Aspetti comunicativi e interculturali nell’insegnamento delle lingue Cittadini europei dal nido all’università Atti del Convegno (Firenze, 14 marzo 2013)
a cura di
Benedetta Baldi, Enrico Borello, Maria Cecilia Luise
Edizioni dell’Orso
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ISBN 978-88-6274-471-3
UGUALI E DIVERSI: IL PARADOSSO DELLA CULTURA Benedetta Baldi Università degli Studi di Firenze
1. Il paradosso della cultura ubi bene ibi patria (Cicerone, Tusculane, V, 37, 108)
Che cos’è la cultura? Istintivamente la risposta appare scontata dal momento che la cultura si fonda sull’esperienza ed è quindi familiare ad ognuno di noi. Se proviamo a interrogare alcune persone comuni sulla cultura ci accorgiamo che ognuna di esse ne ha una qualche nozione. Per alcuni è tradizione, stile di vita, per altri è formazione; per altri ancora si identifica con la lingua o con la religione, qualcuno la legge nel volto dello straniero, nel suo sguardo; le persone più accorte la individuano nella condivisione di conoscenze, di significati, di pratiche, di norme, di valori... Tutte risposte valide perché basate appunto sull’esperienza di ogni giorno, ma parziali. E tutte risposte che hanno come comune denominatore la trasparenza. La cultura, quindi, finisce per essere un’esperienza invisibile. Noi viviamo la cultura ma non siamo in grado di coglierla nella sua essenza e completezza poiché ne siamo costantemente circondati. Ne discende una definizione parziale, viziata dall’essere frutto di una conoscenza situata dall’effetto distorcente della nostra impossibilità di uscire fuori dalla cultura per guardarla da lontano. La nostra stessa vita è esperienza e ciò che conosciamo in modo accidentale supera di larga misura il nostro apprendimento volontario. La nozione di cultura si trova già nel pensiero antico a indicare l’educazione dell’uomo a vivere in società e a esercitare le attività intellettuali. Nel pensiero ellenistico la vita attiva risulta ancillare alla vita contemplativa come pure nel pensiero romano che traduce questa impostazione nella cultura animi di Cicerone – sinonimo di raffinatezza e di conoscenza dell’individuo colto – che si esprime nell’humanitas o civilitas; quest’ultima, accolta nel Medioevo, si connota per il significato religioso e la formazione dell’uomo viene letta, in una prospettiva trascendentale, in vista di un destino ultraterreno. Il recupero del significato terreno della cultura proprio dell’antichità deve attendere l’Umanesimo per anteporre la vita dell’uomo in terra alla salvezza ultraterrena. In questo senso, il ritorno ai classici interpreta l’esigenza di educare l’uomo in funzione dell’uomo e della sua vita sociale. Il carattere eminentemente aristocratico che esclude dalla cultura il
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lavoro manuale proprio della fase iniziale dell’età moderna declina, nell’Illuminismo, in una vivace attenzione per la tecnologia e l’idea di progresso che l’accompagna. Scrive Fabietti (2005: 52): «Alla cultura intesa in senso ciceroniano […] si venne sostituendo una utilizzazione del termine in senso ‘collettivo’». Da questo momento il significato soggettivo del termine cultura cede il passo al significato oggettivo e al patrimonio intellettuale del singolo si preferisce quello dell’intera umanità. Tylor (1871=1970: 8) definisce la cultura come quella totalità complessa inclusiva di arte, conoscenza, credenze, leggi, comportamenti e tutti gli altri usi e costumi acquisiti da un uomo in quanto membro di una società. In questo modo, sotto il profilo statico, la cultura si esprime attraverso il patrimonio di valori condivisi e i tratti caratteristici di un popolo, mentre da una prospettiva dinamica, si identifica come un processo in divenire di trasmissione della tradizione e di appropriazione di senso. Nelle parole di Dondeyne (1967: 458): «la cultura in fondo altro non è se non il modo per mezzo del quale un uomo o un gruppo umano si comprende e si esprime». Un secolo prima di Tylor, Herder (s.d.) indicava la cultura come un processo inclusivo dell’intero genere umano che così si allontana dalla propria origine naturale e cresce progressivamente attraverso il passaggio da un popolo all’altro. In questo senso, la cultura si realizza nelle forme più alte di produzione acquisite dall’uomo con rilevanza pubblica (politica, arte, religione…). Tylor (1871=1970) supera il concetto rigido di cultura alta includendo nella sua definizione ciò che, anche se non viene dato all’uomo dalla cultura, gli pertiene in quanto membro di un gruppo umano. «Accanto a una cultura intesa come patrimonio dell’intero genere umano, Tylor concepiva infatti la cultura come patrimonio di uno specifico gruppo sociale» (Fabietti 2005: 53); nelle osservazioni di Tylor (1871=1970) si nota, pertanto, l’esistenza di tante culture quante sono le società umane. La cultura non designa più, come per gli illuministi, solo le attività intellettuali ma si estende al costume e alle attività acquisite socialmente. Questa estensione della nozione di cultura alle capacità trasmesse socialmente e, in modo indistinto, a qualsiasi società a prescindere dal grado di sviluppo posseduto, influenza ancora oggi pesantemente il pensiero antropologico. «Le culture umane si costruiscono l’una in relazione all’altra, in un rapporto di alterità su una base identitaria» (de Heusch 1985: 51); ciò suggerisce la necessità di spiegare le diversità piuttosto che mettere le culture una vicino all’altra e di anteporre il metodo alla storia (Lévi-Strauss 1947=1969). Per Balboni (2012: 148) «[l’]unità minima di analisi della cultura è il ‘modello culturale’. Un modello culturale è la risposta a un problema: ad esempio, il modo in cui una cultura risponde al bisogno di nutrirsi nell’arco della giornata (uno o più pasti, più o meno sostanziosi, collocati nelle diverse ore, basati su dolce-salato o sul crudo-cotto ecc.); il modo in cui si risponde alla necessità di organizzare il movimento nelle strade (dividendo la strada in due sensi di marcia e decidendo se si sta a sinistra o a destra); il modo in cui si organizza la vita
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scolastica degli adolescenti ecc. Nelle società complesse i modelli culturali variano con tale rapidità e si contagiano in maniere così imprevedibili, a opera di emigrazioni, turismo e mass media, che più che insegnare la ‘cultura’ [...] si deve educare alla differenza, alla variabilità delle culture e, soprattutto, si deve insegnare a osservare una cultura’». [...] culture is more than artefacts that ‘can be found out there’, it is also the glasses through which we perceive the world around us and the language we use to express the culture of which we are an integral part. We are influenced by the culture(s) we are socialized into, and simultaneously we influence that culture. This is a dialectic process, and culture must be seen as a dynamic force in continuous flux, not a static entity. The process does not only take place within our own culture; a similar process constitutes the encounter with a foreign culture (Fenner 1999: 144).
Parlare di cultura, oggi, include necessariamente il prendere in considerazione le culture altre e questo con le conseguenti implicazioni; infatti se, da una parte, il relativismo conduce a cedere a ogni tipo di rivendicazione portata avanti in nome della diversità, l’etnocentrismo, dall’altra, porta verso un atteggiamento di superiorità tale da spingere al punto di perdere di vista insieme all’altro anche sé stessi. Il rischio che si corre indulgendo al relativismo o all’etnocentrismo è comunque quello di produrre un multiculturalismo a singhiozzo ostacolo nel cammino verso la cooperazione interculturale. Benhabib (2005: 27) parla di multiculturalismo forte o a mosaico intendendo «il punto di vista secondo cui i gruppi e le culture umane costituiscono entità chiaramente circoscrivibili e riconoscibili che, dotate di confini stabili, coesistono come tessere musive»; in questa prospettiva, lo studioso auspica la possibilità di «guardare alle culture umane come a creazioni, o meglio, ri-creazioni e negoziazioni ininterrotte degli immaginari confini tra ‘noi’ e ‘l’altro’». Del resto, l’intercultura insegna a cogliere le culture e le identità nel loro aspetto dinamico ovvero nel loro divenire come frutto e negoziazione di azioni, risorse, narrazioni. Come ben esprime Benhabib (2005: 23-24) «[v]ista dall’interno, una cultura non ha bisogno di presentarsi come una totalità; piuttosto, essa forma un orizzonte che recede ogniqualvolta uno gli si approssimi». Queste considerazioni suggeriscono di adottare nei confronti delle culture ‘altre’ la stessa cautela e attenzione che prestiamo nel momento in cui descriviamo noi stessi attraverso molteplici appartenenze e identità sfaccettate (politiche, religiose, culturali, professionali, di genere, educazione, famiglia, …); gli stereotipi che non utilizziamo per descrivere noi stessi e la nostra cultura sembrano essere perfetti per descrivere gli altri (cfr. Mantovani 2004: 23). «Un minatore africano è un minatore era l’espressione che usavamo [scrive Baumann 1996: 1] come slogan contro la riduzione della cultura delle persone alla loro identità etnica o tribale».
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1.1 Cultura, lingua e identità L’identità non è una realtà naturale, pre-esistente a noi, deterministicamente precostituita ma un qualcosa che si definisce nel momento in cui si è sollecitati a farlo e, nel definirla, le si dà origine. L’identità italiana è coscienza e parte dell’identità mediterranea e di quella europea e, nello stesso tempo, ha caratteri propri e tratti che l’allontanano da queste. L’identità come un qualcosa che fa sì che ogni individuo sia unico, quindi differente da ogni altro individuo, renderebbe la nozione di identità chiara e precisa ma i numerosi elementi in gioco determinano combinazioni infinite; le numerose appartenenze non rivestono nelle persone la stessa importanza e comunque non nello stesso momento. La lingua, la nazionalità, la religione, la condizione sociale, il colore della pelle rappresentano le molte appartenenze di una sola identità che viene vissuta dalle persone come unica. Il carattere riduzionistico dell’identità impone la necessità di spostare l’attenzione da questa verso la diversità intesa come tale e non come un qualcosa che si relaziona con l’identità. In altre parole, occorre imparare a leggere la complessità contemporanea in una prospettiva differente rispetto al concetto di identità. Assumere la propria diversità rispetto a una o all’altra delle appartenenze, vivere la propria identità come la confluenza di queste appartenenze in una sola induce a considerarla come unica e pertanto come strumento di esclusione e conflitto con le diversità. L’altro esotico o culturale, in rapporto a un noi che ci rende identici, deriva da un sistema di differenze a partire dal genere, dal contesto familiare, politico, economico, religioso tale per cui non è possibile stabilire una posizione e un ruolo all’interno del sistema prescindendo da un certo numero di altri. L’insicurezza delle posizioni da difendere ci costringe ad indagare il senso e il limite delle nostre identità, a confrontarci con le identità altrui senza essere indotti necessariamente allo scontro o all’imitazione. In questa prospettiva si avverte l’esigenza di un’educazione all’accoglienza e alla tolleranza ma anche di un’educazione alla differenza e alla pluralità. La ricerca d’identità è il perno attorno al quale ruota la possibilità di avere un processo di globalizzazione plausibile che si muova tra universalismo e particolarismo, in una prospettiva in grado di valorizzare le differenze, senza indulgere nel relativismo, e di rilanciare le esigenze di comunità, senza sposare il comunitarismo. Touraine (1998) individua nel soggetto, e non nella cultura e nella tradizione, la possibilità di aprire un dialogo interculturale produttivo svincolato da confini simbolici e da enfasi sulle diversità. Per Anolli (2006) «la diversità non è un’entità ma una relazione». In fondo, riflette Mead (1956) non esistono culture in ‘astratto’ ma individui che con le loro pratiche quotidiane, le loro gesta, le loro emozioni esprimono il loro modo di vivere che noi chiamiamo ‘cultura’. Nelle società attuali la questione dell’identità è resa problematica sia dal suo carattere multiculturale, sia dai processi culturali (mezzi di comunicazione, deterritorializzazione socio-economica, uso di lingue veicolari) che tendono a so-
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vrastare e uniformare le diversità originarie/native delle persone. Elementi costitutivi dell’identità collettiva sono ancora oggi il sistema valoriale, lo stile di vita, il senso di appartenenza, il territorio e, naturalmente, la lingua. «La lingua [spiega de Benoist 2005: 77] fonda la comunità di linguaggio, ma anche la capacità di scambio e di dialogo. Consentendomi di costruire la mia identità nel rapporto con l’altro, essa è per definizione dialogica». Parafrasando il pensiero heideggeriano, si può dire che il linguaggio fa dell’uomo ciò che egli è in quanto uomo e che è uomo in quanto parla; in altre parole, il linguaggio è l’autentica dimora dell’Essere. Il pericolo dei nostri colloqui si nascondeva nella lingua stessa, non in ciò che noi discutevamo, e neppure nel modo in cui cercavamo di discuterlo. […] Il linguaggio, la dimora dell’Essere. Ma se l’uomo grazie al suo linguaggio abita nel dominio dell’Essere, è da supporre che noi europei abitiamo in una dimora del tutto diversa da quella dell’uomo orientale. Posto che le lingue, non solo siano diverse, ma siano fondamentalmente nell’essenza (Heidegger 1959=1990: 86).
Come brillantemente ricordato da Taylor (1997: 47) ‘[i]l linguaggio è forgiato e si sviluppa principalmente non nel monologo ma nel dialogo o, meglio ancora, nella vita di una comunità in discorso’. 1.2 Cultura e insegnamento Pensare la cultura come pratica dinamica significa riconoscerle la capacità di variare con le categorie di tempo, luogo, età, sesso, religione, etnia...; significa, inoltre, considerare che ognuno di noi partecipa a diversi gruppi con differenti gradi di adesione e che ciò non pregiudica la presentazione del sé in un contesto culturale. Le persone non sono soltanto membri passivi di una cultura o di una subcultura ma si muovono al suo interno accogliendone le pratiche o tentando di sovvertirle, di modificarle, di adattarle. Anolli (2011: 195), riprendendo la linea di pensiero di Bourdieu (1980=2003), parla di habitus come «sistema di disposizioni durevoli e trasferibili organizzate in base all’esperienza passata, in grado di funzionare come principi generatori e organizzatori delle pratiche che possono essere adattate per il conseguimento degli scopi, senza supporre una loro concezione consapevole e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli. Il concetto di habitus è vicino a quello di conoscenza tacita [...]». L’insegnamento di una cultura implica, pertanto, l’idea di un qualcosa che si realizza e determina quotidianamente in un insieme dinamico di pratiche e di interazioni tra i membri di un gruppo culturale. In altre parole, occorre andare oltre l’insegnamento della cultura attraverso la semplice esposizione a testi, manufatti o informazioni intese come realizzazioni e manifestazioni per leggerla come configurazione di pratiche (cfr. Heidegger 1927=2005) e di scelte significative. Del resto, si è detto, le culture – tutte le culture – sono situate e relative a
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un tempo, a un luogo, a un contesto e il potenziale di cambiamento delle convenzioni e delle pratiche ne rende complicato qualsiasi insegnamento in classe. L’habitus, infatti, «è un sistema di disposizioni durevoli ma non immutabile» (Anolli 2011: 195). Per Dewey (1950) la scuola deve realizzarsi come ‘luogo di azione’ affinché i suoi insegnamenti risultino validi nel tempo nella consapevolezza che «[a]wareness is difficult to reverse; that is, once one becomes aware, it is difficult to return to a state of unawareness» (Fantini 2000: 29). L’uomo è Homo faber prima che Homo sapiens ed è quindi in grado di gestire l’ambiente per mezzo di strumenti e pratiche (cfr. Bergson 1907=2002; Scheler 1927=1970). Per Vygotskij (1934=1990) la logica dell’azione precede quella del pensiero; «[f]in da piccolo, il bambino, avvolto in modo costante dalle pratiche, ha modo di appropriarsi della rete dei significati e delle sindromi culturali della sua cultura, ponendosi nella condizione di fare confronti con altre culture, eventualmente di diventare biculturale» (Anolli 2011: 192). La nozione collettiva di cultura implica tante culture individuali che necessitano di essere indagate nella loro struttura interna e nelle relazioni funzionali dei vari elementi coinvolti (cfr. Malinowski 1944=1981). La cultura risulta un fattore determinante per la personalità degli individui che la condividono; la personalità ‘fondamentale’ rappresenta, così, il termine di paragone dal quale misurare piccole differenze o pesanti devianze. Malinowski (1944=1981), in un’ottica utilitaristica, definisce la cultura come la risposta organizzata da parte della società ai bisogni biologici primari o culturali derivati; si tratta, in altre parole, di una sorta di adattamento necessario dell’individuo alle condizioni imposte dalla propria natura e dall’ambiente circostante. In questo modo, Malinowski (1944=1981) attribuisce un ruolo cruciale per spiegare i fatti sociali al contesto sociologico, piuttosto che alla storia e al contributo di altre culture. Firth (1935) riprende le considerazioni di Malinowski (1923=1966) riguardo al ruolo centrale giocato dal contesto di situazione descrivendo come l’individuo (nato tale) diventa persona sociale per soddisfare le proprie necessità. Per Lévi-Strauss (1947=1969), come già per Rousseau (1755=1983), non c’è un passaggio tra natura e cultura: l’uomo si afferma subito nella cultura ed è da subito cultura. La posizione di una persona rispetto alle altre non è pertanto organizzata sul legame biologico ma dipende dalla categoria di appartenenza all’interno del sistema. Gli studi sociologici sono debitori agli studi di antropologia riguardo alla definizione di cultura e, in particolare, rispetto all’impiego del metodo etnografico. La divisione, almeno su un piano analitico, tra società e cultura, l’accento posto sulla diversità culturale e l’interesse per l’interazione in una prospettiva di trasmissione culturale, rientrano a pieno titolo nelle peculiarità espresse dall’approccio sociologico alla cultura. Per contro, la separazione tra cultura e società è fortemente avversata da molti antropologi (tra questi, Goody 1994) che sostengono, inoltre, l’omogeneità dei gruppi oggetto di studio e la prevalenza del condizionamento sull’interazione per la trasmissione della cultura. Se, in un’ottica deterministica, la
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cultura può dirsi un «software della mente umana» (Hofstede 1991), un programma mentale in grado di definire un ambiente operativo per il comportamento, in termini meno deterministici la cultura può essere spiegata dall’elaborazione tra uno stimolo e una risposta inscritti in un sistema di esperienze veicolate in forma simbolica attraverso l’apprendimento. A differenza di quanto avviene nel computer, nell’uomo il comportamento è solo parzialmente prevedibile dal momento che l’essere umano risponde alle sollecitazioni in modo «creativo, distruttivo o inaspettato» (Hofstede 1991: 4). L’impossibilità di dare una definizione esaustiva della nozione di cultura porta a sposare la metafora di Clifford (1993) per il quale la cultura è ben lontana da potersi definire un frutto puro. Del resto, si è portati a considerare la cultura come una realtà monolitica – quindi a promuoverla (progressisti) o a tenerla separata per evitare possibili ibridazioni (conservatori) – enfatizzandone l’omogeneità e rifiutandone l’aspetto di narrazione prodotta da differenti narratori (e perciò differente) ma comunque disponibile al cambiamento. L’idea ‘essenzializzante’ di una cultura definita, omogenea, di individui portatori di un bagaglio culturale si affianca alla visione ctonia della cultura che, rispecchiando i confini geofisici definiti (coincidenti o meno con gli Stati-nazione), si correla inscindibilmente a una lingua o a un’etnia; queste posizioni stigmatizzanti e autostigmatizzanti trovano corrispondenza nei percorsi di eterodefinizione e di autodefinizione tali per cui si origina il predominio della società ospitante rispetto alla posizione ancillare della società ospitata che, in quanto minoranza, si esprime in ‘comunità etniche-nazionali’. Il territorio e la cultura diventano così preordinati rispetto alla fluidità e indeterminatezza dei compositi riferimenti identitari. I migranti simboleggiano così patrie altre che, proprio grazie a questa alterità, ci confermano nella nostra identità rassicurante. Serve ricordare che l’esaltazione dell’omogeneità culturale è caratteristica dello Stato-nazione che vede il proprio ordine naturale minacciato (denaturalizzato) dai migranti che vengono, anche per questo motivo, relegati alle naturalizzazioni ancillari delle minoranze etniche e culturali, tutelate insieme al loro diritto di scelta riguardo alla propria conservazione o cambiamento (cfr. Piccone Stella 2003). Queste considerazioni portano a simpatizzare con la possibilità di interpretare la cultura come costruzione politica/sociale e comunicativa quindi come un qualcosa in divenire del quale occorre accettare il carattere liquido e precario. La nozione di cultura, come si è cercato di evidenziare, è una nozione dinamica, non statica, relativa, non assoluta, ibrida, non pura, storica, non dogmatica e quindi aperta al cambiamento. Se accogliamo l’idea di Freddi (1970) secondo la quale la lingua è il precipitato di una cultura, risulterà intuitivo il legame inscindibile di lingua e cultura. Purtroppo la scuola italiana è ancora inadeguata rispetto alle necessità imposte dalla società multiculturale e, soprattutto, non ha la piena consapevolezza che, dietro alle tante questioni pratiche da risolvere si nasconde un patrimonio inestimabile di opportunità.
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Se la scuola italiana fosse in grado di educare individui biculturali, come ‘italiani e cinesi’, italiani e giapponesi’, ‘italiani e indiani’, ‘italiani e brasiliani’, ecc., la società italiana di domani non solo sarebbe robusta per reggere le sfide della globalizzazione, ma potrebbe fare affidamento su cittadini (manager, dirigenti, leader ecc.) che trarrebbero un forte vantaggio competitivo nel muoversi agevolmente fra culture diverse. Sarebbero cittadini del mondo, mentalmente flessibili e aperti, versatili e creativi, tolleranti e rispettosi, dotati di ampi orizzonti [...] (Anolli 2011: 83).
1.3 Educazione interculturale e società multiculturale «Intercultural learning is fashionable at present. Talking about integration and tolerance is the done thing for speakers before European audiences, and intercultural modules are part of every self-respecting further training programme» (Wolf 2003: 1). In effetti, l’abuso dell’aggettivo ‘interculturale’ (didattica interculturale, comunicazione interculturale, competenza interculturale, educazione interculturale...) porta in molti casi a svuotarlo di significato, a ridurlo a poco più che un tic linguistico o un automatismo che lo priva di senso. In più, l’aggettivo evocato con enfasi a livello teorico non trova risposta nella prassi didattica. La prospettiva dell’interculturalità necessita di un forte impegno su diversi piani, primi tra questi quello pedagogico/metodologico, quello culturale e quello politico. L’idea è quella di riuscire a coniugare le esigenze del singolo con quelle della collettività attraverso azioni destinate ad animare il tessuto antropologico del territorio. La dinamica integrazione/interazione tra studenti di culture diverse passa attraverso la costruzione di relazioni positive promosse da sollecitazioni culturali come il cinema, il teatro, la musica, le visite guidate o le attività sportive. L’ibridazione feconda nata dal percorso di integrazione/interazione necessita di un laboratorio permanente e di profonde sinergie tra istituzioni scolastiche, famiglie ed enti territoriali. Nella C.M. n. 205 del 26.7.1990, ‘La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale’, si legge: La realtà della presenza di stranieri [...] rende di particolare attualità una nuova e mirata attenzione della scuola alle tematiche connesse all’educazione interculturale quale condizione strutturale delle società multiculturali. Il compito educativo, in questo tipo di società, assume il carattere specifico di mediazione fra le diverse culture di cui sono portatori gli alunni: mediazione non riduttiva degli apporti culturali diversi, bensì animatrice di un continuo, produttivo confronto fra differenti modelli. [...] E’ qui da sottolineare che l’educazione interculturale, pur attivando un processo di acculturazione, valorizza le diverse culture di appartenenza. Compito assai impegnativo, perché la pur necessaria acculturazione non può essere ancorata a pregiudizi etnocentrici. I modelli della ‘cultura occidentale’, ad esempio, non possono essere ritenuti come valori paradigmatici e, perciò, non debbono essere proposti agli alunni come fattori di conformizzazione. Un
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intervento che si colloca su questo piano tende così, anche in assenza di alunni stranieri e nella trattazione delle varie discipline, a prevenire il formarsi di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture ed a superare ogni forma di visione etnocentrica, realizzando un’azione educativa che sostanzia i diritti umani attraverso la comprensione e la cooperazione fra i popoli nella comune aspirazione allo sviluppo ed alla pace.
Secondo le linee guida della circolare ministeriale sopra riprodotta, l’approccio educativo interculturale deve essere promosso a prescindere dalla presenza nelle classi di alunni stranieri. In particolare, l’educazione interculturale vede nella diversità un valore, una risorsa positiva da condividere; l’educazione all’ascolto attivo e al pensiero critico, lo sviluppo dell’intelligenza relazionale e della dimensione empatica della comunicazione e soprattutto la capacità di decentramento sono obiettivi pedagogici irrinunciabili per la società di oggi. La dialettica interna alle società multiculturali si anima intorno alle possibili soluzioni che devono essere trovate per riconoscere e valorizzare le differenze nel rispetto dei principi e delle regole della tradizione democratica occidentale. In questa prospettiva, i valori che la tradizione democratica promuove, ovvero la libertà del singolo, l’uguaglianza e l’universalismo, sembrano inconciliabili con una politica incentrata sulle differenze, sul riconoscimento dei diritti collettivi, sul relativismo e sul particolarismo. Di fatto, già nella scelta terminologica risiede buona parte della prospettiva politico-culturale e atteggiamentale; per spiegare quest’affermazione è sufficiente considerare che, pur appartenendo alla medesima area semantica ed essendo molto spesso sovrapposti nel linguaggio comune, termini come interculturale, interetnico, interazziale e multiculturale danno luogo ad atteggiamenti e alimentano emozioni differenti. In particolare, all’interazione di tipo dialogico evocata dall’intercultura si affianca la comunicazione interetnica intesa nel senso di comunicazione tra gruppi etnici differenti inscritti in una medesima cultura e quella interraziale che pone l’accento sull’interazione tra membri di una cultura dominante sotto il profilo numerico o politico e membri appartenenti a culture numericamente o politicamente meno forti. La confusione terminologica maggiore si osserva tra i termini interculturale e multiculturale utilizzati quasi sempre come sinonimi. In realtà, quest’ultimo ha acquisito il valore prevalentemente descrittivo di accostamento delle varie culture (una sorta di pluralismo culturale) e di diversità culturale senza però un dichiarato interesse a conoscere il diverso. Si tratta, in altre parole, della presa d’atto della compresenza di più culture contigue delle quali non si ha interesse a indagare la diversità. La differenza diviene così ‘indifferenza’. Alla pluralità di etnie, di lingue e di culture semplicemente giustapposte in una società multiculturale si contrappone il confronto, lo scambio, la tensione positiva verso la comprensione delle differenze e l’arricchimento della propria cultura con il contributo di altre culture, tipici di una società interculturale. La base sulla quale costruire i contenuti della nuova cittadinanza deve includere, per molti autori, il
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passaggio dal multiculturalismo all’interculturalità ovvero deve prevedere il superamento dei ‘ghetti contigui’ (cfr. Marramao 2006: 43) nella prospettiva di interazioni sociali e culturali che costituendo un processo, un qualcosa in divenire, non possono essere possedute interamente da nessuna cultura. Galeotti (1999: 17) osserva che il termine ‘multiculturalismo’ è talvolta impiegato «descrittivamente, altre normativamente, per intendere ora il pluralismo delle culture e dei gruppi che di fatto caratterizzano le democrazie contemporanee, ora un ideale di convivenza della società pluralista alternativo a quello del melting pot». La necessità di uguaglianza basata sull’unicità degli esseri umani indica la via verso l’universalismo, l’esigenza di cogliere le diversità originate dalle varie culture indirizza verso il particolarismo. Il primo simpatizza con l’assimilazionismo, il secondo strizza l’occhio al relativismo. 2. La cultura come sistema di pratiche Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria del vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel vicino Oriente. Si infila i mocassini, inventati dagli indiani delle contrade boscose dell’est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee ed americane, entrambe di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra sia derivato dai sumeri o dagli antichi egiziani […] Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono una antica tradizione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la sua forchetta ha origini medievali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano […]. Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America […]. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che s’agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano (Linton 1973: 359-360).
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Le pratiche culturali sono azioni ricorrenti, in buona parte prevedibili, volte al raggiungimento di finalità ben definite, per mezzo di artefatti; la possibilità di prevedere il proprio comportamento, come l’altrui, consente l’elaborazione di mappe cognitive adeguate e la condivisione di valori, idee, emozioni... Del resto, il bambino è immerso fino dalla più tenera età in un universo di pratiche che lo mettono in condizione di governare in modo consapevole l’ambiente e di acquisirne le sindromi culturali specifiche. Da queste considerazioni, appare evidente che l’efficacia di tali pratiche proceda di pari passo con la necessità di applicarle nel modo appropriato. Un ruolo cruciale nel panorama delle pratiche culturali è rivestito dalle pratiche comunicative che vengono partecipate necessariamente con altri. Si deve a Grice (1957=1993) la formulazione del Principio di Cooperazione o della Conversazione Cooperativa che individua alcune regole alle quali gli interlocutori devono necessariamente attenersi affinché si produca un discorso mutualmente accessibile. Possiamo quindi tentare di formulare una sorta di principio generale che i parlanti dovranno (ceteris paribus) osservare, e cioè: ‘conforma il tuo contributo conversazionale a quanto richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato’ (Grice 1975=1993: 60).
Il Principio di Cooperazione di Grice si inscrive all’interno della sua teoria del significato e della comunicazione nella quale un posto privilegiato è occupato dalle intenzioni dei parlanti e dal concetto di razionalità. Detto altrimenti, Grice punta a «rendere conto in un’unica teoria complessiva e sistematica sia del modo in cui le intenzioni dei singoli individui entrano in gioco nella comunicazione, sia del modo in cui questa è determinata da convenzioni e pratiche regolari» (Cosenza 1997, 13). Il Principio di Cooperazione include quattro massime ‘più specifiche’, che Grice classifica come segue: - Massima della quantità: - Massima della qualità: - Massima della modalità: - Massima della relazione:
dai un contributo informativo che non sia né più né meno di quanto richiesto. cerca di dare un contributo che sia vero; evita di dire il falso o ciò di cui non hai prove adeguate. sii conciso, ordinato; evita oscurità e ambiguità. sii pertinente.
È interessante osservare che le massime che regolano la cooperazione conversazionale tra interlocutori rappresentano tipi generalizzati di implicature, cioè quei suggerimenti impliciti negli scambi linguistici. Come nota Grice (1975=1993) nello svolgimento di un’interazione linguistica gli enunciati introducono suggerimenti, riferimenti e allusioni a fatti noti, etc. che non sono direttamente rappresentati dal significato ‘convenzionale’ delle parole contenute dall’enunciato, an-
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che se «il significato convenzionale delle parole […consente] di determinare ciò che viene detto». In questo quadro, le massime di Grice sono appunto tipi di implicature generalmente innescate dalla situazione conversazionale; non è un caso, quindi, se tipologie diverse di conversazione possono attenuare o graduare il valore delle diverse massime. Ad esempio, se chiedo “come va?” a una persona, le implicature possono essere molte e diverse a seconda di ciò che viene suggerito dalle circostanze, dal grado di conoscenza reciproca, da ciò che si sa dell’interlocutore, etc.: si può voler sapere se si è effettivamente ripreso dopo un infortunio, se ha ancora a che fare con difficoltà di vario genere, etc. ma si può anche solo volere che percepisca il nostro interesse nei suoi confronti, etc. Inoltre, ci aspettiamo una risposta del tipo, “non c’è male, grazie! E lei?” oppure “bene grazie! E Lei?” o qualcosa di corrispondente; difficilmente si è preparati a sentire il dettaglio della situazione clinica o dei malanni del nostro interlocutore. La formula di cortesia espressa dal “come va?” attende di venire ripagata attraverso una risposta che confermi il legame sociale e la partecipazione alla stessa microcomunità comunicativa. Tuttavia, nel caso di una risposta come quella offerta in un dettaglio della situazione clinica almeno due delle massime individuate da Grice, quella di quantità e quella di relazione, risultano violate rispetto ai significati convenzionali trasmessi dalle parole (cfr. Ronchi 2003: 88-98). L’emissione di enunciati menzogneri, di promesse irrealizzabili, etc. vengono meno alla massima della qualità; il ‘saltare di palo in frasca’ nella conversazione contravviene a sua volta alla massima della relazione, e così via. Lakoff (1978) antepone la cortesia alla chiarezza nel senso che considera preferibile un comportamento che evita di offendere piuttosto che uno mirante a ottenere chiarezza; del resto, una violazione alla chiarezza può compromettere la comprensione mentre la violazione delle norme sociali di cortesia può mettere in discussione la stessa relazione. A questo proposito vengono proposte tre regole che suggeriscono al parlante di non imporsi, di offrire delle alternative e di mettere a proprio agio il destinatario. Molto spesso il non essere diretti offre il vantaggio di dare delle alternative e di consentire al destinatario di non sentire lo svantaggio sociale derivante dalla posizione impositiva implicata nella forma imperativa diretta. Le massime vengono talvolta violate intenzionalmente, per ragioni e con modalità differenti, nei discorsi perlocutivi con intenti seduttivi o ingannevoli; ciò avviene attraverso il ricorso a metafore o ad altri artifici retorici. Nella pratica quotidiana comunichiamo molto più di quanto comunichiamo effettivamente. Se la comunicazione si basa sulla capacità degli interlocutori di costruire inferenze a partire da stimoli, come postulato nell’analisi di Grice, l’inserimento di enunciati orali (o scritti) in contesti comunicativi concorre a determinare la trasmissione di significati e quindi d’informazione. Il carattere inferenziale dell’informazione e il fatto che il riferimento al contesto sia necessario per l’interpretazione caratterizza il normale processo attraverso cui si realizza la comunicazione umana. La natura dell’interazione linguistica, orale o scritta, implica le com-
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ponenti emotive, retoriche, biografiche degli interlocutori e il ricorso al contesto, inclusi gli aspetti formali del testo. Il modello di Sperber e Wilson (1986=1993) correla l’intenzione comunicativa dell’interlocutore al contesto. Il contesto, a sua volta, è influenzato e in parte determinato dall’interazione linguistica tra gli interlocutori, almeno nel senso che l’ambiente cognitivo degli interlocutori è modificato dagli enunciati introdotti nella particolare situazione comunicativa. Nei paesi occidentali, le pratiche comunicative si caratterizzano per un basso ricorso al contesto che, sebbene presente, si limita a indirizzare la corretta comprensione dell’intenzione comunicativa. Nello scambio comunicativo, il parlante si assume la responsabilità del buon esito o del fallimento della comunicazione stessa dal momento che sta a lui farsi capire. Nei paesi orientali, al contrario, il modello comunicativo privilegiato è quello implicito; in questo caso l’esito della comunicazione dipenderà quasi esclusivamente dalle capacità interpretative e inferenziali del destinatario; si tratta di pratiche comunicative ad alta contestualizzazione (le altre si definiscono a bassa contestualizzazione) che implicano il frequente ricorso agli indizi situazionali (cfr. Hall 1976: 1984). Anche il silenzio è organizzato rispetto ad un complesso di standard culturali che ne governano le regole; al pari del linguaggio e di altri sistemi di significazione, il bambino apprende anche l’impiego strategico e contestuale del silenzio che viene vissuto differentemente in occidente e in oriente. Nei paesi occidentali, infatti, i turni di parola si susseguono ad un ritmo elevato e il silenzio viene vissuto come un segnale di mancata o inefficace cooperazione mentre nei paesi orientali i lunghi tempi di latenza indicano una perfetta intesa. In particolari situazioni, però, il silenzio è privilegiato anche in occidente; è il caso, ad esempio, di relazioni incerte tra partecipanti nelle quali è bene non esporsi oppure quello di pratiche comunicative entro le quali esiste un’asimmetria di potere tra gli interlocutori e chi si trova in condizione di subalternità esprime attraverso il silenzio questa sua posizione (cfr. Anolli 2011). 2.1 Cultura e gestualità Nelle pratiche comunicative, le forme linguistiche sono privilegiate nelle interazioni tra le persone; tuttavia, ogni giorno abbiamo esperienza di quanto, nelle relazioni con gli altri, assumano un ruolo centrale variabili quali lo sguardo, il sorriso, la mimica facciale, il silenzio, il tono della voce, i gesti e la vicinanza o il contatto. Anche se non abbiamo indizi fossili evidenti come le pietre possiamo datare il linguaggio umano in tempi relativamente recenti e comunque dopo l’evoluzione del cervello, del nostro apparato vocale a forma di L capovolta e di altri cambiamenti anatomici. «Oggi ci sono opinioni contrastanti su quelle che potrebbero essere state le forme più antiche di espressione linguistica. Secondo una scuola di pensiero la lingua avrebbe avuto origine da gesti, mentre secondo un’altra sarebbe nata da vocalizzazioni simili a quelle delle scimmie; secondo
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un’altra ancora sarebbe sorta dal canto» (Dunbar 1998: 166). Comunque, prima della comparsa del linguaggio, le attività non verbali rappresentavano delle vere e proprie forme sociali di comunicazione condivise, partecipate, prodotte in modo intenzionale e comprese. La forza evocativa della comunicazione verbale è connessa con la sua convenzionalità e con la sua arbitrarietà mentre i sistemi non verbali intrattengono con la realtà che intendono richiamare un rapporto di analogia (cfr. Anolli 2010); la comunicazione verbale implica infatti un’intenzionalità comunicativa e la presenza di un codice condiviso dagli interlocutori mentre la comunicazione non verbale presenta ‘analogie’ con il contenuto che veicola (cfr. Borello 2003: 20-21). Naturalmente la conoscenza dei sistemi non verbali in riferimento alla nuova cultura agevolerebbe le relazioni e consentirebbe di interagire in modo efficace e di evitare il disagio derivante dal ‘sentirsi fuori posto’ dal momento che, come nota Hall (1959: 2), «quello che le persone fanno è spesso più importante di quello che dicono». Il volto possiede tre diverse aree espressive: la parte superiore che include la fronte e le sopracciglia e che viene tenuta in alta considerazione in occidente in quanto considerata la sede depositaria del pensiero; un’area centrale che comprende gli occhi e il naso e un’area inferiore che include la bocca e il mento. La parte frontale è poco mobile ma il movimento sopraccigliare può esprimere preoccupazione, scetticismo o, per contro, può manifestare accettazione o stupore. In molte culture, infatti, il saluto include, oltre al sorriso e a cenni con la testa, anche il sollevamento delle sopracciglia; il colpo di sopracciglia ha un’estesa diffusione tra membri di culture diverse sebbene possa presentare certi margini di variazione tra culture che lo limitano o lo interdicono e culture che lo applicano anche ad altri contesti, come in situazioni nelle quali si esprime o si cerca approvazione, etc. che hanno come elemento comune la segnalazione del contatto sociale. Gli altri contesti in cui ricorre, come quello di sorpresa e in generale i contesti in cui è implicata l’attenzione, suggeriscono che il colpo di sopracciglia nasca come ritualizzazione di diversi segnali di attenzione (cfr. Eibl-Eibesfeldt 1972=1977). Buona parte della gestualità accompagna e integra le espressioni linguistiche. A questo proposito McNeill (1992) osserva che When people talk they can be seen making spontaneous movements called gestures. These are usually movements of the arms and hands and are closely synchronized with the flow of speech. […] Gestures and speech occur in very close temporal synchrony and often have identical meanings. Yet they express these meanings in completely different ways. […] Gestures exhibit images that cannot always be expressed in speech, as well as the images the speaker thinks are concealed. Speech and gesture must cooperate to express the person’s images (McNeill 1992: 11).
L’area mediana è molto espressiva tanto che si avverte la relazione comunicativa e il feedback dell’interlocutore proprio attraverso il contatto oculare. Anche in questo caso, comunque, esistono delle differenze culturali. Infatti, mentre in occi-
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dente mantenere il contatto oculare è indice di ‘affidabilità’ e ‘trasparenza’, in altre culture può risultare offensivo se non addirittura ‘arrogante’ o ‘provocante’. L’area inferiore è meno ‘nobile’ rispetto alle altre due aree ma con un alto potenziale espressivo e una forte capacità di interazione sociale (cfr. Giaccardi 2005: 68). In particolare il sorriso promuove le affinità relazionali attraverso manifestazioni di apprezzamento e empatia, regola i rapporti sociali in ordine al potere (chi occupa una posizione subordinata è tenuto convenzionalmente a sorridere di più) e al genere (le donne sorridono più frequentemente degli uomini per motivazioni legate a compiacenza e affiliazione; cfr. Anolli 2011: 236-237). [Il sorriso] sembra un’espressione genuina e palese che accompagna esperienze piacevoli di gioia e di felicità. In realtà, è un’espressione ambigua. Infatti, possiamo sorridere perché siamo felici e contenti, ma anche perché siamo incerti e dubbiosi, ansiosi e paurosi, per manifestare agli altri il nostro successo individuale (soprattutto negli USA), la nostra empatia e solidarietà nei loro confronti, la nostra acquiescenza o il nostro rispetto (soprattutto in Giappone), perché abbiamo fatto una gaffe o proviamo vergogna (Anolli 2011: 235).
Ci sono alcuni gesti che funzionano come onomatopee, è il caso di schemi che descrivono proprietà di un oggetto o di un evento. Inoltre vere e proprie onomatopee, come l’imitazione di rumori, possono accompagnare un enunciato o sostituire alcune sue parti, come in ‘prese il motorino e vuuum partì’, dove ‘vuuum’, eventualmente associata a un gesto iconico, sta per qualcosa come ‘mise in moto’. Altri gesti sono deittici, e quindi funzionano come gli elementi deittici del linguaggio, per cui se il parlante dice ‘dammi…’ indicando l’oggetto mentre pronuncia questo enunciato otterrà lo stesso effetto dell’espressione: ‘dammi questo’. Infine, vi sono gesti la cui interpretazione non sembra chiaramente associata allo schema gestuale, come nel caso dei movimenti della mano o del dito che segnalano il punto significativo dell’enunciato. In questi casi la relazione tra gesto e interpretazione non è mediata dall’evocazione di (parti del) significato attraverso il gesto. Come nota McNeill (1992: 23 ss.) i gesti ricorrono solo durante l’emissione di enunciati, coincidono con la semantica e la pragmatica dell’enunciato e sono sincronizzati. Lo sviluppo dei gesti nel bambino è coestensivo con quello del linguaggio, per cui mentre i gesti iconici e deittici appaiono per primi, quelli legati ad aspetti di organizzazione pragmatica della frase, come le battute, appaiono più tardi, esattamente come certe strutture pragmaticamente complesse del linguaggio sono padroneggiate più tardivamente dal bambino. Per semplificare, i gesti possono essere riconducibili ad alcune macrocategorie in relazione alle diverse funzioni alle quali sono deputati: gesti iconici (accompagnano l’atto di parola e variano in maniera significativa da parlante a parlante; hanno una stretta relazione formale con il contenuto semantico); gesti metaforici (richiamano i gesti iconici ma rappresentano concetti astratti); gesti simbolici (sono fortemente codificati e spesso sono fatti a ‘distanza’; si pensi al gesto di ok);
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gesti deittici (indicanti oggetti ed eventi nel mondo esterno; possono essere anche utilizzati in maniera astratta, ovvero senza un’effettiva funzione deittica); battiti (sono movimenti della mano o delle dita in direzione su/ giù, in fuori/ in dentro che indicano la parte dell’enunciato ritenuta significativa dal parlante). Il movimento del corpo può essere studiato come sistema tipicizzato che deve essere appreso da ogni individuo che debba fare pienamente parte di una società. La sua interiorizzazione, complessa e ordinata, è parte integrante dell’acculturazione e della socializzazione. Appreso in gran parte inconsciamente, il suo modellamento è probabilmente coercitivo in ogni suo elemento come lo è quello della lingua (Birdwhistell 1970: 241).
Come avviene per la lingua, anche la gestualità varia da una cultura all’altra. Il gesto della mano ‘a borsa’, ha il significato di buono in Grecia, di paura in Francia, di lentezza in Tunisia, di ‘molto bello’ presso alcune comunità arabe, di perplessità nel nostro meridione mentre è sconosciuto in Inghilterra (cfr. Poggi 1983). L’ok degli Stati Uniti e di buona parte dell’Europa ha il significato di una cosa senza valore per i francesi del sud. Anche il cenno della testa per dire sì non è universalmente attestato: infatti nel Nord Europa la testa in avanti con movimento verticale annuisce e di lato esprime negazione mentre in Bulgaria avviene il contrario e in Italia meridionale il colpo di testa indietro per dire di sì richiama l’antica Grecia (cfr. McClave – Kim – Tamer et al. 2007). La gestione dello spazio (prossemica) è un altro elemento che varia da cultura a cultura; ad esempio, nel Nord Europa si pratica la cultura della distanza mentre le popolazioni arabe e latine privilegiano la vicinanza e il contatto (culture del contatto). Il contatto esplicita un atto non verbale primario che orienta la relazione e produce vari effetti, talvolta opposti. La comunicazione non verbale viene considerata affidabile dal momento che risulta meno controllabile rispetto alla produzione verbale (in caso di divergenza, infatti, si è maggiormente propensi a dare credito alla comunicazione non verbale). Nel caso in cui i partecipanti alla situazione comunicativa non condividano lo stesso universo non verbale, è facile incorrere in incomprensioni e malintesi (cfr. Balboni 1999). Può essere utile sapere, per esempio che accavallare le gambe mostrando la suola della scarpa all’interlocutore, come molti occidentali che adottano un atteggiamento informale fanno comunemente, è considerato un insulto nel mondo arabo, ed è stato causa di gravi incidenti diplomatici; o che riporre distrattamente un biglietto da visita ricevuto da un giapponese è visto come un gesto di estrema scortesia, se non offensivo, poiché lo scambio dei biglietti rappresenta una componente importante del rituale di presentazione del sé, che come tale va accolto e ricambiato con attenzione e considerazione (Giaccardi 2005: 60).
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3. La competenza comunicativa e la competenza culturale Una questione centrale riguarda il rapporto tra comunicazione e produzione di significato; infatti, sia gli approcci funzionali (Jakobson 1966), sia quelli sociolinguistici (Hymes 1980), sia infine le interpretazioni di taglio sociologico vedono la produzione di senso e lo scambio di informazione come il risultato di procedure discorsive e di finalità comunicative realizzate e riconosciute/attese dal destinatario. Gli enunciati o altri comportamenti ostensivi/ mezzi espressivi sono solo componenti della complessiva procedura di produzione di significato. In questo senso, la narrazione di un avvenimento assume un carattere subordinato rispetto ai dispositivi discorsivi e agli altri elementi della situazione comunicativa. Questo aspetto della comunicazione, anche linguistica, è indipendente dalla cultura e dall’organizzazione sociale dei parlanti, ma rappresenta una caratteristica universale della comunicazione umana, messa in luce dalle indagini etnolinguistiche che accompagnarono all’inizio del Novecento la riflessione teorica sul linguaggio: Una frase, detta nella vita reale, non è mai distaccata dalla situazione in cui viene pronunciata. Perché ciascuna frase verbale ha lo scopo e la funzione di esprimere un pensiero o un sentimento attuali in quel momento e in quella situazione, da rendere noti ad altra persona o persone per qualche ragione o necessità – sia per meglio condurre un’azione comune, sia per creare un rapporto puramente sociale, sia infine per dar sfogo a violente passioni o sentimenti. Senza un qualche stimolo imperativo non ci può essere scambio di parole. […] In ogni caso, perciò, espressione e situazione sono legate inestricabilmente l’una all’altra e il contesto di situazione è indispensabile alla comprensione delle parole (Malinowski 1923=1966: 345-346).
Il linguaggio è parte costitutiva dell’evento comunicativo e concorre a modificare le credenze o le aspettative degli interlocutori; esso riflette a sua volta i modelli e le differenze socio-culturali all’interno del gruppo. Di qui deriva l’importanza del modo di usare il linguaggio, del tipo di regole, delle procedure comunicative attivate e del ‘rituale’ che veicola il messaggio. Le procedure, coinvolgendo i rapporti di ruolo e, in definitiva, lo statuto sociale degli interlocutori, concorrono ad assegnare e a rendere accetti i ruoli stessi, rafforzando o creando il tipo di interazione e le asimmetrie del potere, definendo così le operazioni pragmatico-comunicative dell’interazione linguistica. La relazione tra usi linguistici e specifiche situazioni comunicative costituisce un particolare tipo di conoscenza, chiamata competenza comunicativa (Hymes 1980), che il bambino acquisisce durante il processo di inserimento nel gruppo sociale, cioè la socializzazione. Accanto alla capacità di distinguere tra proprietà linguistiche grammaticali e non, il bambino, e poi l’adulto, saprà distinguere tra espressioni linguistiche appropriate o meno alla situazione comunicativa. Si può ipotizzare quindi che ogni parlante di una comunità linguistica
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interiorizzi una grammatica comunicativa comprendente le regole che governano l’uso delle diverse espressioni in funzione della situazione comunicativa, regole che il bambino apprende nel processo di socializzazione: Nella matrice sociale in cui egli acquisisce un sistema grammaticale, un bambino acquisisce anche un sistema per il suo uso relativamente a persone, luoghi, finalità, altre maniere di comunicare, ecc. – tutti i componenti insomma degli eventi comunicativi, unitamente ad atteggiamenti e credenze ad essi associati (Hymes 1980: 64).
Hymes (1980) mette a punto una prospettiva di tipo interazionale e socioantropologico che esprime lo strettissimo filo che unisce contesto socioculturale e linguaggio (cfr. Duranti 1994: 35-67). L’esempio più immediato di variazione in rapporto all’appropriatezza comunicativa è la sostituzione del tipo di lingua in diverse situazioni comunicative. Un modo di esprimersi più sorvegliato, e quindi un italiano più vicino a quello letterario, caratterizzerà ad esempio la comunicazione a scuola, o in ambienti pubblici, come una conferenza, una lezione, un tribunale, etc. Le differenti scelte linguistiche che il parlante opera sulla base di un sistema di corrispondenze tra tipo di enunciato e intenzione comunicativa, registrano aspetti della situazione comunicativa, degli interlocutori, del sistema di valori e dell’universo simbolico associato allo scambio linguistico. Gli interlocutori che partecipano ad un evento linguistico adattano quindi il loro modo di parlare alla situazione comunicativa, che comprende oltre al contesto del discorso in senso stretto, inclusivo delle coordinate temporali e spaziali e dei partecipanti (parlante e ascoltatore), anche un insieme di fattori di rilevanza socio-culturale. Per Hymes un bambino normale acquisisce una conoscenza delle frasi non solo in quanto grammaticali ma anche in quanto appropriate; in altre parole, il bambino sviluppa la capacità di comunicare per mezzo di atti linguistici adeguati a particolari eventi linguistici e di valutare e comprendere le esecuzioni di altri. È importante sottolineare che Hymes (1980) non concepisce la competenza comunicativa in contrapposizione alla competenza linguistica nel senso della capacità del parlante di produrre e riconoscere le frasi grammaticali della sua lingua, cioè la competenza linguistica definita nel quadro della teoria chomskyana. Hymes vede nella competenza grammaticale del parlante una capacità inclusa all’interno di capacità e abilità cognitive di ordine pragmatico e comportamentale, connesse cioè con l’interazione col mondo esterno. In questo senso, l’analisi di Hymes caratterizza la pragmatica come un insieme di regole e principi che il bambino acquisisce nel processo di apprendimento del linguaggio, che lo mettono in grado di utilizzare la lingua in situazioni concrete – all’interno di una comunità linguistica – e di interpretare il significato degli enunciati nelle diverse situazioni comunicative. La conoscenza della lingua rappresenta una delle capacità cognitive coinvolte nel processo di produzione e interpretazione degli enunciati all’interno degli eventi linguistici, come puntualizzato nel commento di Habermas:
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la competenza generale di un parlante nativo non comprende soltanto il possesso di un sistema astratto di regole linguistiche che egli, pre-programmato dal suo apparato organico e dai processi di maturazione stimolata, introduce nella comunicazione allo scopo di funzionare come emittente o ricevente durante una trasmissione dell’informazione […] per partecipare al normale discorso, il parlante deve possedere, oltre alla competenza linguistica, le regole fondamentali del discorso e dell’interazione simbolica (comportamenti di ruolo), regole che possiamo chiamare competenza comunicativa (Habermas 1970=1973: 116).
L’approccio di Hymes rappresenta quindi una delle prospettive classiche della pragmatica, intesa come l’insieme dei meccanismi che portano all’interpretazione degli enunciati in situazioni d’uso. I modelli pragmatici separano il significato fissato dalle proprietà lessicali e morfosintattiche delle frasi dal significato generato dal processo comunicativo, cioè dalla produzione di enunciati in particolari situazioni comunicative. Gli interlocutori che partecipano a un evento linguistico adattano, quindi, il loro modo di parlare alla situazione comunicativa, che comprende oltre al contesto del discorso in senso stretto, inclusivo delle coordinate temporalispaziali e dei partecipanti (parlante e ascoltatore), anche un insieme di fattori di rilevanza socio-culturale. Un caso esplicito è rappresentato dalla situazione scolastica, nella quale all’insegnante e all’alunno sono assegnati ruoli diversi. A loro volta, i ruoli sono fissati dalle attribuzioni che la cultura, le credenze e i valori di un gruppo sociale identificano con queste due figure, determinandone le caratteristiche socialmente rilevanti. Così, lo studente normalmente darà del lei all’insegnante mentre darà del tu a un suo pari. Anche gli argomenti trattati e le particolari situazioni comunicative come la spiegazione o l’interrogazione richiedono un’elaborazione linguistica diversa da quella che caratterizza lo scambio per mezzo del linguaggio orale in situazioni di familiarità tra gli interlocutori. In altre parole, l’insegnante che spiega o l’alunno che risponde usano o mirano a usare varianti linguistiche più complete, in cui cioè tutta l’informazione rilevante dovrebbe essere espressa linguisticamente dagli elementi lessicali e dalla struttura della frase, senza far riferimento a ciò che l’ascoltatore potrebbe sapere o alle informazioni ricavabili dal contesto del discorso (Bernstein 1971); in altre parole, il tipo di lingua si avvicina a quello dei testi scritti. Halliday (1973) propone un modello classificatorio organizzato in sei funzioni – personale, interazionale, strumentale, regolativa, rappresentativa, immaginativa e euristica – e in tre macro-funzioni della lingua – ideativa (produzione e espressione di idee attraverso la lingua), interpersonale (relazione con gli altri tramite la lingua) e testuale (strutturazione delle relazioni in un testo). ‘Come esecutori e riceventi, simultaneamente noi comunichiamo tramite la lingua e interagiamo tramite la lingua […] Un atto linguistico è essenzialmente un modello complesso
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di comportamento che, nella maggior parte dei casi, unisce le funzioni ideative e quelle interpersonali in vari gradi di prominenza’ (Halliday 1975: 198).
L’etnografia della comunicazione allarga gli orizzonti della linguistica agli studi di comunicazione intesi come fenomeno sociale ‘totale’, nel senso di Mauss (1924=1965: 157), e all’analisi dei partecipanti all’evento comunicativo, dei contenuti del messaggio e delle strutture linguistiche. Particolare attenzione è riservata, inoltre, allo stile associato al messaggio, ai codici e sottocodici specializzati, alle tecniche di mascheramento verbale e alle varie forme espressive dei cerimoniali e delle rappresentazioni amorose, drammatiche, etc. I meccanismi comunicativi vengono studiati dal loro interno per comprendere pienamente l’attività delle persone e l’‘ambiente umano’, come lo definisce Goffman (1961=1979). Le situazioni comunicative e le diverse forme di conversazione sono caratterizzate da dispositivi rituali di controllo riguardo alla reciproca disponibilità e accessibilità anche in considerazione di attribuzioni sociali convenzionali come il genere, l’età, la professione, la condizione sociale, il livello d’istruzione e altri, che modificano l’‘interazione strategica’. La definizione di ‘interazione strategica’ viene da Goffman (1961=1979) preferita a quella di comunicazione, così come del resto l’analisi si concentra sugli atti sociali piuttosto che sugli atti linguistici (speech acts), eletti dagli studi di Searle (1969=1976). Per Goffman (1961=1979) il comportamento linguistico si correla alla situazione sociale che si caratterizza per diverse variabili quali l’urgenza, la formalità/informalità; il raggruppamento/incontro e, rispetto alla relazione tra gli interlocutori, variabili di conoscenza reciproca, di intimità, di simmetria/asimmetria e di competenza. Poniamo il classico esempio del dialogo tra due sconosciuti in una sala d’aspetto e poniamo il caso della richiesta di un free good (cfr. Goffman 1964=1973). Emittente: “Mi perdoni, potrei vedere la sua rivista?” (Riparazione); Destinatario: “Prego, faccia pure!” (Conforto); Emittente: “Grazie! Molto cortese!” (Apprezzamento); Destinatario: “Nessun problema!” (Minimizzazione). La prima azione dell’emittente potrebbe essere scambiata per un’intrusione nel privato dell’interlocutore e ciò determina la necessità di riparare all’infrazione con un’espressione di cortesia: “Mi perdoni!”. Dato che le regole dell’interazione sociale sono state rispettate, al destinatario non rimane che confortare la richiesta e minimizzarne l’importanza. Altra situazione si sarebbe verificata nel caso di una richiesta prodotta senza riparazione, del tipo: “Vedi di passarmi la tua rivista!” o, ancora, e sempre trattandosi di un free good, dall’inopportuna richiesta dell’ora al docente da parte di uno studente durante la lezione. Per Cimatti (1998: 195) «la specificità del linguaggio umano, in conclusione, è un problema cognitivo» nel senso che il linguaggio è un sistema complesso nel quale «interagiscono, con pari dignità, componenti emotive, cognitive, referenziali, sociali» (Cimatti 1998: 140). Accanto alla competenza comunicativa non può mancare la competenza culturale (e interculturale) che ci permette di comprendere e utilizzare i modelli di comportamento e di vita di ogni comunità linguistica. I cambiamenti interve-
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nuti nella società e nei mercati e tutti quei fenomeni che, convenzionalmente, vanno sotto l’etichetta della globalizzazione rendono oggi la competenza interculturale un sapere imprescindibile dal momento che ci consente di comunicare con un interlocutore straniero utilizzando un linguaggio coerente con il suo mondo. In altre parole, comunicare interculturalmente significa comprendere che ogni evento comunicativo è culturalmente connotato. Prendiamo [...] la nozione universale di assenso e, come funzione discorsiva (universale?) correlata, quella di indicare l’assenso tramite un’interiezione avverbiale: sì, yes, oui... Possiamo forse dire che un allievo tedesco che sa dire e capire questi tre avverbi padroneggia le nozioni di assenso nelle culture inglese, francese e italiana, nonché le loro relative realizzazioni conversazionali? La risposta è ovviamente negativa. Non solo l’allievo tedesco non sa cogliere e produrre le sfumature funzionali (ad esempio, l’opposizione oui/sì in francese) e stilistiche (ad esempio, le varianti yes/yeah/yea/aye/yup… in inglese) ma, soprattutto, non sa gestire l’indicazione dell’assenso come componente di un evento comunicativo culturalmente connotato. È noto, infatti, che i cittadini tedeschi che soggiornano in Italia si lamentano spesso (Moneta, 2000) delle difficoltà a capire cosa intendano veramente i loro interlocutori italiani quando pronunciano i fonemi sì. Solo col tempo scoprono che un ‘sì’ secco è diverso da un ‘sì’ strascicato (che può valere un ‘nì’) o un ‘sì’ strascicato calante (che potrebbe essere ironico e quindi valere come ‘no’) oppure un ‘sì’ reiterato più volte rapidamente (che può segnalare soltanto un assenso di massima ma non operativo) o infine un ‘sì’ senza marcatura intonativa (che può esprimere un consenso minimale oppure un semplice voler accontentare l’interlocutore senza impegnarsi in alcun modo). Dire che tutte queste realizzazioni esprimono la ‘categoria universale di assenso’ è assai riduttivo e in fin dei conti fuorviante (Boylan 2006: 123).
4. L’identità linguistica come risultato dei rapporti sociali Le migrazioni determinano l’incontro tra culture e comunità differenti. Questo si riflette nella compresenza di lingue diverse all’interno della società e ai fenomeni di mescolanza cui danno origine. Si creano cioè i tipici scenari studiati dai sociolinguisti relativamente a società bi/multilingui, nelle quali lingue diverse hanno uno statuto funzionale e socio-stilistico differente. Le diverse varietà linguistiche riferite ai contesti sociali che ne governano l’uso formano ciò che i sociolinguisti chiamano repertorio linguistico di una comunità (Berruto 1987, 1995). Naturalmente oggi il repertorio linguistico della società italiana si è ulteriormente arricchito, includendo oltre alle varietà di italiano, ai dialetti e alle varietà alloglotte storiche, anche le varietà degli immigrati recenti, dal romeno all’albanese, dall’arabo al cinese. La presenza di nuove minoranze linguistiche e le esigenze della comunicazione in una società fortemente internazio-
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nalizzata fanno avvertire la necessità di padroneggiare più lingue sia come risposta all’odierna complessità culturale sia come strumento di comunicazione con il mondo. È difficile per gli immigrati arrivare a una padronanza della lingua straniera tale da farli sentire a proprio agio nell’usarla come se utilizzassero la propria, tale da consentire loro di pensare, sognare, comunicare sentimenti in una lingua altra. La padronanza della lingua è sentita come uno strumento cruciale nel processo di integrazione degli individui all’interno di una comunità. Anche l’uso di una lingua è soggetto allo stesso tipo di costruzione che determina il formarsi dell’identità e del riconoscimento dell’appartenenza etnica. […] è giusto che gli immigrati debbano superare un esame di conoscenza linguistica […]? […] Purtroppo molto spesso l’idea che si debba superare una prova, imparare una lingua, prima di essere considerati cittadini di un paese viene percepita come un’ingiustizia, perché sembra che si voglia denudare una persona della propria lingua e della propria cultura. Non accettare un’altra lingua nel proprio universo linguistico e culturale, e negare a questa lingua la possibilità di trasformare la propria viene considerato provinciale, limitato, gretto (H. K. Bhabha, Il Corriere della Sera, 27/05/2005: 14).
Questa sensazione di disagio, amplificata dalla sensazione che molte parole nascondano significati differenti ed esprimano differenti valori, determina una sensazione di esclusione o, peggio, di reclusione. Sono un’autodidatta e ho imparato l’italiano studiando la grammatica e stando molto attenta al modo in cui gli italiani articolano le parole. Evidentemente l’italiano sarà sempre la mia seconda lingua ma continuo a studiarlo, sono molto esigente con me stessa, cerco sempre nuovi esercizi, nuovi libri, ascolto molto la radio, uso molto il vocabolario e, quando non conosco il significato di una parola, chiedo sempre. Oggi mi sento più libera perché le emozioni dentro di me possono avere più di un significato: uno in portoghese, l’altro in italiano. Adesso sto studiando il francese. È bello potersi esprimere in più di una lingua (Oliveira 1995: 58).
Le relazioni tra individui all’interno della società dipendono dalla posizione reciproca di coloro che interagiscono e riproducono norme, regole e valori relativi ai diversi aspetti del vivere in comune, alle consuetudini, alle usanze, alle credenze, ecc. Tali norme sono interiorizzate dai membri del gruppo e concorrono a formarne ciò che chiamiamo identità e almeno alcuni aspetti della personalità. L’identità degli individui è costruita quindi in forza di un insieme di caratteristiche che fissano la loro appartenenza al gruppo sociale. Questo insieme comprende sia tratti inalienabili, come l’età, il sesso, l’etnicità, la lingua, sia tratti acquisiti, come il grado di scolarizzazione, la religione, le convinzioni morali, le idee politiche, ecc. Il punto è che questo insieme di caratteristiche è soggetto a variare in rapporto alle condizioni materiali di vita o alla psicologia e
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all’esperienza delle singole persone. Rappresenta, in ultima analisi, un processo di costruzione che Tabouret-Keller (1998) caratterizza nel seguente modo: In ogni dato momento l’identità di una persona è un eterogeneo insieme formato da tutti i nomi o le identità, dati e assunti da essa. Ma durante la vita l’identità è costantemente ricreata in accordo a molto varie restrizioni sociali (storiche, istituzionali, economiche, ecc.), interazioni sociali, incontri, e desideri che possono venire ad essere veramente soggettivi ed unici (Tabouret-Keller 1998: 316).
I processi di identificazione includono sia componenti propriamente linguistiche, sia mezzi simbolici non verbali, che giocano un ruolo non secondario nei processi di significazione come fattori pragmatici rilevanti per l’interpretazione. Questi fattori paralinguistici sono soggetti a fenomeni di omogeneizzazione in maniera analoga a quella che può interessare le lingue. Il ruolo del linguaggio nel fissare l’identità degli individui è fondamentale in quanto ‘esprime’ e insieme ‘offre il mezzo’ per creare il legame tra identità individuali e sociali (TabouretKeller 1998). L’acquisizione della prima lingua (L1) costituisce infatti il nucleo del processo di inserimento nel gruppo sociale e si basa sullo sviluppo di una conoscenza linguistica almeno superficialmente identica a quella degli adulti che offrono gli enunciati su cui il bambino crea la propria grammatica mentale e quella che Hymes (1980) chiama competenza comunicativa, cioè l’insieme degli aspetti paralinguistici e comunicativi che danno luogo alla comunicazione linguistica. Il linguaggio oltre che essere esso stesso, in quanto usato, un segno identitario rispetto al gruppo sociale, fornisce le differenze (lessicali, morfosintattiche e fonologiche) che servono a fissare le diverse identificazioni, come nei recenti casi di formazione di nuovi stati per i quali il riconoscimento di una lingua autonoma ha rappresentato una fonte di legittimazione. Il possesso di un’identità linguistica plurale, indipendentemente dall’essere il frutto dell’acquisizione della lingua inglese accanto alla propria oppure dovuto a fenomeni migratori, rappresenta indubbiamente il migliore passaporto per il nuovo cittadino del mondo. Il parlante bilingue può avere una diversa padronanza delle due (o più) varietà linguistiche. In particolare, il grado di conoscenza di una varietà linguistica influenza la possibilità di usarla in certe circostanze (Romaine 1995). Altri fattori, come l’età, il sesso, l’intelligenza, la memoria, la facilità di apprendimento linguistico, la motivazione e la precocità dell’apprendimento (Mackey 1968; Romaine 1995) influenzano il bilinguismo. Inoltre, la conoscenza di L2 non è necessariamente uniforme in tutte le componenti della grammatica mentale (lessico, morfosintassi, fonetica). Nelle comunità linguistiche l’adesione alla propria varietà linguistica è sentita come parte della propria appartenenza al gruppo sociale e alla sua cultura e come uno dei criteri principali di integrazione simbolica nel processo di autoriconoscimento della comunità (Pizzorusso 1993). Se applichiamo questo schema interpretativo alla società attuale emerge un quadro complesso e problematico. In primo luogo in molti paesi
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esiste un contrasto tra lingua ufficiale, legalmente riconosciuta o meno, utilizzata nella vita pubblica, nella scuola, nei mezzi di comunicazione, e lingue di gruppi minoritari in corrispondenza di appartenenze diverse o plurime alla comunità locale e alla minoranza. Questa situazione comprende ormai non solo la compresenza di una lingua standard e di varietà locali o regionali di minoranza di antica formazione, ma anche le nuove varietà dei gruppi di immigrati recenti. 4.1 Bilinguismo Nel senso comune, il bilinguismo corrisponde alla piena competenza di due lingue da parte di una data persona; si tratta, in pratica, dell’esito della condizione privilegiata nella quale il parlante acquisisce nell’infanzia la padronanza in due lingue diverse e la competenza necessaria a integrare perfettamente i rispettivi sistemi linguistici ad un livello profondo di organizzazione cognitiva. Per Bloomfield (1933) il bilinguismo equivale al possesso di una competenza da parlante nativo in due lingue: In the extreme cases of foreign-language learning the speaker becomes so proficient as to be indistinguishable from the native speaker round him [...] In the cases where this perfect foreign-language learning is not accompanied by loss of the native language, it results in bilingualism, native-like control of two languages (Bloomfield, 1933: 55-56).
Nel bilinguismo, che in questa accezione attiene principalmente alla sfera privata, i due codici sono considerati intercambiabili dal momento che non si ha nessuna delimitazione negli ambiti d’uso. Per Weinreich (1953=2008), il termine bilinguismo include ‘tutte le gradazioni nell’uso di due (o più) lingue’; esistono poi molte definizioni intermedie che vanno dalla condizione di un perfetto interprete a quella di un apprendente che si esprime con estrema difficoltà in lingua straniera. Per Macnamara (1967), è sufficiente che l’individuo abbia una competenza minima in una delle quattro abilità linguistiche – ovvero comprendere, parlare, leggere e scrivere in una lingua diversa da quella materna – per potersi definire bilingue. In questo caso, il bilinguismo è compatibile con un livello di competenza sufficiente per una comunicazione efficace in più di una lingua (per efficacia deve intendersi l’abilità di recepire in modo corretto il significato dei messaggi e/o l’abilità attiva di produzione di messaggi intelligibili in più di un codice) (cfr. Haugen 1953). Le diverse competenze vengono da molti autori esplicitate attraverso diversi livelli o gradi di bilinguismo (cfr. Grosjean 1982). Rispetto al tempo di acquisizione, si distingue un bilinguismo naturale, o primario, nel quale i codici sono appresi in età precoce (entro il terzo anno) come lingue materne, senza cioè necessità di istruzione formale, da un bilinguismo secondario, o successivo, nel quale la conoscenza di una – o più lingue – si sommerebbe alla lingua materna, in un momento successivo. In questa prospet-
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tiva, un ruolo determinante è giocato appunto dall’età del contatto con una seconda lingua: nel bilinguismo primario, la pluralità di lingue viene acquisita simultaneamente alla formazione delle abilità linguistiche (infatti, si dice anche bilinguismo simultaneo o acquisizione di due prime lingue) mentre in quello secondario l’apprendimento avviene in una fase successiva (si dice anche bilinguismo successivo), ad esempio a scuola, quando la competenza nella prima lingua è già fissata (cfr. Meisel 1990). Ne discende un differente grado di sofisticazione nei risultati, in particolare in corrispondenza di aspetti fonologici per i quali il periodo entro cui si realizza l’acquisizione riveste un ruolo cruciale. Per contro, l’apprendimento di una lingua seconda in età successiva può dare luogo a un bilinguismo asimmetrico, nel quale alla capacità di decodificare due codici si combina un’abilità attiva in un solo codice. In relazione al grado di competenza del parlante con la seconda lingua si individua un bilinguismo bilanciato, ovvero equilibrato – per certi versi utopistico – che si ha in un parlante che si esprime con uguale disinvoltura in due lingue senza privilegiare né l’una né l’altra da un bilinguismo dominante, che implica la superiorità di un codice sull’altro (cfr. Guasti 2007). Un’altra utile distinzione terminologica vede un bilinguismo aggiuntivo nel quale il discente somma una seconda lingua al proprio repertorio senza per questo perdere familiarità e dimestichezza nella lingua materna e un bilinguismo sottrattivo nel quale viene mortificata la prima lingua durante il processo di apprendimento della seconda lingua che di solito è dominante nel contesto sociale. In una prospettiva psicolinguistica si individuano tre tipologie base di bilinguismo: coordinato nel quale all’interno di ciascun codice ogni unità di espressione (ad es. l’espressione ‘libro’ e l’espressione ‘book’) si combina con una diversa unità di contenuto (concetto di ‘libro’ separato dal concetto di `book’); composto o composito, nel caso in cui un’unica unità di contenuto corrisponde a due espressioni nelle due diverse lingue; subordinato, nel caso in cui l’accesso alla seconda lingua avviene attraverso il sistema linguistico della prima lingua (questo tipo di bilinguismo è detto anche sub-coordinato). Sotto il profilo pedagogico, è ormai unanimemente superato il rifiuto del bilinguismo come fonte di interferenza in corrispondenza dei numerosi vantaggi riscontrati, tra i quali spicca la precoce padronanza di abilità metalinguistiche. La constatazione che, in particolari situazioni, il parlante privilegia una determinata lingua e sempre quella (si pensi, ad esempio, a momenti di particolare tensione emotiva o ai sogni) porta a simpatizzare con l’idea che una lingua risulti comunque, in ultima analisi, preferita e dominante. Per Weinreich (1953=2008: 4) «è irrilevante che i due sistemi siano lingue, dialetti della stessa lingua o varietà dello stesso dialetto [...dal momento che] i meccanismi dell’interferenza, a prescindere dalla quantità dell’interferenza stessa, saranno sempre gli stessi, che il contatto sia tra cinese e francese o tra due sottovarietà di inglese usate da famiglie vicine. E benché non si dia per solito il nome di bilinguismo alla padronanza di due sistemi così si-
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mili, il termine nel suo senso tecnico potrebbe agevolmente essere esteso a coprire anche questi casi di contatto». 4.2 Varietà linguistica e culturale Nelle comunità di minoranza formatesi a seguito dei flussi di immigrazione, una competenza linguistica assimilata a quella delle comunità ospitanti, ad esempio la padronanza della lingua standard, è sentita come un mezzo di integrazione determinante da parte dei parlanti. Peraltro la lingua è utilizzata anche come strumento di selezione e come filtro all’accesso nella società e nei suoi meccanismi comunicativi da parte dei governi. Vi sono paesi europei nei quali viene perseguita una politica esplicita di integrazione linguistica delle comunità straniere, come nel caso di Olanda, Germania, Austria e Inghilterra, anche attraverso corsi di lingua e test di conoscenza linguistica. La diversità linguistica alimenta senza dubbio il senso di estraneità e compromette o, comunque, rallenta e rende difficile l’inserimento. La lingua può escludere o includere, allontanare o avvicinare poiché rappresenta, indubbiamente, il principale tratto identitario sia per il singolo che per la collettività (cfr. par. 1.2). Le forze politiche e i grandi interessi economici vedono nella lingua un fattore esterno di identità e quindi di possibile separazione. Non a caso la nuova questione linguistica che è emersa nelle società a forte immigrazione e quindi a forte presenza di comunità linguistiche minoritarie, negli Stati Uniti e in Europa, mette in gioco valori e atteggiamenti, anche contraddittori. In primo luogo, le forme ibride di linguaggio che mescolano elementi della lingua nativa o di provenienza della comunità e elementi dello standard del paese ospitante si scontrano col purismo sia della società di arrivo sia di quella di partenza. Il multilinguismo che caratterizza in maniera sempre più diffusa e pervasiva le società occidentali configura una nuova questione linguistica anche in paesi di consolidata tradizione unitaria, come quelli europei e, nello specifico, l’Italia. In effetti, la questione linguistica mette in gioco diversi punti critici. La coesistenza di lingue minoritarie, incluse anche le varietà dialettali generalmente non riconosciute ufficialmente, e lingue standard, riconosciute e insegnate, innesca una dialettica, spesso aspra, di tipo identitario e socio-politico. Riconoscere l’importanza del patrimonio linguistico significa riconoscere e promuovere di conseguenza i diritti linguistici dei cittadini europei, in quanto parte dei loro diritti di libertà fondamentali. A un livello più profondo, significa tener conto dell’importanza della diversità linguistica come espressione dei meccanismi che regolano la società multiculturale e la formazione delle identità delle persone. Ci possiamo domandare qual è il destino linguistico dei bambini immigrati o figli di immigrati che frequentano le nostre scuole. La risposta è tutt’altro che scontata poiché i fattori che entrano in gioco sono numerosi, tra questi, oltre al livello di padronanza in L1, anche in relazione con l’età, e alla frequenza del suo impiego,
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particolare rilievo acquista lo status di cui gode la lingua d’origine nel paese ospitante. In aggiunta a questi elementi, naturalmente, risulteranno decisive le motivazioni, i bisogni, le reti familiari e amicali di sostegno e il livello d’integrazione con la comunità di origine; quest’ultimo elemento è, di nuovo, strettamente legato al fattore età. Del resto, l’apprendimento della L2 nel contesto scolastico non si sovrappone completamente allo spazio linguistico occupato dalla L1 e che si esplicita all’interno del contesto familiare e delle relazioni affettive; con il progredire della socializzazione, per il bambino la L2 diviene sempre più centrale e indebolisce parallelamente la lingua materna. In altre parole, l’acquisizione della L2 avviene a scapito della L1 poiché quest’ultima non consente la piena relazione con il gruppo dei pari ed è ostacolo alla socializzazione. La pressione sociale indirizza, pertanto, verso l’omologazione linguistica con la perdita della lingua madre che marca una differenza che i bambini spesso trovano molto difficile da sopportare. Si parla, in questi casi, di ‘bilinguismo sottrattivo’ che può condurre anche alla riduzione delle competenze in entrambe le lingue e al fenomeno del ‘semilinguismo’. Esiste poi il fenomeno dell’equilinguismo o del bilinguismo coordinato in cui le due lingue si sviluppano parallelamente in tutti i campi di azione linguistica. Si tratta di un processo che necessita di un forte sostegno da parte degli educatori e delle famiglie. L’idea che nella fase di apprendimento della L2 il bambino dovrebbe utilizzare le risorse cognitive senza essere distratto da altre lingue fatica a morire; per questo, ancora oggi, qualche insegnante incoraggia i genitori stranieri a parlare in italiano anche a casa in un rapporto di complementarità con quanto viene realizzato nella scuola. Ma la lingua, merita ricordarlo, è cultura e passare da una lingua all’altra non è semplicemente tradurre ma è passare da un riferimento culturale ad un altro, spesso anche molto distante. Da qualche anno si è affermata l’idea che per imparare la L2 non sia necessario, e che risulti perfino dannoso trascurare la lingua d’origine: la lingua materna non solo non disturba l’apprendimento della L2 ma lo favorisce attraverso lo sviluppo di abilità metalinguistiche (cfr. par. 4.1). Ne discende l’auspicio di scelte didattiche che valorizzino le lingue parlate da ogni bambino e che sollecitino attraverso opportune strategie l’interesse di tutta la classe per la varietà linguistica e culturale. 5. La lingua e il linguaggio Il linguaggio umano ha nella lingua verbale la forma più efficace di espressione; del resto, imparare a parlare rappresenta per ogni individuo una necessità primaria, come respirare, nutrirsi, camminare, dormire. ‘La difficoltà che si incontra quando vogliamo studiare il comportamento sociale, compresa la lingua, non è tanto quella di accedere ai dati […] ma di esteriorizzarli, di separarli da noi stessi, di raggiungere un punto di vista obiettivo, o, adottando la terminologia di Chomsky, di raggiungere una distanza psichica da ciò che stiamo studiando’ (Corder 1983: 33-34).
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L’uso della lingua, infatti, ci appare talmente naturale e spontaneo da non stimolare in noi nessuna attenzione o desiderio di analisi se si eccettuano situazioni di insegnamento o si è in presenza di patologie. «[Il] linguaggio sembra veramente essere una proprietà legata alla specie umana nella sua essenza e comune alla nostra dotazione biologica, che presenta variazioni minime tra gli esseri umani a parte alcune patologie particolarmente gravi» (Chomsky 1988: 4). Esistono, naturalmente, diversi altri modi di comunicare ma la lingua rimane lo strumento più potente di realizzazione avvertito, al contempo, come fenomeno intimo e personale e come strumento sociale. Le espressioni del viso, i gesti, il linguaggio del corpo possono operare in modo sostitutivo, complementare o, addirittura, conflittuale rispetto al linguaggio verbale, «un linguaggio sui generis che si situa nel cuore dell’universo semiotico in virtù di alcune caratteristiche tra cui spicca la sua cosiddetta onnipotenza verbalizzatrice» (Freddi 1994: 25), ovvero la sua capacità di tradurre in parole i contenuti di tutti gli altri linguaggi. Della lingua è possibile evidenziare non soltanto il carattere verbale o l’insieme di convenzioni fonetiche, sintattiche, morfologiche e lessicali ma anche il carattere di codice. In linea di massima, si può individuare un approccio di tipo esterno che identifica le lingue con una collezione di enunciati o espressioni linguistiche, orali o scritte, prodotte in certe situazioni comunicative e un approccio di tipo interno che vede nel linguaggio un sistema di conoscenza specifico della nostra mente. A questo proposito, alcuni studiosi ritengono che la capacità naturale di acquisizione linguistica faccia parte di capacità cognitive più generali dell’individuo mentre altri arrivano a supporre che il bambino possieda, alla nascita, una vera e propria capacità specifica di imparare la lingua. Non dimentichiamo che gli enunciati prodotti dai parlanti si inseriscono generalmente in situazioni comunicative rappresentando così un fatto sociale; ogni individuo, esprimendosi in una data lingua, presenta tratti di originalità ma è al contempo consapevole che la lingua che sente come propria e intima non è di sua proprietà esclusiva ma è condivisa con gli altri membri della società. Nei tradizionali approcci esterni ha un ruolo centrale la nozione di codice, inteso come un meccanismo che combina in unità più complesse gli elementi che ne costituiscono il vocabolario, ciascuno dei quali abbina un significato con proprietà percepibili dai sensi (suoni, immagini, etc.). Un codice, incluse le lingue, ha carattere convenzionale o comunque si lega a una sorta di accordo implicito tra chi lo usa, per cui le unità che contiene e le relazioni tra queste unità non sono determinate da caratteristiche specializzate della nostra mente, ma da abilità cognitive generali. Non a caso la nozione di codice è stata applicata a inventari di segnali convenzionali (cioè inventati dall’uomo) non linguistici. Così, molte correnti della linguistica contemporanea, dalla geografia linguistica alla linguistica storico-ricostruttiva, dalla semiotica strutturale alla sociolinguistica ed alla linguistica funzionale assumono uno schema in cui le espressioni linguistiche sono governate dalla loro funzione comunicativa come di seguito:
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espressioni linguistiche ↔ comunicazione (/situazioni d’uso) Questo schema richiama il modello comportamentista, del tipo stimolorisposta, collegando le situazioni d’uso comunicate ai dispositivi linguistici. Come osserva Jackendoff (2002), questa concezione caratterizza il significato come parte del contesto, nel migliore dei casi come la lista degli ‘usi contestuali delle espressioni’. Le situazioni d’uso sono, di volta in volta, oggetto di un’interpretazione sociologica (sociolinguistica, strutturalismo), psicologica e etimologica (cambiamento linguistico, strutturalismo), geo-politica (geografia linguistica e dialettologia). La rappresentazione nello schema sopra esclude quindi la mente/ cervello del parlante che ha acquisito una lingua, che conosce le proprietà computazionali che sono alla base delle frasi grammaticali di quella lingua, e che la sa utilizzare quando parla o scrive. Esclude cioè la dotazione che, a differenza di altre specie animali, lo mette in grado di sviluppare una lingua e di usarla, cioè quella che chiameremo facoltà di linguaggio (cfr. Savoia in Baldi e Savoia 2009: 8). La discriminante più evidente tra linguaggio naturale e sistemi di comunicazione artificiali risiede nel fatto che la lingua materna è acquisita spontaneamente dal bambino in un periodo precoce della sua vita, il periodo critico (Lenneberg 1967=1971; Jackendoff 1998), durante il quale il bambino è particolarmente sensibile agli stimoli linguistici. «Il neonato immediatamente seleziona nel mondo che lo circonda, ciò che appartiene al linguaggio. Nessun’altra specie biologica fa questo, nemmeno gli animali che hanno un sistema uditivo assai simile al nostro. Pochi mesi dopo, il bimbo già padroneggia il complesso degli accenti tonici, della prosodia elementare e della tonalità della lingua materna. Pochi mesi dopo ancora, padroneggia la struttura di base della lingua materna, e ve ne sono molte e diverse tra di loro, nel mondo. Nel frattempo, acquisisce anche padronanza delle strutture sintattiche e del significato delle parole. Questo va ben oltre quello che il bimbo può manifestare all’esterno. Lo si è visto con ingegnosi esperimenti. Tutto ciò supera largamente la quantità e la qualità dei dati linguistici che il bambino riceve dall’ambiente che lo circonda. Questo processo poi si estende molto al di là di queste basi, fino a raggiungere presto strutture di straordinaria complessità, strutture che ogni parlante usa e interpreta senza alcuna difficoltà. Tutto ciò avviene senza consapevolezza e senza sforzo. Né il bimbo né noi adulti ne abbiamo consapevolezza. È come lo sviluppo delle gambe e delle braccia o il raggiungimento della pubertà […] Se questo è un apprendimento allora ogni crescita di organi biologici sarebbe un apprendimento. Certo, vi sono alcuni aspetti del tutto marginali del linguaggio che vengono letteralmente insegnati e imparati, talvolta a fatica, ma lo stesso vale per insegnare e imparare a mangiare usando forchetta e coltello» (Chomsky 2012: 8). In questo periodo di pochi anni il bambino, nonostante sia privo di esperienza del linguaggio come del mondo esterno, è in grado si sviluppare autonomamente uno o più sistemi linguistici, indipendentemente dalla natura dello stimolo che gli viene offerto dall’esterno (‘povertà dello stimolo’). Il bambino at-
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traversa un processo di maturazione linguistica basato su stadi che, come è noto in letteratura, non possono essere modificati dagli adulti e manifestano una capacità creativa autonoma della mente del bambino nell’organizzare la grammatica mentale della lingua nativa (Jackendoff 1998). «[N]on si può veramente insegnare la lingua ma solo predisporre le condizioni nelle quali essa si svilupperà nella mente per conto suo» (Chomsky 1965: 51). Il periodo critico, le modalità dello sviluppo linguistico del bambino, i casi noti in letteratura di disturbi linguistici ereditari, e in generale i disturbi afasici, forniscono prove empiriche a favore di una facoltà innata della mente/ cervello degli esseri umani, la facoltà di linguaggio. I principi e le proprietà fissati dalla facoltà di linguaggio (Grammatica Universale) hanno piena attuazione nell’acquisizione linguistica durante il periodo critico e forniscono la base per l’acquisizione tardiva di L2. Dobbiamo supporre che la capacità del bambino di apprendere la lingua sia una conseguenza della maturazione perché: 1. le pietre miliari dell’acquisizione linguistica sono normalmente collegate ad altre pietre miliari che sono chiaramente attribuibili alla maturazione fisica, in particolare la posizione eretta, l’andatura e la coordinazione dei movimenti; 2. questa sincronia viene spesso mantenuta anche quando l’intero processo di maturazione viene rallentato drammaticamente, come accade in numerose forme di ritardo mentale; 3. non vi è prova che un allenamento intensivo possa produrre stadi più alti di sviluppo linguistico, possa cioè far progredire il linguaggio in un bambino che a livello di maturazione sta ancora muovendo i primi passi. Tuttavia lo sviluppo del linguaggio non è prodotto dalla maturazione dei processi motòri, in quanto in alcuni rari casi può evolvere più velocemente o più lentamente dello sviluppo motorio (Lenneberg 1967=1971: 178).
Lo sviluppo del linguaggio in un bambino avviene, si è detto, in uno stadio preciso della sua maturazione; a partire dal secondo anno di vita, i bambini iniziano a produrre le prime parole e verso i sei anni padroneggiano sufficientemente il sistema strutturale della propria lingua. Questa facilità di assimilare la lingua (periodo critico) perdura fino alla pubertà per poi decrescere nel tempo. «Che il periodo utile per l’acquisizione della lingua primaria termini con la pubertà è dimostrato inoltre dai ritardati mentali, che spesso possono compiere inizialmente progressi lenti e modesti nell’acquisizione linguistica fino all’adolescenza, epoca in cui la loro lingua e il loro status linguistico si consolidano stabilmente» (Lenneberg 1967=1971: 178). L’approccio mentalista colloca lo studio del linguaggio nel quadro delle scienze cognitive. In particolare, identifica le lingue naturali con sistemi di conoscenza, cioè con un componente della mente/ cervello del parlante che permette a quest’ultimo di produrre e comprendere le frasi della propria lingua e che il bambino può sviluppare sulla base di una facoltà della sua mente/cervello biologicamente
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determinata. La lingua, così intesa, è chiamata da Chomsky (1995, 2000a) lingua-I, cioè lingua interna o intensionale: The concept of language is internal, in that it deals with an inner state of Jones’s mind/ brain, independent of other elements in the world. It is individual in that it deals with Jones, and with language communities only derivatively, as groups of people with similar I-languages. It is intensional in the technical sense that the Ilanguage is a function specified in intension, not extension: its extension is the set of S(tructural)D(escriptions)s [cioè le espressioni generate dalla particolare lingua-I] (Chomsky 1995: 15).
Il modello comportamentista si scontra con le restrizioni derivanti dalla povertà dello stimolo (Chomsky 1986): la questione cioè dei dati empirici sufficienti per lo sviluppo di un sistema così ricco e specifico come appunto la conoscenza del linguaggio. Per Chomsky (1972) il limite degli approcci strutturalisti e comportamentisti risiede nel credere che la mente sia una struttura estremamente elementare e che banali supposizioni e intuizioni siano in grado di rispondere a tutti i fenomeni osservabili; in particolare, Chomsky rifiuta l’idea della lingua come ‘struttura di abitudini’ o rete di collegamenti di tipo associativo. «L’idea che una persona abbia un repertorio verbale, una serie di espressioni che produce per abitudine nell’occasione appropriata, è un mito, in totale contraddizione con l’uso osservato della lingua» (Chomsky 1972: 110). L’uniformità dello sviluppo linguistico ed il requisito di occorrenza imposto sul dato ‘attivatore’ della conoscenza linguistica costituiscono attributi tipici di ciò che possiamo considerare esperienza rilevante. La teoria della Grammatica Universale (GU) risponde a questi interrogativi, assumendo che la conoscenza di una lingua coincide con «un sistema di regole e di principi che assegna rappresentazioni di forma e significato alle espressioni linguistiche» (Chomsky 1986: 32) come risultato di un processo di acquisizione. Questo processo porta il bambino dall’esperienza dei dati primari (gli enunciati che lo circondano) alla creazione di un proprio sistema di conoscenza, la lingua-interna, come schematizzato di seguito: dati → [facoltà di linguaggio] → lingua(-Interna) → espressioni strutturate (adattato da Chomsky 1988: 35) che assegna alla nozione di lingua naturale un preciso significato, in quanto una delle possibili lingue che il bambino può sviluppare a partire dalla facoltà di linguaggio. Del resto, la facoltà di linguaggio condivisa dagli esseri umani impone a sua volta limiti all’ambito di variazione delle lingue-I possibili, incluse le proprietà lessicali, semantiche e fonetiche. Possiamo pensare una lingua L come un sistema cognitivo: The language L includes a cognitive system that stores information: roughly, information about sound, meaning, and structural organization. Performance systems access this information and put it to use […] L provides information to the perfor-
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mance systems in the form of ‘levels of representation’, in the technical sense. The performance systems access these ‘interface levels’ (Chomsky 2000b: 90).
In una prospettiva mentalista (Chomsky 1981, 1986, 1995, 2000a), l’oggetto di studio della linguistica è il particolare sistema mentale (Lingua-Interna) che ciascun individuo sviluppa nel processo di acquisizione in corrispondenza di un dispositivo cognitivo specializzato per il linguaggio fissato dal patrimonio genetico della specie umana, e non la collezione di dati esterni che rappresentano il prodotto di questo sistema (cfr. Savoia in Baldi e Savoia 2009: 9). Cinquant’anni addietro era comunemente dato per scontato, dai linguisti di professione e dalla gente comune, che le lingue possono differire illimitatamente una dall’altra e che bisogna studiarle separatamente una per una. Avrebbe dovuto apparire ovvia, sulla base di questo assunto, l’impossibilità di ogni bimbo di acquisire la propria lingua materna. Negli ultimi cinquant’anni molto abbiamo capito su ogni componente del linguaggio ed è apparso sempre più chiaramente che tutte le lingue sono, alla base, modellate sullo stesso calco. Molto probabilmente le radici comuni delle lingue non possono essere alterate, perché sono parte della nostra natura cognitiva intrinseca (Chomsky 2012: 8).
5.1 Il percorso di apprendimento La diversità linguistica e la diversità culturale si affiancano alla diversità degli studenti; la scuola deve pertanto riconoscere tale diversità e promuoverla come un valore responsabilizzando lo studente rispetto al proprio percorso di apprendimento. In questa prospettiva, il docente sposta l’attenzione dai risultati conseguiti per volgerla verso il percorso effettuato per raggiungerli. La diversità non riguarda solo le lingue e le culture ma anche le persone con il loro bagaglio biologico, di personalità, di esperienze e con un determinato stile cognitivo, determinate attitudini, aspettative, necessità... (cfr. Diadori 2011: 17-32). Da queste considerazioni appare chiaro il complicato percorso dell’apprendimento entro il quale confluiscono i molteplici elementi sopra evidenziati ma dei quali risulta difficile individuare i meccanismi di interazione e, soprattutto, il peso differente che ciascuno studente vi attribuisce. Per economia del discorso, in questa sede, opereremo una distinzione tra le teorie che privilegiano il patrimonio genetico e quelle che, per contro, attribuiscono maggiore importanza al contesto sociale, culturale, quindi pragmatico, dell’apprendimento e dell’uso linguistico. In particolare, il riferimento è, da un lato, all’insieme delle teorie cognitiviste interessate alle capacità specifiche, o generali, innate nel cervello umano e universali che rendono possibile lo sviluppo del linguaggio e, dall’altro, a tutta una serie di teorie anche molto distanti tra loro ma accomunate dalla rilevanza attribuita alla concretezza della relazione comunicativa.
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La riflessione intorno all’apprendimento di L2, ovvero di lingue differenti dal sistema materno, è iniziata quasi quarant’anni fa in particolare in corrispondenza con la formulazione del concetto di interlingua (cfr. Selinker 1972). Oggi l’interesse per questi studi è sempre maggiore ed è legato ai movimenti migratori che, oltre a essere aumentati in numero, sono cambiati anche in termini di stabilità. Le prime ricerche sull’insegnamento/apprendimento di L2 si fondavano sull’analisi ‘contrastiva’ delle lingue che presupponeva che gli errori compiuti dai soggetti apprendenti una lingua straniera fossero dovuti a differenze tra la lingua materna e quella straniera e dal trasferimento delle abitudini proprie della L1 nell’uso della L2. Il sistema linguistico materno e quello della lingua seconda venivano indagati e confrontati nelle loro strutture lessicali, morfologiche, sintattiche e fonologiche per mettere in luce i potenziali errori dello studente. L’analisi contrastiva delle diverse lingue doveva evidenziare sia le analogie nei comportamenti – e quindi i transfer positivi – che le diversità, ostacolo all’apprendimento linguistico (transfert negativo). Questa fase ‘contrastiva’, di chiara matrice comportamentista, insisteva sulle strutture di L2 differenti da L1 con l’intento pedagogico di aiutare a superare le abitudini connesse alla lingua materna. Lo studio dell’effettivo comportamento linguistico dei discenti mise in luce l’estrema debolezza del filone di studi incentrati sull’analisi contrastiva poiché, da verifiche sul campo, si osservarono errori in contesti di identità o di similarità tra i due sistemi linguistici e non dove erano attesi. A questo punto, risultò evidente che altri fattori, oltre alle differenze nelle strutture dei sistemi linguistici, giocavano un ruolo determinante. Il modello comportamentista ignorava, infatti, l’aspetto creativo del linguaggio ponendo l’attenzione quasi esclusivamente sulle influenze ambientali. Con l’allontanamento dalla prospettiva comportamentista, l’errore fu interpretato come indizio di un sistema linguistico in divenire in analogia con le forme deviate presenti nel linguaggio dei bambini; questi ultimi, infatti, formulano delle ipotesi iniziali sulla lingua da verificare attraverso la produzione di frasi. L’ipotesi comportamentista può dare conto solo di come i bambini apprendono alcuni tratti regolari del linguaggio ma non è in grado di spiegare l’acquisizione di abilità che consentono di produrre e capire le frasi di una lingua. In opposizione al modello comportamentista, Chomsky (2000a) nota che le persone sono programmate biologicamente per il linguaggio; la sua visione ‘internalista’ della lingua lo porta a concludere che il linguaggio umano è ‘un oggetto biologico’. Alla facoltà di linguaggio innata nella specie umana è legata una grammatica universale costituita da un insieme finito di principi astratti e di regole di trasformazione (universali linguistici) i quali, in virtù della ‘ricorsività’ possono generare tutte le frasi possibili di una lingua. Per Chomsky (1965) la nozione di competenza linguistica svolge una funzione centrale nella teoria generativo-trasformazionale che si propone di elaborare un modello formalizzato per il quale, da un insieme limitato di elementi, si possono originare infinite strutture linguistiche dotate di senso; il medesimo significato può essere,
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inoltre, espresso attraverso forme linguistiche differenti legate tra loro da regole formalizzabili di trasformazione (cfr. par. 5). La conoscenza della lingua consente a un parlante/ascoltatore ideale di produrre strutture linguistiche capaci di esprimere determinati significati per mezzo di un sistema di regole combinatorie che rimanda a capacità di tipo logico-cognitivo e non linguistico o prelinguistico (competence). In questo senso, la teoria linguistica si interessa di un parlante/ascoltatore ideale in grado di utilizzare la lingua in situazioni concrete – all’interno di una comunità linguistica – senza subire condizionamenti o distrazioni nella sua esecuzione linguistica (performance). Su queste basi, Corder (1981) opera la distinzione tra gli errori (errors) legati alla competence – utili all’insegnante per risalire alla grammatica soggiacente e mettere in luce le modalità di acquisizione – e gli sbagli (mistakes) legati alla performance. «[...] con l’affermarsi della teoria di Chomsky, l’errore sistemico (error), distinto dallo sbaglio occasionale (mistake), non sarà più ritenuto un effetto nefasto dell’interferenza, ma verrà visto sotto un’altra luce, cioè come la manifestazione di una grammatica personale della seconda lingua che il discente si va via via costruendo, una ‘competenza di transizione” alla quale Selinker (1972) dà il nome dell’interlingua (interlanguage)» (Mazzotta 2001: 75). Dopo la confutazione chomskiana della tesi comportamentista di Skinner, si era da tempo evidenziata la natura creativa e regolare dell’apprendimento della lingua materna e il bambino veniva considerato un creatore di regole, un generatore di ipotesi sulla lingua poi messe alla prova. Tale caratteristica venne riconosciuta in seguito pure all’apprendimento di L2, anch’esso sfociante in una competenza linguistica interiorizzata che Corder (1981) definì ‘competenza (o varietà) transitoria, o grammatica dell’interlingua’ (Chini 2004: 46-47). Il concetto di interlingua (Selinker 1972) si fonda sull’impostazione chomskiana in base alla quale il soggetto apprendente non si limita ad imitare i modelli ma inferisce le regole della lingua per mezzo di complessi processi cognitivi. Secondo gli studi di analisi degli errori, l’apprendimento di una lingua segue sistemi strutturati; lo studente mette in moto dei processi mentali che originano un sistema linguistico intermedio tra L1 e L2. Questo sistema intermedio è, appunto, l’interlingua, ovvero un sistema linguistico provvisorio, in continua evoluzione, che l’apprendente elabora per mezzo di ipotesi da verificare sul funzionamento della seconda lingua e nel quale sono riscontrabili anche elementi della prima lingua. Si tratta, in altre parole, di un sistema linguistico in continuo divenire che procede, nelle varie fasi dell’apprendimento, allontanandosi sempre più dalle regole della lingua materna per avvicinarsi a quelle della lingua obiettivo/target. Intorno alla fine degli anni Sessanta, s’impone in glottodidattica un orientamento sociolinguistico di natura funzionale e situazionale incentrato sulla competenza comunicativa. In questo nuovo orientamento, l’attenzione si sposta dalla correttezza grammaticale della frase ai bisogni dello studente e alla sua capacità di produrre enunciati appro-
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priati al contesto socioculturale; la correttezza formale risulta, così, quasi esclusivamente funzionale alla pragmatica. La competenza comunicativa di Hymes (1971) si contrappone a quella linguistica di Chomsky, incentrata solo sulla conoscenza delle forme linguistiche, proponendo la conoscenza dell’uso più appropriato di quelle stesse forme linguistiche (cfr. par. 3). In quest’ottica Hymes (1971) evidenzia che il bambino normale acquisisce una conoscenza delle proposizioni non solo come grammaticali ma anche come appropriate e diventa così capace di eseguire un repertorio di atti linguistici, di partecipare a eventi linguistici e di valutare le esecuzioni di altri; la competenza linguistica viene così affiancata da regole che presiedono la selezione di cosa è opportuno dire in un determinato contesto d’uso. A partire dalla fine degli anni Sessanta, molti linguisti hanno avvertito la necessità di indagare il contesto linguistico entro il quale certi fenomeni, come la flessione verbale e nominale o l’ordine delle parole, possono essere analizzati; questi nuovi orientamenti hanno però continuato a sottovalutare il contesto socioculturale e situazionale (cfr. Malinowsky 1923=1966) e l’evento comunicativo al di là degli enunciati in esso contenuti. Lo studio della comunicazione in termini di competenza dovrebbe, infatti, marcare l’attenzione sulla dimensione sociale nella quale significati e regole si organizzano in risposta a relazioni, contesti e ruoli sociali. 6. Riflessioni conclusive Il rapporto tra cultura e lingua è di solare evidenza; del resto, ogni forma di cultura si trasmette per mezzo della lingua, e la lingua stessa è lo strumento principe di ogni riflessione filosofica. Nel corso dei secoli, sono stati soprattutto i filosofi del linguaggio a interessarsi dell’incidenza che l’organizzazione del sistema linguistico ha sulla formazione del pensiero e sulla percezione del mondo ma a partire dal Novecento la riflessione ha coinvolto numerose altre scienze. In particolare, ci si chiede se la realtà che ci circonda sia necessariamente resa trasmissibile per mezzo delle parole o se sia proprio una data organizzazione linguistica a determinare una certa visione del mondo. Anche per la moderna glottodidattica, l’insegnamento linguistico non può essere svincolato da quello della cultura dal momento che la lingua ne è l’espressione e il veicolo. Le posizioni innatiste (dalle idee universali di Aristotele fino a Chomsky) insistono sull’esistenza di una realtà universale che preesiste al linguaggio ed è quindi completamente disgiunta da questo; in altri termini, per Chomsky le parole consentirebbero soltanto di dare un nome, di etichettare, oggetti e idee già presenti nella nostra mente. Di tutt’altro avviso l’ipotesi relativista che, nella sua posizione più forte (quella del determinismo linguistico), arriva ad affermare che sono le strutture linguistiche a rendere disponibili alle persone le corrispondenti
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visioni del mondo. Per Whorf (1940=1970), in sintesi, ogni popolo ha una conoscenza del mondo dipendente dalla lingua che parla e ogni sistema linguistico ha una diversa visione del mondo. La possibilità di interiorizzare, insieme ai significanti, nuovi significati e di individuare i referenti che la propria cultura riconosce come significativi porta Cardona (1976: 7-8) ad affermare che «nell’apprendere la lingua (o le lingue) della loro comunità essi [i bambini] acquisiscono gradualmente i criteri organizzativi, le regole del comportamento, le norme dell’agire e del pensare, i principi ideologici che governano la loro collettività. Apprendere i nomi di parentela e i termini di rispetto per gli anziani porta a riconoscere che non tutti i membri della comunità sono legati dai medesimi rapporti, ma da rapporti differenziati, organizzati in un sistema. Apprendere concetti come bene, buono, male, cattivo, significa assumere una gerarchia di valori e di comportamenti sociali a questi connessi che varranno altresì come norma di condotta per il comportamento futuro. Insomma, l’apprendimento della lingua veicola la cultura». Le distinzioni lessicali si riscontrano nei settori maggiormente legati alla cultura; molti studi ed esperimenti hanno avuto come oggetto di analisi i colori, le relazioni di parentela, i tabù linguistici… «L’interdipendenza tra lingua e cultura non deve essere, tuttavia, intesa come corrispondenza totale e biunivoca, per cui ogni aspetto della cultura ha un suo corrispettivo nella lingua e viceversa, o in forza del quale ad ogni cambiamento della cultura si produce un corrispondente cambiamento nella lingua. Se così fosse, dovremmo riscontrare anche nella lingua quei profondi e rapidi cambiamenti che riscontriamo nella cultura quando essa si modifica o assorbe elementi di altre culture. Ma ciò non accade. La relazione lingua-cultura va interpretata come covarianza lingua-cultura dovuta ad influenze reciproche da spiegare, eventualmente, di volta in volta» (Ancillotti 1988: 213). Ognuno di noi ha sperimentato la difficoltà di tradurre in parole un pensiero che avvertivamo chiaro nella nostra mente. La difficoltà di lessicalizzare un pensiero dimostra soltanto – ed eventualmente – il limite del linguaggio rispetto al pensiero. Queste considerazioni indirizzano Pinker (1997) a concludere che esiste un insieme di rappresentazioni interne preesistenti al linguaggio (mentalese) che portano le persone a pensare in un linguaggio del pensiero. «Conoscere una lingua significa allora conoscere come tradurre il mentalese in sequenze di parole e viceversa. Le persone senza linguaggio possono comunque possedere il mentalese, e i bambini e molti animali non umani ne hanno presumibilmente versioni semplificate. Certamente se i bambini non possedessero un mentalese in cui tradurre da e nella lingua madre non è chiaro come potrebbe aver luogo l’apprendimento della lingua in questione, o addirittura che cosa significhi apprenderla» (Pinker 1997, 73). L’idea che una lingua coincida con un modo di mettersi in rapporto con il mondo comporta la possibilità che le lingue siano in fondo identiche (tesi sostenuta da Chomsky) o che, al contrario, le lingue siano
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talmente diverse da imprigionare i parlanti al loro interno e impedire scambi culturali o traduzioni da una lingua all’altra (cfr. Whorf 1940=1970). Nel contesto italiano la presenza di alunni stranieri costituisce ormai un dato di tipo strutturale; classi multiculturali e plurilingue rappresentano una realtà che propone nuove sfide educative. Purtroppo, molte volte, le riflessioni interculturali cedono il passo al contenimento dell’emergenza e alla ricerca di soluzioni estemporanee. Una delle emergenze alle quali si è cercato spesso di trovare una soluzione riguarda l’insuccesso o il ritardo scolastico di buona parte degli studenti stranieri. Questi ritardi e fallimenti sono, infatti, motivo di preoccupazione dei docenti e delle famiglie degli studenti italiani che addebitano alla presenza straniera in classe un rallentamento nei percorsi di studio e la mancata attenzione alla valorizzazione delle eccellenze. Inoltre, la debole sinergia tra docenti, famiglie degli studenti ed enti e associazioni territoriali ha prodotto numerose difficoltà nel porre in atto iniziative strutturate per il recupero di questi deficit. La tutela delle diverse culture minoritarie implica, d’altra parte, decisioni istituzionali e politiche che oltrepassano i poteri delle scuole nelle quali, il più delle volte, le iniziative indirizzate all’integrazione e all’educazione alla convivenza interculturale sono demandate alla sensibilità e all’iniziativa dei singoli. L’immigrazione straniera è stata letta per più di trent’anni quasi esclusivamente sotto la lente delle implicazioni sociali che portava con sé; anche oggi, nel panorama della politica e dei mass media, il fenomeno dell’immigrazione rappresenta uno degli argomenti più praticati in un’ottica di scontro politicoideologico. Il sistema scolastico, in corrispondenza di differenti attori al governo, ha registrato diverse strategie e differenti percorsi didattici: la lingua italiana ha rivestito così, nel tempo, il ruolo di filtro per l’ingresso e per l’assimilazione oppure è stata lo strumento per l’integrazione. Al di là dei diversi atteggiamenti istituzionali e dettati normativi, la scuola italiana vive oggi come realtà le classi plurilingue; queste rappresentano, al contempo, un problema e un’opportunità nella prospettiva di una crescita culturale, economica e civile. L’attenzione rivolta alla prospettiva interculturale sembra talvolta messa in discussione da proposte di legge come, ad esempio, quella delle ‘classi ponte’ e da indicazioni ministeriali sul tetto per la presenza di stranieri nelle classi (30%). Anche alla luce di queste riflessioni, la scuola rappresenta comunque il luogo elettivo entro il quale si manifesta il contatto tra identità, culture e lingue. Un elemento non trascurabile è dato dagli stranieri arrivati in Italia da piccoli e da quelli nati nel nostro paese (37%) e per i quali l’italiano non è lingua madre ma non è neppure lingua seconda (o straniera) in quanto non vi è sovrapposizione acquisizionale successiva allo sviluppo primario di competenza linguistica. «L’italiano diventa allora lingua di contatto, a significare la forte valenza di strumento di creazione di identità, fonte di nuova e originale espressività, deviante dalla normativa rigidità delle lingue che si toccano in un rapporto di reciproca impermeabilità. L’italiano è anche lingua identitaria [...ovvero] forma
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costitutiva nella quale determinare dialetticamente la propria identità» (Vedovelli 2010: 232). Ne discende l’idea di cultura legata alla lingua, o meglio di una lingua che dà nuova linfa alla cultura. La circolare ministeriale n. 2 datata 8 gennaio 2010 fornisce indicazioni e raccomandazioni riguardo all’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana. Si legge: […] In effetti l’elevata concentrazione nelle scuole e nelle classi di alunni con culture, condizioni, vissuti familiari e scolastici, situazioni di scolarizzazione e di apprendimento fortemente differenziati, impone il superamento di modelli e tecniche educative e formative tradizionali e l’adozione di metodologie, strumenti e contributi professionali adeguati alle nuove e diverse esigenze. Tale stato di cose, nonostante ogni costruttivo e lodevole impegno degli operatori scolastici e, in particolare, del personale docente, costituisce una delle più rilevanti cause di criticità da cui conseguono insuccessi scolastici, abbandoni, ritardi nei percorsi di studio. […] Al riguardo si elencano qui di seguito alcuni punti fermi, che dovranno costituire da quadro di riferimento alle diverse iniziative e operazioni da porre in campo per garantire una partecipazione alla vita scolastica degli alunni stranieri utile e fruttuosa. [...] 1. il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non potrà superare di norma il 30% del totale degli iscritti, quale esito di una equilibrata distribuzione degli allievi con cittadinanza non italiana tra istituti che insistono sullo stesso territorio; 2. il limite del 30% entra in vigore dall’anno scolastico 2010-2011 in modo graduale: viene infatti introdotto a partire dal primo anno della scuola dell’infanzia e dalle classi prime sia della scuola primaria, sia della scuola secondaria di I e di II grado; 3. il limite del 30% può essere innalzato – con determinazione del Direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale – a fronte della presenza di alunni stranieri (come può frequentemente accadere nel caso di quelli nati in Italia) già in possesso delle adeguate competenze linguistiche; 4. il limite del 30% può di contro venire ridotto, sempre con determinazione del Direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale, a fronte della presenza di alunni stranieri per i quali risulti all’atto dell’iscrizione una padronanza della lingua italiana ancora inadeguata a una compiuta partecipazione all’attività didattica e comunque a fronte di particolari e documentate complessità. […] Per assicurare agli studenti di nazionalità non italiana, soprattutto se di recente immigrazione e di ingresso nella scuola in corso d’anno, la possibilità di seguire un efficace processo di insegnamentoapprendimento – e quindi una loro effettiva integrazione – le scuole attivano dal prossimo anno 2010/2011 iniziative di alfabetizzazione linguistica anche utilizzando le risorse che saranno messe a disposizione dalla legge 440/97 e con opportune scelte di priorità nella finalizzazione delle disponibilità finanziarie relative alle aree a forte processo migratorio. [...] Si ricorda altresì come il DPR 20 marzo 2009, n. 8918 preveda che le due ore settimanali destinate all’insegnamento della seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado possano – a determinate condizioni – essere ‘utilizzate anche per potenziare
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l’insegnamento della lingua italiana per gli alunni stranieri non in possesso delle necessarie conoscenze e competenze nella medesima lingua italiana’. [...] Una buona padronanza della lingua va considerata, peraltro, come una via privilegiata di accesso alla cultura italiana, al suo patrimonio letterario ed artistico e come condizione per il dialogo e la cooperazione sociale. […]
Dalla lettura del documento ministeriale si evince una chiara tensione verso la ricerca di un’omogeneità culturale e il tentativo di ridurre al minimo il disturbo derivante dall’esterno. Si tratta di una prospettiva che tiene in poca considerazione l’eterogeneità del tessuto sociale e comunicativo e, soprattutto, sottovaluta l’enorme potenziale del patrimonio plurilingue che ci arriva appunto dagli studenti stranieri. Le istituzioni scolastiche hanno il compito di formare – o almeno contribuire a formare – gli uomini e i cittadini di domani e nel far questo devono tenere conto del fatto che gli uomini e i cittadini sono e saranno sempre in misura maggiore inscritti in un tessuto sociale plurilingue e multiculturale. L’educazione al plurilinguismo e all’intercultura rappresenta, pertanto, il bagaglio culturale indispensabile all’uomo del XXI secolo. Per Moran (2001) la lingua è una ‘finestra sulla cultura’ e informa nel senso di dare forma alla cultura, e viceversa. C’è ancora tanta strada da fare. Non è più possibile stare alla finestra. Bibliografia Ancillotti A. 1988, Elogio del variabile. Introduzione alla linguistica storica: l’indeuropeistica, Milano, Guerini. Anolli L. 2006, La mente multiculturale, Roma-Bari, Laterza. Anolli L. 2010, Prima lezione di psicologia della comunicazione, Roma-Bari, Laterza. Anolli L. 2011, La sfida della mente multiculturale, Milano, Raffaello Cortina ed. Balboni P. 1999, Parole comuni culture diverse, Venezia, Marsilio. Balboni P. 2012, Le sfide di Babele, Torino, Utet. Baldi B. – Savoia L.M. 2009, Lingua e comunicazione, Pisa, Pacini. Baumann G. 1996, Contesting culture. Discourses of identity in multi-ethnic London, Cambridge, Cambridge University Press. Benhabib S. 2005, La rivendicazione dell’identità culturale, Bologna, Il Mulino. Bergson H. 1907=2002, L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina. Bernstein B. 1971, Class, Codes and Control, I, London, Routledge & Kegan. Berruto G. 1987, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, NIS. Berruto G. 1995, Fondamenti di sociolinguistica, , Roma-Bari, Laterza. Birdwhistell R. 1970, Kinesics and Context, Philadelphia, Pennsylvania University Press. Bloomfield L. 1933, Language, New York, Henry Holt and Company. Borello E. 2003, “I linguaggi non verbali e la comunicazione”, in E. Borello, B. Baldi, Teoria della comunicazione e glottodidattica, Torino, Utet. Bourdieu P. 1980=2003, Il senso pratico, Roma, Armando.
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