, hanno elaborato un programma e hanno cercato collaboratori. Il costruttivismo è diventato di moda11. Parallelamente alle ricerche artistico-sperimentali nel campo della pittura da cavalletto, i futuri creatori della prima organizzazione artistica di designer, iniziano dunque a superare il divario tra arte pura e design12. A guadagnare rapidamente terreno fu soprattutto l’idea che l’arte da “cavalletto” fosse un inutile inganno, capace soltanto di stilizzare la realtà. Come afferma il critico Osip Brik nel suo articolo «Dal quadro alla stoffa stampata»: La pittura su «cavalletto» non è soltanto inutile alla nostra cultura artistica contemporanea, essa è altresì il più potente freno al suo sviluppo...Soltanto quegli artisti che hanno compreso, una volta per tutte, che il lavoro legato alla produzione non è semplicemente una fra le forme d’arte, bensì l’unica possibile, soltanto questi artisti sono in grado di giungere alla soluzione del problema di una cultura artistica contemporanea13.
Stepanova e Rodchenko 1922
1924
Stepanova e Rodchenko, due figure chiave rivelatrici dell’atmosfera artistica e sociale di quegli anni. Per ribadire anche a parole il momento della nascita di questa nuova coscienza artistica gli slogan degli anni Venti di Rodchenko e della Stepanova sono indicativi: La costruzione di una nuova vita socialista non può avvenire senza una trasformazione radicale delle attuali forme esteriori della vita quotidiana14. É venuto il tempo in cui è ormai troppo poco essere un inventore o, nel peggiore dei casi, un teorico, occorre anche essere uno che fa, che costruisce [...]. Elaborare delle teorie secondo il costume di Marinetti, o, nel caso migliore, suonare del nuovo su una tromba medioevale per offrirlo all’oggi, è meno che insufficiente. Occorre creare il nuovo con nuovi mezzi di espressione15. É tempo che l’ARTE confluisca in maniera organizzata nella vita. [...] Abbasso l’arte come PIETRA preziosa tra la sporcizia e lo squallore del povero16. L’artista inventore, ovvero l’artista moderno che porterà “la rivoluzione nell’arte”17, sempre secondo Rodchenko “non deve inventare cose ed edifici eterni, ma eterni principi e sistemi”18. La russa rivoluzionaria aveva, dunque, un sogno più grande di quello inseguito dai riformatori europei: costruire un mondo e una società completamente nuovi. In questa prospettiva di rinnovamento, i vestiti vengono presi come una componente simbolica e produttiva, importante per il nuovo progetto, infatti: Il culmine della felicità non sta in una lampadina elettrica ben decorata, ma in una che dia luce e non stanchi all’occhio. Il culmine della felicità non sta in un abito in cui pavoneggiarsi, bensì in un vestito comodo, leggero e dal taglio pratico. Il culmine della felicità non sta in una donna artefatta e per metà restaurata (come una pattumiera ben truccata e ricoperta di forcine, spille, busti ecc.), ma in una donna-persona, sana, robusta, energica, vestita con abiti comodi e sempre attiva19. Se, come aveva affermato Lenin, “l’arte appartiene al popolo”, allora, anche attraverso la riprogettazione del modo di vestire del “passante casuale”, si può contribuire alla bellezza della nuova città. L’obiettivo del dopo 1917, però, non è scandalizzare i borghesi (o provocare, come accadeva con i Futuristi), ma, piuttosto creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più i segni della distinzione sociale20. Uno scopo che richiedeva anche un ripensamento di tipo produttivo: non i piccoli numeri destinati a un’élite, ma i grandi numeri di una produzione industriale di massa. La Russia, però, non aveva una tradizione nel campo della confezione: la nobiltà si era sempre servita a Parigi o dai grandi sarti della capitale, la borghesia faceva realizzare i propri abiti nelle sartorie e il popolo aveva continuato a vestire i costumi tradizionali cuciti in casa o da piccoli artigiani21, mentre molti altri indossavano ancora vecchi abiti prerivoluzionari. La maggior parte dei casi, dunque, vestiva assai poveramente, a volte adoperando lo stesso abbigliamento militare fatto di giacconi di pelle conciata, giubbe militari e divise. Inoltre, a causa della difficile situazione economica del paese, le fabbriche tessili erano in grado di produrre in quantità limitata solo alcuni tipi di tessuti peraltro scadenti: panno militare, tela, panno grezzo e indiana.
Nel 191822, pur nella complessa situazione della guerra civile, su iniziativa della famosa stilista Nadezda Lamanova, viene istituito l’«Atelier di abbigliamento contemporaneo», i cui fini sono formulati dalla Lamanova stessa alla Conferenza panrussa «Arte e industria» nel 1919: L’arte deve penetrare in tutti gli ambiti della vita quotidiana, sviluppando il gusto estetico e la sensibilità delle masse. Nel campo dell’abbigliamento gli artisti devono ideare, usando materiali semplici, abiti facili e belli allo stesso tempo, che si adattino alle nuove esigenze della vita lavorativa23. Se a causa della crisi economica, le formulazioni della Lamanova rimangono un mero “manifesto” teorico, la progettazione del nuovo tipo di abito è continuata dal gruppo di artisti che negli anni ‘20 si riuniva intorno alla rivista «LEF». Il teorico del movimento costruttivista nel settore del costume è Varvara Stepanova. In un numero del 1923 di «LEF» si evince l’intenzione di creare abiti funzionali, semplici, comodi, adattabili alle condizioni di vita e di lavoro: La moda che riflette le abitudini, il gusto estetico, sta cedendo il posto al vestito programmato, prodotto per il lavoro che si svolge nei diversi settori, per una precisa azione sociale [...]. Ogni particolare decorativo è abolito dallo slogan seguente: «La comodità e la funzionalità del vestito devono essere legate a una determinata funzione produttivista». [...] Mi spiego meglio: non si devono attaccare ornamenti al vestito, ma le stesse cuciture, necessarie dopo il taglio, gli daranno forma. Bisogna mettere a nudo le cuciture, la sua abbottonatura ecc. [...] E la forma, cioè tutto l’aspetto esteriore del vestito, perde ogni arbitrarietà perché scaturisce dalle esigenze del compito che si è prefissati e dalla sua realizzazione materiale. Il vestito attuale è la tenuta produttivista (prozodezda), cioè la tenuta da lavoro che si distingue, secondo la professione e, secondo la produzione. Ciò universalizza la tenuta e insieme le conferisce un tono particolare. Per esempio, la tenuta di un operaio deve uniformarsi ad un principio generale nel sistema del taglio: proteggere il lavoratore dalla eventualità di essere ferito dalla macchina alla quale lavora. [...] Per l’abito di un ingegnere costruttore la caratteristica generale è la presenza di una grande quantità di tasche... Un posto particolare tra i vestiti produttivisti occupa la tenuta speciale (specodezda), che ha esigenze peculiari e comporta una certa attrezzatura. Sono di questo tipo le tenute dei chirurghi, dei piloti, degli operai che lavorano in fabbriche dove si producono acidi, dei pompieri, dei membri di spedizioni polari... La divisa sportiva (sportodezda) è sottoposta a tutte le esigenze fondamentali della prozodezda e cambia di aspetto in relazione allo sport: calcio, sport della neve, canottaggio, pugilato e atletica. Una caratteristica particolare della divisa sportiva è la necessaria presenza su di essa di precisi segni (emblemi, forma e colore della divisa ecc.) che distinguono i membri di una squadra dall’altra(«Lef», 1923, n. 2)24. Sempre nel 1923 la «Pravda» pubblica un appello dove invita gli artisti ad andare a lavorare nelle fabbriche e in particolar modo per rinnovare il disegno del tessuto. Rispondono immediatamente la stessa Varvara Stepanova e un’altra pittrice, Ljubov’ Popova che andranno a dirigere, successivamente, il laboratorio di design della «Prima Fabbrica di cotone stampato» di Mosca.
Audacia e novità del disegno25, vivacità dei colori: furono questi gli elementi a determinare uno straordinario successo, a far parlare delle creazioni delle due artiste, come di «prima moda sovietica», così come scriveva la stampa di quegli anni: La Marquisette26 e l’indiana sono diventate non solo raffinate, ma si sono elevate a livello di un’arte straordinaria, ed hanno fatto affluire a fiumi interminabili, nelle città della nostra sconfitta Repubblica, i colori intensi e gli ornamenti vibranti dell’arte del nostro tempo27. L’esperienza della Popova e della Stepanova, primi artisti ad essere impiegati come designer professionisti nell’industria tessile russa, non fu facile; l’ignoranza e il conservatorismo che ancora regnava in quegli ambienti, contrastava con le loro idee, tra l’altro già rese note in occasione della Prima Conferenza Panrussa di Arte Industriale del 1919: (L’Arte) deve penetrare in tutte le sfere della vita quotidiana, deve sviluppare nelle masse il sentimento e il gusto per l’arte. L’abbigliamento, a questo riguardo, è uno dei veicoli più adatti (...) negli affari commerciali connessi al vestiario gli artisti devono prendere l’iniziativa e operare alla realizzazione di forme di abbigliamento semplici ma piacevoli e di stoffe comuni, un abbigliamento che sarà conforme alla nuova struttura della nostra vita di lavoro28. La questione dell’abito va inserita, però, all’interno di una discussione più globale: il “nuovo corpo” in prospettiva del nuovo uomo, o meglio, dell’eroe. Bisogna, anzitutto precisare, che se la moda è un fenomeno puramente urbano29, essa non aveva alcuna ragione di esistenza nelle città russe, dove la fissità del modello strutturale sottendeva una identica staticità economica e sociale. L’abito per questi tempi nuovi, infatti, viene designato con i vocaboli di Kost’jum e Plat’e, quasi a simboleggiare l’irreversibilità, l’immutabilità dei rapporti sociali, la stabilità ricercata e la scomparsa di qualsiasi contrapposizione (ad esempio tra lavoro manuale e intellettuale). Kost’jum è l’equivalente di costume (in italiano) che si distacca dal termine moda. Questi due campi semantici di costume e moda, sono stati descritti, con sottile acutezza, da Levi-Pisetzky: (...) Per costume intendiamo qui principalmente il termine nel suo significato di “modo di vestire”, apparso nella nostra lingua già nel Cinquecento, senza dimenticare che, implicitamente, questa espressione indica di solito un carattere di durabilità ed anche una certa uniformità: così costume popolare, costume ecclesiastico, costume aulico (...). Invece la parola moda, introdotta in Italia verso la metà del Seicento, [“usanza che corre”, la si usa definire], ci propone una brillante immagine di fugacità, di variabilità, di novità (...)30. Un abito dunque non più come ludica esibizione di se stessi, non strumento di comunicazione del singolo, non richiamo amoroso, né personale ricerca estetica o affermazione di superiorità sociale, ma ritorno all’idea di divisa tale da frenare uno dei motori principali della moda: l’imitazione31. Quest’ultimo comportamento porta con sè una sorta di pratica magico-rituale: i popoli sottomessi, tendono sempre ad imporre a se stessi comportamenti imitativi, rispetto alla comunità dominante: si ottiene una sorta di prototipo magico, appunto, suscettibile, per analogia, di produrre, suscitare la realtà raffigurata32.
Ritornando al discorso sul corpo, è interessante notare come per molti, specialmente all’interno di un principio teatrale molto discusso nel 1910 (dal commediografo Nikolaj Evreinov, per esempio), la nudità fosse considerata un equivalente di democrazia o, comunque, una forma più espressiva di “abito”. Inoltre, se, nella prospettiva del “nuovo corpo” e all’interno della “nuova struttura economica, politica e sociale russa”, nasceva la neccessità di riconsiderare sia la psicologia che la fisiologia umana, saranno artisti e scienziati ad occuparsene che, lavorando intorno ad una sorta di “ingegneria biologica”, iniziavano ad avere un ruolo maggiore e innovativo nella definizione visiva e semiologica della vita sovietica quotidiana. Il nuovo corpo veniva rafforzato anche da alcuni miti, come Prometeo o bogatyr (eroe epico del folklore russo dalle gesta sovrumane). Anche la letteratura e l’arte proponevano i loro eroi: l’uomo nuovo di Lisickij viene rappresentato in alcune litografie come una sorta di nuovo abitante, aerodinamico e automatizzato. Le figure robotiche di Malevic nei suoi paesaggi della fine degli anni ‘20 inizi anni ‘30, sembrano, invece, voler rappresentare un nuovo essere umano, mutato fisicamente e psicologicamente. Nietzsche, Feuebach, Marx rappresentano, sin dall’inizio del XXIX secolo, la fonte inspiratrice per molte teorie nell’approccio russo con l’umanità. Effettivamente, al contrario di tutti gli sforzi dello Stato per negarlo33, la Rivoluzione aveva distrutto l’intera “salute” sovietica, infatti in alcuni testi dedicati a quel periodo si legge: Eight years of war, social upheaval, economic collapse and famine, 1914-22, had done enormous damage to mental health. Psychiatrists used various terms to describe what they saw...Some spoke of mass neurasthenia, others of mass schizoidisation, or the widespread appearance of autistic symptoms, or simply of “Soviet iznoshennost” (exhaustion or premature aging)...Whatever terms were used, there was a general agreement on a great increase in the number of psychically bruised and worn-out people, tending to shrink into themselves, to to become apathetic, or to lose the capacity for work...34. Gli eroi, dunque, non mancavano, a quei tempi, specialmente quando i Soviet cercavano di ricostruire l’identità del popolo russo tramite la figura tanto pubblicizzata dello “sportivo-lavoratore”. Il culto di Aleksei Stakhanov (da qui il famoso stacanovismo) ne è un esempio: operaio modello, lavoratore infaticabile anzi oltre ogni limite previsto, è noto per aver estratto 102 tonnellate di carbone durante la notte del 30-31 agosto 1935. Enfatizzare sulla sua forza fisica, ovviamente, faceva aumentare la competizione-emulazione tra gli operai, e tutto a favore della produttività sul lavoro. Ma lo Stato non solo si preoccupava dell’educazione fisica della sua gente ma comunicava la sua stessa forza e solidità tramite le grandi parate di sportivi, che in quegli anni rappresentavano una sorta di “liturgia nazionale” del comunismo (oltre che del fascismo). Secondo Susan Sontag, la funzione di quelle cerimonie è abbastanza chiara: Their function is clear: such choreography rehearses the very unity of the polity35. Inoltre, the utopy [the integration of the sport with labour] is seen most clearly in the sports pageants, in which labour and sports images are merged in allusion to the Marxist prophesy of a future elevation of work to the plane of recreation or play.
The sportsman is thus an inevitable new man type because of this characteristic combination of the present and future36. Vi è poi la fede, ingenuamente positivista, nelle nuove tecniche produttive, la suddivisione del lavoro, la catena di montaggio; fede che si manifesta nel masinizm (macchinismo), idolatria del taylorismo, della macchina, ininfluente se meccanica o umana37. É in questa atmosfera che si porta all’esasperazione l’utopia dell’ibrido uomomacchina. Nel 1924, l’Istituto Centrale del Lavoro, apre dei laboratori di Psicotecnica (Psychotechnics), ovvero lo studio di tutti gli aspetti fisici e psichici coinvolti durante il lavoro. Secondo il poeta e scienziato Aleksei Gastev, nonché teorico della psicotecnica, “the mechanised body becomes an extension of the machinery of the state” e per tanto, bisognava educare il lavoratore a fidarsi della macchina e ad articolare il proprio corpo con l’esattezza e precisione della macchina stessa. Infatti: “The methodical, constantly growing precision of work, educating the muscles and the nerves of the proletariat, imparts to proletarian psychology a special alertness, full of distrust for every kind of human feeling, trusting only the instrument, the apparatus, the machine”38. In un altro studio di Biomeccanica (Biomechanics), utile soprattutto per gli attori, Maierhold teorizza, invece, l’esistenza di ventidue tipici movimenti del corpo in relazione allo stato mentale dell’uomo: the human organism as “an automotive mechanism”39. Ovviamente, se le motivazioni di ordine sociale sono insufficienti per spiegare la livrea costruttivista degli artisti di quel periodo, possono almeno aiutarci a comprendere il perché di alcune loro scelte specialmente in relazione alla condizione di “uomo nuovo sovietico”. Lo sperimentalismo e la necessità di comunicare con il grande pubblico (specialmente negli anni della trasformazione sovietica) è uno dei motivi di lotta interiore che ogni artista vive. La ricerca incessante dell’artista Rodchenko e in fondo di tutti i costruttivisti, era una lotta contro i mezzi e i metodi tradizionali, contro i vecchi criteri stilistico-decorativi. Insistendo sulla finalità utilitaristico-costruttiva che doveva avere la nuova forma degli oggetti, avevano veramente intenzione di fissare un nuovo modo di concepire il valore estetico della forma. Il rapporto di Rodchenko con l’arte andava ben oltre la semplice negazione. I suoi slogan riflettevano il desiderio di essere un artista nel lavoro per la vita. Nel 1920-21, sempre fermo nel proposito di non voler subire le limitazioni della superficie della tela, non ci sorprenderà dunque se, Rodchenko, contemporanemante ai lavori spaziali, realizza una tuta da lavoro sulla linea della specodezda che la Stepanova (intanto sua compagna) approfondirà successivamente. In una foto del 1922, infatti, si vede Rodchenko indossare la tuta mentre sullo sfondo appaiono alcune sue costruzioni spaziali smontate (e non è per niente casuale!). In entrambi i casi il principio adottato è la semplificazione. Inoltre, messo da parte il pennello, i nuovi strumenti, quali il compasso, il regolo, le mascherine e lo spruzzo lo avvicinano ancora di più ad una pratica non più pittorica, ma in termini di design progettuale. Così come la sua tuta, le superfici piane delle sue composizioni tridimensionali, venivano tagliate lungo linee che, in questo caso, tracciavano, secondo il pricipio delle forme analoghe,
figure concentriche. Dal 1921 al 1924, Rodchenko insegna al VCHUTEMAS (Istituto Superiore delle Arti e delle Tecniche fondato nel 1920). É interessante come una studentessa descrive gli effetti della sua personalità durante una prima lezione alla Facoltà della lavorazione dei metalli: The first lesson. A man looking like a pilot or chauffeur came into the studio. His clothes: a beige jacket reminiscent of a uniform, grey-green riding-breeches, black lace-up boots and grey gaiters. On his head a black cup with a broad, shiny-leather peak. His face was very pale, with regular features...I immediately realized that he was a new, special type of person...He seemed a quiet sort of man, shy, not saying to much, but one sensed in him the power of a resolute man who knew where he was going40. Anche le foto della Stepanova mostrano la figura di un artista che molto spesso indossa i propri vestiti curati anche nel design della stampa. Gli autoritratti di Rodchenko e della Stepanova, assieme ad una serie di caricature, però, non servono ad esaltarli come fossero i tanto acclamati “eroi al lavoro”, ma piuttosto ne delineano un certo umorismo di uomini e donne che cercano di essere tali ma in maniera nuova. In the context of posters, for which they often served as prototypes, photos of Stepanova have the same programmatic character as Rodchenko’s self-portraits. Both artists appear in the photographs as vital, positive and individual personalities. The intention is obviously to point the way ahead, as is evidenced by the clothes and the poses - a sense of humor can be deducted in the choise of the latter. These portraits are certainly not comparable with the later“Heroes of Work”, though they were no doubt the inspiration, if not the model, for these. Caricatures drawn by Stepanova showing her and “Anti” - as friends called Rodchenko - in working - clothes they had designed themselves are also, on a humorous level, inteded to be portraits of the new man and woman41. I costumi della Stepanova non poterono essere replicati in quegli anni su scala industriale, ma molte delle idee trovarono attuazione nel teatro, dove furono applicate con straordinario successo, La morte di Tarelkin di A.Suchovo-Kobylin, con regia di V.Majerchol’d del 1922, le offrì l’opportunità di dare movimento, in un ambiente vivo e tridimensionale, alle divise da lei disegnate42. Il teatro fu sicuramente, anche per Rodchenko, un “laboratorio artistico-figurativo per un nuovo stile di vita”, una sorta di luogo dove rappresentare il “bollettino quotidiano” (la scenografia e i costumi de La Cimice restano tuttora un enigma, con il loro carico di ironia e scetticismo, che si traduce nella rinuncia alla rappresentazione realistica di un futuro non prevedibile43). Un confronto tra Parigi e Mosca ci chiarisce ancora di più come la Russia degli anni ‘20 tenta in tutti i modi una ricostruzione, soprattutto industriale. Rodchenko, con la sua esperienza del 1925 a Parigi, ce ne dà una conferma. In alcune sue lettere scritte alla moglie Stepanova, Parigi lo aveva praticamente trasformato in un’altra persona, anche in vista di un rapporto diverso tra le cose e le persone. Tra l’altro, una delle sue prime reazioni a questa nuova realtà, fu quella di cambiare il vestito. Un vestito, adesso, ben lontano dall’immagine di un Rodchenko in stivali e “goffa” (quasi „stacanovista”) prozodezda, come in una delle più famose foto nel suo studio di Mosca dimostra.
Immediately upon arrival he took advantage of the highly favorable ruble exchange rate and bought himself a new suit, shoes, suspenders, collars, cocks, and more. Later he notes: “I have to buy myself a damned hat, I can’t walk around in my cap because not a single Frenchman wears one, and everyone looks at me disapprovingly, thinking that I’m a German”. The very rhythms and bodily sensations of his everyday life are transformated: he now goes to bed early and gets up early, like the French and unlike Russian bohemians. He repeatedly mentions the hot running water in the hotel room: “I’ve become a complete Westerner. I walk around clean, shave every day, wash myself all the time”44. Parigi attrae ma nello stesso tempo crea in Rodchenko una reazione opposta. Molte delle cose della vita quotidiana lo stupiscono, ma ciò che pare non voler assolutamente accettare è la moda che ha trasformato la donna alla stregua di un oggetto (di culto per gli uomini). [One of the most destructive incarnation of the commodified relation between subject and object that he sees in Paris is the cult of woman as thing]. Woman becomes objectified because of her subjection to the whims of fashion, he tells Stepoanova, to the point that ugly women are now in fashion, women “with thin and long hips, without chests and without teeth and with disgracefully long hands topped with red stains, women in style of Picasso, women in the style of “hospital inmates, women in the style of “the dregs of the city”45. [...] His observations of the fox-trotting public make him long for the East: “How simple, how healthy is this East, this you can see clearly only from here [Parigi]. (Letters, March 25)
NOTE 1 Nell’età dell’industrializzazione la Russia degli zar tentò di introdurre nei suoi territori il “sistema di fabbrica”. Già negli ultimi decenni dell’ottocento le riforme di Alessandro II avevano posto le premesse di uno sviluppo moderno, estendendo la rete ferroviaria; in questa direzione proseguì, agli albori del Novecento, il ministro Sergej Vitte (1849-1915) che, accentuando il protezionismo statale e incoraggiando l’afflusso dei capitali stranieri, soprattutto francesi, facilitò la formazione di alcuni complessi industriali della regione di Mosca (tessili, metallurgici, chimici), in quella di Pietroburgo (tessili, meccanici), nel territorio degli Urali (minerarie), sulle rive del Caspio (petroliferi). L’industrializzazione rinnovò l’arcaica società russa nella quale sorsero i primi consistenti nuclei operai. Questi, all’inizio del Novecento, assommavano a circa 2 milioni di abitanti: un proletariato scontento ed inquieto, la cui protesta, ben presto, si aggiunse a quella delle campagne. Già alla fine dell’Ottocento si ebbero i primi scioperi a Pietroburgo, a Riga, a Rostov, a Mosca; le agitazioni aumentarono nei primi anni del nuovo secolo e sboccarono nella rivoluzione del 1905. La guerra mondiale esaspera ancora di più la situazione delle classi lavoratrici sino a provocare la rivoluzione spontanea del febbraio 1917. Il fallimento delle riforme e la ormai evidente impossibilità di correggere il sistema zarista accrebbero l’impegno dei gruppi di opposizione (liberali, socialisti rivoluzionari e socialdemocratici) e fecero prevalere tra questi la decisione rivoluzionaria dei bolscevichi. Nikolaj Lenin, l’uomo che dirige la politica bolscevica fino al 1924, seguendo la dottrina di Marx, era convinto che ogni mutamento sull’assetto sociale, ogni vittoria del nuovo sul vecchio, avrebbe costituito un avanzamento anche per gli operai e i contadini russi. Per tali ragioni, Lenin, non aveva esitato di incoraggiare la classe operaia russa ad allearsi con la borghesia nella lotta contro lo zarismo. Le manifestazioni nelle città diventano sempre più frequenti, si susseguono scioperi, manifestazioni, comizi. Ad esempio, nel 1916, a Pietrogrado, la “domenica di sangue” fu ricordata da una massa di oltre 100.000 dimostranti che scesero nelle strade con le bandiere rosse, alternando al canto degli inni rivoluzionari, le grida di “abbasso la guerra!”. (Antonio Desideri, Mario Themelly, Storia a storiografia il Novecento: dall’età giolittiana ai nostri giorni. Firenze, Casa editrice G.D’Anna, 1997, ed. cons. 2000, pp. 206-221, “La Rivoluzione d’Ottobre e la formazione dell’Unione Sovietica”). 2 Guido Giubbini, Laura Gavioli, Il tempo delle illusioni Arte Russa degli anni Venti. Milano, Edizioni Charta, 1995. 3 Molodaja federacija (La federazione dei giovani), Central’naja federacija (La federazione di centro), Starsaja federacija (La federazione degli anziani). Di fatto erano chiamate: Sinistra, Centro e Destra. Tra i pittori di sinistra c’erano i futuristi, cubisti, suprematisti e astratti. In quella di centro c’erano i pittori appartenenti ai gruppi: Il mondo dell’arte, L’unione dei pittori russi, Il fante dei quadri, La coda d’asino e altri. In quella di destra: L’Unione dei pittori russi, Gli ambulanti e altri. (Vieri Quilici, Aleksandr Rodchenko 18911956. Milano, Idea Books Edizioni, 1986, p. 32) 4 Op. cit., 1995, p. 45. 5 Ibidem. 6 Julia Dobrovolskaja, Rodchenko Grafico, designer, fotografo. Traduzioni Claudia Zonghetti, Milano, Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta, 1992, p. 42. 7 Nei suoi fondamenti intuitivi e di azzeramento di ogni logica descrittiva, il Suprematismo è una poetica con radici nel pensiero orientale che aspira a un sapere cosmico e a una visione universale dell’arte. Nella sua prima e proclamata formulazione, negli sviluppi d’immagine e teorici, il Suprematismo appartiene alla vicenda espressiva di un solo artista: Kazimir Malevic (1878-1935). Processo, o filosofia pittorica, che nel coinvolgere le pratiche pittoriche negli atti de-realizzanti della coscienza, si spinge sino alla soglia più estrema fra immagine e pensiero, ossia alla dissolvenza dell’immagine stessa nella teoresi poetica. Poiché ogni aspetto dei nostri rapporti con la realtà appartiene ai processi simbolici, (...) poiché il nostro sapere consiste soltanto in un accumulo di rappresentazioni, anche la pittura appartiene a questo sapere, alle sue forme di rappresentazione simbolica della realtà. Per il pittore, la «realtà», dice Malevic, non si dà nella natura «ma nella sua superficie figurativa», la pittura è tale solo quando in essa «le cose rappresentate hanno perso ogni natura reale: peso, mobilità, spazio e tempo». Sta nella consapevolezza di questa verticale separazione, tra coscienza e realtà, il nodo concettuale su cui si fonda il significato non-oggettivo della pittura suprematista. Un significato che pone la pittura, il corpo pittorico, in piena autonomia ed equivalenza al cospetto della totalità dell’esistente, dell’essere nella sua pienezza cosmica. Il principio di fondo che guida la poetica maleviciana colloca l’uomo e la pittura al cospetto di tutta la realtà del proprio tempo. Di questa relazione ineludibile, la pittura non dovrà più dare testimonianza più o meno imitativa, ma, invece, di apporto conoscitivo,
di addizione creativa e autonoma. Dinanzi pertanto all’impegno di liberare la pittura da ogni legame imitativo, si pone comunque per Malevic la realtà, quella compresa nella trama degli aspetti legati all’esistenza. Ossia: il vissuto moderno nell’orizzonte della natura e nell’orizzonte della città. (Luigi Paolo Finizio, L’Astrattismo costruttivo Suprematismo e Costruttivismo. Roma, Edizioni Laterza, 1990) 8 Op. cit., 1995. 9 L’ INChUK, 1920-1924, era un particolare tipo d’associazione di pittori, scultori, architetti, critici e teorici dell’arte produttivista e un importante centro di formazione dei principi teorici delle correnti artistiche innovatrici. 10 Oppure, come ricorda puntualmente Max Bill solo nel 1921 Varvara Fedorovna Stepanova usò per la prima volta il termine «Costruttivismo» per definire gli scopi dei gruppi culturali che allora stavano a fianco della rivoluzione in Russia, indicando per essi definiti indirizzi. E solo in quel momento venne sanzionata ufficialmente la divergenza dell’avanguardia russa dai temi delle parallele manifestazioni europee, dal futurismo italiano, in particolare. Cit. in Tullio Reggente, Immagine del Costruttivismo. Udine, L’Asterisco Editore, 1992. 11 Op. cit., 1986, p. 91, n.13. 12 Più di ogni altro gruppo il Costruttivismo esprime la necessità di correlare e inserire la pratica artistica nel processo di costruzione e di evoluzione sociale scaturito dalla Rivoluzione d’Ottobre, attraverso un serrato pragmatismo volto all’indagine dei materiali a tutto discapito delle componenti estetizzanti e soggettive dell’opera d’arte tradizionale. 13 Lidija Zalëtova, L’abito della rivoluzione. Venezia, Marsilio, 1987, pp.175-177. 14 Op. cit., 1986, p. 51. 15 Op. cit., 1990, p. 131. 16 Op. cit., 1992, p. 44. 17 Dagli Slogan del 1920 di Rodchenko e Stepanova: “La rivoluzione sta tutta nella liberazione dell’arte dall’estetica, dalla figuratività e dall’arte stessa”. “Colui che ha saputo organizzare la propria vita, il proprio lavoro e se stesso: questo è l’artista moderno”. (Ibidem, p. 44) 18 Ibidem, 19 Ibidem. 20 Anche perché in una società dove alla non circolazione della moneta corrisponde la non circolazione delle merci sul mercato, il segno vestito è solo un denotato della funzione sociale dell’individuo all’interno della struttura sociale. (Op. cit., 1987, p. 39) 21 Enrica Morini, Storia della moda XVIII-XX secolo. Milano, Skira, 2000, pp. 138-139. 22 Si dimentica spesso, però, che i pittori più rappresentativi della fin de siècle russa , di cui molti legati ai Ballets Russes, come Lev Bakst, Aleksandr Benois, Ivan Bilibin, Aleksandr Golovin, Boris Kustodiev e Konstantin Somov, non dipinsero solo quadri o illustrarono libri ma disegnarono anche abiti (Op. cit., 1987, p. 19). 23 Op. cit., 1987, p. 10. Protocolli della I Conferenza generale russa sull’industria artistica, tenutasi nell’agosto del 1919, Moskva, 1920, pp. 37-38. 24 Ibidem, p. 173-174. 25 I disegni della Popova e della Stepanova vivono nell’accordo di figure geometriche semplici: cerchi, rombi, griglie, zigzag. Spesso si colgono tracce della realtà industriale: denti di ingranaggi, ruote, leve. Viene utilizzata anche la simbologia del nuovo Stato sovietico: la falce, il martello, le stelle rosse. (Ibidem, p. 4) 26 Gli altri tessuti di cotone in voga negli anni ‘20: indiana, crêpe, armure, volta. (Ibidem, p. 6) 27 Ibidem, p. 4. 28 Ibidem, p. 22. 29 Come la cultura, anche l’abbigliamento, che della prima è diretta espressione, si configura come un atto comunicativo di una realtà sociale nella quale l’individuo è soggetto portatore di bisogni, aspettative e ruoli specifici. 30 Ibidem, p. 33. 31 Ibidem, p. 39. Il signore delle terre, infatti stimola e adotta novità per distinguersi dai ceti subalterni, ma questi, non alieni dall’ostentare il proprio stato pecuniario, lo imitano, pungolando il signore alla caccia di nuovi segni di distinzione, di un nuovo modo di abbigliarsi, che perpetui la disparità. 32 Ibidem, p. 34.
33 Matthew Cullerne Bown, Brandon Taylor, Art of the Soviets: painting, sculpture and architecture in a one-party state, 1917-1922. Manchester, Manchester University Press, 1993, p. 44. Palese era la tendenza a proiettare miti del passato verso il futuro: così facendo si trascurava il presente. Infatti in Art of the Soviets si legge: “In the transformation of aviators and champion workers into mythic heroes of the past and the future, present-day reality tends to disappear. 34 Op. cit., 1993, p. 46. 35 Ibidem, p. 40. 36 Ibidem. 37 Op. cit., 1987, p. 39. 38 Op. cit., 1933, p. 37. 39 Ibidem, p. 39. 40 Peter Noever, Rodchenko-Stepanova The Future Is Our Only Goal. Munich, Prestel-Vergal, 1991, p. 24. 41 Op. cit., 1991. 42 Op. cit., 1987, p. 24. 43 Op. cit., 1986, p. 13. 44 Christina Kiaer, Rodchenko in Paris. «October», Cambridge, MIT Press, n.75, Winter 1996, p. 10. 45 Ibidem, p. 14.
Tatlin 1923
Come Rodchenko e la Stepanova, anche Vladimir Tatlin si dedica con cura particolare alla progettazione di abiti da lavoro, prediligendo capi confortevoli e pratici. Il Dipartimento di cultura materiale (OMK) istituito presso l’Istituto scientifico centrale si occupava allora della progettazione di nuove forme di abbigliamento per vivere il quotidiano, denominate «normal’ - odezda» (abbigliamento normale). È in collaborazione con questo dipartimento che Tatlin realizza la maggior parte dei suoi progetti. Tra questi il più interessante è un modello di giacca (TAV Ia) trasformabile alternativamente in capo estivo e invernale. L’artista descrive accuratamente il suo progetto, sottolineandone la praticità e la facile reversibilità, tutta basata sulla possibilità di sostituzione della fodera: flanella per la versione estiva e pelliccia per quella invernale. La giacca era altresì dotata di «ricambi» necessari per la sostituzione delle parti lise. Questa stessa soluzione viene applicata all’abito estivo. Tatlin si è fatto spesso fotografare con indosso la famosa giacca e, realizzato personalmente il cartamodello, lo fa pubblicare su molte riviste. Suoi sono inoltre prototipi di sedie e poltrone dalle forme comode e nuove, caratterizzate da una solida struttura in metallo. L’artista intende circondare l’uomo di oggetti che ricreano attorno a lui un ambiente armonico e unitario condividendo, così, gli obiettivi dei fautori della nuova esistenza1. Tatlin, a differenza dei Gruppi di lavoro costruttivisti, sviluppa autonomamente una ulteriore concezione di design produttivista orientato principalmente su una «cultura materiale» e «organicista». O così come egli stesso dichiara: Ho proceduto dalla costruzione materiale delle forme più semplici fino a quelle più complesse: queste sono state abiti, oggetti di tutti i giorni, fino alla costruzione architettonica in onore del Comintern. La macchina volante, allo stato attuale del mio lavoro, è la forma più complessa (...). Come risultato di questo lavoro sono giunto alla conclusione che l’approccio dell’artista con la tecnologia può e deve infondere nuova vita ai metodi sorpassati (...). Il mio apparato è costruito sul principio di oggetti viventi, forme organiche. L’osservazione di queste forme mi ha spinto alla conclusione che le forme più estetiche sono davvero le più economiche. Della cultura materiale sono un esempio i suoi Controrilievi (1914), che se chiudono definitivamente il ciclo della pittura, aprono l’affascinante capitolo del controllo sulla materia. A partire dalla nozione di «fattura»2 cubofuturista, Tatlin propone una serie di collage materici, fedeli al motto «mettiamo gli occhi sotto il controllo del tatto». I Controrilievi, come una superficie che si dilata, abbandonano i confini volumetrici della cornice, e da quadri si mutano in composizioni spaziali che coinvolgono l’ambiente fisico con il quale, adesso, si trovano ad interagire. Ed è questa la via del design, a cui sono d’impaccio le regolamentazioni geometriche a priori così come le sovrastrutture ornamentali, e che, invece, trova fertile terreno nelle potenzialità espressive e morfologiche offerte dal materiale, più che nell’esaltazione dei requisiti funzionali. La ricerca sui controrilievi va dunque a inserirsi nella scala intermedia fra oggetto e ambiente che lo circonda, che è, in definitiva, il continuum tra architettura (la costruzione dello spazio) e industrial design (la cultura dei materiali)3.
Il Letatlin (TAV Ib) è invece l’esempio del tentativo «organicista» di Tatlin a superare lo stallo tra formalismo e ingegneristica che si profilava agli inizi degli anni ‘30: deviazione tesa alla ricerca di un nuovo equilibrio fra arte, tecnica e potere nella Russia Sovietica. Il progetto del Letatlin, specchio e simbolo della crisi che investe tutta una generazione, proprio perché condotto nel periodo che segue la morte di Lenin e la presa del potere da parte di Stalin, ha comunque l’innegabile capacità di proporsi come metaforica sospensione temporale dal contingente, e quindi di perdere i segni della storia, rivelando nella nudità del suo scheletro tracce profonde di tutto il cammino poetico dell’artista. Il carattere di questo lavoro si gioca tutto sul filo di una palingenesi degli aspetti sensoriali ed estetici del volo ad uso delle masse5: Nel Letatlin non vuole esserci un passeggero come in uno Junkers, per esempio una persona che si annoia, che siede su una poltrona di pelle e soffre mal d’aria (...). Mettere una sedia sul Letatlin è assurdo come metterne una sulle ali di un uccello che vola (...). Gli uccelli imparano dalla nascita, così anche gli uomini dovranno imparare6. Nella realizzazione del Letatlin si assommano i contrasti, i sogni e le speranze andate deluse, latenti nelle avanguardie sovietiche al declino della loro fase eroica. Tatlin, che fu uno dei più solleciti a perorare la causa rivoluzionaria, rientra in quella generazione di artisti e intellettuali coinvolti in incarichi di particalare rilevanza nell’edificazione del nuovo modello sociale, seppur sempre sotto l’egemonia della politica. Secondo le stesse parole di Tatlin, accettare o non accettare la Rivoluzione d’Ottobre, non fu mai una questione che si era posto, semmai, senza esitare fu tra i primi ad immergersi organicamente nella vita sociale e pedagogica. Effettivamente, i modi con cui gli artisti potevano concretizzare lo slogan «tutta l’arte e tutto il popolo» sono essenzialmente due, nell’arte di propaganda e nel riassetto dell’istruzione artistica: Tatlin sarà in prima linea su entrambi i fronti7. Per Tatlin, che insegnerà «Cultura dei Materiali» al Dermetfak fra il 1927 e il 1930 e alla facoltà della ceramica, il progetto di design non si incentra nella trasposizione dei nuovi principi adottati in pittura quali universali per la costruzione dell’oggetto d’uso, (come per Rodchenko), bensì su ricerche sperimentali sulle proprietà dei materiali. Superando d’un colpo la fase futurista dell’ostentazione di novità uniche ed irripetibili, e concentrandosi sul disegno di oggetti per la vita quotidiana , Tatlin prefigura così una cultura materiale basata né sul vecchio, né sul nuovo, ma sul necessario. La relazione che si instaura fra materiale e uomo, prende così il posto della pura percezione estetica negli obiettivi dell’arte8. In uno scritto del 1930 intitolato «i problemi della relazione fra uomo e l’oggetto», vengono indicati alcuni punti che chiariscono meglio il processo inventivo di Tatlin verso la ricerca del necessario: Tutta la nostra vita, ed anche la produzione, è sovrabbondante di oggetti, e soprattutto di oggetti che ne contengono altri. Noi dobbiamo sforzarci di eliminare questi ultimi e di prenderne solo certe parti e introdurle nelle
costruzioni architettoniche. Ma di cosa ci dobbiamo servire nella costruzione di un oggetto o di un altro? Il ruolo della tecnologia è il primo ed essenziale. Ma questo non è abbastanza. Oltre a «che cosa», il «come» è molto importante, la forma organica è importante. Per questo noi prendiamo e analizziamo un oggetto esistente, usiamo le costruzioni tecniche come modelle per le forme dell’oggetto per la vita quotidiana, e in ultimo utilizziamo come modelli anche i fenomeni viventi della natura. NOTE 1 Strizenova Tat’jana, Moda e design in Russia. Verona, Olograf, 1917. 2 Michele Ray, Tatlin e la cultura del Vchutemas 1885-1953 1920-1930. Roma, Officina Edizioni, 1992, p. 30. Con lo scritto «Konstruktivizm», Alekseij Gan, teorico, grafico, progettista di chioschi e strutture smontabili per la vendita di libri e giornali, pose la sua ipoteca per la guida spirituale del movimento. Nel suo «manifesto organico del Costruttivismo», Gan individua tre concetti fondamentali, momenti chiave della progettazione artistica: la tettonica, la fattura e la costruzione. In questo caso per fattura si intende il processo di lavorazione del materiale, tramite il quale la materia grezza viene selezionata e rielaborata per renderla idonea alle funzioni che sarà chiamata ad assolvere. Lavorazione del materiale per intero e non soltanto nella superficie. 3 Op. cit., 1992, p. 42. 4 L’aspirazione a realizzare un oggetto che permetta all’uomo di elevarsi in volo con le proprie forze, attraverso l’uso combinato di studi sulle forme della Natura e considerazioni tecnologiche, evoca, anche nella grafica, le macchine leonardesche. (Ibidem, p. 8) 5 Op. cit., 1992, pp. 7-8. 6 Ibidem, p. 8. 7 Ibidem, pp. 13-14. Tatlin viene nominato presidente del Dipartimento di Belle Arti (IZO) di Mosca (1918); è responsabile del quadro del Piano Monumantale di Lenin, ovvero della edificazione di 50 monumenti a Mosca (1918); insegna al Dipartimento di Cultura Materiale presso l’Istituto GINChUK di Pietrogrado (1923) e IZO (1929). 8 Op. cit., 1992, p. 51.
b
a TAV I
Archizoom 1970
Il gruppo Archizoom, fondato a Firenze nel 1966 da Andrea Branzi, Gilberto Corretti, Paolo Deganello e Massimo Morozzi, è una delle voci più autorevoli all‘interno del movimento dell‘architettura radicale di quel periodo1. Gli Archizoom si concentrano su di un processo essenzialmente teorico di ripensamento sul ruolo disciplinare e culturale dell‘architettura in rapporto alla realtà (specialmente in riferimento al degrado della metropoli moderna) nella prospettiva di poter modificare la qualità della vita e del territorio indicandone, così, una nuova maniera di intendere e di vivere la casa e la città. In quest‘ambito si colloca la ricerca Dressing design (1971-73): creazione di capi d‘abbigliamento che divengono il pretesto per un‘esperienza di progettazione urbana2. (TAV I-II) Non abbiamo cercato una linea nuova - affermano gli Archizoom - o l‘abito del futuro, o un vestito diverso, ma piuttosto una diversa maniera di usare il vestito3. Il sistema di abbigliamento che gli Archizoom presentano è una struttura aperta costituita da due capi di vestiario fondamentali, un costume e una tuta: il costume è molto ridotto, elastico e colorato, che sostituisce quella sorta di palude freudiana costituita dalla biancheria intima, divenendo un capo di vestiario completo, base minima di un abbigliamento anche urbano; la tuta è, invece, colorata e molto ampia, da indossare sopra il costume o sopra altri vestiti. Eventualmente decorata. A questa base di abbigliamento si accostano eventuali accessori semplici, come grembiuli per l’inverno, fasce, camicie, calze ecc. e qualsiasi altra cosa possibile4. Spinti non tanto dalla convinzione che il design sia una disposizione naturale dell’uomo che razionalizza tutto il mondo, ma piuttosto da una sorta di curiosità creativa e professionale, gli Archizoom impostano Dressing design, l’attività razionale di progettazione per la produzione di sistemi di abbigliamento (industriali o no), seguendo determinati assunti di base. Dalle “Note preliminari per un disegno dei sistemi d’abbigliamento”, pubblicato dalla rivista Casabella del 1973, emergono alcuni capisaldi degli Archizoom. Secondo gli Archizoom la moda nasce nella strada, nasce cioè spontaneamente come libera creatività incontrollata, come comunicazione urbana, come mascherata liberatoria, come paradosso ironico, come dichiarazione ideologica. Ovviamente il fenomeno dello spontaneismo, in una società industriale, va però limitato alla sola produzione di prototipi, dal momento che è abbastanza irreale pensare ad una società che si produce manualmente tutti i capi di vestiario, per cui l’industria avrà sempre da soddisfare la richiesta di chi non ha tempo, voglia e capacità di vestirsi da solo. Il problema del ruolo dell’industria all’interno di un mercato spontaneo - secondo gli Archizoom - è un problema nuovo e per certi versi appassionante. L’uso (funzionale e culturale) che in questi anni si è fatto del blue-jeans5 può spiegare molte cose: nato come oggetto da lavoro, libero da vincoli di linea, studiato per una produzione industriale di larga scala, privo di connotazioni futuristiche, è stato adottato universalmente come manifesto di una cultura nuova e di un nuovo comportamento. Per la sua vicinanza più ad una montura che ad un abito, il blue-jeans è stato usato come una sorta di base neutra sulla quale sviluppare una serie infinita di invenzioni individuali.
Il prodotto industriale in questo caso si è inserito all’interno di una situazione non codificabile, assolvendo a funzioni di base senza intervenire sul piano del controllo figurativo globale. Il ruolo è nuovo, non limitativo della libertà d’uso di un oggetto, ma anzi stimolante un recupero creativo della necessità di usare l’abbigliamento come una forma spontanea di comunicazione privata. Secondo gli Archizoom, in generale quando gli architetti si sono occupati della progettazione di capi d’abbigliamento hanno applicato una metodologia già collaudata nel campo del design classico: hanno disegnato oggetti dotati di una propria figurazione, indossando la quale l’individuo compie un atto di riduzione della propria forma a quella dell’abito, e cioè a forme generalmente geometriche e razionali. Non è il caso di Nanni Strada, designer che nel 1974 aveva presentato alla Triennale di Milano i risultati di una ricerca per un sistema di produzione di capi di maglia di poliammide senza cuciture, realizzabili a partire dalla tecnologia di produzione dei collant e che aderivano al corpo in modo tale da essere considerati una seconda pelle. Con la minigonna - dichiara Nanni Strada - le calze avevano guadagnato terreno ed erano diventate l’indumento che copriva più di un terzo del corpo; a scacchi e righe con la moda optical, di rete e nelle più creative e stravaganti fogge, avevano abbandonato il ruolo secondario di “make-up della gamba” per assurgere a quello di vestito. Io ero affascinata dal fatto che fossero prodotte quasi automaticamente e mi parve logico, nel mio sogno di progettare il prodotto industriale, estendere la tessitura dell’indumento a tutto il corpo. Fu sulla base di questa idea che cominciai a disegnare body e tutine realizzate con tubolari di maglia. Le ricerche di Nanni Strada affrontano il tema dell’abbigliamento con una tecnologia nuova per questo settore e hanno evidenziato in anticipo un tratto fondamentale del vestire contemporaneo: l’elasticità, la caratteristica che più di altre segna il confine tra fibre sintetiche e fibre naturali. Le pieghe e le arricciature modulano le nuove stoffe giapponesi, permettendone al contempo l’estensione, e che sono forme determinate dal materiale: dalle sue caratteristiche nasce anche la scelta delle forme dei vestiti; quelli confezionati con questi tessuti non sono costruiti per una forma ideale del corpo. Questo principio è in rapporto con ciò che nella cultura tradizionale giapponese si pensa dell’abito, cioè l’idea che abbia una propria vita e un proprio spirito che interagisce con il corpo umano in movimento e a riposo, e che sia abbastanza versatile da adattarsi allo stile di vita di chi lo indossa. E’ ovviamente un concetto lontano dalla nostra cultura, nella quale, secondo Baudrillard, “l’abito deve significare il corpo”, un corpo che “è rimosso e significato in modo allusivo”5.
NOTE 1 Gianni Pettena, Radical Design-Ricerca e progetto dagli anni ‚60 a oggi. Firenze, artout - m&m - Maschietto Editore, 2004. Altre proposte arrivano anche dai Superstudio (Italia), dagli Archigram (Inghilterra) e da Hollen e Pilcher (Austria). 2 Op. cit., 2004, p. 256-257. 3 Archizoom, „Dressing design : note preliminari per un disegno dei sistemi dell‘abbigliamento“ in Casabella - N. 373 (gen. 1973), p. 18-22. 4 Casabella - N. 373 (gen. 1973), p. 20. 5 Leopoldina Fortunati, Corpo futuro-Il corpo umano tra tecnologie, comunicazione e moda. Milano, Franco Angeli (ed.cons.2002), 1997.
TAV I
TAV II
Laurie Anderson 1985
Ancor prima del riconoscimento come artista pop sulla scena musicale degli anni Ottanta1, Laurie Anderson inizia la sua attività come artista performer già nel 1972 quando, in un parco a Rochester, New York, presenta The Afternoon of Automotive Transmission, una sinfonia per clacson. La comunicazione è sempre stato uno dei suoi obiettivi principali. One of my jobs as an artist - dice Laurie Anderson - is to make contact with the audience, and it has to be immediate. They don’t come back later to look at the details in the background. Comunicare, per Laurie Anderson, è provocare, ovvero, esser capace di far rivalutare la concezione dell‘arte2 nonché della vita quotidiana di ogni spettatore3. E‘ così che nel 1974, dopo aver iniziato a manipolare elettronicamente alcuni strumenti musicali, tra cui il suo violino, presenta all‘Artists Space di New York la performance intitolata As.If. Anderson vi appare in giacca e pantaloni bianchi, con un crocifisso di spugne asciutte al collo e pattini imprigionati in blocchi di ghiaccio ai piedi (la performance sarebbe durata tanto quanto il liquefarsi del ghiaccio). Per la prima volta altera la propria voce servendosi di un altoparlante. Accompagnata dalla proiezione di diapositive di singole parole („roof:rof“, „word: water“), racconta storie sul linguaggio e la religione o narra ricordi d‘infanzia come quello di alcune anatre imprigionate nel ghiaccio di uno stagno4, oppure di quando, caduta in piscina, aveva rotto la schiena ed era stata costretta per un anno e mezzo ad indossare un busto correttivo: In 1956 I did a flip off the high board Into a swimming pool. I broke my back and had to wear a back brace for a year and a half. The brace pressed on my lungs and It was hard to take a deep breath, I spoke very softly, almost inaudibly“. „Are words soft? Some words are soft? Which words are soft?. Verso la metà degli anni ‘70 Anderson inizia a studiare il modo di far esibire un alter ego al proprio posto, come avevano fatto Vito Acconci e Dennis Oppenheim con nastri registrati o manichini5. Il violino, inseparabile partner dell‘artista, è in definitiva il suo alter ego che nel corso degli anni subisce delle metamorfosi: da registratore, diventa un fonografo (dove il disco veniva suonato dall‘archetto) ma anche un segnale neon con risonanza elettronica udibile o addirittura, nel 1992, pupazzo ventriloquo6. Le invenzioni continuano, come a voler disegnare un‘America visionaria, romantica e da parata7 o a conferma di quanto l‘artista stessa afferma: In a gallery I need one idea to fill a room. On stage I need five hundred. Le performance di Laurie Anderson diventano sempre più multimediali, e nel 1985, in occasione del lavoro „Drum Dance“ in Home of the Brave, progetta una tuta, Drum Suit8 che funge da strumento: in definitiva questa tuta a percussione aveva dei sensori elettronici che ad ogni minimo movimento emettevano un grande e sonoro ”boom”: For ‚Drum Dance‘ - afferma Anderson I designed a suit with electronic drum sensors built in - the ultimate portable instrument. I had to taken a cheep drum machine apart to try to fix it. I realized all the sensors still worked even when the cables ran many feet away from the circuit board. Because the sound was so loud, so out of proportion, I had to make the movements bigger, wilder. I had to dance9.
Anche i tedeschi Kraftwerk, nelle ultime apparizioni, hanno preferito una “tuta di scena”. In questo caso, però, si tratta di una tuta nera e i quattro musicisti non utilizzano nient’altro che un desktop collegato in rete, dunque, niente batterie elettroniche, niente tastiere, niente sintetizzatori ma comunque una modulazione di suoni e suggestioni. Nel 1999 per Songs and Stories from Moby Dick, Anderson inventa il „talking stick“ (bastone parlante) che funge da luce e da strumento digitale telecomandato. Nonostante la forte presenza della tecnologia, Laurie Anderson stessa afferma che Technology is the least important thing about what I do11, infatti, sempre secondo l‘artista: I think amazingly beautiful and dangerous art can be made with a pencil12. E‘ forse per questo che i soggetti delle sue performance sono sempre molto legati al quotidiano (per esempio un cuscino), e non fanno altro che narrare il tempo che viviamo o i sogni che facciamo - Last night I had a dream. I dreamed I was a troll doll in a farmer‘s shirt pocket13. La stessa Anderson, da grande storyteller, si narra sul parco in una performance „live art“ capace di amalgamare diverse discipline oltre che offrire indelebili combinazioni per l‘occhio, l‘orecchio e la mente14. Ovviamente non serve indossare un abito da sogno per parlare di sogni, tanto è vero che Laurie Anderson non compare quasi mai sul palco con scintillanti abiti griffati. Anzi usualmente indossa un abito rigorosamente giacca e pantalone. Nel cercare una mediazione tra il suo corpo e lo strumento musicale, Laurie Anderson non sottovaluta, però, la valenza formale del suo vestito e, anche se l’effetto finale è un effetto androgino, tutto sommato anche il suo violino non è mai veramente un violino così come senza l’aiuto di un alter ego non potrebbe trasformare in dialogo i suoi pensieri, che altrimenti passerebbero per un monologo narcisista.
NOTE 1 Roselee Golberg, Laurie Anderson. New York, Harry N. Abrams, 2000, p. 11. Per molti il successo di Laurie Anderson risale al 1983, quando si esibisce con Unite States alla Brooklyn Academy of Music di New York: un lavoro sorprendentemente capace di combinare musica, testi politicamente impegnati, l‘immancabile violino, vocoder e proiezione di ologrammi. 2 Op. cit., 2000, p. 11. La generazione di artisti degli anni Settanta in America può suggerirci come fosse comune la discussione intorno al significato di arte: tra l‘altro la tendenza comune di molti architetti, compositori, coreografi, scultori, pittori e registi, era quella di lavorare su varie tipologie di media, senza così dover scegliere una disciplina in particolare. 3 Op. cit., 2000, p. 11. 4 Uta Grosenick (a cura di), Women Artists. Köln, TASHEN, 2004, p. 16. 5 Op. cit., 2004, p. 19. 6 Op. cit., 2000, p. 22. 7 Ibidem, p. 21. 8 Ibidem, p. 14. „Drum Suit, a percussive outfit with electronic drum sensor sewn Into Its seams, which produced a big „boom“ whenever she tapped her knee or chest or made particularly expansive movements“. 9 Op. cit., 2000, p. 141. 10 Michele Pompei, “Kraftwerk”, Tema celeste, n.105, September/October 2004, pp. 15-16. 11 Op. cit., 2000, p. 15. 12 Ibidem, p. 22. 13 Ibidem, p. 21. 14 Ibidem, p. 27.
Lucy Orta 1994
“Noi abbiamo imparato a volare nell’aria come uccelli e a nuotare in mare come pesci, ma non abbiamo imparato la semplice arte di vivere insieme come fratelli”. Queste parole, tratte dal discorso del 1963, di Martin Luther King, erano serigrafate su uno degli abiti progettati da Lucy Orta. “Me, I’ve got a lot to say”, è invece un’altra frase, che tra l’altro Lucy Orta dichiara di averla “rubata” dall’intervento di un partecipante ad un suo workshop del 1995 Identity+Refuge1. Con queste due frasi possiamo iniziare a delineare i temi che caratterizzano il lavoro di un’artista che s’impegna a creare connessioni, stimolare contatti e sviluppare energie collettive urbane. Lucy Orta, infatti, lavora sul territorio, nell’ambiente della prossimità quotidiana, cercando di ricreare, per così dire “lavorandola a maglia”, la preziosa fibra della comunicazione primaria tra gli uomini, la stessa che una grande città (e anche la Rete) può indebolire, generando, sempre più, casi di isolamento2. Il corpo, all’interno delle ricerca di Orta, ha dunque la sua centralità: esso viene analizzato nei suoi processi vitali, dove sopravvivenza e capacità di comunicare vanno di pari passo3. Il corpo, però, non è soltanto la misura del proprio spazio, è una struttura fragile, perciò da proteggere, che garantisce sensazioni e costruisce relazioni. Orta si ritrova ad operare, inoltre, su un piano dove etica ed estetica convivono, così come fashion, design, architettura, teatro, urban planning e visual art si completano a vicenda. Secondo Lucy Orta “Clothing is a film”, ovvero, un abito è la nostra seconda pelle, la stoffa è una membrana che avvolge i nostri corpi e che tutti possono vedere e toccare. Di conseguenza test, simboli e immagini serigrafati sui tessuti sono come tatuaggi sulla pelle, affermazioni precise della nostra identità, dei nostri intenti e desideri4. E poiché abitare uno spazio significa considerarlo parte del proprio corpo, sostiene Lucy Orta, gli abiti possono diventare a pieno diritto delle architetture abitative, dei rifugi temporanei che proteggono dal freddo e dalle intemperie durante le tappe del lungo viaggio della nostra esistenza5. I Refuge Wear e i Body Architecture (1992) sono il primo esempio della serie degli abiti/rifugio. Uno dei Refuge Wear – City Interventions (1993) è serigrafato da una frase che, tra l’altro, sintetizza bene il valore di questi primi lavori: “Les séjours prolongés sans abris dégradent la santé physique et morale. Le temps de sommeil insuffisant majore le stress, affaiblit les défenses immunitaires et accélère la perte d’identité et la désocialisation”6. Dal 1994, invece, inizia la serie dei Collective Wear, Modular Architecture, Nexus Architecture e Connector, il grande progetto sinonimo di legame, d’interdipendenza, di spazio condiviso, trasposizione visiva dell’idea di relazione. Costruiti sfruttando le proprietà dei nuovi tessuti sintetici, gli abiti-rifugio sono mini architetture corporali, sostenute da leggere armature in fibra di carbonio, che si montano rapidamente mediante un sistema di tasche, cerniere e velcri. Refuge Wear-Habitent (1992), ovvero l’abito tenda, si presenta come una
giacca a vento impermeabile in tessuto argentato che con l’aiuto di un archetto smontabile diventa un rifugio per chi lo indossa. Gli Habitent sono come una sorta di habitat mobili, che ovviamente si muovono con chi li indossa. Ogni Refuge Wear possiede una particolarità per la quale distinguiamo Habitat Bivouac, Osmosis with Nature, Ambualtory Survival Sac (sacco a pelo munito di medicinali), Mobile Cocoon with Detachable Baby Carrier (in tessuto termocromatico, che varia col variare del clima), Survival Sac with Water Riserve o Vètement Refuge (un sacco a pelo che si trasforma in una giacca o in uno zaino le cui tasche contengono acqua e cibo, mini-bomboletta del gas, documenti, un fischietto in caso di allarme). Il concetto di spazio condiviso, del pubblico/privato, si precisa con Nexus Architecture (1994): il progetto prevede una serie di tute connesse in modo che si crei un’interazione tra individuo e il suo immediato vicino. In questo caso si tratta di tute unisex collegabili tra loro tramite strutture tubolari (sempre in tessuto) e zip che evocano cordoni ombelicali e connettono il ventre di una persona alla schiena di un’altra. Il Modular Architecture (1996) è invece un progetto che propone sacchi a pelo gonfiabili uniti a formare un unico enorme tubo (nel quale il calore dei corpi circola e riscalda tutti), nonché tende, igloo e cabine modulari. Come in un impianto architettonico, i lavori di Orta hanno diversi punti di osservazione. Si può partire dal particolare della cellula-tuta fino alla visione d’insieme delle coreografiche connessioni di tubi e tute colorate. In entrambi i casi il concetto di “tessuto” è prevalente: dai “tessuti organici” che conservano il contatto con la natura della pelle dell’uomo - il poliestere traspirante - al tessuto urbanistico mobile - i microcosmi delle strutture estensibili all’infinito degli abiti-abitazione. L’insieme delle opere di Orta danno, inoltre, la sensazione di trovarci di fronte ad una sorta di iconografia tessile del XX secolo, del tipico camouflage streetstyle in direzione hight-tech7 safety o urban protection. L’implicita valenza funzionale ed estetico-comunicativa di queste “divise urbane” è intimamente connessa alla ricerca tessile e tecnologica tipica di questi ultimi cinquant’anni8. Si tratta di “materiali che esprimono già da soli un alto contenuto di creatività e sono frutto di studi, analisi, esperimenti condotti in laboratori scientifici di alto livello”. “Evoluzione, sperimentazione e ricerca di nuovi materiali non sono però fini a se stesse perché, scelta tecnologica dei tessuti e delle forme, tende ad assecondare le esigenze che nascono dalla vita moderna. L’uomo oggi si muove con altri ritmi rispetto al passato, con movimenti più veloci, più precisi, e nell’arco della giornata è sollecitato da continui cambiamenti. Diventano, dunque, sempre più utili capi “trasformisti”, multi funzionali9. Nell’ipotesi di una vita urbana confortevole (ma in situazioni esasperate come quella dei senzatetto), Lucy Orta, in uno dei suoi abiti-scultura, aveva realizzato un sacco a pelo che si trasforma in una giacca e in uno zaino le cui tasche contengono acqua e cibo, mini-bomboletta del gas, documenti, un fischietto per dare l’allarme in caso di difficoltà. Al panorama tessile- placche termosaldate, velcro, Lycra, poliammide, alluminio10, Stratosoft, Kevlar, PVC, microfibra, Confort Temp - se ne associa un altro che ci rimanda alla visione, quasi utopica, di una città ideale.
Complessi di “case morbide” in connessione riuniti o intorno ad un foyer-meeting place11 o in fila o in una scacchiera, come nel caso di Nexus Architecture (1994): qui ogni tuta indossata da uno dei cinquanta performer è fornita da quattro tubi che partono dai fianchi, dalla schiena e dalla pancia. Se si prova a guardare questa performance dall’altro, ci rendiamo conto come la regolare struttura che si viene a creare assomigli tanto alla rete di strade di una città vista dall’alto. Ma nulla toglie che le immagini sia dei Connector (2001) che delle Nexus Architecture non rimandino a qualcosa di più organico: la circolazione nei vasi sanguigni, la strutturazione dei rizomi, la configurazione degli atomi... ossia ogni micro-processo che talvolta passa per scontato.
NOTE 1 Roberto Pinto, Lucy Orta. New York, Phaidon Press, 2003, p. 32. 2 Op. cit., 2003, p. 39. 3 Ibidem. 4 Ibidem. 5 Pierre Restany in Lucy Orta’s refuge Wear. DOMUS, n 793, May 1997, pp. 102-3. 6 “Vivere senza un guscio che ci protegge a lungo andare distrugge la nostra salute fisica e psichica. Se non si dorme abbastanza lo stress aumenta, si indebolisce il sistema immunitario e si accelera la perdita di identità e socializzazione”. In Op. cit., 2003, p. 34. 7 I materiali techno sono riusciti a imporsi grazie anche alle loro straordinarie performance, che significa maggiore duttilità, leggerezza e resistenza rispetto a quelli tradizionali. Qualcuno, inoltre afferma che la tecnologia sarà il futuro della moda. 8 Francesco Bonami (a cura di), Uniforme. Ordine e disordine. Milano, Charta, 2000, p. 230. 9 Donatella Bogo, Nella giacca c’è un sacco a pelo. Corriere della Sera, venerdì 24 settembre 1999, p. 30. 10 Lucy Orta utilizza molto spesso l’alluminio per la sua capacità di riflettere l’ambiente circostante. In Op. cit., 2003, p. 138. 11 La struttura che si crea ricorda, tra l’altro, l’idea di un rosone gotico.
TAV I
Lygia Clark 1964
Lygia Clark è una figura decisiva per la concezione artistica di Helio Oiticica. Anche lei contribuiva alla trasformazione del quadro, specialmente dopo aver pubblicato il manifesto del neoconcretismo (1959) in cui l’arte era definita l’equivalente di un organismo vivente. Sulla scorta di tale visione, le forme geometriche dei primi dipinti di Clark subiscono un adattamento in Bichos1 (Animali, 1960) e sono arricchite con l’idea di coinvolgere attivamente l’osservatore per spostare l’attenzione dal senso dominante della vista a favore di un coinvolgimento corporeo totale2. Trailings (1964) è il primo passo di Lygia Clark verso la lunga serie degli Oggetti relazionali all’interno di veri e propri rituali di guarigione. Secondo Lula Wanderley, scrittrice brasiliana, questi ‘oggetti’ trovano valore non in relazione alla loro forma né ad una particolare superficie, ma in qualcosa che diluisce la nozione di superficie per trovare significato in un’essenza immaginaria che proviene dal corpo del performer. La frontiera tra l’oggetto e il corpo scompare3. Clark passa così dal linguaggio meramente visuale ad un linguaggio del corpo, oltretutto non nel senso della performance ma dell’azione vissuta allo scopo di guarire o migliorare determinati comportamenti dei suoi performer. Inoltre già in questa fase l’artista auto-dichiara un’uscita dall’ambiente della galleria per passare ad operare con la gente della strada. L’azione dei Trailings consiste nell’avvolgere il corpo di una striscia di carta incollata alle due estremità, e muniti di forbici, cercare di realizzare, al meglio possibile, il nastro di Mobius. Secondo Lygia Clark il significato di questa esperienza è nel ‘fare’ dove è pure implicita l’idea della scelta. Inoltre, in un’azione solitaria, il performer si trova alle prese con un nastro che, aumentando di strisce sempre più sottili, gli ricopre il corpo di un delicato intreccio di carta. Dopo i Trailings e prima di offrire assistenza terapeutica a un gran numero di persone nel suo studio di Rio fino al 1982, Lygia Clark concretizza altre azioni collettive. Un esempio sono la serie di tute di plastica foderate con materiali diversi - Roupa-corpo-roupa (1967) - la grande forma simile a un cappello pieno di lettere d’amore, frutti scarpe, soldi e altri oggetti - Cabeca coletiva (1975), oppure i tubi di stoffa elastica all’interno dei quali due performer cercavano di raggiungersi dalle estremità opposte - Tùnel (1973). Nel caso di Roupa-corpo-roupa, un uomo e una donna vengono invitati ad indossare una tuta da lavoro di plastica. Ogni tuta contiene all’interno strati di materiali diversi (sacchetti di plastica con acqua, verdure, schiuma, plastiche, ecc.) che danno all’uomo una sensazione femminile e alla donna una sensazione maschile. Un cappuccio, sempre in plastica, serve a bendare gli occhi dei partecipanti, e un tubo di plastica, come un cordone ombelicale, connette le due tute. Toccandosi i performer scoprono sulle tute delle piccole aperture che permettono loro l’accesso al rivestimento interno. In quel momento i performer si immedesimano e si ritrovano l’uno nell’altro. Quello che però rimane in tutta la sua poesia e leggerezza è Trailings. Tra l’altro esiste una foto - Dialogo de manos (1966) - in cui due mani sono legate al polso da una striscia elastica di Mobius: sono Lygia Clark ed Helio Oiticica.
E’ il simbolo della loro connessione all’interno della ricerca artistica e dell’elasticità che caratterizza la relazione. La fascia s’incorpora e diventa incarnazione dell’interazione: l’estensione del corpo alla fine è un’estensione della mente. Vestire i nastri di Mobius potrebbe anche diventare l’esperienza dell’epifania di frammenti di paesaggio ricavati da un viaggio in treno4.
NOTE 1 I Bichos sono oggetti metallici astratti costruiti da singole parti tenute insieme da cerniere - una soluzione che, oltre a permettere di spostarli, invita l’osservatore a maneggiarli. 2 Uta Grosenick, Women Artists. Koln, Tashen, 2004, pp. 28-31. 3 Guy Brett, “Lygia Clark: in search of the body”. Art in America, v 82, July 1994, p. 58. 4 Yve-Alain Bois, “Nostalgia of the body”. October (Cambridge, Mass), no69 Summer 1994, p. 99.
Helio Oiticica 1964
Esistono dieci aree geoculturali che possono essere anche metafora del corpo umano: l’Africa rappresenterebbe il cervello globale, L’Europa la memoria, il Nord America il sistema endocrino, la Russia i cinque sensi e via discorrendo. Il sud America, l’area che qui ci interessa, nell’ipotetica metafora, “enfatizza, invece, le proprietà del sistema endocrino, degli organi sessuali con una spiccata centralità del corpo e della sua esuberanza, dei capelli e delle loro proprietà erotiche, che provengono dal mix esplosivo degli enzimi pituitari, tiroidei e gonadici della negritudine e dell’anima indios, che ad esempio in Brasile trovano una magica combinazione. E’ qui che l’area sensoriale del cervello trova la sua massima espressione, e che l’esuberanza del corpo come strumento vitale di creazione e di espressione trova la sua più limpida affermazione”1. Infatti, nel pieno degli anni sessanta, tra performance nordamericana e Body Art, Helio Oiticica, artista brasiliano, si distingue per un atteggiamento più corale, mobile e aperto dove l’opera d’arte vive, appunto, attraverso la partecipazione attiva e sensibile del corpo (dello spettatore) e il partecipante vive nell’opera. Questa - secondo Oiticica - è senza dubbio l’epoca della costruzione del mondo dell’uomo, compito a cui si dedicano soprattutto gli artisti. L’arte non è sintomo di una crisi, o di un’epoca, ma si pone alle fondamenta del significato stesso dell’epoca, costruisce i suoi presupposti spirituali basandosi sugli elementi primari legati al mondo fisico, psichico e spirituale, la triade di cui si compone l’arte2. “È arte in azione, sperimentazione viva”3 infatti quello che interessa ad Helio Oiticica è la ricerca della materializzazione dell’energia nella fusione tra ambiente, partecipante, opera. Il mio passaggio dal quadro allo spazio - afferma Oiticica - è cominciato nel 1959. Ero allora arrivato all’uso di pochi colori, al bianco principalmente, con due colori differenziati, o perfino a lavori in cui usavo solo un colore (Invenzioni), che stendevo in una o due direzioni. Questo, secondo me, non significava solo una estrema depurazione, ma la presa di coscienza dello spazio come elemento totalmente attivo, nel quale si inserisce il concetto di tempo4. Tra il 1960 e il 1964, Helio Oiticica realizza per lo più sculture da indossare: ne sono esempio Penetraveis (Penetrabili), che presuppongono anche manifestazioni teatrali, come Teatro Total, e i Parangolé. Dello stesso periodo sono i Bolides (Bolidi)5 dove, secondo Guy Brett, la sola etimologia della parola sintetizza la poetica di Oiticica. La parola portoghese Bolide significa infatti ‘palla di fuoco, nucleo, meteora incandescente’. Effettivamente il desiderio di Oiticica è sempre stato quello di poter entrare in rapporto con i centri energetici che disegnano spiritualmente e fisicamente gli uomini e, partendo dal caos trovare un ordine, anche se nel senso di un “delirio ordinato o di una trance organizzata”, direbbe Sztulmann6. Il carnevale stesso, ad esempio, associabile all’idea di ritorno temporale al Caos primordiale, risulta essere un momento super-elastico all’interno del quale si instaurano relazioni pluridimensionali, dove percezione e immaginazione creatrice convivono. Lo stesso accade in Parangolé, che tra l’altro è una parola estrapolata dal gergo portoghese e sta ad indicare una ‘situazione animata, di improvvisa confusione e/o agitazione tra persone’7.
Ciò significa che la centralità dei Parangolè sta nell’interazione, nel movimento e nella possibilità di alterare la visione che si ha della realtà stessa. Parangolé si compone, di stendardi, mantelli, tende a loro volta realizzati con materiali semplici o di riciclo: stracci, plastiche, stuoie, tele, corde, etc. La relazione con questi oggetti è altrettanto svariata: sono fatti per essere sventolati, per danzarci, per essere esplorati (a volte presentano dei disegni sulla superficie) o soltanto per osservarli. Anche l’atmosfera delle favelas rientra nella filosofia del Parangolé: l’organicità strutturale di quei rifugi, generalmente improvvisati, è la stessa che si ritrova negli strati di panno colorato che i performer indossano. L’indossare - afferma Oiticica - è il significato massimo e fondamentale dell’opera. Il vestire costituisce di per se una totalità vissuta dell’opera, poiché, avendo, al momento di indossarla, come nucleo centrale il proprio corpo, lo spettatore sperimenta la trasmutazione spaziale che qui si realizza: egli percepisce, nella sua condizione di nucleo strutturale dell’opera, lo svolgersi di questo spazio inter-corporale8. Il Parangolé rivela allora il suo carattere fondamentale di struttura ambientale con un nucleo principale: il partecipante-opera, che si distingue in partecipante, quando interviene e in opera quando è fruito dall’esterno9. L’individuo sente così di essere nel mondo, come essere distinto ma nello stesso tempo come essere collettivo. Oiticica guarda ai momenti catartici della società, quei momenti magico-rituali che ci garantiscono la sopravvivenza. Infatti è qui che, in riferimento al grado di libertà in ogni manifestazione sociale, la forma libera dei Parangolè trova un senso; è qui che è possibile recuperare la fiducia di ogni individuo verso le proprie intuizioni e desideri più cari10. Nei Parangolé di Oiticica ci sono “gli uomini fagotto”, nel loro status di emigranti o comunque di perenni viaggiatori del quotidiano. Una vocazione navigatrice, la loro, che li rende flessibili, aperti e sempre pronti in una danza “cosmica”, che incarna l’energia eterna. La Samba, che dura un anno intero ogni anno, esempio della più grande improvvisazione pubblica del mondo11, ha però un riscatto da pagare nella miseria e la morte che si cela in ogni angolo delle favelas. Ma se “nella tradizione celtica colui che si avvolge nel mantello prende l’aspetto, la forma e il viso di chi vuole finché lo indossa”, può darsi che nei panni di un Parangolé il performer possa sperimentare la libertà di sentirsi un uccello così come un albero12.
NOTE 1 “Il corpo globale”. Modo, n. 226, aprile 2003, p. 43. 2 Lucilla Saccà, Hélio Oiticica La sperimentazione della libertà. Udine, Campanotto Editore, 1995, p.41. Gli anni 60-70 hanno visto un po per tutto il mondo, artisti che cercavano di affrontare, anche se in maniera visionaria, la situazione di crisi in cui verteva il loro Paese, un esempio è la Rivoluzione in Russia. 3 Op. cit., 1995, p. 29. 4 Ibidem, p. 13. 5 Sempre secondo Guy Brett i Bolidi, che non erano altro che una latta con il fuoco, o un cesto con uova o un cumulo di pietre, vengono scelti dall’artista per indicarci una delle loro qualità intrinsiche: sono dei segni nucleici, rappresenterebbero la sintesi delle qualità cosmiche. 6 A.A.V.V, Politics-Poetics: Documenta X - short guide. Ostfildern:Cantz, 1997, p. 174-175. 7 A.A.V.V., Hélio Oiticica. Rotterdam, Witte de With; Paris, Galerie Nationale du Jeu de Paume; Rio de Janeiro, Projeto Hélio Oiticica; Gand, 1992, p. 88. 8 Op. cit., 1995, p. 87. . 9 Ibidem, p. 89. 10 Ibidem, p. 113. 11 Op. cit., 1992, p. 228. 12 Jean Chevalier, Dizionario dei simboli. Milano, Rizzoli libri, 1999.
Maria Nordman
Something about the sun
If the sun is the synonimous with light, then the metropolis is constucted by its inhabitants in concert with the qualities of the sun, which arrives in any place, and is open to any person. The city of light is conjunct with what exists, a sprectum of its existing tools as choises; it can be called the construction of sculpture on the following basis: the sun that strikes the ground the sun that strikes the feet the sun that is taken into the cells of the body the sun that is in the air the sun that is in the exchange called breathing and talking the sun that unpredictable in all its conditions1. A volte capita che gli artisti diventino come perfetti attrezzi da lavoro e che questo si avverta specialmente nella loro coerenza tra lavoro artistico e vita. Come in Maria Nordman,‘scultrice di luce’, che l’esperienza totale e rigorosa con l’ambiente l’hanno portata ad assumere, in ogni sua apparizione, un altrettanto rigoroso abito bianco. Maria Nordman veste di bianco e ci irradia di luce, la stessa che vibra tra i suoi ‘Templi della luce’ o che invoca con il ‘Manifesto aperto’: perché - secondo Nordman - “il sole e ogni presenza umana diventano sempre i co-creatori delle sue opere”2. Le opere di Nordman sono spazi diretti e chiari, e in essi non c’è alcuna possibilità di mentire. Perché sono esattamente quello che sono. Anche l’artista è quella che è, anzi le parole di Yves Klein potrebbero servire a chiarire ancora di più le emanazioni della sua presenza: “Il pittore -scrive Klein - deve dipingere un unico capolavoro, se stesso, incessantemente, e diventare così una specie di reattore nucleare, di generatore a irradiamento costante, che riempie l’atmosfera, con tutta la sua presenza pittorica e la lascia dietro di sé nello spazio”. Sembra che gli elementi fondanti della ricerca artistica di Nordman siano strettamente legati agli elementi della cultura megalitica dove le forme statiche e geometriche che vengono prodotte si caratterizzano per il loro spirito sistematizzatore. Ogni scultura di Maria Nordman ha però una natura duplice, è conoscenza materiale e spirituale, ma anche naturale e culturale del mondo.
Altri elementi per poter capire determinate scelte dell’artista sono alcuni episodi degli anni ‘60, in particolare quando Nordman viene a conoscenza della “cosmogonia” della cultura del popolo Tewa del New Messico e degli Hopi dell’Arizona - per il loro modo di trattare e usare il paesaggio e di considerare la terra un corpo celeste in movimento che dà vita - e inoltre quando si ritrova a riflettere sull’eredità che gli Indiani Chumash e Shoshone hanno lasciato nel paesaggio della California - l’eredità lasciataci dai Chumash e dagli Shoshone ingloba un terreno comune di antenati dove la massima attenzione è prestata ai dettagli della quotidianità, a questioni di identità e linguaggio personale, e istanze di azioni interpersonali, senza alcuna forma gerarchica o di competizione, anzi basate su una concezione di paesaggio come luogo dove si è invitati a fermarsi, vivere, lavorare, sostenta nella comunità di qualsiasi ricerca dalla passione del sole che giunge sulla terra3. Se Maria Nordman veste un abito sempre “uguale” significa dunque che si fa officiante dei riti di passaggio del mondo: le stagioni nelle loro quattro fasi del corso solare, i ricongiungimenti degli astri, il trascorrere delle ore e gli stessi incontri che ogni giorno e in ogni momento avvengono tra persone ma anche tra le stesse e gli oggetti (come le sculture). E in questo ruolo il bianco della sua veste simboleggia la totalità e la sintesi di una serie di elementi distinti: i colori così come gli stati dell’essere. Ma il bianco4 resta comunque l’espressione di uno stato di armonia nel congiungimento della terra-cielo5.
NOTE 1 Germano Celant, “Maria Nordman. Conjuct city of light”. ArtForum International, November XXIX No.3, 1990. 2 Allegato a Germano Celant, Venice/Venezia. Arte californiana della collezione Panza al museo Guggenheim. New York, Guggenheim Museum Publications, 2000, p. 69. 3 Op. cit., 2000, p. 70. 4 Secondo la simbologia tradizionale del bianco, nella collocazione dei punti cardinali, la maggioranza dei popoli ne hanno fatto il colore dell’est e dell’ovest, cioè dei punti estremi e misteriosi, dove ogni giorno nasce e muore il sole, astro del pensiero diurno. Nel pensiero degli Aztechi anche l’ovest è bianco e la vita dell’uomo e la coerenza del mondo è completamente condizionata dalla corsa del sole. L’ovest, dove spariva l’astro del giorno, era chiamato “la casa della bruma”, rappresenta la morte, l’ingresso nell’invisibile. Per questo i guerrieri che venivano immolati ogni giorno per garantire la rigenerazione del sole venivano condotti al sacrificio ricoperti di lanugine (soum) bianca e calzari con sandali bianchi (Thoh), che isolandoli dal suolo indicavano che non erano più di questo mondo e non ancora dell’altro. Il bianco era come il colore dei primi passi dell’anima. Il condannato indossa una camicia bianca, segno di sottomissione e disponibilità. Poi cederà il posto al rosso. In Jean Chevalier, Dizionario dei simboli. Milano, Rizzoli, 1999. 5 Jean Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli. Milano, Gruppo Editoriale Armenia, 1996, p. 112.
Shirin Neshat 1999
Nella maturazione artistica di Shirin Neshat il viaggio e il soggiorno del 1990 nel paese d‘origine, l‘Iran, hanno contato moltissimo. Aveva lasciato il suo paese, l‘Iran, all‘età di diciotto anni, dopo la rivoluzione khomeinista, per trasferirsi negli USA. In seguito a quel viaggio la sua arte è diventata una ricerca intorno alle „figlie di Allah“ - come lei stessa ha chiamato le donne del mondo islamico. Women of Allah è anche il nome della prima serie di fotografie realizzate dall’artista tra il 1993 e il 1997: In questa serie di opere - dice Shirin Neshat durante un’intervista - non ho cercato di entrare in merito all‘aspetto politico del velo, ma piuttosto alla sua poetica, che era il campo che veramente mi interessava sin dall‘inizio; l‘idea di provare a guardare oltre la superficie. Per esempio, come fa‘ una donna a relazionarsi con i mutamenti del mondo esterno quando c‘è un velo tra lei e il mondo? Come il velo separa il privato dal pubblico, l‘interno dall‘esterno? Come un semplice pezzo di stoffa è realmente capace di dettare e imporre una tale limitazione su una persona? Io ero molto interessata all‘idea di visibile e invisibile, e anche come, alla fine, una donna può esprimere se stessa nonostante una tale limitazione1. Quello che però interessa a Shirin Neshat è, inoltre, la possibilità di realizzare opere che siano il più possibile poetiche, opere in cui conta molto l’espressione delle emozioni, pur affrontando argomenti sociali, religiosi e politici. Nel mio lavoro - afferma l’artista - le immagini delle donne, della violenza e dello chador vengono trasformate in una dimensione di confusione. Non è mai stata mia intenzione prendere un direzione univoca, o comunque prendere posizione. Io non penso che sia interessante per un artista diventare giudice di cosa è bene e cosa è male o decidere quali culture sono nel giusto e quali no...A me non interessa stabilire chi ha ragione e il lavoro che faccio è una combinazione di ciò che esperisco nella mia propria storia personale2. Rimane comunque il fatto che le donne islamiche sono tuttora un mistero per l’occidente, perché, tra l’altro sono indescrivibili secondo gli stessi criteri occidentali. Però, secondo Shirin Neshat, l’errore più grande è di continuare a commiserarle come vittime: In Iran sono le donne che protestano, sono pericolose e per questo il governo cerca di opprimerle. Credo che le donne creino una rete, un movimento. Non sono per nulla rispondenti all‘immagine proiettata all‘esterno che le vuole immobili, passive: le donne dell‘Islam hanno un‘incredibile capacità di resistenza. Ma è profondamente sbagliato cercare di giudicare il rapporto uomodonna nell‘Islam con i criteri occidentali: le donne musulmane non vogliono competere con gli uomini, anche se vogliono avere una loro voce nella società. Questa mancanza di competizione fra i sessi in Occidente viene percepita come ignoranza o stupidità, e questo è un giudizio che mi fa infuriare: in Iran il 63% degli studenti universitari è donna3. Shirin Neshat è pure consapevole che uno dei primi insegnamenti che possiamo ricavare dalle “donne di Allah” è di imparare “a resistere e a fiorire nelle situazioni più avverse“. In un mondo che le opprime e che nega molti beni materiali le donne iraniane hanno trovato sollievo nella cultura, nel pensiero e hanno sviluppato idee.
Ora che c‘è un cambio di potere le donne iraniane stanno occupando uno spazio consistente nel mondo artistico, in letteratura e nel cinema e il loro ruolo politico è fondamentale. Un film proiettato in un minuscolo villaggio delle montagne può aprire gli occhi molto più di un comizio4. La filosofia di Shirin Neshat è un continuo riferimento a coppie di opposti: è chiaro in Women of Allah e successivamente nei video realizzati su due schermi. Per esempio la coppia spazio pubblico-maschile/privato-femminile è affrontata in The Shadow under the Web (1997); musica libera/musica sufi in Turbulent (1998); natura/cultura in Rapture (1999); peccato/desiderio in Fervor (2000). L’interesse che Shirin Neshat nutre per il velo5, nasce proprio dalla sua natura ambigua nella società islamica, al contrario dei corpi che, invece, sono le firme sigillate di una cultura, il luogo di contestazione critica delle stesse culture che li creano, li sigillano, li segnano. Secondo Shirin Neshat, i corpi sono sempre già scritti, costituiti, definiti e, in questo caso velati per non poter essere riconosciuti. Per tanto il velo è, per l’artista, semplicemente una patina un po‘ più evidente dei corpi costruiti culturalmente. Allo stesso modo Hamid Dabashi sostiene che “il monokini e persino i corpi nudi dei nudisti, contengono i segni della costruzione culturale dei corpi esattamente quanto una figura completamente velata. Qualsiasi capo d‘abbigliamento, dal turbante alla cravatta, costituisce la chiusura culturale del corpo, una rivendicazione del suo posizionamento, un monito per controllarsi, una forma di tassazione sulla sua rettitudine”6. Secondo Flugel in Psicologia dell’abbigliamento, “tutta la storia della moda è un continuo alternarsi di parti scoperte e coperte” anche perché, alla base dell’abbigliamento, sempre secondo Flugel, esistono tre fondamentali motivazioni: la decorazione, il pudore e la protezione. Il fenomeno del pudore va “riferito al proprio comportamento o a quello degli altri”, infatti “ci si può coprire per inibire il proprio esibizionismo oppure per controllare il voyeurismo altrui. Ci si può coprire per controllare la propria eccitazione, come nel caso dell’educanda che fa il bagno con la camicia; e ci si può coprire per controllare l’eccitazione altrui, come nel caso della donna musulmana”. “Inoltre parrebbe - scrive Flugel - che vi sia una corrispondenza tra i sentimenti democratici, la libertà sessuale, e l’esibizione in pubblico della bellezza femminile”. Per chiarire meglio questo concetto Flugel metteva in confronto la civiltà musulmana con quella europea: “nei paesi musulmani dove la libertà sessuale delle donne era ridotta al minimo, esse erano nascoste con ogni cura allo sguardo di estranei e anche la vista dei loro volti era gelosamente riservata ai mariti. In Europa, dopo la Rivoluzione francese, quando libertà, fraternità, uguaglianza era il motto dell’epoca, le donne per la strada portavano abiti succinti con grandi scollature che venivano considerate non meno adatte al passeggio che ai balli”7. Il velo, che tra l’altro si presenta in svariate tipologie8, dipende dal grado di integralismo religioso o progressismo riformista della donna che lo indossa. A proposito, è interessante notare come nel fumetto di Marjane Satrapi, Persepolis, è molto esplicito il legame tra pensiero politico e aspetto esteriore:
“Ben presto [intorno agli anni Ottanta] - scrive Satrapi - l’abbigliamento divenne un criterio ideologico. C’erano due tipi di donna - la donna integralista e la donna moderna. E c’erano anche due tipi di uomo - l’uomo integralista e l’uomo progressista”9. Comunque sia il codice islamico è sempre stato molto rigido per quanto riguarda l’abbigliamento femminile, esigendo che ogni parte del corpo sia coperta in modo modesto (al cospetto di Allah) ad eccezione del viso e delle mani, e che ogni forma del fisico venga resa invisibile per l’onore che si porta alla famiglia. A rigor di legge, chi contravviene a queste regole può essere punita con frustate, multe o con l’imprigionamento. Tuttavia, negli ultimi anni la severità nell‘applicazione di queste norme è stata ammorbidita e non è raro incontrare ragazze strette in attillatissimi spolverini per le strade di Teheran nord10. Sempre secondo Neshat il velo protegge le donne dall‘essere considerate un oggetto, dotandole di rispetto, e contemporaneamente nasce dalla consapevolezza degli uomini dell‘incapacità di controllare la propria sessualità, costringendo le donne a coprirsi. Il velo è anche un atto politico: le donne che vestono il velo mostrano la loro solidarietà alla lotta contro l‘occidentalizzazione della loro società, e così il velo diviene anche un simbolo della battaglia contro l‘imperialismo. Quello che cerco di fare è di uscire dalle ovvietà di discorsi su culture di cui si conosce, in fondo, ben poco. Le interpretazioni del velo sono molteplici, è un segno dei tempi iniziare a parlarne, è un argomento che continuerà a generare controversie11. Le prime fotografie di Neshat, Women of Allah, nascevano come una sorta di performance privata, senza pubblico, in studio, realizzata seguendo i versi di un poema che ispira la scelta delle luci, dei costumi e degli oggetti di scena. Una volta stampata la fotografia, è quella stessa poesia ad essere tracciata a mano, con penna e inchiostro di china. „La grafia è la voce della foto“, dice l‘artista, „Una voce che rompe il silenzio della donna ritratta“. I soggetti ricorrenti erano armi, fiori, chador e poesie disegnate sulla pelle. Turbulent si caratterizza per due video proiettati simultaneamente su due pareti opposte: da una parte c‘è un uomo in camicia bianca e pantaloni neri che canta una canzone tradizionale davanti ad un pubblico tutto di uomini, tutti vestiti come lui; dall‘altra, una donna avvolta nel nero del chador, canta da sola, al vuoto, una canzone senza parole. Di quest‘opera Shirin dice: Qui ogni elemento è stato concepito per enfatizzare la nozione di opposizione; bianco/nero, maschile/femminile, razionale/irrazionale, teatro pieno/vuoto. E‘ un modo per sottolineare la profondità del contrasto tra maschile e femminile nella società iraniana. Inoltre: parliamo di un uomo-donna dinamico, di un pieno complesso di emozioni represse: affetto, desiderio, sessualità. E come queste possano divenire tabù che agiscono negativamente su di te. Mi interessa molto esplorare una forma di comportamenti controllati che entrano in conflitto12. Rapture (TAV I), articolato nelle figure contrapposte del gruppo di uomini chiusi dentro una fortezza e da quello delle donne libere, sia pure coperte dal chador, negli spazi esterni e capaci alla fine di prendere il mare, verso l‘ignoto, rappresenta, in definitiva, l‘impossibilità per il maschile, inteso come
valore, di costruire un progetto di vita lontano dagli automatismi del potere, e per contro la presa in carico di questo, da parte del femminile. L’azione è muta - spiega Neshat - e i gesti dei due gruppi sono enigmatici. Gli uomini sembrano obbedire ad un rito, sembrano occupare lo spazio in modo assurdo, senza compiere alcuna attività specifica, mentre le donne si raggruppano, si sciolgono, corrono lungo la spiaggia… Ancora, gli uomini sono tutti vestititi uguali, camicia bianca e pantaloni neri, le donne tutte uniformemente avvolte nel nero del chador. Un nero denso, totale. Come è totale il bianco delle camicie maschili. Già così, semplicemente, si pongono dei confini. Senza eccezioni13. Fervor affronta, invece, il dualismo peccato/desiderio vissuto da una donna e da un uomo all‘interno di una storia d‘amore „virtuale“ (il loro primo incontro aveva fatto scaturire un‘intensa tensione erotica senza, però, aver mai creato alcun tipo di contatto fisico o verbale): la repressione del desiderio da parte delle censure di ordine ideologico, religioso e politico non è meno forte della corporeità della parola intesa come emanazione di un potere astratto e aprioristico14. The Shadow under the Web è un video che affronta il tema dell‘identità sessuale in rapporto al concetto di spazio all‘interno della tradizione islamica, dove, in base ad un concetto di separazione dei sessi, ad esempio, gli spazi pubblici sono considerati „maschili“ mentre quelli privati „femminili“. Il video ci presenta una donna velata con un’abaya nero (l‘artista stessa) che fugge via correndo e attraversa quattro luoghi che corrispondono a periodi storici diversi, dall‘epoca pre-islamica agli spazi contemporanei pubblici e residenziali. Al centro dell‘opera non vi è però il desiderio di di ritrovare un territorio rassicurante ma quello di attraversare i confini e superare la separazione fra pensiero ed esperienza15.
NOTE 1 Da un’intervista di Francesca Caraffini a Shirin Neshat: http://www.undo.net. 2 Ibidem. 3 Carnet- 2 febbraio 2002, Islam svelato, intervista di G.E.Mazzoleni. 4 Ibidem. 5 Il velo assume nella tradizione dell’Islam una particolare importanza sul piano della vita spirituale; rappresenta la conoscenza riservata (velata) o comunicata (svelata, rivelata). La rivelazione è l’apertura del velo. Lo hijâb, velo in arabo, separa due cose. Così nella tradizione monastica cristiana, prendere il velo significa separarsi dal mondo, ma anche separare il mondo dall’intimità in cui si entra in una vita con Dio. Sempre nell’Islam, la Faccia di Dio è velata da settantamila cortine di luce e di tenebre (hijâb), senza le quali sarebbe incenerito tutto ciò che il suo sguardo raggiunge. Nel Corano Al-Hallâj dice: ”Il velo è una cortina interposta fra il ricercatore e il suo oggetto, fra il novizio e il suo desiderio, fra il tiratore e il suo bersaglio”. Nel sufismo si dice che una persona è velata (mahjub), quando la sua coscienza è determinata dalla passione, sensuale o mentale, che impedisce al suo cuore di percepire la Luce divina (Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli - Miti sogni costumi gesti forme figure colori numeri. Milano, RCS Rizzoli Libri, 1986, pp. 535-537). Guènon, invece, sottolinea il doppio significato della parola rivelare, che può significare togliere il velo, ma anche ricoprire con il velo (Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei Simboli. Milano, Gruppo Editoriale Armenia, 1996). 6 AA.VV., Shirin Neshat. Milano, Edizioni Charta, 2002, p. 20-1. 7 John Carl Flugel, Psicologia dell’abbigliamento. Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 14, 91. 8 Hijab indica la maniera più modesta di vestire nella tradizione islamica dalla pubertà in poi, il velo consiste in un fazzoletto quadrato sulla testa e allacciato sotto il mento; Chador è il più comune tra le donne religiose, copre dalla testa fino ai piedi, lasciando libera soltanto la faccia e le mani; Khimar è un velo che lascia scoperta la faccia ed è lungo fin sotto al seno; Burqa è invece il velo che copre interamente tutto il corpo lasciando soltanto una griglia per vedere e dei fori per le mani. 9 Marjane Satrapi, Persepolis. Storia di un’infanzia. Roma, Panini S.p.a., 2005, p. 85. Persepolis è un fumetto autobiografico dell’iraniana Marjane Satrapi, disegnatrice e scrittrice di racconti illustrati. 10 Costumi pericolosi. Le conquiste sociali dei riformatori a rischio: i giovani ne discutono (Iran - 26.4.2005). In http://www. peacereporter.net. 11 Dall’intervista di Francesca Caraffini in: http://www.undo.net. 12 Dall’intervista di Francesca Caraffini in: http://www.undo.net. 13 Dall’intervista di Valentina Berardinone in: http://www.url.it/donnestoria/incontri/valentinaneshat.htm. 14 Op.cit., 2002, p.74. 15 Ibidem, p.93.
TAV I
Mariko Mori 1995
Nella carriera artistica di Mariko Mori è importante considerarne gli esordi, ovvero quando nel 1986 iniziava a lavorare come disegnatrice di moda realizzando tableaux nei quali indossava gli abiti disegnati da lei stessa. Già da allora le scelte organizzative dei set fotografici così come le location per i suoi costumi anticipavano quelli che sarebbero poi stati alcuni elementi stilistici dei suoi primi lavori, come lo dimostra, infatti, la serie fotografica Subway (1994), Play with me (1994), Tea ceremony III (1995), Birth of a star (1995) e Miko no Inorii (1996). In Subway, tra giapponesi troppo assorbiti dalla loro quotidianità, Mori posava vestita da donna cyborg, con un luccicante abito hi-tech argentato, come in Play with me, anche se qui era molto più una Barbie-robot sulla scia di Fritz Lang in Metropolis. In Tea ceremony, un po più in versione aliena, con un vestito quasi serio, ma con calze di plastica e cappello-orecchie bianco, é alle prese con la distribuzione di te’ a uomini d’affari. Birth of a star (1995) è invece la dichiarazione più esplicita che Mariko Mori fa di se stessa, è il suo autoritratto “futuro”. L’azione è completamente decontestualizzata da possibili riferimenti reali, l’unico riferimento spaziale sono il corpo dell’artista e dei palloncini colorati (pianeti?). Mariko Mori, come un’icona della musica pop, indossa una minigonna scozzese, un corpino in paillette, calze rosa, due ali gialle trasparenti e una grande cuffia bianco-blu, tutto rigorosamente in plastica. La scelta dei colori e dei tessuti ci conferma inoltre l’appartenenza di Mariko Mori alla “Tokyo Pop”. Il colore della plastica, infatti, serve a suggerire una superficie che, se lontana dalla “carne” umana, rappresenta comunque la pelle di un corpo che attraversa un rito intimo di passaggio: perché Mariko Mori è già pronta a mutare in qualcos’altro che il tempo le sta suggerendo, come uno sciamano che parla di utopie che però sono interconnesse al globalismo del XX secolo. In Miko no Inorii (1996), un video ambientato in aeroporto, Mariko Mori appare con uno scintillante abito rosa pallido, munito di altrettante piccole ali di plastica gonfiabili, tiene in mano una sfera di cristallo e quando guarda il futuro gli occhi le si illuminano1. Mariko Mori sta dunque lavorando a livello di una “micro-geografia”, quella degli spazi virtuali che emergono dalla comunicazione in rete, il ciberspazio (ad un livello macro rientra il domino della geografia tradizionale)2. Oltre a ciò, Mariko Mori ci mette di fronte alla problematica del rapporto tra luoghi del ciberspazio e luoghi reali (ciberluogo). Inoltre, visto che in Mori esiste la consapevolezza che l’esistenza umana è limitata, la realtà virtuale così come tutte le tecnologie, potrebbero diventare il pretesto per un’amplificazione, sensibilizzazione (dei sensi e dell’anima) ed estensione del corpo stesso. Il mito dell’”angelo”, simbolo dell’invisibile e dell’ascensione del principio spirituale, sembra accompagnare molte apparizioni di Mariko Mori.
Però, se in Birth of a star e Miko no Inorii l’artista compare con qualcosa che più o meno ricorda delle ali, nei lavori successivi, vedremo, invece, come l’elemento fisico delle ali non serva più: si può fluttuare con l’ausilio di bozzoli di cristallo, di un arcobaleno circolare, di una fata morgana o tramite un abito-veliero. Difatti è quello che accade rispettivamente in lavori fotografici come Entropy of Love (1996), Burning Desire (1998), Kumano (1998), Mirrow of water (1998) e Pure Land (1998). Anche questa volta la protagonista delle scene rappresentate è Mariko Mori, nelle vesti di guru o divinità, che viaggia per terre di una natura a volte addirittura incontaminata. In Entropy of Love appare in primo piano una navicella di cristallo con a bordo un solo passeggero, l’artista stessa. Il paesaggio è caratterizzato da altopiani dove all’orizzonte compare un interminabile schiera di pali ad elica per l’energia eolica. Si potrebbe ipotizzare come la vista sul panorama himalayano, che per il suo sereno splendore, induce il pellegrino a prendere fisicamente coscienza dei legami naturali con un mondo segnato da un’inseparabile spiritualità dove anche ogni luogo plasmato dall’opera dell’uomo può divenire altrettanto sacro3. In definitiva è come assistere anche ad una ipotesi di “futuro sostenibile”: il fantastico che sta nel mondo surrealista-cibernetico della Mori è prima di tutto chiave di lettura del presente e, solo in secondo luogo, premonizione immaginaria del futuro. In Pure Land e Burning Desire, invece, il luogo di narrazione è dato più dai vestiti che indossa Mariko Mori che dallo spazio circostante. In questi lavori risulta fondamentale il rapporto che s’instaura tra l’abito e il soggetto che lo veste: cambiare vestito è come cambiare personalità, si muta in personaggi, che allora sono quelli suggeriti dall’indumento indossato. Mariko Mori ha comunque scelto su che piano muoversi: il suo spazio personale è un misto tra realtà e illusione, una fusione della tradizione giapponese, il Buddismo, le tecnologie più moderne (ad esempio le sue grandi fotografie a colori sonno prodotte da una squadra che va da 8 a 19 collaboratori e da numerosi sponsor), musica techno, fumetti manga, fantascienza o magari l‘arte del Cosplay (costume play, l‘ultima tendenza a vestirsi e truccarsi come certi eroi di carta)4. In Pure Land e in Burning Desire Mariko Mori è nelle vesti della Grande Divinità, Tara la Dea5, guardiana delle tradizioni buddiste e protettrice per eccellenza del paese. L’iconografia sacra la rappresenta vestita da abiti riccamente decorati, collocata su di un trono di loto o con un fiore di loto in mano. In Pure Land Mariko Mori è sospesa in aria su di un grande loto rosa (simbolo del Buddha); intorno, altri piccoli esseri dalla pelle colorata, fluttuano su nuvolette mentre suonano liuti, campanelli e flauti. L’artista indossa una corona a raggi dorati e un Kimono rosa-pesco impreziosito da tessuti iridescenti, coccarde, nastri e rosari6. Dalle spalle una sciarpa7 al vento traccia in forma circolare un’aureola di tessuto. In ciascuno dei cinque pannelli di Pure Land, Mariko Mori sembra non tralasciare alcun particolare della tradizione buddista che, tra l’altro, è molto ricca di simboli.
In particolare nel caso delle Mudra8, ovvero delle parole tradotte attraverso i gesti delle mani. Mariko Mori ne utilizza alcune in particolare: nel Bhumiparsha mudra, ad esempio, le due mani poste davanti al petto, con i pollici e gli indici che formano due cerchi che si sfiorano, e con il palmo destro girato all’esterno e quello sinistro volto sia verso l’alto sia verso l’interno, esprimono il dharmachakra, ossia la messa in moto della Ruota della Legge9. In Burning Desire è visibile, invece, l’anajali mudra che presenta le mani giunte ad altezza del petto e significa, insieme, saluto e venerazione. Se il kimono di Pure Land rendeva Mariko Mori un divinità un po’ più terrena, Burning Desire la presenta a tutti gli effetti come la Grande Protettrice dal fiore dischiuso di loto rosa (Padmapani) in una delle quattro mani. Nell’immensità solitaria del luogo, tra delle montagne rocciose e un laghetto inaridito, Mariko Mori è circondata da un alone-arcobaleno e da quattro discepoli in fiamme. Questa volta, in una tipica posizione meditativa a gambe incrociate, indossa dei capi estrapolati dalla tradizionale iconografia sacra indù: larghi pantaloni bianchi legati alla vita da una sciarpa azzurra, la stessa che avvolge le braccia; all’altezza dell’ombelico è rappresentata la Ruota della Vita a otto raggi mentre una triplice corona sulla testa significa compassione, cruccio per lo smarrimento del mondo ma nello stesso tempo, la gioia generata dal mondo. Mori cambia di ruolo e indica una via verso la ricerca dell’armonia interiore in accordo con il mondo circostante. E’ anche interessante come d’altra parte l’artista sia riuscita a far comunicare insieme diverse pratiche culturali, come la moda10, la storia popolare e la tecnologia in tutte le sue ultime sofisticherie digitali11.
NOTE 1 Uta Grosenick (a cura di), Women Artists. Koln, Tashen, 2004, p. 135. 2 Mario Neve, Itinerari della geografia contemporanea. Roma, Carocci editore, 2004, p. 162. 3 Claude B. Levenson, Buddismo. Milano, Mondadori, 1997, p. 112. 4 Matteo Guarnaccia, SayonaraGirl Educata, un po‘ malinconica, drammaticamente alla moda. Arriva dal Giappone una nuova figura di ragazza. Che nega la realtà ma continua a guardarla. Con gli occhi spalancati; in D di Repubblica, 5 febbraio 2005, pp.117 5 Dotata di poteri più diversi, Tara tiene a bada tutte le paure. Le viene attribuita un’efficacia senza uguali contro i lampi, la furia delle acque e del fuoco. Varie leggende dicono che da una lacrima di Chenrezing sia spuntato un loto sul quale sarebbe subito apparsa Tara. In Op. cit., 1997, p. 98. 6 La Mala è il rosario alla maniera buddista, uno degli attributi essenziali del pellegrino e di varie divinità. Composto da 108 grani, serve a pregare, ma soprattutto a contare il numero della ripetizione di tale o talaltra formula, recitata in onore di una specifica divinità. Quando la mala viene impiegata per scandire la recitazione, è la mano destra che sgrana le perle. Quando è inutilizzata, viene portata il più delle volte come un braccialetto al polso sinistro [come nel caso di Mariko Mori]. In Op. cit., 1997, p. 36. 7 Nella tradizione buddista la sciarpa, la Khata, è simbolo di cortesia e benedizione, è segno di una civiltà semplice e significa gesto di offerta, di accoglienza e scambio cortese. Il più delle volte è bianca, oppure di colore arancio o giallo oro quando è collegata alla religione, mentre in Mongolia prende il colore azzurro del cielo. In Op. cit., 1997, p. 46. 8 La parola Mudra significa sigillo ma anche segno, rivelando così la volontà, allo stesso tempo, di sigillare e di manifestare, ossia di tradurre le parole in altri mezzi espressivi. Si tratta insomma di una sorta di alfabeto visivo che permette di andare all’essenziale al di là della parola. E’ un segno che esprime le forze invisibili durante i rituali indù. In Op. cit., 1997, p. 69. 9 La ruota della legge rappresenta la dottrina predicata dal Buddha storico. In Op. cit., 1997, p. 20. dizzata, riuscendo a “manghizzare” persino il logo di Louis Vitton. 10 Ad esempio dallo stile decor di derivazione orientale, Takashi Murakami, con il suo progetto Flat Art, è diventato uno dei maggiori rappresentanti dell‘arte contemporanea giapponese: la sua arte bidimensionale si è addirittura brandizzata, riuscendo a “manghizzare” persino il logo di Louis Vitton. 11 In base a delle ultime tendenze oggi è in aumento il gusto per il super flat e la semplicità della linea, contro i filtri photoshop e tutte le sofisticazioni dell’era digitale oltre che al decor di derivazione orientale di Murakami e Mariko Mori. Marcello Bellan, “Le Gothique c’est chic”. In Alias de Il Manifesto n.14, 9 aprile 2005, p. 12.
Rebecca Horn 1968
Tra il 1968 e il 1976 Rebecca Horn realizza prevalentemente sculture concepite per essere indossate: Arm Extensions (1968), Cornucopia (1970), Unicorn (1971), Head Extension (1972), Finger Gloves (1972), Movable shoulder extensions (1971), Pencil Mask (1972), Cockatoo Mask (1973), Mechanical Body Fan (1973-74) e Paradise Widow (1975) ne sono alcuni esempi. La stessa artista annovera questo periodo sotto il nome di “Arte personale”, infatti: [Specialmente] per le performance tra il 1968 e il 1972 il numero dei partecipanti era ristretto, poiché - dice Rebecca Horn - un’intensa percezione interpersonale è possibile soltanto in un piccolo gruppo di persone. In ogni situazione le barriere tra lo spettatore passivo e il performance attivo non dovrebbero presentarsi. Dovrebbero esserci soltanto partecipanti. Ogni performer è una figura centrale e rappresenta il punto nodale di ogni attività. Quando l’attenzione di ognuno si concentra su un corpo in particolare si ha la sensazione di essere di fronte ad un rituale di iniziazione. La performance finale è sempre preceduta da un processo di sviluppo attraverso il quale, il performer prescelto, tramite i suoi desideri, idee e progetti, determina il modo di presentare se stesso. Anche l’”abito” è realizzato per essere indossato dal performer prescelto e non per un altro. Attraverso l’azione ripetuta del provare e del vestirsi inizia contemporaneamente ad evolversi quel processo di identificazione che io ritengo un fattore essenziale per ogni performance. Durante la performance la persona è isolata e separata dall’ambiente di ogni giorno. Il tutto accade sempre allo scopo di trovare forme più ampie di auto-percezione (R.H, Note 1972)1. Si tratta di arte personale, in quanto, senza pubblico e come all’interno di un rito di iniziazione, il performer assume la valenza del “prescelto” che vive in prima persona l’oggetto artistico creato per l’occasione dall’artista. Unicorn, ad esempio, è una performance che ha come soggetto una ragazza di 21 anni: Quando l’ho vista per la prima volta per strada - dice Rebecca Horn - lei mi stava superando, mentre io ero ancora presa dal mio sogno ad occhi aperti, l’”unicorno”. Fu per me uno shock vedere quella sua strana andatura, con quel modo di portare un passo avanti all’altro...Dai suoi movimenti, di una certa flessibilità, capivo, inoltre, come ella avesse una certa coscienza di come usare correttamente le gambe, mentre tutto il resto del corpo, dalla testa fino all’anca, sembrava essersi congelato2. La performance ebbe luogo in un mattino di nebbia in un campo di grano; la ragazza indossava un busto fatto di cinghie incrociate che dalla vita raggiungevano il collo per concludersi in un cono di legno bianco sulla testa: Tra un caffè e delle chiacchiere di politica, immaginavo il modo più convincente per descriverle il mio progetto. Iniziai parlandole che volevo costruire un particolare strumento, qualcosa di simile ad un cono che andava posizionato sulla testa e che avrebbe enfatizzato il suo modo di camminare3. Prima che la performance prendesse luogo, Rebecca Horn aveva però speso alcune settimane insieme alla ragazza per cercare di determinare le giuste proporzioni del suo corpo e la struttura che avrebbe indossato: riuscii a stabilire l’altezza e il peso del cono - dice Rebecca Horn - tramite degli esercizi di distanza e bilanciamento.
[Durante la performance], nessuna cosa poteva fermare il suo viaggio in trance, ella stava misurandosi con tutti gli alberi e le nuvole in vista. E il grano accarezzava le labbra, ma non le sue spalle nude4. L’unicorno, animale favoloso della simbologia antica e medievale, per lo più raffigurato come un cervo bianco artiodattilo, con criniera di cavallo e un corno a spirale sulla fronte, rappresenta purezza e forza sessuale. La leggenda vuole che fosse instancabile davanti ai cacciatori e che invece si arrendesse e si facesse catturare quando gli si avvicinava una vergine. Si dice anche che l’unicorno fu visto con sembianza umane da coloro che lo amavano5. Non sorprende, dunque, se Rebecca Horn abbia scelto per la performance Unicorn una futura sposa e che indossasse un “abito” bianco che tra l’altro si confondeva tra la nebbia mattutina dell’aperta campagna per poi dissolversi come un’apparizione nel sole splendente su quei campi ondeggianti. L’”abito bianco” in realtà era realizzato da una serie di cinghie che partivano dall’anca per concludersi in un collare. Questa sorta di griglia contenitiva o gabbia morbida, che segna lungo verticali e orizzontali il busto della performer, da inoltre la sensazione di essere una struttura studiata per stabilire certe misure corporee. Si potrebbe infatti pensare che Rebecca Horn stia analizzando i corpi nel rapporto spazio-fisico/ spazio-psichico, tracciando punti di partenza, linee di confine, assi di equilibrio e forme di relazione. Un’altra struttura a griglia si trova in Pencil Mask: Nove cinghie sono strette attorno alla mia testa - dice Rebecca Horn - tre verticalmente, sei orizzontalmente. Una matita è attaccata in ogni punto dove le cinghie s’incrociano. Tutte le matite sono lunghe più o meno due pollici [6 cm] e riproducono il profilo della mia faccia in tre dimensioni. Io muovo il mio corpo ritmicamente di fronte ad una parete bianca. Le matite disegnano sul muro; l’immagine che si ottiene corrisponde al ritmo dei miei movimenti6. Anche Arm Extensions è un abito che si caratterizza per un incrocio di bende rosse7 che avvolgono il corpo della performer dal petto fino ai piedi. Come una mummia - afferma Rebecca Horn - adesso ogni movimento diventa impossibile. Entrambe le braccia sono incastrate in fitti ceppi d’ovatta che fungono da sostegni di bilanciamento per il corpo. Essere legato per un po di tempo fa sì che il soggetto raggiunga l’impressione che le proprie braccia toccano gradualmente il terreno, o meglio, si ha come la sensazione che le braccia stesse fossero cresciute dal pavimento per poi trasformarsi in colonne separate fissate sul proprio corpo8. Secondo alcune teorie sulla psicologia della moda9, dal momento in cui portiamo un corpo estraneo in contatto con la superficie del nostro corpo, accade un fenomeno che prende il nome di “estensione dell’io”. La consapevolezza della nostra esistenza personale si prolunga nelle estremità e nella superficie di questo corpo estraneo, e di conseguenza nascono delle sensazioni o di estensione del proprio io o di acquisizione di un tipo e di una quantità di energia estranea o di un grado inconsueto di vigore, di resistenza fisica e di sicurezza10.
L’estensione dell’io è però realizzabile non in modo arbitrario e sproporzionato, perché altrimenti si otterrebbe l’effetto contrario, senza giungere così alla fusione del corpo con l’oggetto. Finger Gloves rappresenta l’esempio più palese di estensione del corpo: Rebecca Horn aveva infatti realizzato dei guanti con dita lunghissime in modo tale da modificare la distanza tra lei e gli oggetti. Mechanical Body Fan (TAV I) nasce invece seguendo precise proporzioni e misure del corpo. [Il Ventaglio meccanico per corpo]- dice Rebecca Horn - lo trasporto e lo bilancio sulle mie spalle. La testa e le spalle sono il suo centro, l’asse di tutti i suoi movimenti circolari. Le due metà del ventaglio si chiudono sulla mia testa. Attraverso il cambiamento d’equilibrio del mio corpo, entrambi i semi cerchi cambiano la loro posizione orizzontale e iniziano a ruotare. Una metà gira davanti il mio corpo, l’altra dietro. Il mio stesso corpo diventa l’asse fissa per il movimento delle due metà del ventaglio. Attraverso una lenta rotazione parti differenti del mio corpo vengono rivelate o nascoste. Se provo a cambiare costantemente l’angolo di rotazione la velocità di rotazione s’incrementa a tal punto che i ventagli formano un circolo trasparente11. Rebecca Horn molto frequentemente utilizza piume12 e uccelli come metafore del sé. Mechanical Body Fan sembra addirittura far riferimento ad un Icaro al femminile: la farfalla. Questo costume diventa quindi il medium della trasformazione, della voglia si sfuggire dalle pressioni esterne e approdare nella libertà di una propria storia fatta anche di sogni ad occhi aperti13. Il ventaglio stesso è assimilato alle sfere della luna e, di conseguenza, il suo simbolismo corrisponde alle sfere dell’immaginazione e del cambiamento (non essere, apparire, crescere, essere pienamente e diminuire)14. Secondo Lucy Lippard, tra i “body-objects” della Horn si avverte sempre uno strano equilibrio che oscilla tra comunicazione e isolamento, separazione e interazione, distanza e intimità, il sè e l’altro. Un immagine esauriente del bilanciamento di questi dualismi è data dal lavoro Paradise Widow. Un’enigmatica colonna di piume nere che si aprono per scoprire un corpo nudo all’interno. L’ambiguità di questo oggetto si avverte nell’aspetto animato - il corpo - e inanimato - l’involucro di piume - che lo compone: la stessa cortina di piume, benché così soffice, riesce a provocare una barriera col reale. Paradise Widow è sempre stato per Rebecca Horn una sorta di “mostro nero” ma nello stesso tempo un modo per esorcizzare certe paure, in particolare la paura del contatto. Paradise Widow potrebbe essere un rifugio ma anche una trappola, un modo per rivelare il corpo ma nello stesso tempo nasconderlo (o proteggerlo?). Altre volte i lavori di Rebecca Horn sembrano trascinarci in un’altra epoca, in un Medioevo di giostre - Head Extension - ma anche di “torture” - Measure Box (1970), Cornucopia (1970), Overflowing blood machine (1970) - dove ogni performer è come un “cavaliere” che va incontro al suo destino. Difatti, nero, bianco e rosso sono sia i colori usati da Rebecca Horn per i suoi “Bodyobjects” che i colori adottati in certi racconti medioevali per distinguere gli stessi cavalieri15.
Col passare del tempo il percorso della Horn comincia a trovare un contesto più narrativo, rendendo le performance sempre più simili a storie cinematografiche - Il Ballerino (1978) è stato per esempio il suo primo film. Attualmente l’artista presenta sculture meccaniche così come oggetti misteriosi che con il loro simbolismo collettivo e arcaico, rendono visibili meccanismi e sensazioni profondamente radicati nell’uomo: il potere, la lotta, l’isolamento, le minacce ma anche la libertà e l’erotismo.
NOTE 1 AA.VV., Rebecca Horn. The glance of infinity. Bonn, Kestner Gesellschaft, Scalo Verlag, 1997. 2 Op. cit., 1997. Tradotto da: “I first saw her in the street, she walked past me, whilst I was still lost in my own “unicorn” daydream – the strange rhythm of her gait, of putting one step in front of the next… All was like a reverberating shock of my own imagination. Her movements, a certain flexibility, knowing precisely how to use only her legs, with the rest of her body, from head to hips, frozen still”. 3 Ibidem. Tradotto da: “Drinking coffee, talking politics and frantically wondering how to convincingly explain my idea. I try tell her that I want to built a particular instrument for her, a kind of rod to go on her head and that this rod is made of wood and is supposed to emphasize her manner of walking”. 4 Ibidem. Tradotto da: “We spend the next weeks trying to determinate the right proportions for her body, establishing the weight and height of the object and doing distance and balance exercises”. “Nothing can stop her trance-like journey, measuring herself against every tree and cloud in sight. And the wheat caresses her lips, but not her bare shoulders”. 5 Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli. Milano, Gruppo Editoriale Armenia, 1996, pp. 507-508. 6 Op. cit., 1997. Tradotto da: “Nine straps are tied around my head, three vertically, six horizontally. A pencil is attached at each point where the straps cross. All pencils are about two inches long and reproduce the profile of my face in three dimensions. I move my body rhythmically to and in front of a white wall. The pencils make marks on the wall; their image corresponds to the rhythm of my movements (R.H. 1972)”. 7 Secondo Lucy Lippard in Rebecca Horn le bende hanno un senso sia di protezione che di minaccia; potenzialmente avvolgenti o torturanti. 8 Op. cit., 1997, p. 50. Tradotto da: “From her chest to her feet she is wrapped in criss-crossing bandages like a mummy. All movement becomes impossible. Both arms are imbedded in thickly wadded stumps, which serve as balancing props for her body. After being tied up for a while, the subject gains the impression that, in spite of her erect posture, her arms are gradually touching the ground, as if they were actually growing into the floor and turning into isolating columns fixed to her body (R.H. 1968)”. 9 In particolar modo secondo le teorie di Louis Flaccus. Vedi John Carl Flugel, Psicologia dell’abbigliamento. Milano, Franco Angeli Editore, 2003 (1930), p. 46. 10 Op. cit., 2003, p. 46. 11 Op. cit., 1997, p. 60-1. Tradotto da: “The fan fits the proportions and measurements of my body. I carry and balance it on my shoulders. Head and shoulders are its centre, the axis of all its circular movements. The two halves of the fan meet to close as a circle above my head. By shifting the balance of my body, both semi-circles change their horizontal position and start to rotate. One half turns in front of my body, the other behind me. My body becomes the fixed axis for the movement of the two halves of the fan. Through the slow rotation of the two fan sections, different parts of body are revealed or hidden. If I constantly change the angle of rotation, the rotatory speed is increased to such a degree that the fans form a transparent circle”.
12 Le piume rappresentano l’elevazione, la leggerezza e il volo. In Op. cit., 1996, pp. 388-9. 13 Un testo pubblicato nel 1993 ci fa ipotizzare come il lavoro artistico di questo periodo possa essere pure un modo per superare il momento di crisi dell’artista dovuto a dei problemi di salute: They took her [Rebecca Horn] in the sanatorium. Her process of recovery was a long one, with many stages of despair until she began to focus on herself, creating a new world in day-dreams: an inner world to help her bear the outside pressures. Later, as she slowly understood her illness, she devised new ways every day to escape. She drew up hourly calendars to suppress her anxiety…and she realized [the meaning of] her escape into the freedom of her own story. 14 Op. cit., 2003, pp. 515-16. 15 Op. cit., 2003, pp. 138-39. “La cavalleria è l’esempio di una pedagogia che tende alla trasformazione dell’uomo materiale in un uomo spirituale: il cavaliere nero è colui che soffre e opera sempre nell’oscurità e nella colpa, nel castigo penitenziale, per poi trasfigurare nella gloria; il cavaliere bianco è il trionfatore naturale, l’eletto, oppure l’illuminato dopo aver superato la tappa “nera”; il cavaliere rosso rappresenta il cavaliere sublimato da tutte le prove, insanguinato da ogni possibile sacrificio, degno dell’ultima metamorfosi: la propria glorificazione”.
TAV I
Louise Bourgeois 1968-69
Le origini della storia della scultura sono caratterizzate da manufatti dal significato magico-rituale e tali da garantire l’incolumità e la sopravvivenza del suo stesso creatore1. Una simile carica di energia primitiva si avverte nelle sculture di Louise Bourgeois in particolar modo quando, nella metà degli anni ‘40, inizia a creare i cosiddetti Personages, figure simili a stele evocanti oggetti magici di certe culture tribali. Degli anni ‘50 esiste la serie di figure antropomorfe mentre invece dagli anni ‘60 l’artista inizia a sperimentare materiali inconsueti come il lattice e la gomma. I Lairs (Rifugi) rientrano in quest’ultimo periodo; la metà degli anni ‘80 si caratterizza invece per dei lavori chiamati Cells (Celle)2, recinti di reti, porte e finestre con all’interno un allestimento fatto di sedie, tavoli e specchi. Sempre all’interno delle Cells (1996), più tardi, appaiono modellini di case e di scale a chiocciola e, come elemento costante da ora in poi, vestiti dell’artista stessa o come semplici objets trovés. Infatti, come dice Louise Bourgeois: The clothes I include in my work belong to the artist, the maid and to friends. It is very inclusive. “Friends” means anybody who has visited the house and who, by inadvertence, left an old book, a scarf, or galoshes, and by doing so enters the collection. For example, Le Corbusier forgot his glasses3. E’ chiaro, in questi anni novanta, come l’artista sia passata dalla fase mitica (quella tipica degli anni ‘40) ad una fase più intima e privata, ma pur sempre a livello dell’esperienza umana collettiva. Le sculture di Louise Bourgeois sono sempre state il luogo di massimo svelamento dell’anima e del corpo dell’artista stessa4. Ogni scultura è un esorcismo per stare bene. Exorcism is healthy - dice Louise Bourgeois - Cauterization, to burn in order to heat. It’s like pruning the trees. That’s my art. I’m good at it5. La paura del passato, il dolore, l’aggressione (sessuale) e la vulnerabilità sono infatti quei soggetti che l’artista controlla costantemente tramite la scultura6. Una delle cose che non possiamo totalmente controllare è invece il tempo7. Secondo Louise Bourgeois esso scorre indifferente e l’unica cosa che l’uomo può fare per fermarlo è cristallizzarlo in una forma, in un’immagine (la fotografia8) o addirittura in una metafora quale può essere la moda. Sempre secondo l’artista la moda è metafora dell’evoluzione degli aspetti, la forma degli abiti è una metafora per procedere e cambiare la vita giorno per giorno. Si può raccontare di nuovo la propria vita e ricordare la vita grazie alle forme, al peso, ai colori, al profumo di quei vestiti nell’armadio. Ad esempio, una vita presentata in fotografia può anche essere una storia dell’evoluzione della moda e, di conseguenza, un terreno di passaggio del tempo. La moda è un modo di datare la fotografia. E’ tutto!9. Commentando Il sistema della Moda di Roland Barthes10, Louise Bourgeois afferma, inoltre, che ad interessarla è la moda costruita non quella parlata (come nel caso di Barthes). Per lei la moda è il contesto, l’esperienza ripetuta della persona. Non è un concetto. La moda è l’esperienza di vivere in quest’abito, in queste scarpe tridimensionalmente.
Se l’abito è una scultura dell’esperienza, allora è una scultura che si realizza in due tempi. Il primo corrisponde al progetto di cucitura e il secondo all’uso, una specie di scultura che si creerebbe da dentro a fuori grazie all’esperienza di indossarla, di sentirne il peso, di incorporarle forma e odori del corpo, ricordi e associazioni11. Dunque l’abito - secondo l’artista - è anche un esercizio per la memoria, mi fa esplorare il passato: come mi sentivo quando lo indossavo? Nella ricerca del passato, gli abiti sono come dei cartelli (picchetti). Perché, in fondo, spiega l’artista - Ho bisogno delle mie memorie. Sono i miei documenti. Li controllo. Rappresentano la mia privacy e ne sono profondamente gelosa12. Louise Bourgeois riflette inoltre sul grado di passività o attività di ognuno di noi nei confronti degli abiti. Perché l’artista, per esempio, di fronte a particolari capi si chiede quanto seducente poteva essere il suo corpo con indosso un determinato abito o come un uomo possa immaginare una donna con un vestito e non un altro. La Bourgeois considera il vestito un regalo, una scelta, un test della presenza dell’uomo sulla donna. Gli abiti sono un test per il gusto - Lui mi vede come una mongolfiera o come una silfide?13. Se il vestito è un regalo, allora Avenza (1968-’69), un costume interamente cosparso di seni (che tra l‘altro rimanda all‘ iconografia classica dell‘Artemide di Efeso - TAV Ib) che Louise Bourgeois ha realizzato e indossato in alcune occasioni14, potrebbe significare l’offrirsi dell’artista stessa agli altri, per “cibare e proteggere” (TAV Ia). O potrebbe anche essere una forma per scongiurare la possibilità di rimanere da soli: Louise Bourgeois ammette di non essere mai stata veramente capace di porsi in una maniera tale da farsi amare e che per tanto aveva sempre distrutto tutte le amicizie e le relazioni amorose15. Indossare Avenza riconduce Louise Bourgeois a ciò che lei stessa pensa della scultura: il mio corpo è la mia scultura - di conseguenza - la scultura è un corpo16. In questo caso, però, l’idea che si ricava nel vederla coperta da una guaina in lattice è quella di un corpo impacciato nei movimenti, teso e deforme. Tra l’altro è evidente una certa vulnerabilità del corpo che volutamente viene “mutilato” nelle braccia: secondo la Bourgeois una persona che si auto-annulla o che inizia a “mangiare” le sue proprie mani o piedi, è sì crudele ma se lo fa è semplicemente per liberarsi dal dolore. E’ per questo che alla fine l’artista si definisce “solitaria”: rimane tuttavia in lei il sentimento di essere un tutt’uno con il passato, di sentirsi come qualcosa che ha una sua propria anima, la sua onnipotenza, il suo orgoglio, la sua tolleranza e il suo destino17. Avenza, dunque, non è fatto per avvicinare altri corpi, semmai per spingerli alle origini, alla radice dell’uomo (la Grande Madre, Natura) come alla radice di un problema (la paura). Le presenze del passato di Louise Bourgeois si sentono maggiormente in una serie di installazioni del 1996 (TAV Ic) In questo lavoro è come se gli alberi del giardino della sua memoria assumessero lo status di picchetto per vigilare sui confini dei ricordi.
Gli alberi del paesaggio appena preannunciato sono però di acciaio; pali verticali con esili braccia che sospendono abiti e forme che ricordano certi frammenti di corpo. Sono dei pali del sacrificio dove Louise Bourgeois appende offerte che sono a loro volta apparizioni della memoria, delle narrazioni attraverso le quali simulare (esorcizzare) nel presente certi incontri del passato18. E per fare questo all’artista sono bastati degli abiti, una certa silhouette, un colore o una semplice trasparenza del tessuto. In relazione ci sono grandi e piccole cose, la leggerezza dei vestiti e la corposità di certi corpi oblunghi, le divise nere contro l’abito “a giostra” da fanciulla, code morbide e rigidità dell’asse d’acciaio. Della stessa installazione fa parte Cell (Clothes), un piccolo spazio ma grande abbastanza da presentare una densità di eventi ad altezza d’uomo. Ciò che caratterizza maggiormante questa “stanza” è ancora una volta il potere evocativo dei vestiti, anche se in questo caso sono soprattutto abiti domestici, grembiuli o addirittura abbigliamento intimo, come un particolare paio di mutande da uomo indossata da un altro frammento di corpo poggiato su di una sedia19. Sospesa si trova pure un’ampia gonna nera con due piccole paia di collant bianchi attaccati all’orlo con delle mollette da bucato. Potrebbe essere un riferimento alla mamma con i figli “attaccati alla gonnella”. I capi che compaiono sono bianchi e neri. La maggior parte risulta essere in nero. Secondo l’artista il nero è però il colore del lutto, è un colore triste ma che può essere anche autoritario. Louise Bourgeois è in realtà interessata all’eleganza maschile più che alla moda femminile. Tra l’altro afferma di amare i pigiami da uomo e in generale le uniformi20. Le interessano i pigiami perché noi passiamo gran parte del tempo dormendo e quindi avvolti da questo tipo di abiti. Inoltre tra gli abiti della notte l’artista annovera le stesse lenzuola, ogni altro tipo di biancheria da letto, federe e le coperte21. Questo gusto di Louise Bourgeois per l’eleganza maschile si può forse notare nell’installazione Couple, dove una coppia sembrerebbe avere un rapporto sessuale. Come riferimento ai corpi l’artista utilizza semplicemente una camicia, per lui, e del tessuto nero con un colletto di merletto bianco, per lei. La camicia ci risulta, però, molto più leggibile rispetto all’abito della donna che invece potrebbe rimandare a tutt’altre notizie: lui sovrastando lei sta soltanto contribuendo a metterla in ombra (si spiegherebbe il nero) oppure, che lei così abbigliata possa ricordarci la divisa di certe cameriere (e qui rientrerebbe la figura dell’amante del padre della Bourgeois che era appunto una cameriera). Dietro Couple c’è ancora la necessità dell’artista di ricordare intensamente e di mettere in scena il suo “teatro dell’inconscio”: con rabbia (i due corpi, ad esempio sono stati privati dalla testa e dagli arti, come fossero dei fantasmi), dolore, gelosia, affezione, con o senza perdono.
NOTE 1 Joseph Helfenstein, “The Power of intimacy” in Parket, no. 27, 1991, p. 33. 2 Vengono definiti anche “small environments”. 3 AA.VV., Louise Bourgeois. New York, Phaidon, 2003, p. 21. Trad. “I vestiti che includo nei miei lavori appartengono all’artista, alla cameriera [o alla fanciulla?] e agli amici. Il mio lavoro è veramente inclusivo. Per “amici” intendo chiunque abbia visitato la mia casa e chi, sbadatamente, abbia dimenticato un vecchio libro, una sciarpa, o le galosce, ha fatto sì che entrasse nella collezione. Per esempio Le Corbusier dimenticò i suoi occhiali”. 4 Lei stessa dice: “Sono trasparente come una casa di vetro. Non c’è nessuna maschera nel mio lavoro”. 5 Op. cit., 1991, p. 33. Trad. “L’esorcismo è salutare. Cauterizzazione, come bruciare per guarire. E’ come potare gli alberi. Questa è la mia arte. Sono brava in questo”. 6 Perché secondo Louise Bourgeois: ”If you control, it’s proof you exist” (Se tu tieni qualcosa sotto controllo è chiaro che esisti). In Op. cit., 1991, p. 33. 7 Un ulteriore chiarimento di quale sia “l’esperienza del tempo” dell’artista è una sua dichiarazione del 1997: “You should never waste your time because time will never come back. Time can be represented by dust. If you don’t clean your books the dust will gather and you will have to blow it off. In this sense, to gather dust is to negate time” (Trad. “Tu non dovresti mai gettare via il tuo tempo perché esso non ritorna mai indietro. Il tempo è come la polvere. Se tu non rispolveri i tuoi libri la polvere si raccoglierà in essi e poi dovrai soffiargliela via. In questo senso, accumulare la polvere è come negare il tempo”). In Op. cit., 2003, p. 21. Oppure quando afferma: ”anche se solitamente si usa la parola itinerario in riferimento ad un viaggio in uno spazio, per esempio dall’Australia alla Russia, io la intendo per itinerario nel tempo. Io viaggio nel tempo e nella memoria”. In Op. cit., 2003, p. 22. 8 E’ interessante notare la visione che Louise Bourgeois ha della fotografia: “Io non voglio fotografie per ricordare: loro sono fatte per dimenticare o per perdonare”. 9 Jerry Gorovoy, Pandora Tabatabai Asbaghi, Louise Bourgeois Blue Days and Pink Days. Milano, Fondazione Prada, 1997, p. 277, n. 33. 10 Il Sistema della Moda di Roland Barthes è un saggio pubblicato nel 1967 che si propone come ricerca semiologica della moda ricavando le osservazioni dall’indumento scritto, ovvero dall’analisi di ciò che si scrive sulle riviste di moda quali Vogue, Elle, L’Echo de la Mode e Jardin des Modes. 11 Op. cit., 1997, p. 270. 12 Ibidem. Anche Cézanne diceva: “Sono geloso delle mie piccole sensazioni”. Bourgeois afferma inoltre che la memoria è diventata così importante da darle la sensazione di avere il controllo sul passato. Perchè “voglio ricavare una mia propria visione del passato”. Inoltre: “ l’abbandonarsi ai ricordi e ammassare la lana è negativo. Ognuno dovrebbe fare ordine fra le memorie. O tu vai incontro a loro o loro vengono da te. Se tu vai verso loro, stai sprecando soltanto tempo. La nostalgia non è produttiva. Se i ricordi arrivano da soli, diventano i semi della scultura”. In Op. cit., 1991, p. 45. 13 Op. cit., 2003, p. 20. 14 Nel 1978, insieme a Confrontation, Louise Bourgeois mette in scena la performance A banquet/A Fashion Show of Body Parts, la parodia di una sfilata di moda realizzata con l’aiuto di amici e studenti vestiti con abiti progettati dall’artista stessa. “I personaggi di Confrontation non erano attori professionisti -afferma l’artista - sono stati trasformati in attori dalle forti emozioni che gli davano i miei oggetti. La loro performance riguardava l’epressione di sé, più che il recitare. In Op. cit., 1997, p. 283. 15 Louise Bourgeois direbbe inoltre che “l’ arte nasce dall’incapacità dell’artista di sedurre (“Art comes from the inability to seduce”). In Op. cit., 1991, p. 45. 16 Ibidem, p. 44. 17 Ibidem, p. 45. Tradotto da: “The solitary artist is going to be a thing of the past with his soul, his pride, his patience, and his destiny. Ad esempio il tragico destino dell’artista è, secondo la Bourgeois,anche quello di rimanere sempre un bambino che non potrà mai liberarsi dal suo inconscio. In Ibidem, p. 45. Ma tutto sommato “You are yourself because you are isolated” (The Unic Chair. Isolation. Closed Space. Un’intervista del 15 maggio 1998)
18 Non si tratta, però, di una rappresentazione: ciò che vuole l’artista è quello di presentarci la sua esistenza. 19 Accomodarlo sulla sedia è anche un modo per isolarlo da tutto il resto. 20 “Intendo dire di quegli abiti di ogni giorno e ogni settimana. La domanda quindi è: come possono rimanere belli e freschi? La risposta è: lavo i panni la sera, prima di andare a dormire” (Op. cit., 1997, pp. 268). 21 Trad. “Because we spend as much time asleep as awake. In other words, we are wrapped in cloth as we sleep as much as we are wrapped in cloth during the day. Sleepwear for me means all bed wear, that is to say, bed sheets, linens, pillowcases and very special blankets”. In Op. cit., 2003, p. 21.
c
a
b
TAV I
Marina Abramovic 2000
2001
Dreamhouse (2000) ed Energy Clothes (2001), due lavori realizzati rispettivamente nel nord del Giappone, Yumoto, e a Como presso la Fondazione Ratti, segnano, per Marina Abramovic, il passaggio dal periodo Body Art (Artist Body) alla costruzione di situazioni in cui è il pubblico stesso a sperimentare i propri limiti nel corpo e nella mente (Public Body). L’inizio di questa nuova ricerca partiva già con i cuscini in ametista, Black Dragon (1989), che promanano energia che lo spettatore può raccogliere non solo e non tanto guardando, quanto soprattutto „abitando“ l‘oggetto o mettendosi in contatto fisico con esso. Ciò che importa a Marina Abramovic è di mettere in evidenza la necessità di recuperare o addirittura di inventare occasioni di ritualità utili a riassettare i rapporti tra mente e corpo, tra persona e persona, tra persona e natura. Infatti, secondo l’artista: [Nella serie dei lavori intitolata] Black Dragon ci sono tre cuscini posizionati all‘altezza della testa, del cuore e delle parti intime. Il pubblico è invitato a mettersi di fronte al muro, fare pressione con il corpo sui cuscini e aspettare che avvenga la trasmissione di energia. Vorrei che questi oggetti - che non sono sculture - fossero utilizzati nella vita di tutti i giorni. Sono oggetti transitori, servono per fare un‘esperienza, possono essere eliminati. Con questi oggetti intendo creare una sorta di rituale nella vita quotidiana. La mattina quando vi alzate, prima di bere il caffè, appoggiate la testa, lo stomaco, le parti intime su questi cuscini e assorbite l‘energia che trasmettono. E‘ un bel modo per iniziare la giornata1. Un lavoro simile è quello di Shoes for departure (1991): Le Shoes for departure (TAV III a) - afferma Marina Abramovic - sono di ametista pura e pesano 70 chili. E‘ impossibile servirsene per camminare. Il pubblico deve togliersi le scarpe, infilare i piedi in quelle di ametista, chiudere gli occhi, rimanere immobile e... partire con la mente, non con il corpo2. Che l’artista utilizzi dei cristalli non è un caso, anzi risalgono già da dopo la performance sulla Grande Muraglia con Ulay3: La camminata lungo la grande Muraglia è stata la mia prima esperienza senza pubblico. Decisi allora di creare i cosiddetti Transitory Object, che avrebbero sostituito il pubblico. Per farlo ho utilizzato materiali diversi: capelli di vergini coreane, sangue di maiale, cristalli...Ho lavorato con il materiale puro4. Diversi sono anche gli apporti delle altre culture: si pensa ai rituali africani, indiani e sudamericani5. Lo stesso viaggio in Brasile che Marina Abramovic compie negli anni novanta l’aveva vista in contatto con il mondo della mineralogia e la possibilità di utilizzare le sottili cariche energetiche di certe pietre. Sono andata in Brasile e ho trascorso parecchio tempo con i minatori brasiliani. Ho estratto minerali, cristalli, ematite, sodalite, magneti. Ho realizzato queste sculture perché il pubblico potesse usarle6. L’ametista, per esempio, è un quarzo dal colore viola che ha il potere di favorire i sogni, l‘amore, il coraggio e la felicità, difatti la si definisce anche pietra spirituale e di pace. Si dice, inoltre, che posta sotto il cuscino o indossata a letto, possa scacciare l‘insonnia e gli incubi7.
Marina Abramovic riprende il tema del sogno in Dreamhouse, una casa/albergo, in cui ogni elemento, dai cuscini ai tavoli ai letti8, è un oggetto che permette a chi trascorre del tempo in quest‘ambiente di ricaricarsi, concentrarsi e ritrovare la propria energia. All’interno della Dreamhouse avviene una sorta di rivalutazione della ritualità con le cose e dei gesti quotidiani. La mia personale micro-utopia - dice Marina Abramovic - è la trasformazione della vita di ogni giorno in qualcosa di diverso: riguarda la consapevolezza e la trasformazione dell’energia personale. Infatti, questa che inizialmente era una casa di pescatori, adesso viene concepita come luogo ideale dove poter sognare, e fare dei sogni stessi un quaderno collettivo. Sia lo spazio interno della casa, in stile giapponese, che l‘atmosfera del villaggio, Yumoto, sono in sintonia con il progetto. Il fine era stato anche quello di non alterare le tradizioni, anzi proprio il luogo ha influenzato la scelta: gli abitanti di Yumoto lavorano solo cinque mesi l‘anno (coltivano riso), durante i rimanenti sette si dedicavano (prima dell‘avvento della televisione) a incontri dove scambiare quanto problemi pratici quanto argomenti riguardanti la sfera dell‘immaginario. Anche in questo caso, per far sì che un rituale possa avere effetto, Marina Abramovic da delle precise istruzioni: E‘ molto importante - dice l’artista - che le istruzioni non vengano modificate, perché le istruzioni permettono l‘ingresso in un‘altra dimensione della realtà9. Quando si entra nella casa si trovano delle istruzioni per come usare il luogo, come bere, come vestire, come sognare preparandosi ad annotare i propri sogni su di un libro che farà parte di una Biblioteca internazionale di sogni10. Ad esempio gli abitanti venivano invitati ad indossare dei piumini-tuta che coprivano interamente il corpo, completi di scarpe da notte, cappuccio e guanti. I colori indossabili, per via delle energie in grado di emanare, erano il rosso, il blu, l’indaco e il verde. Ogni tuta era fornita di una serie di piccole tasche quadrate all’interno delle quali venivano inseriti piccoli quarzi. Gli Energy Clothes costituiscono l’ultima, la più semplice e la più lucida espressione del tema dell’energia secondo l’artista serba. Il più appariscente tra gli Energy Clothes (TAV IIIb) è un cappello, un lungo cono che si erge sopra la testa e che impone a chi lo indossa un’immobilità meditativa. E‘ in otto colori, dove, secondo gli insegnamenti di una certa tradizione tibetana, ciascun colore tende a trasmettere uno stato mentale differente. I coni sono realizzati in seta di Como e nei colori del rosso, giallo, blu, indaco, rosa, oro, bianco e verde. Dei magneti vengono collocati in piccole tasche all’estremità interna del cono: e la punta, in natura, così come nelle costruzioni fantastiche della letteratura, nelle radici a fittone così come per il naso di Pinocchio o il copricapo della befana, si propone come un’antenna naturale che può cercare la terra, la verità o la relazione con le forze del cosmo.
Per la sua altezza (il cappello è alto 1,20 m) richiama tutte le costruzioni umane che si elevano sopra la dimensione del corpo: è la forma dell‘antenna che può rendere una donna sia fata che strega; è un modo per trasformare il corpo in un campanile, in una torre, in una tensione che porta l‘energia dall‘alto al basso. Dove c‘è altezza c‘è casa, comunità, forza d‘animo, capacità di raccogliere energie cosmiche e di portarle verso il basso, nel corpo collettivo e individuale11. Chiunque indossa gli Energy Clothes diventa il soggetto di una performance che l‘artista offre come fosse una terapia: mentre mette e toglie i cappelli, Marina Abramovic fa proprio quell‘aspetto sacerdotale che, nella cultura occidentale, ha assunto (o piuttosto non ha mai perso) la figura del medico. Altri Energy Clothes (2000) si distinguono, invece, per il fatto di essere realizzati per un determinato punto del corpo e in base ad una certa mappatura energetica del corpo. Marina Abramovic, infatti, si concentra sulla testa, il petto e la dorsale. Secondo i “7 chakra” della tradizione indiana, questi tre punti del corpo si caratterizzano per essere centri nevralgici di forza vitale che stanno rispettivamente in rapporto con il pensiero, il cuore e il calore necessario per mantenere la vita12. L’Energy Clothes della TAV I è un copricapo che scende fin sulla fronte, è in cotone nero, contiene magneti e viene allacciato al mento. Per certi versi ricorda il cappello del pellegrino in epoca medievale: questo era decorato da una conchiglia e quando non era indossato veniva appeso dietro la schiena o al bastone da viaggio13. Secondo l’Ajna Chakra la fronte rifletterebbe la dualità della mente, l’ego e il sé spirituale, la mente razionale e quella intuitiva, mentre, secondo la Sahasrara Chakra il capo presiederebbe i nostri rapporti macro-microcosmici. Dunque coprire la testa e con essa la fronte con magneti14 significa che a Marina Abramovic interessa agire sulla fisiologia energetica dell’uomo, per permettergli di entrare in relazione dinamica con il microcosmo e con le sue forze elettromagnetiche. La scelta di un tessuto di colore nero, in fondo, simboleggia ciò che è nascosto, ciò che potenzialmente esiste ma che è solamente non visibile. Aldilà di ogni distinzione tra femminile e maschile, gli Energy Clothes della TAV II sono dei pezzi di cotone nero e contengono magneti. Non servono per coprire ma per proteggere certe parti “delicate” del corpo. Tra l’altro, secondo l’Anahata Chakra (Chakra del Cuore), nella zona del petto si manifesta l’amore che ha una delle frequenze vibrazionali più alte di tutto il resto del corpo.
NOTE 1 AA.VV, Marina Abramovic. Milano, Charta, Fondazione Ratti, 2002, p. 23. 2 Op. cit., 2002, p. 23. 3 The Lovers The Great Wall Walk, Marzo-Giugno 1988, Cina: con questa performance , Ulay, compagno dell’Abramovic in molte performance a partire dal 1976, e l’Abramovic stessa, percorrono la Muraglia Cinese, partendo da punti diversi, per incontrarsi dopo 2500 km e 90 giorni e dire addio alla loro storia d’amore. 4 Op. cit., 2002, p. 23. 5 A conferma di certe influenze culturali sono i viaggi che già negli anni ottanta Ulay e Marina Abramovic compiono: “Abbiamo vissuto per un anno - afferma Marina Abramovic - con gli aborigeni nel deserto australiano, incontrato tibetani nel Tibet e indiani in India. Con quel materiale abbiamo sviluppato un corpus di lavori completamente nuovo”. In Nightsea Crossing Conjunction (1983), ad esempio, ci sono uno sciamano aborigeno, il lama tibetano, Ulay e Marina Abramovic: rimangono seduti attorno ad un tavolo rotondo per quattro giorni , sette ore al giorno. Non c’è movimento ma solo l’immagine fissa . La serie dei Nightsea Crossing si caratterizza sempre dalla scelta di determinati colori da indossare: in questo caso Ulay indossava il rosso, Marina Abramovic l’arancione, lo sciamano l’ocra e il lama uno rosso scuro. 6 Ibidem. 7 Un esempio è Waiting for an idea (1991), una performance in Maraba (Brasile) dove Marina Abramovic cerca di raggiungere un equilibrio mentale rimanendo distesa per un’ora con la testa appoggiata su di un cuscino di quarzo. (AA.VV., Marina Abramovic, Artist Body. Milano, Charta, 1998, p. 325.) 8 Il letto, ad esempio, è come una scatola per bambole, un parallelepipedo rosso illuminato durante la notte da altrettante luci rosse;anche in questa occasione il cuscino è un mattoncino di quarzo. 9 Op. cit., 2002, p. 68. 10 Ibidem, p. 66. 11 Op. cit., 2002, p. 41. 12 Osvaldo Sponzilli, Cromoterapia. Roma, Edizioni Mediterranee, 1998, p. 87. 13 Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli. Milano, Garzanti Editore, 1991, p. 111. 14 La calamita può essere utile per spiegare il fenomeno dei magneti. “Verso il 587 a.C. Talete scoprì il magnetismo grazie a una pietra di calamita, combinazione di ferro e ossigeno di colore nero brillante. La calamita rappresenta tutte le forme di attrazione magnetica, forza irresistibile e misteriosa, e sarebbe in relazione con la calce formata dalla polvere magnetica. L‘uomo è carico di questa polvere, come la calamita; tutto l‘universo ne è saturo e ad essa ne deve la propria coesione e il movimento. La calamita diviene simbolo dell‘attrazione cosmica, affettiva e mistica. La pietra di calamita usata nella magia serviva da talismano per provocare l‘amore, l‘attrazione-seduzione”. In Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Milano, Rizzoli, 1969 (1989), p. 171.
TAV I
TAV II
b
a
TAV III
Vanessa Beecroft 1993
Sandali e gambaletti color carne; biancheria intima grigio-perla, collant gialli e sandali bianchi; magliette e cappello da cowboy nero, tacchi a spillo argentati e rossi; parrucche rosso fuoco, alcune con trecce, t-shirt ocra e slip turchesi; soprabito nero e parrucca marrone; sottovesti e zoccoli… Se a prima vista le indicazioni sopraccitate sembrano provenire direttamente da un casting board per una succinta sfilata di moda, forse non ci stupirà invece sapere che tali appunti visivi sono estrapolati da un altro diario, e chi lo scrive non è uno stilista ma un’artista, Vanessa Beecroft. Gli appunti per tanto continuano, perché i soggetti protagonisti sono rigorosamente delle donne (modelle, attrici, a volte gente comune trovata per strada) alle prese con ciò che gravita intorno al mondo femminile: il rapporto con il cibo e la sessualità, l’ossessione per la bellezza e la forma fisica, l’invecchiamento, l’identità e i condizionamenti mediatici. Nelle performance i corpi occupano, per un determinato tempo, uno spazio, come fosse una pedana (le loro stesse scarpe con i tacchi sembrano diventare dei piedistalli). Lo sguardo è molto vago, spaurito, il passo (se c’è) è esitante: ogni azione, a malapena abbozzata, non è mai finalizzata nella ricerca di un contatto con il pubblico anzi sia lo spettatore che le ragazze sembrano come vivere assorti in un’attesa senza tempo, dove forse non si inizia e non si termina nulla. Le performance di Vanessa Beecroft, che potremmo definire come delle sculture viventi, sono in realtà delle figure disegnate all’interno di un quadro, tableaux vivant, che non prescinde né da considerazioni coloristiche - ciò che io cerco, dopo aver collocato persone al posto di immagini, è di essere più vicina alla superficie bidimensionale, come un quadro dipinto invece che dipingere un quadro1 - né da altre regole di base (negli anni sempre le stesse) - non parlate, non interagite con gli altri, non bisbigliate, non ridete, non muovetevi teatralmente, non muovetevi troppo velocemente, non muovetevi troppo lentamente, siate semplici, siate naturali, siate distaccate, siate classiche, siate inavvicinabili, siate alte, siate forti, non siate sexy, non siate rigide, non siate casual, assumete lo stato d‘animo che preferite (calmo, forte, neutro, indifferente, fiero, gentile, altero), comportatevi come se foste vestite, comportatevi come se nessuno fosse nella stanza, siate come un‘immagine, non stabilite contati con l‘esterno, mantenete la vostra posizione più che potete, ricordatevi la posizione che vi è stata assegnata, non sedetevi tutti allo stesso momento, non fate gli stessi movimenti allo stesso momento, alternate una posizione di riposo a una posizione di attenti, se siete stanche sedetevi, se dovete andarvene fatelo in silenzio, resistete fino alla fine della performance, interpretate le regole naturalmente, non rompete le regole, siete l‘elemento essenziale della composizione, le vostre azioni si riflettono sul gruppo, verso la fine potete sdraiare, prima della fine alzatevi in piedi dritte2. E sempre secondo l’artista ogni performance dovrebbe iniziare come un Donald Judd e finire come un Jackson Pollock3. Corpo in carne ed ossa, quindi, che si trasforma in corpo dell’opera, a partire da una vera e propria ossessione per la corporeità, come testimonia Despair, il diario del cibo che Beecroft tiene metodicamente e religiosamente dal 3 ottobre 1987 al primo settembre 1993, e che trasforma nell’oggetto della sua prima mostra, alla Galleria Luciano Inga-Pin di Milano (1993), associandolo,
appunto, ai corpi di altre ragazze: Capitò per caso. Invitata alla mia prima mostra da un professore dotato d’intuito, decisi di esporre il diario dattiloscritto del cibo, che tenevo dal 1983. Insieme a un pubblico speciale di trenta ragazze trovate per strada che mi ricordavano ritratti della pittura rinascimentale o attrici del cinema degli anni Sessanta. Alle ragazze furono dati da indossare dei miei vestiti i cui colori si riferivano a un gruppo di acquerelli posati sul pavimento. La sensazione più forte che provai durante questa performance fu di vergogna e di esposizione di me stessa, ma la conquista fu quella di aver scoperto l’impatto visivo di un materiale: le ragazze4. Le ragazze invitate alla performance di Milano indossavano scarpe alte e indumenti vintage presi dall’armadio personale dell’artista, principalmente abiti di colori monocromi, come rosso, giallo, rosa, arancione, e si muovevano nello spazio della galleria come un pubblico speciale, connesso al libro5: fu il primo modo di colorare le ragazze6. Secondo Germano Celant, sia gli scritti che i disegni della Beecroft, parlano di veli, sono strumenti per coprire quanto per rivelare, creano uno spazio intermedio tra la pulsione nascosta e la sua rivelazione colta; in questo si agganciano alle conoscenze del Rinascimento e sul Neoplatonismo che Beecroft riceve al liceo, là dove il concetto di purezza coincide con il nudo velato e dove l‘anima forma il corpo. Una circolazione dell‘interno all‘esterno che vede la carne come espressione cromatica del cibo e in cui la nudità è la manifestazione di un corpo ideale. I disegni forniscono una veste alla proiezione liberatrice, danno presenza all‘assenza, rendono visibile, ossessivamente, l‘invisibile: un mese mangio solo rosso, vedo tutto rosso, faccio disegni rossi... se io vivo un‘altra persona si deve vestire dalla testa ai piedi di un unico colore... se la mattina mi sveglio e penso blu, faccio tutto blu e poi basta, si esaurisce7. Ma se sui corpi contemplati lo sguardo non coglie altro che superfici, il discorso dell’artista tratterà la globalità della superficie epidermica: indumento primo o secondo, pelle o vestito. Beecroft intesse dunque sull’epidermide un indumento molto aderente fatto da un intreccio di membra e sovrapposizioni cromatiche. Esistono degli studi analitici che mettono in rilievo gli elementi significativi identificati nell’opera di Vanessa Beecroft. Secondo le ricerche di Greg Durkin, il prodotto dell’arte di Beecroft, la performance e la relativa documentazione, ha uno stile ben definito. La presenza corrente di certe risorse, cioè di vere modelle, di componenti del guardaroba (parrucche e tacchi) e del colore, fa pensare che la sua opera, nell’insieme possieda un substrato stabile e logico. L’uso di una capigliatura naturale o di una parrucca come l’altezza e la forma delle calzature, diventano così uno strumento stilistico critico ai fini estetici e narrativi della performance. La scelta di certi materiali da parte dell’artista dipende sia dall’intenzione e dal tema del pezzo che dagli attributi delle risorse umane disponibili sul luogo8.
Le fonti di ispirazione provengono dalla cultura artistica, dai media (film) e dalla moda. L’interesse per il fenomeno moda9 è cresciuto negli anni: nelle ultime performance siamo di fronte a vere e propri casi di fashion victim (VB.TWINS#01, 2003), con modelle sempre più glamour10 che indossano abiti minimali e accessori di lusso disegnati da Tom Ford per Gucci (VB.35 Show, 1998), Manolo Blahnik e Yves Saint Laurent11. Questi sono pure dei lavori attraverso i quali l’artista rivela la forza modellatrice esercitata dalla moda che sta trasformando sempre più il corpo ad una icona intrisa, però, di ossessioni. Difatti, fin da quando ha esposto i suoi diari del cibo nella prima performance del 1993, l’ossessione di Vanessa Beecroft per il peso è stata sempre esposta ma non esorcizzata. Seguendo l’escalation artistica di Beecroft si avverte come l’universo fantastico di una bambina, tipico delle prime performance, sia cresciuto per rivelare e celebrare la donna che affronta la complessità culturale del contesto in cui si ritrova. Il passaggio si nota anche coloristicamente: dall’accostamento più ingenuo di un rosso con un turchese si è passato alla neutralità dei grigi e dei neri se non direttamente al colore della pelle di un nudo totale12. Ci accorgiamo, inoltre, di come un abito o soltanto un semplice accessorio sia in grado di regolamentare il nostro corpo (per esempio si pensi a certe costrizioni date dai tacchi a spillo) o rendere visibile la forza seduttrice che è potenzialmente in ogni persona. La stessa seduzione proviene dal colore13. Per esempio Jacqueline Lichtenstein ritiene che il colore sia un piacere che supera la discorsività e come la passione, il piacere dei colori elude la determinazione linguistica. L’emozione che assale lo spettatore - che è rapito dalle lusinghe dei colori - si manifesta sempre come una turbolenza nella capacità di esprimerla. Sospeso, bloccato, sedotto, l’individuo è poi privato dei poteri del discorso14. Il silenzio che il colore può provocare è un segno del suo potere e della sua autonomia. Il silenzio è il modo con cui esprimiamo il nostro rispetto per quello che ci emoziona al di là del linguaggio15. E di questo Vanessa Beecroft ne è consapevole: le sue performance si svolgono sempre in silenzio. Il silenzio, infatti, è detto dal corpo attraverso i nostri gesti e le nostre posture; il corpo è quindi uno dei mezzi con cui ci esprimiamo quando esauriamo le parole16, pur continuando ad essere altrettanto espressivi e articolati.
NOTE 1 Germano Celant, „Vanessa Beecroft: disegni carnali“ in Marcella Beccaria (a cura di), Vanessa Beecroft Performances 1993-2003. Milano, Skira, 2003, p. 25. 2 Laura Pugno, “Corpi come tele dipinte sulla carta”. In Il Manifesto, sabato 14 Maggio 2005, p.13. 3 Dal sito di Moderna Museet di Stoccolma “Fashionation”, un’esibizione che racconta come territori bordelaine fra moda e arte, riflettano l’empasse della natura e dell’individuo ai giorni nostri: http://www.modernamuseet.se/v4/templates/ template3.asp?id=2392 4 Op. cit., 2003. 5 Ibidem, p. 23. 6 Ibidem, p. 17. 7 Ibidem, p. 25. 8 Op. cit., 2003, p. 33. 9 Beecroft afferma inoltre: “La moda la rispetto per la sua fotogenia”. 10 Indossare capi sofisticati - secondo Beecroft - porta le modelle a sentirsi più sicure. 11 Dal sito : http://www.modernamuseet.se/v4/templates/template3.asp?id=2392. 12 Per confermare i passaggi di colore esiste un grafico che va dalla prima performance della Beecroft del 1993, VB01 fino alla VB51 del 2002. Vedi Op. cit., 2003, p. 33. 13 Tra l’altro alcuni studi confermano che la natura del colore sia legata all’inconscio e all’infantile. 14 David Batchelor, Cromofobia: storia della paura del colore. Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 101. 15 Op. cit., 2001, pp. 101-2. 16 Ibidem, p. 102.
Gilbert&George 1969
È il 1968-69, quando, in alcuni open-air rock concert e istituti d’arte di Londra, Gilbert & George presentano Underneath the Arches, un’opera da essi definita come “scultura cantante” o meglio come “scultura vivente”: questa performance non solo presenta per la prima volta una coppia d’artisti impegnati su un lavoro comune ma permetterà l’annullamento della divisione che esiste tra arte e vita e tra una forma di arte e un’altra. Così come loro stessi sostenevano, mai come ora tutte le attività quotidiane potevano essere considerate “sculture”. In Underneath the Arches i due artisti in rigidi abiti da uomini d’affari e con viso e mani dipinti color argento, stavano in piedi su un tavolino e si muovevano con gesti minimi e rallentati, come fossero marionette o giocattoli meccanici, sulle note della canzone di Flanagan e Allen, una ballata inglese sentimentale in stile varietà, che tra l’altro aveva lo stesso titolo dell’opera. A partire da Underneath the Arches, il lavoro di Gilbert & George si caratterizza per certe ricerche che mirano a studiare un comportamento globale che si riflette anche in un percorso di conoscenza corporea totale: quindi, risulta importante il collegamento di una certa espressione con una posizione fisica; di un certo tipo di presenza in un determinato spazio; l’energia delle emozioni e un determinato vestito1. Per quanto riguarda la presenza fisica in uno spazio, è interessante notare quando Michel Foucault afferma che ”la disciplina procede prima di tutto alla ripartizione degli individui nello spazio”2. Tra l’altro il senso di disciplina che emerge dalle opere di Gilbert & George - per esempio dal trittico del 1986 Class War, Militant e Gateway - è stabilita dal singolo “militante” che prova ad andare contro lo stretto controllo esercitato dalla società3. La schiera dei giovani protagonisti presenti nel trittico, ha una propria identità, anche se a prima vista la sensazione è quella di essere di fronte ad una massa di ragazzi, tutti in jeans, t-shirt e sneakers4, e, senza chiari riferimenti al loro lavoro o credo politico potrebbero addirittura essere figli dell’ambasciatore! Ci interessa la persona umana - afferma George - a prescindere dalla sua classe, estrazione sociale o altro. Tutti i nostri soggetti sono umanoidi non socialmente connotati5. Anzi, è forse proprio tramite questi indumenti che ci si libera da certi incasellamenti imposti dalla società6, per giocare, così, la possibilità di stabilire la propria via da percorrere, come un pellegrino che, durante il viaggio attraverso l’esistenza, affronta tante disavventure (ovvero i contrasti interiori che provengono dalle pretese familiari, dalla propria sessualità e vita privata) senza però perdere di vista quella porta che è l’ingresso per iniziare a vivere veramente7. Allora, il vestito (anche nel caso dell’uniforme individuale), al pari di uno sguardo, comunica un umore, uno stato d’animo, certe paure personali, i propri desideri, la disponibilità verso gli altri o addirittura il distacco più totale. Da una conversazione fatta dal giornalista francese FranÇois Jonquet con Gilbert & George, una domanda era sorta spontanea e riguardava l’abitudine di indossare il completo da uomo prima della performance Underneath the Arches:
FRANÇOIS JONQUET: Idossavate di già l’abito? GILBERT: Sì, ogni domenica. Oppure per occasioni speciali. Durante la settimana ci vestivamo in una maniera più casuale. Anche perché ogni giorno stavamo a lavorare nel sottotetto della St Martins. Inizialmente avevamo avuto l’idea di realizzare delle sculture portatili, come poteva esserlo una coppa o una scatola. Poi abbiamo cambiato idea. GEORGE: Tutto avvenne per errore. Nelle prime pose apparivamo con gli oggetti, una volta senza. Era stato molto più interessante senza gli oggetti: infatti è da qui che nacque l’idea. Vogliamo essere giusto noi stessi, nient’altro che questo8. Secondo queste dichiarazioni, dunque, l’abitudine di indossare il vestito da uomo, ai tempi del College, si estendeva solo alla domenica e a certe occasioni speciali. Dal 1969 sembra, invece, che le occasioni speciali si siano estese, perché Gilbert & George vestono in abito doppio petto sia da “sculture viventi” che nella vita di tutti i giorni9. Il loro abito è un filo conduttore tra Arte e vita. Nel 1971 in Germania, Gilbert & George espongono un complesso di 23 disegni chiamato Charcoal on Paper Sculptures (Sculture e carboncino su carta) che portava per titolo The General Jungle or Carryng on Sculpting (La giungla generale ovvero continuando a scolpire). Sono disegni che riportano il concetto della Scultura Vivente in comunicazione con la tradizione inglese della pittura paesaggistica del XVIII secolo e a certi vecchi bozzetti disegnati a carboncino all’origine delle tappezzerie fiamminghe o di affreschi italiani10. In più, appaiono degli elementi testuali (la parola rappresenterà anche in seguito uno degli elementi costanti della grammatica artistica di Gilbert & George) che, alla stregua di sottotitoli ai disegni, scorrono sotto ai nostri occhi come dichiarazioni che completano il senso delle immagini. Oggi ci accorgiamo come, queste prime parole, stiano ancora segnando la loro carriera così come ai tempi del loro esordio. The General Jungle or Carryng on Sculpting inizia con il disegno intitolato As day breaks over us we rise into our vacuum (Allo schiudersi del giorno su di noi, ci alziamo nel nostro vuoto) e continua attraverso altri fogli. We step into the responsability suits of our art è significativa per cogliere meglio il senso dell’abito, di come questa coppia artistica possa portare ‘responsabilmente gli abiti della loro arte’11, un abito sì démodé ma comunque da vero gentlemen vittoriano12. Un gentlemen very british militante che veste l’uniforme da artista condottiero della quotidianità13. E come i veri condottieri (dittatori o rivoluzionari in genere) si mantengono sempre su un registro di astrazione14 - le loro opere. Gilbert & George, presenti in ogni loro lavoro, sono icone simili ad emanazioni divine15 (affermano una presenza e al contempo un certo distacco dalla realtà). Noi non ci schieriamo mai - afferma Gilbert in una intervista - preferiamo essere sovversivi, senza confrontarci direttamente - perché se fai troppe domande...16 Allo stesso modo il loro abito produce da un lato ordine ma allo stesso tempo non può rendersi immune dal disordine e dall’alterità che esso stesso emblematicamente evoca17.
La ricerca artistica di Gilbert & George, iniziata alla fine degli anni sessanta, non ha subito né gli influssi hippy degli anni sessanta-settanta né quelli punk degli anni ottanta18. La loro giacchetta attillata e il sorriso gentile vanno avanti nel tempo e, specialmente dagli anni ottanta, vedono un mondo farsi caleidoscopio di eventi. Il mondo gira intorno agli sguardi di Gilbert & George, e quelli che erano i loro primi demoni - depressione, alienazione, tristezza, povertà, vuoto, miseria, l’ombra19 - adesso lasciano spazio ad un universo ardente, pieno di luci e colori20, fiori e persino abiti colorati. A proposito, in un’intervista fatta da Andrew Wilson, Gilbert afferma: La nostra fonte di ispirazione sono tutte le persone vive oggi sul pianeta; il deserto; la giungla; le città. Ci interessa la persona umana; la complessità della vita21. Un esempio è dato da alcuni dei grandi pannelli fotografici come Drunk with God (1983), Life e Death (1984) o Gum City (1988). Se in Drunk with God Gilbert & George giocano sulla variante pelle/seconda pelle - abito bianco/pelle gialla, abito giallo/pelle bianca - è anche vero che, in Life e Death o Gum City, nel passaggio da una forma all’altra, gli abiti subiscono un filtro coloristico-simbolico. Per esempio in Life l’abito che Gilbert & George indossano è giallo/rosso, in Death è, invece, viola. In tutti i casi i corpi vengono stilizzati come fossero il prototipo di una coppia umana in un paradisiaco giardino all’inglese. Da buoni “progenitori” hanno oltretutto impiegato anni prima di arrivare a quello stesso rosso/giallo. Abbiamo impiegato quattro anni per trovare il ‘nostro rosso’.[...] Noi, per il rosso, siamo dovuti uscire per strada a comprarlo. Abbiamo poi impiegato altri quattro anni per trovare il nostro giallo22. E anche questa volta il corpo sociale è tracciato dalle tre forze vitali dell’uomo nonché dell’arte: la testa, l‘anima e il sesso23.
NOTE 1 Questo è ciò che afferma lo stesso Virgilio Sieni in Andrea Nanni (a cura di), Anatomia della fiaba Virgilio Sieni tra teatro e danza. Milano, Ubulibri, 2002, p. 32. 2 Le immagini degli schieramenti dell’esercito ne sono un esempio. In Francesco Bonami, Maria Luisa Frisa, Stefano Tonchi (a cura di). Uniforme Ordine e Disordine. Milano, Charta, 2000, p.24. 3 Come vedremo in seguito questi “militanti” molto spesso vengono rappresentati mentre indossano jeans, T-shirt bianche aderenti, scarpe da pallacanestro e giubbotti da aviatore, in pratica abiti provenienti da uno “stock militare”. In op. cit., 2000, p. 220. 4 Il videomaker Derek Jarman, esprime bene quello che accadeva, per esempio, ai ragazzi all’epoca delle influenze punk in Inghilterra. “Ho sempre amato gli abiti da lavoro: tute, giacche a vento, camici, tute in pelle, jeans e magliette - per la maggior parte acquistati di seconda mano nei mercatini. Trovo i negozi di abiti intimidatori. Ai tempi dell’università, all’inizio degli anni sessanta, portavo maglioni dolcevita e montgomery, l’uniforme postesistenzialista. Mi feci crescere i capelli un po‘ più lunghi e comprai il mio primo paio di Levis. Sentivo che i vestiti potevano tradirmi, ma per chi? Non ero mai vestito secondo la moda. Nel ‘66 Ossie Clark mi regalò una cintura decorata con pelle multicolore, il prototipo di un accessorio che avrebbe fatto furore negli anni sessanta. In Carnaby Steet comprai un paio di costosi ‘stivali da caccia’ con tasche con la cerniera da abbinare. A otto sterline mi rovinarono il bilancio, ma tirai avanti in fin dei conti con jeans e magliette - più una vittima incidentale della moda che un fanatico. Possedevo anche un’uniforme grigia da scolaro, una maglietta bianca e scarpe di tela con suole di gomma, un paio di calzini sgargianti alla Hockeney e una collana di perle. E capelli corti che mi ponevano in una classe personale. Vedete, ero vanitoso.
Glia anni settanta furono più sgargianti. Poi vennero gli anni della pelle, con una giacca consunta verde rancido e bottoni automatici, e jeans tagliati al ginocchio. Ora quel mondo non c’è più. Mi sono sbarazzato dei jeans cambiandoli con pantaloni di cotone e adesso cerco di apparire vagamente serio - come sarebbe piaciuto a mamma - in tv aggiungendo una maglietta e indossando un abito. Tuttavia non ho portato mai una cravatta“. 5 Paolo Colombo (a cura di), Gilbert&George The Jungle or Carrying on Sculpting. Milano, Electa, 2005, p. 70. 6 Uniforme e alterità. In un recente intervento [Agalma 1, 2000], Jean Baudrillard ha contrapposto l’uniforme a quell’indumento universale e democratico per eccellenza dei nostri tempi che sono i jeans. A suo parere, mentre l’uniforme è il riflesso di una società strutturata e gerarchica e sigilla come un emblema la coesione ideologica di una nazione, una classe o una istituzione, i jeans al contrario sono il riflesso di una società indifferenziata. In Op. cit., 2000, p. 198. 7 Francois Jonquet, Gilbert&George Intimate conversations with Francois Jonquet. London, Phaidon Press, 2004, p. 132. Ora quel mondo non c’è più. Mi sono sbarazzato dei jeans cambiandoli con pantaloni di cotone e adesso cerco di apparire vagamente serio - come sarebbe piaciuto a mamma - in tv aggiungendo una maglietta e indossando un abito. Tuttavia non ho portato mai una cravatta“. 5 Paolo Colombo (a cura di), Gilbert&George The Jungle or Carrying on Sculpting. Milano, Electa, 2005, p. 70. 6 Uniforme e alterità. In un recente intervento [Agalma 1, 2000], Jean Baudrillard ha contrapposto l’uniforme a quell’indumento universale e democratico per eccellenza dei nostri tempi che sono i jeans. A suo parere, mentre l’uniforme è il riflesso di una società strutturata e gerarchica e sigilla come un emblema la coesione ideologica di una nazione, una classe o una istituzione, i jeans al contrario sono il riflesso di una società indifferenziata. In Op. cit., 2000, p. 198. 7 Francois Jonquet, Gilbert&George Intimate conversations with Francois Jonquet. London, Phaidon Press, 2004, p. 132. 8 Op. cit., 2004, p.60. Tradotto da: FRANÇOIS JONQUET: Were you already wearing suits? GILBERT: Every Sunday. And for special occasions. We dressed more casually during the week. There we are on the roof of St Martin’s. Our early days! We got the idea to of making portable sculputes you can hold in your hand, like a bowl or a box. Then we stopped. GEORGE: It almost happened by mistake. We posed with the objects, then without. And it was more interesting without the objects: that was the idea we had at the time. Just ourselves, nothing else. 9 Da alcuni testi scritti da Gilbert & George, come A Day in the Life of George and Gilbert The Sculptors o To Be With Art Is All We Ask, l’arte stessa è considerate come un uomo biondo che indossa un abito marrone chiaro, camicia bianca e una strana cravatta blu. “Smart” è l’aggettivo chiave che definisce l’apparenza di quell’uomo: smart come neat e anche tidy , ovvero dall’aspetto pulito e composto, attraente e un pizzico intellettuale, in definitiva in “very british style”. Qualcosa tuttavia gli conferiva una certa aria di freddo distacco e del tempo che logora le cose. Tradotto da: “We think about you [Art] all the time and feel very sentimental about you. We do realized that you are what really crave for, and many times we meet you in our dreams. We have glimpsed you through the abstract world and have tasted of your reality. One day we thought we saw you in a crowded street, you were dressed in a light brown suit, white shirt and a curious blue tie, you looked very smart but there was about your dress a curious wornness and dryness. You were walking alone, light of step and in a very controlled sense. We were fascinated by the lightness of your face, your almost colourless eyes and your dusty-blonde hair. We approached you nervously, and then just as we neared you went out of sight for a second and then we could not find you again”. In Op. cit., 2004, p. 73. 10 Op. cit., 2005, p. 52. 11 Nel 1970 anche Joseph Beuys si infilerà, con un approccio artistico e un impeto politico-sociale analoghi, il suo abito di feltro in occasione della ‘dead mouse action’, e quindi nel contesto di una azione di Terry Fox, riferita all’allora guerra in Vietnam. L’idea di ‘scultura sociale’ formulata contemporaneamente da Beuys si avvicina dunque al concetto di ‘living sculpture’ espresso da Gilbert & George. In Op. cit., 2005, p. 55. 12 Ibidem, p. 55. 13 Gilbert & George si sforzano di indossare i panni su misura di una specie di abito della normalità... per ritualizzare davanti ai nostri occhi gli orrori e i piaceri della vita quotidiana e renderceli in qualche modo fecondi. In Op. cit., 2005, p. 56.
14 Per esempio, ‘il potere’ ha bisogno di immagini e segni che tengano alto il livello di guardia, ma che pure preservino la forza e la violenza dell’immaginario. In Op. cit., 2000, p. 128. 15 Tra l’altro a Gilbert & George piace l’interpretazione di Wolf Jahn che, nel loro lavoro, ha individuato una tendenza ascensionale paragonabile alla vita di Cristo. In Op. cit., 2005, p.66. 16 Ibidem, p. 62. 17 Op. cit., 2000, p. 200. 18 Secondo quanto Gilbert & George affermano: ”Noi abbiamo sempre seguito l’evoluzione della nostra arte e nient’altro. Ma spesso capita che alcuni punk vengano alle nostre esibizioni”. In Op. cit., 2004, p. 90. 19 I loro lavori diventano così ricettacoli in cui confluiscono la loro stessa vita, la loro infanzia, le loro paure, le loro speranze e il loro amore. “Noi facciamo quadri per trasformare le persone e non per complimentarci con loro su come sono fatte”. In Op. cit., 2005, p. 50. 20 Le precedenti opere erano prevalentemente in bianco e nero; successivamente si è aggiunto il rosso (“blood, danger, love, hate”): “For years we saw only red in front of our eyes”. In Op. cit., 2004, p. 89. 21 Op. cit., 2005, p.68. 22 Ibidem, p. 66. 23 Ibidem, p. 12.
Joseph Beuys 1975
Tutto il lavoro di Joseph Beuys tende ad un problema centrale, l’uomo, e la sociologia che se ricava non è nient’altro che un concetto scientifico di amore1. Lo scambio vicendevole tra uomo e uomo è la cosa più importante per Beuys che del mondo ha una concezione prevalentemente fisica: stabilisce, infatti, analogie tra l’essere umano e animale sulla scia della tradizione della grande utopia gotica, per un’esistenza umana in armonia con la natura ed in equilibrio sociale. In Joseph Beuys questa utopia prende il nome di “scultura sociale” ovvero un progetto di trasformazione della società2 in modo che ognuno possa esprimersi creativamente - ‘perché ogni essere umano è un’artista’ - in libertà e uguaglianza3. Secondo Beuys la differenza la fa la vita con le decisioni che ognuno prende. Per questo è necessario operare un progressivo ed inarrestabile ampliamento mentale per togliere l’individuo dal rischio di ridurre la propria esistenza a una grigia sequela di gesti, pensieri e parole mortalmente ripetitivi4. L’impegno di Beuys era dunque quello di mantenere costantemente desta l’attenzione e le capacità reattive di ogni suo fruitore, coinvolgendolo in modo tale da incidere nella totalità delle sue emozioni e sentimenti. Il rinnovamento però, secondo Beuys, può avvenire soltanto nel momento in cui l’uomo rientra in relazione con gli animali, con le piante e con la natura (verso il basso), e verso l’altro con gli angeli e gli spiriti5. La “società delle api” è un ulteriore analogia per spiegare la trasformazione della società. Le api6, secondo Beuys, equivalgono per complessità agli esseri umani: “l’essenza costruttiva è comune, tanto che la costruzione di un favo di miele ha l’aspetto del negativo di un cristallo di montagna, segno essenziale della creatività umana come pure il sangue che circola nel corpo esegue lo stesso lavoro dell’ape nell’arnia. La loro cooperazione dipende da un sistema di attività innate, quindi esistenti in ogni soggetto. Il miele o la cera sono il risultato di questo processo, come l’arte deve essere per ogni persona, poiché ognuno è creatore”7. “E se il latte è l’essenza dell’intimità materna, il miele nel cavo dell’albero, nel seno dell’ape o del fiore, è anche il simbolo del cuore delle cose”8. Come all’interno di uno spazio socratico9, in cui le opere di Beuys diventano il pretesto per un dialogo con l’uomo, l’artista si presenta sempre indossando un panciotto da pescatore, con un quadrato di pelliccia di lepre, un cappello, per un dialogo in cui normalmente fa ricorso, non solo alla parola, ma anche a schemi grafici e diagrammi, disegnati su una lavagna10. Tra l’altro già agli inizi della sua carriera artistica, Beuys si presentava così: “un vero personaggio tedesco - scrive Gilardi - la sua casa, grande e vuota, ha un’atmosfera rarefatta; tutti gli oggetti sembrano mummificati o infeltriti; egli stesso ha un’età indefinibile e porta un panciotto imbottito bianco ed una lobbia che, a quanto pare, non si toglie nemmeno per andare a letto”11. La forte connotazione simbolica dei suoi abiti rimandano all’idea di ‘maestro’ ma anche di ‘sciamano moderno’12 (che tra l’altro porta sempre un abito caratteristico).
Secondo il sistema alchemico e rosacrociano, il cappello è segno della raggiunta iniziazione, nonché serve a ricordargli che, pur superiore agli altri, non deve esercitare il suo sapere arbitrariamente. Il panciotto del pescatore sottende l’allusione del ‘pescatore d’anime’ caratteristico di tutti gli sciamani, tra cui Cristo. Il quadratino13 di pelle di lepre, posto in corrispondenza del cuore, segna invece l’analogia dell’uomo-lepre: la lepre14 come principio di movimento, di rinascita e di reincarnazione. Io non sono un uomo - afferma infatti l’artista - sono una lepre. Tra l’altro nel 1972 Beuys progetta il Corsetto per uomo del XX secolo dalle membra deboli (tipo lepre)15. Il guanto così come qualsiasi altro oggetto complementare, come le scarpe e il cappello stesso, rappresenta una seconda pelle, lo si può intendere quale dilatazione energetica della mano. Diventa allora una conferma allusiva al potere umano di plasmare il suo corpo ed il territorio intorno ad esso. Esiste un grande archivio di immagini16 che documentano le azioni di Beuys, e in molte situazioni lo si vede apparire anche con un cappotto di pelliccia. Probabilmente è un altro riferimento agli animali nordici o di pelle bianca come l’orso, il cavallo e la volpe bianca. Preferisco gli animali del polo nord - dice Beuys - mentre le piante le scelgo al sud. Penso sia una decisione personale: il nord ha a che fare con la testa, il sud riguarda la digestione, il sesso e le estremità, quindi con il caldo17. Tutto il colore di Beuys è materia originaria, essenza sostanziale. E’ però nell’ordine delle sostanze vitali (oltre che all’interno della sua storia personale) che appartengono i suoi colori: il grigio, il rosso bruno, il marrone, il verde marcio, il nero e il bianco. Il grigio del feltro che avvolge dopo la caduta del suo aereo in Crimea, il bianco del latte che lo nutre durante i giorni con la tribù dei Tartari che lo salva, il giallo del grasso che lo ricopre e gli assicura il calore nell’inverno delle steppe eurasiatiche sono i colori di materie che salvano e restituiscono la vita18. Il grigio di feltro compare, ad esempio, nel 1970 con Il vestito di feltro, un multiplo a tiratura di cento esemplari, che si presenta come la forma buona che ricorda il corpo umano. Tagliato sulle misure di un vestito di Beuys e non sul suo stesso corpo, esso non è biografico, e non potrà salvarci da un incidente aereo o dalla morte; inoltre la sua contemplazione non renderà più facile la nostra stessa vita. Le sue origini sono piuttosto da ricercare nella configurazione di una delle formulazioni della teoria della scultura intesa come plastica sociale19. Esplicita i due principi di protezione e isolamento che attraverso la dissociazione e l’unità esibiscono la negatività da un lato e la positività dall’altro. E’ simbolo dell’isolamento dell’uomo del nostro tempo e dall’altro è protettivo perché indica la condizione termica della consistenza e della conservazione del calore. La trasformazione della struttura sociale inizia, dunque, con l’abolizione dell’isolamento tra uomo e uomo e tra uomo e donna. Allora, il feltro, materiale privilegiato di tutta la sua opera, svolge un doppio ruolo di isolamento e di conservazione, soprattutto sulle sensazioni tattili del corpo: freddo/caldo20.
La divisa da pescatore di Beuys è così trasformata in un’uniforme che ancora oggi rappresenta l’icona della forza rivoluzionaria dell’arte. Ma, al contrario di Mao che obbligava il popolo cinese ad indossare la sua stessa uniforme, l’uniforme di Beuys, come il suo vestito di feltro, rappresentano l’unicità dell’individuo, un esercito fatto di una sola persona. Se l’abito di Mao riflette l’ideale dell’uguaglianza, l’abito di Beuys sottolinea che ognuno di noi è indipendente e diverso21.
NOTE 1 Germano Celant, Beuys. Tracce in Italia. Napoli, Amelio Editore, 1978, p. 11. 2 L’apparato sociale è inteso nel suo continuo divenire dei legami ecologici, politici, economici, storici e culturali. 3 Op. cit., 1978, p. 12. 4 Lucrezia De Domizio Durini, “Beuys architetto universale”. Domus n. 751, Luglio/Agosto, 1993, pp. 17-34. 5 Heiner Stachelaus, Joseph Beuys. Napoli, Tullio Pironti Editore, 1993. 6 Beuys si occupò intensamente delle loro funzioni e comportamento, tra l’altro conosceva le conferenze tenute da Steiner nel 1923: Le Api sacre. 7 Op. cit., 1978, p. 32. 8 Upanishat G.Durand. 9 Op. cit., 1978, p. 12. 10 Ibidem, p. 20. 11 Ibidem, p. 5. 12 Op. cit., 1993. 13 La forma quadrata che tra i segni geometrici, secondo Pitagora, è la più naturale e meno artificiale rappresenterebbe l’anima: “L’anima è un quadrato”. In Op. cit., 1978, p. 26. 14 Gli egiziani hanno attribuito alla lepre proprietà divine in virtù dei suoi eccellenti organi sensoriali e velocità. Animale lunare per i cinesi e gli Atztechi. Nel Medioevo simbolo della Resurrezione. In Op. cit., 1978. 15 Op. cit., 1978, p. 57. 16 Negli ultimi quindici anni della sua attività, Beuys usa soprattutto due armi per propagandare il suo pensiero e la sua attività: la voce e l’immagine fotografica. In A.D.D’Avossa, Joseph Beuys. In difesa della natura. Milano, Skira Editore, 2001, p. 45. 17 Op. cit., 1978, p. 32. 18 Con la guerra, Beuys, era stato costretto ad arruolarsi nell’esercito nazista come pilota bombardiere di Luftwaffe. Abbattuto sulla Crimea nel 1943 fu soccorso e curato dai tartari delle steppe. 19 A. D’Avossa, Joseph Beuys. Difesa della natura. Milano, Skira Editore, 2001, p.59. 20 Op. cit., 2001, p. 59. 21 Francesco Bonami (a cura di), Uniforme. Ordine e disordine. Milano, Charta, 2000, p. 239.
Remo Salvadori 1975
“Oggi l’abbigliamento è certamente ancora un linguaggio ma la funzione principale della scelta della foggia, dei colori o degli accessori, è di manifestare esteriormente il carattere psicologico e ideologico della persona. Inoltre, rispetto a tanta libertà soggettiva, spicca oggi più che mai la norma militare dell’uniforme, del “portare la divisa”, con le sue regole codificate e con i suoi segni minutamente stabiliti. E’ interessante che il termine italiano divisa venga dal francese dèvise che vuol dire “impresa, proposito”. Portare la divisa significa quindi manifestare già nel vestito la propria scelta di vita, uno status, una condizione”1. Sembra, per certi aspetti, che “sia il civile sia il militare, manifestano nell’abbigliamento una scelta di vita. In più il civile manifesta una scelta del tutto soggettiva e individuale: indossa quello che vuole e così facendo disegna, vestendosi ogni mattina, un piccolo ma complesso sistema semiotico soggettivo, valido magari solo per un giorno”2. Noli me tangere, una tuta bianco/nera realizzata per un’occasione in particolare da Remo Salvadori, rientra nell’esperienza di vivere un abito giusto per poco tempo, o come avrebbe detto lo stesso artista, per quel “momento”. Una conversazione di Remo Salvadori con il curatore Bruno Corà inizia già a farci comprendere come, in questo caso, la tuta in sé venga assimilata per diventare il luogo di un altro sistema di significati: BC Nel ‘75 concepisci il Noli me tangere una tuta bianco/nera la cui evocazione cristologica richiede un chiarimento, giacché l’imperativo è connesso al corpo del Cristo dopo la Resurrezione. RS L’abito nasce in rapporto al Disegno di luce (1975). L’ho indossato per delle azioni. Ho foto in cui l’indosso! BC C’è un sapore molto suprematista, molto intenso di spiritualità. RS Andai un giorno da un sarto e gli dissi: “Scusi, mi fa una tuta metà bianca e metà nera?”; “Io gliela faccio, ma mi deve dire per cosa le serve”. BC Ma questo abito che poi metterai in relazione con un disegno del Modello (1979) comporta l’atto di indossare. Il celebrante indossa dei paramenti e c’è una tradizione nell’arte, che fa sì che Ugo Balli indossi un vestito di lamiera, poi Kounellis si metta addosso un suo quadro con cifre e lettere e tu indossi questo abito. RS Questo abito, devo dire, è in relazione profonda col Disegno di luce. È contemporaneo. È nato proprio nello stesso momento. Infatti è stato indossato poche volte ma solo per momenti particolari. È stato fatto perché sentivo che c’era bisogno di farlo; poi è stato appeso lì per anni3. Fin dall’inizio (anni sessanta) i lavori di Remo Salvadori si sono sempre distinti per la loro sensibilità al fenomeno luminoso. La stessa meditazione sulla luce lo portano ad azioni plastiche come la serie Nel momento (1974) dove l’occhio “compie il prodigio di aprire all’anima ciò che non è anima: il gaio dominio delle cose e del loro dio, il sole”4. Quest’ultimi lavori, realizzati su fogli di piombo, si caratterizzano nel fatto di trovare una forma attraverso un’azione di taglio5 e di piegatura (come fossero origami) animata, a sua volta, dall’energia della manualità di quel dato momento.
Era così che il piombo, da materiale plumbeo, grazie ai vuoti sui pieni, portava verso la luce. La luce non è solo istantanea temporalità ma anche segno in grado di stabilire dei rapporti tra parti, come in Disegno di luce (1975), in cui, una risma di carta fotosensibile, dopo essere stata colpita dalla luce, determina una serie di rapporti polari, bianco-nero. L’oggetto-tuta Noli me tangere (1975) nasce esattamente in questo periodo: essa sintetizza (visibilmente e fisicamente) non solo la stessa dualità dell’opera precedente, ma anche un contrasto dell’attuale condizione esistenziale dell’artista. “Appare opportuno osservare - secondo Bruno Corà - come la divisione del bianco e del nero nella tuta osservi l’assialità verticale della persona e dunque come tale divisione ruoti attorno alla spina dorsale dell’artista stesso, che ciò nonostante, in quanto soggetto, unifica le due diverse parti nell’unità della propria identità. Indossare tuttavia una tuta bianco-nera, e con essa prodursi nell’azione, significa indirettamente anche superare il dualismo, fonderlo nel calore dei gesti e della vita creativa, significava mettere in discussione ogni rigidità schematica” e confermare quello che è il credo di Remo Salvadori - Preferisco essere in armonia che essere in disaccordo. Non sento la necessità di costruire sulla negatività6. Indossare quel determinato abito rappresenta, inoltre, un modo per poter osservare se stessi e raggiungere quella sensazione che fa affermare: “Io sono qui”. Lo studio intrapreso da Salvadori comporta, dunque, attenzione alla realtà e il controllo dell’emozionalità soprattutto di quella relativa a energie negative; lo impegna nello studio anche della propria persona fisica, delle funzioni dei centri più importanti che presiedono il pensiero, alla meccanicità e a ogni altra funzione e soprattutto ai tipi di energia che ciascuno è in grado di esprimere, sempre nella congiunzione “il tuo, l’altro, l’opera”, “chi sei, da dove vieni, dove vai”. Puntando l‘attenzione sul titolo dell‘opera, Noli me tangere, risulta chiaro il riferimento cristologico alla Resurrezione. Tuttora uno dei dogmi della chiesa è il perché Cristo, subito dopo esser risorto, proferisce „Noli me tangere“ alla Maddalena che in quel momento cercava di avvicinarlo. „Non mi toccare“ potrebbe indicare che „ancora tutto non è compiuto“ che, nel frattempo, è meglio aspettare. Che la tuta di Remo Salvadori rappresenta la stasi ce lo conferma l‘aspetto simmetrico della sua perfetta divisione: la parte sinistra è in bianco, la parte destra è in nero. Il dualismo, che è dato dall‘opposizione fra il bianco e il nero, la luce e l‘ombra, l‘aspetto celeste e l‘aspetto terrestre, l‘aspetto negativo e l’aspetto positivo7, è inoltre un chiaro riferimento alla simbologia cinese dello Yin-Yang. Lo Yin-Yang è il simbolo della distribuzione dualistica delle forze; è rappresentato in forma di cerchio diviso da una linea sigmoide: i due campi risultanti, la forza chiara attiva maschile Yang e la forza scura passiva femminile Yin, appaiono così dotati di un significato dinamico che non si avrebbe se la suddivisione fosse effettuata diametralmente8.
Una peculiarità del simbolo sta nel fatto che all’interno di ambedue le forze è contenuto il germe di forza opposta9. Simile allo Yin-Yang cinese, è la zona centrale della Ruota della Vita10 indù. Esiste, tuttavia, l’asse verticale del centro Yin-Yang, cioè il “centro invariabile”, il “centro mistico”, in cui non c’è nè rotazione né agitazione, impulso o sofferenza alcuna. E’ in quest’ultimo piano che si colloca la scelta, da parte dell’artista, di indossare la tuta: secondo Celant, ciò che anima Remo Salvadori è un sentimento di attesa in un presente che è simultaneamente moto perpetuo e stasi permanente. E’ un rallentamento che vuole essere innanzi tutto riflessione sul rapporto passato-presente-futuro11. Nell’artista c’è sia la consapevolezza del sentimento degli opposti (della tensione che esiste tra il reale e l’ideale, tra il fisico e il metafisico12) che la sicurezza di sapere che solo fuori da ogni ansia, il “tempo impalpabile che passa”13 può risolvere tutto. Un brano di Rainer Maria Rilke (1903), scelto da Salvadori stesso, rappresenta questo modo di porsi alla vita: Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe di un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto di una nuova chiarezza; questo solo si chiama vivere da artisti. Nel comprendere come nel creare. Qui non si misura il tempo, qui non vale alcun termine e dieci anni non son nulla. Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senza apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri di ogni ansia14. Un’altra interpretazione, associabile al dualismo della tuta bianco/nera di Remo Salvadori15, può nascere prendendo in considerazione l‘universo dei colori goethiano e steineriano. Secondo la logica binaria goethiana, il colore nascerebbe per terzo, ovvero, dall‘incontro della luce e dell‘ombra: „i colori sono azioni della luce, azioni e passioni“ - afferma Goethe - “e perché un colore nasca sono necessari luce e buio, chiaro e scuro, o se si preferisce una formula generale, luce e non luce; una bipolarità che tende ad un terzo elemento:[...] si pensa al rosso”16. Una conferma di tale ipotesi giunge dallo stesso Salvadori quando, intorno al 1980, inizia a lavorare intorno al concetto di triade utilizzando un oggetto in particolare, il cavalletto17. Seguendo invece la teoria steineriana, il giallo assumerebbe una posizione intermedia che trascende l’orizzontalità della comunicazione che si crea tra il rosso e il blu. Come nell’opera Triade (1985)18, infatti, il giallo, simbolo dello splendore individuale, è rappresentato da una verticale in perfetta armonia con l’arco che si crea tra il rosso e il blu delle altre bottiglie. Dunque, si potrebbe pensare che, per l’impatto verticale che la tuta produce alla vista, sott’intenda il giallo e di conseguenza, nero/bianco potrebbero anche essere sostituiti da rosso/blu, rispettivamente simboli dello splendore del vivente e dell’animico.
Noli me tangere rappresenta anche la figura dell’attraversamento da un corpo all’altro, figura ripresa poi nell’opera successiva, Modello e anfora (1979/85). Nella tuta ogni elemento funziona da base al successivo, e in una elevazione che si innalza verticalmente vediamo il passaggio che va dalla tuta che contiene il corpo all’elemento modello - tra l’altro aggiunto alla tuta in un secondo momento - che rappresenta uno spazio che contiene corpi-opere. Non possiamo neppure ignorare la fascinazione - secondo Corà - provocata dal rapporto tra il modello, corpo ideale, e l’anfora (o per similitudine la tuta), corpo carnale che lo contiene e sostiene. Anche in Anfora e modello l’opera di congiungimento tra le due forme, è suscitata da una nuova immagine cristologica relativa all’iconografia del S. Cristoforo. Come è noto, il Santo è colui che ha portato Cristo bambino sulle spalle, attraverso le acque. Anfora e modello, mentre sono la metafora di tutto ciò, sono tuttavia la figura della consapevolezza di sé, cioè del portare il sé19. NOTE 1 Francesco Bonami (a cura di), Uniforme. Ordine e Disordine. Milano, Charta, 2000, pp. 148-9. 2 Op. cit., 2000, p. 149. Il linguaggio dei vestiti non possiede tutte e sei le funzioni che sono proprie del linguaggio verbale. Quelle più ricorrenti sono la funzione fatica o di contatto, quella emotiva od espressiva, ma anche talora quella referenziale. Si pensi, a proposito di quest’ultima funzione, agli abiti rigidamente codificati delle uniformi, agli abiti di monaci, di suore, agli abiti liturgici oppure agli abiti di un solo giorno. In Massimo Baldini, L’invenzione della moda. Le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma, 2005, p. 97. 3 Nel tempo trovare l’immediatezza. Conversazione tra Bruno Corà e Remo Salvadori in Bruno Corà, Remo Salvadori. Torino, Hopefulmonster Editore, 1997, p.169. 4 Op. cit., 1997, p. 49. 5 L’azione del taglio e del conseguente concetto spaziale trova radici nella stessa Milano di Fontana (il Concetto spaziale è del ‘47) e Castellani. 6 Op. cit., 1997, p. 17. 7 Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Milano, Rizzoli, 1969 (1989), pp. 569-571. 8 Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli. Milano, Gruppo Editoriale Armenia, Pan, Geo, 1996 (1985), pp. 527-528. 9 La carta sensibile ne è un esempio: il foglio bianco contiene potenzialmente il nero. 10 Op. cit., 1996, p. 528. La Ruota della Vita trascrive visivamente le diverse tappe delle esistenze. Viene rappresentata da quattro cerchi concentrici di dimensioni codificate. Uno di essi, il secondo partendo dal centro, è per metà bianco e per metà nero. Chiunque si lasci intrappolare dai cattivi impulsi imbocca il cammino dell’ombra che conduce alle Rinascite infelici e agli inferi. Gli altri imboccano il sentiero della luce che conduce alle migliori Rinascite e alle terre della Liberazione. In Claude B. Levenson, Buddismo Tibetano Simboli di una tradizione. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1997, p. 16. 11 Op. cit., 1997, p. 50. 12 Ibidem, p. 49. 13 Ibidem, p. 53. 14 Ibidem, p. 11. 15 Esiste, però, un duale che ha fornito numerosi simboli all’indumento storico: per esempio - secondo Roland Barthes - i folli de Medioevo e i clowns del teatro elisabettiano portavano costumi bipartiti o bicolori, la cui dualità simboleggiava la divisione dello spirito. Ovviamente, quest’ultimo, è un caso limite per chiarire meglio che il caso di Salvadori non rigurda la dualità ma un certo dualismo.
La dualità viene concepita come un due nella sua nozione di conflitto, come duplicazione non necessaria (travestimento) o come scissione interna (perdita della ragione). In Roland Barthes, Il sistema della moda. Milano, Giulio Einaudi Editore, 1970, p. 150. 16 Alida Cresti, Nell‘immagiario cromatico Simboli e colore. Palermo, Medical Books, 1997, p. 105. “Più luce (1985)[un ciclo di acquerelli], è anche frutto di un’osservazione fatta in base alla teoria del colore sui rapporti tra giallo e il blu. Su questi due colori si è detto tanto, anche Kandinskij ha affermato che il rapporto tra il giallo e il blu è povero perché manca il rosso. Nel mio caso -dice Salvadori- introducendo la questione del colore fisiologico - che dice “il rosso lo metti tu che guardi - ho verificato un’esperienza legata alle leggi della visione”. In In Op. cit., 1997, p. 176. 17 L’immagine del tripode fonda la sua simbologia nelle teorie di J. B. Bennett (L’uomo superiore) che, nell’esemplificazione del sistema di forze che rinnovano ogni forma di virtù, si soffermano sulla triade padre-madre-figlio: “Nei mondi superiori - afferma Bennett - l’arrivo di un figlio è un fattore indipendente che muta l’intera situazione...Il figlio non è una parte distaccata del padre, o una parte distaccata della madre; ha qualcosa di entrambi, in un modo tale da poter essere il mezzo che li collega. Questo corrisponde all’esempio più semplice che abbiamo per capire la terza forza, cioé il risultato del contatto tra gli impulsi affermativi e negativi...E’ così che avviene il rinnovamento della vita, non solo nell’uomo, ma in tutte le forme di vita sessuta”. In Op. cit., 1997, p. 25. 18 Installazione di tre bottiglie in cera, appunto con della cera rossa, cera gialla e cera blu. L’ordine delle bottiglie è stabilito da certe armonie intrinseche ai colori tanto che Remo le sintetizza visivamente utilizzando delle assi. Compaiono cerchi e verticali che ne producono una figura germinativa. 19 In Op. cit., 1997, p. 29.
Bibliografia
Giacomo Balla Francesco Cangiullo 1930 Le serate futuriste Romanzo storico vissuto. Napoli, Ed. Tirrena. Luciano De Maria 1937 Filippo Tommaso Marinetti e il Futurismo. Milano, Arnoldo Mondadori Editore. (ed. cons. I edizione Oscar classici moderni ottobre 2000). Germano Celant 1977 Ambiente/Arte, Dal Futurismo alla Body Art. Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia. Geno Pampaloni 1977 I futuristi italiani. Firenze, Le Lettere. Enrico Crispolti 1980 Ricostruzione futurista dell’universo. Torino, Museo Civico di Torino. (Catalogo della mostra: Torino, Mole Antonelliana, giugno-ottobre 1980) Maria Mimita Lamberti 1982 1870-1915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell’arte italiana, vol. VII, Il Novecento. Torino, Einaudi, p. 152, n.33. Pia Lapini (a cura di) 1985 Abiti e costumi futuristi. Pistoia, Edizioni del Comune di Pistoia. (Catalogo della mostra, Palazzo comunale, 25 maggio - 30 giugno 1985) Enrico Crispolti, Emanuel Zoo 1986a Il Futurismo e la moda Balla e gli altri. Venezia, Marsilio Editori. Pontus Hulten 1986b Futurismo&Futurismi. Firenze, Bompiani. Falqui Enrico 1988 Bibliografia e iconografia del Futurismo. Firenze, Le Lettere. Claudia Salaris 1994 Storia dei movimenti e delle idee. Futurismo. Milano, Editrice Bibliografica. Enrico Crispolti, Franco Sborgi 1997 Futurismo I grandi temi 1909 - 1944. Milano, Edizioni Gabriele Mazzotta. Anna D’Elia 1998
L’universo futurista, una mappa: dal quadro alla cravatta. Bari, Dedalo.
Anna D’Elia 1998 L’universo futurista, una mappa: dal quadro alla cravatta. Bari, Dedalo. Enrica Morini 2000 Storia della Moda XVIII-XX secolo. Milano, Skira. Ezio Godoli 2001 Il dizionario del Futurismo. Firenze, Vallecchi. Guido Bartorelli 2001 Numeri innamorati: sintesi e dinamiche del secondo Futurismo. Torino, Testo e Immagine. Enrico Crispolti 2004 Futurismo 1909-1944. Milano, Mazzotta. MANIFESTI 1914 Balla, “Il vestito antineutrale”, 11 settembre. 1915 Balla e Depero, “Ricostruzione futurista dell’universo”, 11 marzo. RIVISTE Enrico Crispolti 1985 “Giacomo Balla e il vestito futurista”, in DOMUS, n.659, Marzo, pp. 58-63. Ester Coen, Maurizio Calvesi 1986 “Futurismo”, in Art e Dossier, allegato al no. 2, maggio. Emily Braun 1995 “Futurist Fashion Three Manifestoes”, in Art Journal, vol. 54, no. 1, Spring. Thayaht Antonio Maraini, F.T.Marinetti 1932 Ernesto Thayaht. L’uomo presentato da Antonio Maraini. Lo scultore presentato da F.T.Marinetti. Firenze, Edizioni Giannini. Paolo Baldacci 1976 Thayaht. Sculture pitture disegni dal 1913 al 1940. Milano, Galleria Philippe Daverio. Manlio Cortelazzo, Paolo Zolli 1979 Dizionario etimologico della lingua italiana. Bologna, Zanichelli (ed. cons. 1991). Enrico Crispolti 1980 Ricostruzione futurista dell’universo. Torino, Museo Civico di Torino. (Catalogo della mostra: Torino, Mole Antonelliana, giugno-ottobre 1980)
Pia Lapini 1985
Abiti e costumi futuristi. Pistoia, Ed. Comune di Pistoia. (Catalogo della mostra, Palazzo comunale, 25 maggio - 30 giugno 1985)
Pontus Hulten 1986a Futurismo&Futurismi. Venezia Enrico Crispolti, Emanuel Zoo 1986b Il Futurismo e la moda Balla e gli altri. Venezia, Marsilio Editori. Enrico Crispolti 2000 Il Futurismo attraverso la Toscana. Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale. Ezio Godoli 2001
Il dizionario del Futurismo. Firenze, Vallecchi.
Caterina Chiarelli 2003 Per il sole e contro il sole: Thayaht&Ram La tuta/modelli per tessuti. Livorno, Sillabe. (Catalogo della mostra: Galleria del Costume di Palazzo Pitti, Firenze, marzo-giugno 2003) Enrico Crispolti 2004 Futurismo 1909-1944. Milano, Mazzotta. Francesca Antonacci, Damiano Lapiccirella e Carla Cerruti (a cura di) 2004 THAYAHT E RAM dal Futurismo al Novecento. Roma, Francesca Antonacci. (Catalogo della mostra: THAYAHT E RAM dal Futurismo al Novecento, Roma, 5 aprile - 15 maggio 2004)
MANIFESTI e VOLANTINI 1921 Thayaht, La tuta nel 1921 (Il manoscritto autografo è presso l’Archivio Seeber di Roma). 1932 Thayaht e Ram, Il Manifesto per la trasformazione dell’abito maschile. Tonfano, 20 settembre. RIVISTE 2000 A.Scappini, “Ernesto Thayaht: futurismo in tuta”, in Art & Dossier, 153, febbraio.
Rodchenko e Stepanova Vieri Quilici 1986
Aleksandr Rodchenko 1891-1956. Milano, Idea Books Edizioni.
Lidija Zalëtova 1987 L’abito della rivoluzione. Venezia, Marsilio. Luigi Paolo Finizio 1990 L’Astrattismo costruttivo Suprematismo e Costruttivismo. Roma, Edizioni Laterza. Peter Noever 1991 Rodchenko-Stepanova The Future Is Our Only Goal. Prestel-Vergal, Munich. Julia Dobrovolskaja 1992a Rodchenko Grafico, designer, fotografo. Traduzioni Claudia Zonghetti, Milano, Nuove Edizioni Gabriele Mazzotta. Tullio Reggente 1992b Immagine del Costruttivismo. Udine, L’Asterisco Editore. Matthew Cullerne Bown, Brandon Taylor 1993 Art of the Soviets: painting, sculpture and architecture in a one-party state, 1917-1922. Manchester, Manchester University Press. Guido Giubbini, Laura Gavioli 1995 Il tempo delle illusioni Arte Russa degli anni Venti. Milano, Edizioni Charta. Christina Kiaer 1996 “Rodchenko in Paris” in October, Cambridge, MIT Press, n.75, Winter 1996.
Antonio Desideri, Mario Themelly 1997 Storia e storiografia Il Novecento: dall’età giolittiana ai nostri giorni. Firenze, Casa editrice G.D’Anna, ed. cons. 2000. Enrica Morini 2000 Storia della moda XVIII-XX secolo. Milano, Skira. Tatlin John Milner 1983 Vladimir Tatlin and the Russian avant-garde. London, Yale University Press, (ed. cons. second printing 1984). Larissa Alekseevna Zhadova 1988 TATLIN, London, Thames and Hudson Ltd. Michele Ray 1992 Tatlin e la cultura del Vchutemas 1885-1953 1920-1930. Roma, Officina Edizioni.
Archizoom Archizoom 1973
„Dressing design : note preliminari per un disegno dei sistemi dell‘abbigliamento“ in Casabella - N. 373, p. 18-22.
Leopoldina Fortunati 1997 Corpo futuro-Il corpo umano tra tecnologie, comunicazione e moda. Milano, Franco Angeli (ed.cons.2002). Gianni Pettena 2004 Radical Design-Ricerca e progetto dagli anni 60 a oggi. Firenze, artout - m&m - Maschietto Editore, Laurie Anderson Roselee Golberg, 2000 Laurie Anderson. New York, Harry N. Abrams. Michele Pompei 2004 “Kraftwerk”, Tema celeste, n.105, September/October, pp. 15-16. Lucy Orta Pierre Restany 1997 “Lucy Orta’s refuge wear”, Domus, n.793, May, pp. 102-103. Donatella Bogo 1999 “Nella giacca c’è un sacco a pelo”, Corriere della sera Speciale Moda, venerdì 24 settembre, p. 30. Francesco Bonami, Maria Luisa Frisa, Stefano Tonchi 2000a Uniforme Ordine e Disordine. Milano, Charta, p. 356. Tommasini Maria Cristina 2000b “Corporal architecture, survival clothes”, Domus, n.824, March, pp. 74-81. Roberto Pinto, Nicolas Bourriaud, Maia Damianovic 2003 Lucy Orta. Hong Kong, Phaidon Press Limited. Lygia Calrk Alain Bois, Amilcar De Castro, Ferreira Gullar 1994a “Nostalgia of the body”, October, n.69, Summer, pp. 85-109.
Guy Brett 1994b
“Lygia Clark: in search of the body”. Art in America, v 82, July , p. 58.
Alain Bois, Rosalind Krauss 1996 “A user‘s guide to entropy”, October, n.78, Fall 1996, pp. 38-71. Helio Oiticica A.A.V.V. 1992
Hélio Oiticica. Rotterdam, Witte de With; Paris, Galerie Nationale du Jeu de Paume.
Lucilla Saccà 1995 Hélio Oiticica La sperimentazione della libertà. Udine, Campanotto Editore Udine. A.A.V.V. 1997
Politics-Poetics: Documenta X - short guide. Ostfildern:Cantz, p. 174-175. Maria Nordman
Germano Celant 1990 “Maria Nordman. Conjuct city of light”. ArtForum International, November XXIX No.3. Germano Celant 2000 Venice/Venezia Arte Californiana della collezione Panza al Museo Guggenheim. Venezia, The Solomon R.Guggenheim Foundation. Shirin Neshat AA.VV. 2002
Shirin Neshat. Milano, Edizioni Charta.
John Carl Flugel 2003 Psicologia dell’abbigliamento. Milano, Franco Angeli, pp. 14, 91. Marjane Satrapi 2005 Persepolis. Storia di un’infanzia. Roma, Panini S.p.a., p. 85.
Mariko Mori Claude B. Levenson 1997 Buddismo. Milano, Mondadori, p. 112. Mario Neve 2004
Itinerari della geografia contemporanea. Roma, Carocci editore, p. 162.
Marcello Bellan 2005 “Le Gothique c’est chic”. In Alias de Il Manifesto n.14, 9 aprile , p. 12.
Rebecca Horn AA.VV. 1997
Rebecca Horn. The glance of infinity. Bonn, Kestner Gesellschaft, Scalo Verlag. Louise Bourgeois
Jerry Gorovoy, Pandora Tabatabai Asbaghi 1997 Louise Bourgeois Blue Days and Pink Days. Milano, Fondazione Prada. AA.VV. 2003
Louise Bourgeois. New York, Phaidon.
RIVISTE Joseph Helfenstein, 1991 “The Power of intimacy” in Parket, no. 27, p. 33. 1995 October (Cambridge, Mass) no71 Winter 1995. “Bad enough mother. Psychoanalytic study of the use of the body in contemporary feminist“, pp. 70-92. Marina Abramovic Hans Biedermann 1991 Enciclopedia dei simboli. Milano, Garzanti Editore, p. 111. Velimir Abramovic 1998a Artist Body Performance 1969-1998. Milano, Charta. Osvaldo Sponzilli 1998b Cromoterapia. Roma, Edizioni Mediterranee, p. 87.
Germano Celant 2001 Marina Abramovic Public Body Installation and Objects 1965-2001. Milano, Charta. AA.VV. 2002
Marina Abramovic. Milano, Charta, Fondazione Ratti.
Uta Grosenick (a cura di) 2004 Women Artists Le donne e l’arte nel XX e XXI secolo. Köln, Tashen, pp. 8-11. Vanessa Beecroft David Batchelor 2001 Cromofobia: storia della paura del colore. Milano, Bruno Mondadori. Marcella Beccaria (a cura di), 2003 Vanessa Beecroft Performances 1993-2003. Milano, Skira. Laura Pugno 2005 “Corpi come tele dipinte sulla carta”. Il Manifesto, sabato 14 Maggio, p.13. Gilbert&George Andrea Nanni (a cura di) 2002 Anatomia della fiaba Virgilio Sieni tra teatro e danza. Milano,Ubulibri, p. 32. Francois Jonquet 2004 Gilbert&George Intimate conversations with Francois Jonquet. London, Phaidon Press. Paolo Colombo (a cura di) 2005 Gilbert&George The Jungle or Carrying on Sculpting. Milano, Electa. Joseph Beuys Germano Celant 1978 Beuys. Tracce in Italia. Napoli, Amelio Editore. Heiner Stachelaus 1993a Joseph Beuys. Napoli, Tullio Pironti Editore.
Lucrezia De Domizio Durini 1993b “Beuys architetto universale”. Domus n. 751, Luglio/Agosto, pp. 17-34. A. D’Avossa 2001
Joseph Beuys. Difesa della natura. Milano, Skira Editore. Remo Salvadori
Bruno Corà 1997a
Remo Salvadori. Torino, Hopefulmonster Editore, p.169.
Alida Cresti 1997b
Nell‘immagiario cromatico Simboli e colore. Palermo, Medical Books, p. 105.
Massimo Baldini 2005 L’invenzione della moda. Le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma.
INDICE Casamorbida&altro Introduzione...p.2 abito&artista Esordi...p.6 Giacomo Balla...p.9
“TUTTI IN TUTA” Thayaht...p.16 Arte e rivoluzione...p.24 Rodchenko e Stepanova...p.28 Tatlin...p.38 Archizoom...p.42 Laurie Anderson...p.47 Lucy Orta...p.50
ABITO COME PERFORMANCE SOCIALE Lygia Clark...p.55 Helio Oiticica...p.57 Maria Nordman...p.60 Shirin Neshat...p.62 Mariko Mori...p.68
ABITARE IL CORPO Rebecca Horn...p.73 Louise Bourgeois...p.79 Marina Abramovic...p.85 Vanessa Beecroft...p.92
IN-VESTITURA Gilbert&George...p.98 Joseph Beuys...p.103 Remo Salvadori...p.106 Bibliografia...p.111
casamorbida&altro Firenze, 5 Luglio 2005