Atti del Convegno
“Aspetti comunicativi e interculturali nell’insegnamento delle lingue. Cittadini europei dal nido all’università” Firenze, 14 marzo 2013
a cura di Enrico Borello, Maria Cecilia Luise, Benedetta Baldi
Edizioni dell’Orso
L’INTERCULTURA NELLA PROGETTAZIONE DEGLI EVENTI Marco Brusati Hope Italia
Premessa Il presente contributo intende evidenziare che l’attenzione ai processi interculturali non è una concessione paternalistica da parte di chi è chiamato a progettare eventi, ma una necessità derivante dalla struttura stessa della società contemporanea; con questa premessa, si definisce la cultura come orizzonte di senso condiviso all’interno di quattro tipologie comunitarie differenti: fisiche, virtuali, d’interesse e di consumo; si suggerisce infine che la definizione di intercultura possa e debba essere più ampia di quella, necessaria ma non sufficiente, che la riduce ad un mero incontro di usi e costumi di comunità umane provenienti da territori fisicamente non contigui. 1. La cultura e intercultura Possiamo definire la cultura come l’orizzonte cognitivo e valoriale entro il quale agisce una comunità, su un territorio fisico, virtuale, d’interesse o di consumo: senza poter dare in questa sede giudizi di valore, questa definizione permette di evidenziare lo stato di liquidità delle aggregazioni – e delle relazioni sottostanti – che caratterizza in maniera più che evidente la contemporaneità. Secondo Bauman, siamo in “una società” che si può dire “liquido-moderna”, dove “le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Il carattere liquido della vita e quello della società si alimentano e si rafforzano a vicenda. La vita liquida, come la società liquido-moderna, non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo”.1 L’immagine dell’“orizzonte”, usata nella mia semplice definizione, appartiene evocativamente alla semantica del paesaggio marino, liquido di per sé; l’orizzonte, inoltre, si sposta in maniera liquida, a seconda della posizione dell’osser-
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Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2007.
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vatore, più o meno vicina alla riva, oppure, nel momento in cui decide di prendere il largo, man mano che vi si dirige contro. La cultura, dunque, nella società liquida, non può che essere “cultura-liquida”. Facciamo ora un passo verso la definizione di intercultura, con una breve riflessione storico-sociologica2: dagli anni Cinquanta del secolo scorso, nel mondo occidentale è iniziata la rivoluzione mass-mediale che ha segnato per sempre la nostra società, facendola definire da più parti e sempre più spesso “società mass-mediale”, cui si aggiunge, quasi come un mantra, anche l’aggettivo “globalizzata”; questo secondo aspetto si specchia nel primo, nel senso che non può esistere una società globalizzata fuori da una società mass-mediale e, per certi aspetti, anche viceversa. Alla realizzazione della rivoluzione mass-mediale istitutiva di un nuovo modello di società, nel tempo hanno agito quattro strumenti o mezzi: radio, televisione, cellulare ed internet, i quali sono, per così dire, gli elementi della cosmogonia e della cosmologia della società, assimilabili ai quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) del filosofo greco Empedocle, attraverso la combinazione dei quali ha tentato di spiegare l’origine (cosmogonia) e il funzionamento (cosmologia) del suo mondo. Oggi, però, abbiamo strumenti, mezzi e non contenuti, idee, messaggi, notizie; non abbiamo qualcosa come l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco, ma abbiamo un “come”, un “modus” assurti ad elementi costitutivi ed identificativi della società; senza giungere a dire che questo fatto sia un’anomalia, possiamo tuttavia affermare che stiamo vivendo quantomeno una novità nello sviluppo delle comunità umane. Pertanto, ed è questo il punto saliente, oggi per “società” non possiamo più intendere solo quelle aggregazioni di persone fisicamente presenti l’una all’altra, che vivono esperienze comuni sullo stesso territorio fisico, ma anche (alcuni direbbero “soprattutto”), le comunità virtuali (web-communities), le comunità di interesse e le comunità di consumo, queste ultime soggetti piuttosto recenti e che hanno la loro ragion d’essere nella frequentazione di uno o più luoghi di consumo, oppure il consumo di particolari beni o servizi. 2. Intercultura e cultura Nel comune sentire, la parola intercultura si riferisce principalmente all’incontro, dal dialogico all’oppositivo in un’infinita gamma di situazioni, tra usi e costumi di persone provenienti da luoghi diversi della terra, un incontro generato dall’iper-fenomeno della mobilità umana, che sta facendo con-vivere, l’una ac2 In questo excursus mi riferisco alla mia relazione al convegno “Dalle emozioni alla fede” tenutosi a Torino, Villa Lascaris dal 4 al 6 aprile 2011 e organizzato dal COP.
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canto all’altra, comunità che hanno, per esempio, differenti modi di percepire il tempo e il clima, visioni antropologiche che in-segnano i rapporti uomo-donna, docente-discente, adulto-bambino, io-altro. Spesso si sente parlare di intercultura in ambito scolastico, soprattutto nelle grandi città, dove le classi delle primarie sembrano, per così dire, un’assemblea delle Nazioni Unite in miniatura, tante sono le provenienze geografiche dei bambini. Procedere, in tale ambito, a progetti di accoglienza e integrazione è certo importante e, direi, indispensabile per il buon esito dei processi di formazione dell’identità personale e di gruppo. Tuttavia chi è chiamato a progettare eventi deve ritenere questa concezione di intercultura necessaria, ma non sufficiente, proprio per la ridefinizione liquida dei rapporti tra culture che non appartengono più soltanto a societas fisiche, ma anche a comunità umane virtuali, di interesse e di consumo, all’interno delle quali c’è un vero e proprio “orizzonte di senso” che definisce e ridefinisce le ragioni dell’appartenenza e dell’esclusione; in siffatte comunità, così come ci ha mostrato ante-litteram Stanley Milgram “ogni situazione ha una sua ‘ideologia’, che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono e fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza”.3 In tale prospettiva si deve necessariamente allargare il concetto di intercultura alla inter-relazione “liquida” in senso baumaniano tra comunità umane che non sempre agiscono su un territorio fisico, ma anche in un ambito virtuale, di interesse o di consumo. Si pensi, ad esempio, alle communities legate ad alcuni blogger, oppure ai Twitter followers, che definiscono tautologicamente il senso dell’appartenenza alla comunità virtuali nel fatto stesso di farne parte: un’appartenenza che sarebbe priva di significato, per esempio, in una “scuola di pensiero”, dove lo stare insieme è espressione di idee condivise. Si pensi alle numerosissime comunità di interesse aggregate da un genere musicale, sia esso il rock, il blues, piuttosto che l’hip-hop o il latino-americano. Si pensi, infine, a come percentuali sempre maggiori di tempo libero passato nelle nuove agorà commerciali degli ipermercati stiano continuamente generando “comunità di consumo”, ovvero aggregazioni finora sconosciute alla storia umana e che non sono legate a ragioni di tipo geografico, etnico, ideologico o anche religioso4, ma al consumo emozionale di beni, servizi, prodotti; ricordiamo pure che una comunità di consumo è un insieme di persone non necessariamente omogeneo in termini di caratteristiche sociali, ma che si relaziona in base ad un unico modello, una passione comune o un impegno condiviso nei confronti di un pro-
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Citazione da http://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_Milgram, Esperimento Milgram, 1961. D. Pitteri, L’intensità e la distrazione, Milano, Franco Angeli, 2006.
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dotto, un marchio o un’attività di consumo5 o, sempre più spesso, la frequentazione di un luogo di consumo. La liquidità sociale, possiamo dire in conclusione, sta determinando la fine della cultura intesa come sistema stabile aggregante a favore di un “meticciato di culture e civiltà”6 che, dal mio punto di vista, consente la coesistenza o di comunità deboli eredi del pensiero, appunto, debole7 o dell’individualismo di stampo mercatista, oppure di comunità dai forti legami interni, ma con una buona dose di impermeabilità verso l’esterno. La sintesi, in senso hegeliano, delle due tipologie comunitarie, permanendo l’attuale società liquida e senza una riqualificazione e rigenerazione dei valori in essa condivisi, rischia di non vedere la luce. 3. L’intercultura nella progettazione degli eventi alla luce dell’esperienza Il tema dell’intercultura entra dunque negli eventi, non tanto come fenomeno di costume o come concessione di spazio a minoranze, ma con la forza della necessità legata all’ontologia stessa della società. Nell’esperienza dello scrivente, che negli anni ha progettato e diretto eventi in ambito ecclesiale, l’intercultura si è sempre affacciata nella sua declinazione di rappresentanza culturale, che non va confusa con l’equa ripartizione di tempi e spazi tra diversi fenotipi culturali; si è cercato invece di attuare un processo di ottimizzazione espressiva di tali fenotipi a sostegno di una comune visione antropologica, che un evento è chiamato a servire attraverso sintesi generatrici di novità. Nel limite della mia personale esperienza, l’intercultura non può dunque essere intesa come una “fiera della diversità”, ma come la diversa espressione dell’unità di una comunità umana partecipante all’evento; non dunque una serie lineare di epi-fenomeni identitari e quindi premessa di divisione, ma un processo generatore di com-unione; non una “riserva indiana” concessa per mantenere libero il “mio territorio” culturale, ma la volontà di com-prensione e inclusione, al servizio di una visione antropologica condivisa, che possiamo chiamare “cultura dell’evento”, sinteticamente e sincronicamente presente nella pluralità espressiva.
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M. Corciolani, Le nuove tendenze del marketing: le comunità di consumo postmoderne, in Dispense di economia, Pisa, Università di Pisa. 6 A. Scola, Una nuova laicità, Padova, Marsilio, 2007. 7 G. Vattimo, P.A. Rovatti (cur.), Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli, 2010.