Cap. 11°: Alla Miniera “Montecatini”.
Nel mese di novembre del 1946 ritornò mio fratello Lorenzo dalla prigionia. Mancava dall’Italia dal 1935, quando venne a salutarmi dove lavoravo, alla masseria Arpetta, dicendo che partiva. In Africa aveva fatto fortuna e, nel 1939, mi scrisse che mandava a nostra cugina Marietta la somma di £ 45.000, somma sbalorditiva per quella epoca, per l’acquisto di buoni fruttiferi Statali. Il resto, mi disse, l’aveva investito in Africa, per l’acquisto di un camion e per l’attrezzatura di un’officina meccanica. Aggiunse anche che aveva preso a lavorare alle sue dipendenze due nostri compaesani: Francesco Limosani, “Ciammaricare” e Giovanni Fini, “Ciccilluzze, Parco delle Rose”. In Etiopia fu fatto prigioniero dagli inglesi nel 1941 e portato in un campo di concentramento del Kenia. Poi, per togliersi dalle sofferenze della prigionia, collaborò con gli Alleati, e fu mandato in una fattoria, Farm in inglese, dove esplicava il mestiere di meccanico e motorista per i lavori agricoli, restando con questa famiglia inglese fino a novembre del 1946, quando fu rimpatriato. Rimase ad abitare con noi. Dopo qualche giorno decidemmo con lui di fare gli acquisti necessari, perché era arrivato col solo abito che indossava. Presi il buono fruttifero di £. 45.000, che mia cugina Marietta mi aveva consegnato al mio ritorno dalla guerra, per farlo riscuotere e fare le spese necessarie. Mio fratello lo prese, lo osservò e disse: «Questo non lo cambierò adesso». Prese le scarpe che calzava il giorno del suo arrivo, le scucì ed estrasse da esse, fra le suole, molti dollari. In seguito lo feci assumere come autista dal nostro amico Nicola Fini, che aveva il trasporto-operai della Società Montecatini.
Nel Novembre del 1946 ci furono le elezioni Comunali e il partito Comunista le vinse. Fu eletto Sindaco Matteo Merla Senior. In seguito, il Sindaco e gli Amministratori mi proposero l’impiego all’ufficio Annona, ma non volli accettare per non essere considerato dai compagni un arrivista, e anche perché non era stato bandito un concorso. Infatti,era un posto di favore e facile da perdersi, una volta cambiata l’amministrazione. Pregai il Sindaco e Leandro Giuva, veterinaio della Montecatini, di perorare, presso il Direttore, la mia assunzione. Il Direttore assicurò ad essi che sarei stato assunto al più presto, e che era stato lui a depennare il mio nominativo. «Avevo voluto dargli una lezione, perché nel '45 aveva abbandonato il lavoro in miniera». Fui chiamato il 7 febbraio 1947. Il più grande favore che il Direttore mi fece, fu di avermi assunto per l’esterno e non nel sottosuolo. Solo qualcuno era assunto per l’esterno. Pochi mesi lavorai alle dipendenze del magazziniere. Un giorno mi incontrai col Dottor Ercole Raneri, che mi disse che aveva bisogno di un operaio nel laboratorio, e mi invitò, se volevo andare a lavorare con lui. Subito accettai. Dopo qualche giorno fui chiamato dal Direttore, Andrea Sculco, nel suo ufficio, dove mi fece delle raccomandazioni sulla riservatezza e l’importanza del lavoro in laboratorio, e mi fece notare anche il privilegio che mi dava. Al laboratorio, c'era il capo reparto, il Dottor Ercole Raneri, laureato in chimica e farmacia; un operaio, Filippo Merla e due campionatori. Il lavoro si presentava nuovo e difficile, fra tutti quei matracci, ampolle e burette. Incominciai a tempestare di domande l’operaio Merla che, poverino, non mi poté aiutare, perché conosceva solo le dosi degli acidi che usava per
le analisi. Allora mi rivolsi al dottore, per sapere come avvenivano le reazioni nelle analisi. Il dottore visto la mia grande volontà di apprendere fu molto disponibile e mi diede le prime nozioni del lavoro che stavo per affrontare, poi mi diede anche un manuale di fisica e chimica analitica. Mi assentai dal lavoro a causa di febbri. Fu chiamato il dottor Morcaldi (don Tumasino) che venne in mattinata. Entrando in casa, e senza visitarmi, disse: «Che faccia di maltese!». Mi prescrisse il vaccino, e mi consigliò di rivolgermi al dottor Giuseppino Ricciardi, per le iniezioni endovenose. Dopo pochi giorni ripresi il lavoro. Con gli operai della Montecatini decidemmo di creare un vero Sindacato, perché dopo la ripresa del lavoro, in miniera si era andati avanti alla buona. Furono indette le elezioni per eleggere il Direttivo Sindacale. Allora vi era un unico sindacato, la C.G.I.L. Dagli eletti fui nominato segretario e cassiere. Si creò uno statuto e si organizzò l’assistenza agli operai. Col Direttore della Società Montecatini si convenne di trattenere, a tutti quelli che la sottoscrissero, una quota mensile di £ 100, che io ritiravo ogni mese all’Ufficio cassa della società a Manfredonia. Nelle riunioni sindacali che si tenevano, proposi di creare un ufficio col relativo impiegato, per sbrigare tutte le pratiche necessarie per l'assistenza agli operai. Feci il nominativo del mio amico Ernesto Merla, che fu accettato. Nel dopolavoro aziendale creammo un piccolo ufficio, e si decise anche che tutte le varie spese postali e di cancelleria, per l’assistenza agli iscritti, erano a carico del Sindacato. Proposi ancora un’altra innovazione. Alla morte di un minatore si usava preparare alla famiglia un pranzo, a conto del Sindacato. Per quel pranzo la somma che occorreva era di 12 – 14 mila lire. Feci notare che, alla morte di una persona cara, gli amici e i parenti, a turno, of-
frivano già un pranzo al giorno. Il Sindacato sprecava quella somma per il pranzo di un solo giorno, mentre era meglio stabilire, per tutti i decessi sul lavoro, di elargire lire 15.000 per la famiglia colpita dal lutto, in modo che essa potesse tirare avanti per un mese. La proposta fu accettata da tutti. In seguito si sentì la necessità di avere una bandiera col simbolo dei minatori. Io la progettai e disegnai (casco, lampada e piccone) su fondo rosso con dei disegni ricamati in oro, rettangolare e con asta al centro (Gonfalone). Il sindacato funzionò a gonfie vele, fino a quando ci fu la scissione del nuovo sindacato “C.I.S.L.”. In seguito le cose cambiarono anche perché venne a mancare l’unità delle forze; ma le lotte per il progresso continuarono. Nel frattempo mi ero prefisso di conseguire la terza media. I miei amici studenti mi consigliarono di procurarmi il programma dalla Direzione Scolastica .
Riuscii ad avere dagli amici diversi libri usati, mentre gli altri li comprai. Essi mi davano lezioni di diverse materie nei bar o in occasione di cene
che si facevano la sera. Matteo Merla junior mi dava lezioni di latino dietro compenso. Nel laboratorio avevo molto tempo disponibile e così mi buttai a capofitto nello studio. Nel laboratorio avevo molto tempo disponibile e così mi buttai a capofitto nello studio. Il lavoro nel laboratorio cominciava il pomeriggio, quando i campionatori portavano una certa quantità di bauxite grezza, che l’operaio Merla polverizzava in un mortaio di agata, poi si prendevano circa 50 grammi di minerale per ogni campione da analizzare, si mettevano in piccoli contenitori di porcellana, che stavano tutta la notte in un forno elettrico a 28 gradi, per eliminare l’umidità ambientale. La mattina seguente i contenitori si toglievano dal forno e erano raffreddati sotto vuoto, poi si prelevavano tre grammi di minerale per ogni campione, per determinare il calcio, tre grammi per determinare l’umidità del minerale e tre grammi per determinare il silicio e ottenere i solfati. Nel laboratorio le varie operazioni con gli acidi si preparavano sui tavoli anziché sotto la cappa, perciò i fumi degli acidi si spandevano e l’aria diventava irrespirabile; allora si accendeva l’aspiratore per ore. Quando mi resi conto di ciò, dissi a Merla (senza fare apparire ciò come un comando, per evitare la sua suscettibilità), di fare tutte le operazioni con gli acidi sotto la cappa, per evitare di respirare quei fumi velenosi e anche per non essere assordati dall’aspiratore rumoroso. Merla si sentì offeso, dicendo che erano dieci anni che lavorava lì «E tu vuoi adesso cambiare tutto!». In seguito si convinse. Per pulire i crogioli di platino dai residui di silicio si trattavano con una soluzione di ossolato di ammonio, operazione che faceva solo il dottore; io preparavo tutto l’occorrente su un tavolo, poi i crogioli con l’ossolato erano
riscaldati ad alta temperatura con una lampada a becco di Bunsen e, da essi, uscivano metri cubi di fumo che si spandeva nel laboratorio. La settimana dopo, quando il dottore mi diede l’incarico, presi tutto l’occorrente, lo portai sotto la cappa e accesi l’aspiratore. Il dottore, senza dire niente, portò a termine il lavoro. La settimana successiva il dottore si preparò tutto l’occorrente da solo, ma non sotto la cappa. Allora io, con insistenza, ogni volta che si trattava di fare operazioni con gli acidi, portavo tutto l’occorrente sotto la cappa. In seguito tutte le operazioni furono fatte sotto la cappa. Rimase il problema del travaso degli acidi dalle damigiane nei piccoli contenitori, operazione molto pericolosa per i fumi degli acidi che si spandevano, visto che in quella camera non c’era aspiratore, e per il pericolo di rottura delle damigiane nel manovrarle. Chiesi al dottore di prelevare dei travasatori che però al magazzino mancavano, perciò furono richiesti e li avemmo subito. Col passare del tempo mi resi conto che nel laboratorio regnava un disordine caotico. Il lavoro si protraeva per tutta la giornata, perché le analisi si portavano a termine una per volta; eppure i fornelli elettrici erano due con sei piastre, ed avevano una capienza di più di 15 bicchieri da poter analizzare contemporaneamente. Il dottore si ammalò e mancò dal laboratorio circa un mese, perciò il direttore della miniera mi disse che rimanevo solo nel laboratorio e che il dottore gli aveva assicurato che i campioni della miniera potevo analizzarli io con sicurezza. Feci notare al direttore: «Fino a quando ci saranno i reagenti, posso andare avanti».
Rimasi solo nel laboratorio, libero di attuare le modifiche che ritenevo più opportune. Il lavoro, organizzato col nuovo sistema si svolse ordinato e continuo entro mezzogiorno, lasciammo volutamente per il pomeriggio da filtrare i solfati per raccogliere il silicio nei filtri. Il lavoro per analizzare il minerale si svolgeva subito la mattina. I tre grammi di bauxite prelevati per ogni campione si trattavano con i vari acidi. Il calcio si trattava con acido cloridrico puro e si otteneva il cloruro di calcio; fatto precipitare, si raccoglieva in filtri di carta speciale. I tre grammi di minerale per ottenere il silicio e i solfati di ferro e di titanio, si trattavano con due parti di acido solforico e una di acido nitrico. Queste soluzioni erano messe in bicchieri di vetro di Iena e portati a ebollizione su fornelli elettrici, dove avveniva la trasformazione chimica. I solfati erano filtrati per raccogliere in filtri di carta il silicio. Questi filtri, la mattina dopo, erano messi in crogioli di ceramica e nel forno elettrico e portato a 1200 gradi. Raffreddati poi in contenitori sottovuoto, erano pesati per determinare la quantità di silicio e di calcio che avevano i campioni analizzati. Il ferro era titolato con una soluzione di permanganato di potassio in una buretta graduata. Dal solfato di titanio, trattato con una soluzione di acqua ossigenata, si otteneva l’ossido di titanio, di colore giallo ambra e con uno strumento speciale, per comparazione, si otteneva il titanio. Per determinare l’alluminio si sommava la titolazione dell’umidità, del calcio, del silicio, del ferro e del titanio: questi riportati a cento, la differenza era l’alluminio.
Il dottore era un onesto galantuomo, di carattere buono e comprensivo, però un po’ timido.
Al rientro il dottore osservò che il sistema di lavoro era stato cambiato. Non disse nulla, ma dopo qualche giorno apprezzò le mie innovazioni e mi elogiò, dicendo che era stato nei laboratori di Pisino e di Porto Marghera e che quelli non erano organizzati così bene come lo avevo sistemato io qui. A fine mese nella busta paga trovai 20.000 lire di premio. Nell’aprile del 1948 il dottor Morcaldi mi mandò a Foggia, dall’otorinolaringoiatra, poiché la notte dormivo con la bocca aperta. L’otorino mi riscontrò una rinite cronica e mi consigliò di operarmi. Dopo qualche giorno mi ricoverai all’Ospedale di Foggia e operato, dopo tre giorni fui dimesso e tornai a casa. Durante la notte ebbi il primo attacco di asma, che non si esaurì per diversi giorni. Fui di nuovo ricoverato agli Ospedali Riuniti di Foggia. Il secondo giorno dopo il ricovero, l’asma scomparve senza aver preso alcun medicinale. Tornato a casa, durante la notte, l’asma si presentò più violenta di prima. Questo si ripeté per tante volte che sono stato ricoverato e dimesso. I medici decretarono che a San Giovanni a quell’altezza ci fossero dei pollini che mi provocavano l’asma. Nel mese di agosto ci furono violente scosse di terremoto. Chiesi alla Cassa Mutua il permesso di trasferirmi a Trieste, per avere l’assistenza medica e con la famiglia mi recai a casa di mio fratello Domenico. Dopo due giorni l’asma scomparve. Rimasi a Trieste un mese, senza avere alcun disturbo. Per sondare il mio stato di salute, facevo tante corse nei giardini della città. Nel far ritorno a casa, mio fratello Domenico mi accompagnò per rendersi conto. In casa, durante la notte l’asma si ripeté con la stessa violenza delle altre volte. Fui ricoverato di nuovo all’Ospedale. Il professore Stefanutti ordi-
nò di farmi le cutireazioni; infatti, la settantaduesima risultò positiva: “Allergia alla famiglia degli asteracei”. Fu richiesto il vaccino alla ditta che forniva i reagenti e il professore Stefanutti personalmente me lo iniettava. Quando ritornai a casa, lo stesso fenomeno si ripeté, ma più attenuato. Con l’esperienza che avevo acquisito, notai che l’asma senza medicinali scompariva ogni qualvolta ero fuori San Giovanni: forse era realmente l’altezza come dicevano i medici. Pensai che la miniera è a una quota più bassa di San Giovanni, perciò al Direttore della Montecatini chiesi il permesso di rimanere una settimana in cantiere, per costatare cosa avveniva. Nel dormitorio degli operai di San Marco, mi prepararono una branda, dove dormire. Quel giorno gli operai erano assenti ed io ero solo nella baracca, con l’asma all’eccesso. Il guardiano di turno era Francesco Natale, perciò lo pregai di caricarmi di legna la stufa e di venire ad accenderla prima di andare via, dopo la smessa dal lavoro. La stufa non funzionava bene e il camerone si riempì di fumo. A letto non potevo stare ed ero seduto al limite della brandina. La mattina mi svegliai quando arrivarono gli operai ed erano le sette e mezza. Non riuscivo a spiegarmi come mai avessi dormito tante ore. Dopo capii che la resina del legno di pino, bruciando, aveva sviluppato ossigeno. In mattinata, quando arrivò la guardia Natale, gli spiegai l’accaduto e lo pregai di ripetere la stessa operazione del giorno prima quando smetteva dal lavoro. Riscontrato il risultato positivo, spiegai tutto al direttore, cioè che avevo trascorso la settimana in miniera senza avere l’asma, e lo pregai di concedermi un appartamentino in miniera.
Il Direttore Sculco fu molto comprensivo, e mi assegnò un locale fra le case dei dipendenti. Aveva una spaziosa entrata con cucina, una camera da letto, un salottino e i servizi igienici. Con la famiglia mi trasferii subito in miniera, il dottore Casucci medico dei dipendenti della miniera continuò la cura del vaccino, però nonostante tutto, una lieve asma l’avevo tutti i giorni. Ai primi di marzo del 1949 con mia moglie accompagnammo mio suocero a Roma, all’ospedale Regina Margherita per un ascesso tumorale sulla gota destra. Lui diceva che all’ospedale a Foggia l’avevano rovinato e andando a Roma lo avrebbero guarito. In ospedale a Roma uno specialista lo visitò. Dopo, chiamandomi in ufficio, mi disse che non c’era più niente da fare, perché la malattia era in uno stato avanzato e che non poteva vivere non più di quattro mesi (morì il 6 luglio). Uscito dall’ufficio del dottore dissi a mio suocero che potevamo andare via, perché la cura si poteva continuare a casa. “Come disse, non mi ricoverano,? Allora sono sicuro che morirò”. Era venuto a Roma con tanta speranza di guarire!. Al rientro in miniera la notte ebbi i soliti attacchi d’asma. Essendo in cassa integrazione, in miniera si lavorava tre giorni alla settimana, perciò decidemmo di andare a trascorrere le vacanze di Pasqua a San Giovanni, presso i miei suoceri. La sera del sabato con gli amici mi trattenni nei bar oltre la mezzanotte, e con timore andai a letto; però dormii tranquillo fino alle otto del mattino, dato che l’asma non si presentò. Anziché ritornare in miniera il lunedì, mi trattenni fino al giovedì, che dovevo riprendere il lavoro. La notte di giovedì come al solito ebbi l’asma, ma più attenuata. Perciò pensai che l’altezza era realmente la vera causa.
In seguito pensandoci bene, collegai che ritornando da Roma avevo avuto l’asma, eppure Roma non è in montagna, allora c’era qualcosa che non riuscivo a capire. A causa della mia malattia e la residenza in miniera, non potevo più seguire l’attività sindacale; mi dimisi da ogni carica. La mattina del 2 gennaio 1950 in miniera alle ore 12 nacque il mio secondo figlio Michele. Alla sezione estiva di giugno mi presentai da privatista per sostenere gli esami di terza Media. Allo scritto di latino, il professore Attilio Massa mi assegnò il posto al primo banco, di fronte alla cattedra. Dietro vi erano tutte ragazze, così anche ai lati. Notai anche che in fondo all’aula gli altri concorrenti come me, erano misti uomini e donne. Allora mi resi conto che il professore mi aveva isolato. Ho pensato che, forse, si voleva vendicare contro di me per le discussioni vivaci avute nella palestra dell’edificio Scolastico quando ci fu la scissione sindacale della C.G.I.L., essendo io segretario del sindacato, mentre lui era il referente del nuovo sindacato C.I.S.L.. Senza indugio mi misi a tradurre la versione, perché il latino l’avevo studiato molto bene. Alle ore 10,30 finii il compito, ne feci una copia per farla vedere ai miei amici studenti e consegnai il compito. Mentre uscivo dalla classe ci incontrammo col professore Massa, che mi chiese “Rinaldi perché vai via?”. “Ho presentato il mio compito!”, risposi. Poi alla domanda dove avessi studiato (dicendo una bugia) risposi: “In collegio”. Appena fuori feci vedere il compito ad Antonio Cascavilla, Achille Padovano ed altri che mi attendevano i quali riscontrarono che il compito era senza un errore. Gli esami orali li superai brillantemente. L’Iliade e l’Odissea di Omero con i loro personaggi mi avevano talmente entusiasmato che, li avevo studia-
to con passione, imparando a memoria anche centinaia di versi. La fortuna mi baciò agli orali di latino perché il professore per combinazione mi interrogò proprio sul capitolo del De Bello Gallico che avevo preparato bene. Visto l’impossibilità di espatrio in America a causa della mia malattia allergica, feci sapere a mio zio che rinunciavo a raggiungerlo; quindi, dietro sua richiesta, gli spedii tutti i documenti dell’atto di richiamo, compreso il deposito di 3000 dollari che aveva versato come garanzia per la mia permanenza in America. Spesso andavo a San Giovanni per diversi motivi, per ritornare poi subito in miniera. Un giorno, entrando in camera da letto e aprendo lo sportello dell’armadio, sentii un tanfo di rinchiuso, così anche nei tiretti del comò. Anche la biancheria emanava lo stesso tanfo, che mi provocò un pizzicore nel naso che incominciò a colare e poi io cominciai a starnutire. Il fatto mi insospettì. In seguito lavammo tutta la biancheria e i mobili e sostituimmo i materassi di crine vegetale con quelli di lana. L’asma era diminuita, ma l’avevo tutti i giorni. Ogni volta che tornavo in miniera da San Giovanni, la notte l’asma era sempre più accentuata. Non riuscivo a capire perché il tanfo dei mobili era sempre presente, anche dopo le precauzioni che avevamo prese. C’era qualcosa che avevamo in casa e che non riuscivamo a scoprire. Mi ricordai che durante le festività pasquali trascorse in casa dei miei suoceri, per ben quattro giorni non avevo avuto attacchi d’asma. Così mi venne l’idea di tornare a casa loro. Passò ancora del tempo, prima che un giorno io e mia moglie decidemmo che lei sarebbe rimasta in miniera, mentre io, smesso il lavoro, mi sarei recato a San Giovanni per un po’ di giorni, per capire questo nuovo fenomeno. Infatti,l’asma diminuì, però al rientro in miniera, la notte ebbi i soliti attacchi. In casa il tanfo lo sentivo ancora. Per assicurarmi bene continuai
questo andirivieni San Giovanni - Miniera, sempre con lo stesso risultato: tanfo e starnuti. Capii allora che erano i mobili che mi provocavano l’allergia. Esasperato come ero, dissi a mia moglie di bruciarli tutti immediatamente, mentre lei pensò di venderli. Dopo la vendita dei mobili, la biancheria fu di nuovo lavata scrupolosamente, mentre io per un po’ non andai in miniera. Quando tornai in azienda, la notte non ebbi nessun disturbo, e questo confermò che la causa di tutto erano proprio i mobili, anche se accusavo ancora un leggero soffio asmatico. Abitammo in miniera ancora per diverso tempo, i dolori al fegato scomparvero e capii che non ero ammalato di fegato, perché il gonfiore dell’addome provocato dall’asma, spingeva il fegato contro le costole e mi dava questo dolore, dilatandomi anche il torace. Ora capivo perché i dolori erano alterni, cioè scomparivano quando rimanevo molti giorni fuori casa, e ricomparivano quando tornavo e anche perché non ebbi mai il viso e gli occhi gialli, come i veri ammalati di fegato. Un giorno mi recai a Foggia dal professor Stefanutti e gli parlai delle scoperte che avevo fatto. Egli si complimentò con me, apprezzando la mia perspicacia e mi consigliò di continuare il vaccino, che mi avrebbe guarito da quel residuo di asma. Alla fine del 1951 rientrammo definitivamente a San Giovanni. Misi al corrente il dottor Ricciardi e il dottor Morcaldi delle scoperte che avevo fatto e del consiglio del professor Stefanutti. * I personaggi dell’Iliade e dell’Odissea mi avevano tanto entusiasmato che cominciai a comperare e leggere vari libretti di tragedie e della mitologia
greca. Avevo scoperto che i libri scolastici erano ben diversi dai romanzi. Decisi allora di continuare a studiare. I miei amici mi consigliarono il Magistrale. Mi recai in Segreteria e chiesi il programma, poi cercai e acquistai dei libri usati mentre i rimanenti li chiesi a mio fratello Domenico, che a Trieste facilmente li trovò. Incominciai a prendere qualche lezione di latino e di filosofia che mi attrasse molto. Mi interessavano molto i filosofi atomisti come Talete, Anassimene, Anassimandro e altri. La fisica, che studia i fenomeni che avvengono nell’universo e che nessuno mi aveva saputo spiegare, appagava il mio scetticismo. Quanto più mi addentravo nello studio, tanto più mi accorgevo della mia ignoranza. Credevo di saper tutto, solo perché avevo letto tanti romanzi, ma ora scoprivo l’immensità dello scibile. Un giorno il dottore, tornando dagli uffici, mi disse che il Direttore voleva parlarmi. «Rinaldi, - disse - voglio farti una proposta, perché so che stai studiando. In miniera non occorre un maestro, perciò la Direzione è propensa a mandarti a Napoli, per un corso di aiutante chimico analista. Pensaci bene e mi darai risposta». Mi fece intravedere un avvenire sicuro in laboratorio, una volta andato in pensione il dottore. Gli diedi subito la mia risposta negativa. «Non importa - disse -; allora per venirti incontro farai sei ore di lavoro e avrai la paga di otto». Infatti,mi autorizzò a prendere la corriera delle due, degli operai dell’interno, per tornare a San Giovanni, anziché quella delle ore cinque. Nel laboratorio avevo sempre un po’ di tempo per studiare, anche perché Merla mi veniva incontro per quello che poteva fare al mio posto. Nonostante le cure fatte avevo ancora un po’ di asma e dei disturbi cardiaci, cui si aggiunse un’ulcera gastrica duodenale. In seguito col passare del tempo, l’affaticamento provocato dallo studio e dal lavoro non mi faceva dormire che poche ore a notte.
I medici riscontrarono un esaurimento nervoso, dovuto alla debilitazione, provocata da lunghe sofferenze e mi consigliarono di lasciare lo studio, se volevo vivere ancora. Mi diedero le cure adatte, che io scrupolosamente seguii. Al laboratorio, quando scarseggiava l’acqua e Merla lavava le ampolle e i matracci ne rompeva tanti, urtandoli contro il rubinetto di metallo. Allora io infilai al rubinetto un tubo di gomma di circa cinque centimetri, in modo da evitare l’urto e la rottura dei vetri. Il dottore uscì dall’ufficio per lavarsi le mani, non seppe darsi una spiegazione, e mi chiese il significato che io gli spiegai. * Il 6 luglio 1953 nacque mia figlia Mattea Carla. Il 15 ottobre 1953 morì di infarto zio Lorenzo mentre lavorava nel suo campicello. Da allora non ci furono più gli incontri domenicali a cui lui tanto teneva. A malincuore mi convinsi a lasciare lo studio, però la volontà mi era rimasta intatta. Anziché studiare, continuai a leggere libri scolastici; con essi avevo scoperto l’infinità del sapere. In miniera, la Direzione aveva allestito una piccola biblioteca di buoni libri. Approfittai, per diletto, a leggere anche questi libri. Un giorno il dottore mi disse che il direttore gli aveva chiesto se veramente io avevo letto tutti quei libri che avevo ritirato. Ripresi anche la raccolta di vocaboli dialettali, strapolette e sonetti del folklore di San Giovanni, perciò mi rivolsi ad anziani pastori, contadini ed altri, con esperienze fatte nei casolari. *
Un giorno su una rivista lessi l’invito a iscriversi alla “Scuola Radio Elettra”, per diventare radiotecnico. Fu un invito allettante per me, che ho sempre tentato di imparare un mestiere. Mi resi conto, dal depliant, che lo studio non era pesante ma dilettevole e mi iscrissi subito al corso. Per me si rivelò addirittura un passatempo mettere insieme i vari elementi che la scuola mi mandava, per poi costruire una radio. Pensavo che, una volta imparato il mestiere, avrei potuto arrotondare lo stipendio con le riparazioni. Portai a termine il corso con profitto e una buona conoscenza tecnica. Un giorno arrivarono a casa due agenti della finanza e un graduato, dicendo di accompagnarli al mio magazzino. Rimasi sconcertato e risposi di non avere un magazzino perché lavoravo alla Montecatini. Mostrai loro, su una sedia, una radio che stavo riparando: notai che il graduato rimase sorpreso e disse: «Disgraziati». Stesero il verbale e me lo fecero sottoscrivere, assicurandomi che non sarei incorso in pene pecuniarie. Mi consigliarono però di munirmi di licenza, per poter lavorare indisturbato. Scoprii poi che furono vari commercianti a informare la finanza, perché vedevano in me un futuro concorrente, mentre io al commercio non avevo mai pensato, perché sono negato. In seguito diversi amici e operai della Montecatini, non avendo fiducia dei vari commercianti, si rivolsero a me per procurare loro delle radio. Da un amico mi fu consigliato di rivolgermi al commentatore Luigi Ippolito, grossista in Foggia di radio ed elettrodomestici. Anche lui mi suggerì di munirmi di licenza comunale per potermi fornire del materiale di cui avevo bisogno. * A fine febbraio 1956 morì mia zia Angelina che mi aveva accolto a casa sua nel 1939 ed è stata per me come una madre fino a quando mi sono sposato nel 1944. L’ho sempre stimata e rispettata per la sua bontà.
Il 24 marzo dello stesso anno morì anche mia suocera; anch’essa una donna semplice ed ingenua; una donna di altri tempi. Da quando mi sono sposato la sua famiglia è diventata la mia famiglia; per questo, con la sua morte, mi è venuta a mancare una persona cara.. * Il 26 marzo il Comune mi rilasciò la licenza N. 48800. A Foggia dal Comm. Ippolito ritirai le prime radio; in seguito le richieste degli operai della Montecatini e di altri aumentarono e allora decisi di prendere in affitto un piccolo locale poco distante da casa, in Via Castellano, per aprire un piccolo negozio di vendita e riparazioni radio. All’occorrenza chiesi un permesso di lavoro alla Montecatini per avviarlo