ARISTOTELE E LA MEMORIA Di Franco Trabattoni
La settimana scorsa (lezione su Platone, ndr) ho cercato di dimostrare che in Platone c’è una dialettica tra l’ideale ed il reale che deve rimanere aperta, che deve restare virtuale, perché (mi rendo conto che i termini sono un po’ impropri) se l’ideale diventa reale allora vengono fuori i limiti sotto il profilo sia della dottrina della conoscenza, sia politico, che Platone a mio avviso non accettava. Questo scarto è collegato in Platone alla sua diffidenza verso la scrittura. Questa è una cosa abbastanza singolare perché pensate che Platone è uno dei primi, forse il primo autore greco di cui possediamo tutto quello che ha scritto, ed ha scritto parecchio. Tuttavia in certi suoi testi fondamentali egli manifesta una diffidenza nei confronti della scrittura. Egli diceva cose anche pesanti come: “chi è serio non scrive cose serie”, frase che, detta da uno che ha scritto parecchio, lascia perplessi; questo nella settima lettera. Nel Fedro poi dice che lo scritto non risponde, non può rispondere alle domande e che lui preferiva la comunicazione orale, cosa che aveva imparato da Socrate. Questo modo di pensare si riflette nel suo modo di scrivere. Platone non scrive mai trattati, non ci si mette dentro in prima persona, non c’è Platone che parla nei suoi dialoghi. Platone scrive dialoghi, il che rende anche difficile capire dov’è la filosofia di Platone visto che, in fondo, lui non c’è mai. Ecco un punto che caratterizza Platone: la diffidenza verso la scrittura. Tra l’altro è, forse, proprio la scrittura quella che segna l’inizio della filosofia occidentale; cioè con l’atto dello scrivere, con l’elaborazione di una teoria, si costruisce quello che Tucidide ha chiamato un possesso per sempre; tutti lo leggono, le generazioni future sanno cosa ha detto l’autore, l’autore in qualche maniera può essere inchiodato alla sua teoria. Platone sfugge questo schema appunto perché Platone non c’è, come dice spesso Vegetti nelle sue conversazioni: “Solo Platone non c’era nei dialoghi di Platone”. Nel Fedone, dove si racconta la morte di Socrate, si dice: Platone non c’era perché era ammalato; questo lascia un po’ perplessi, perché sembra strano che nel momento epocale, uno dei momenti epocali della filosofia di tutti i tempi, in un momento in cui tutti avrebbero voluto essere lì, beh, Platone non c’era, perché era malato; probabilmente per qualche riga di febbre Platone volle non essere presente. Comunque, a mio parere, sono forme di dissimulazione messe in atto per non elaborare una teoria, per non far apparire la sua filosofia come una dottrina, ma una provocazione. La cosa cambia completamente con Aristotele; e qui ci riallacciamo al discorso sulla memoria. Abbiamo un curioso documento sulla vita di Aristotele; tra le varie biografie di Aristotele tramandateci dagli antichi abbiamo la cosìddetta “vita marciana”, detta marciana perché si conserva in un manoscritto della biblioteca marciana di Venezia. Essa risale, a sua volta, probabilmente, ad una biografia araba di un certo Tolomeo el Garib, (ma el Garib non vuol dire niente, vuol dire l’ignoto). Questa biografia, di cui abbiamo varie versioni: greca, siriana, latina, araba ecc, ci racconta questa storia: Aristotele entra nella scuola di Platone all’età di 16 anni, nel 366 a.C. Questo sedicenne, dalla nativa Stagira, arriva ad Atene, come oggi si andrebbe a Berkeley o ad Oxford, ed entra nella scuola di Platone perché era la migliore. Giovanissimo, di buona famiglia; il padre, dotato di sostanze e medico alla corte del re Macedone, lo manda a studiare ad Atene. Entra nell’Accademia nell’anno 366 - quando Platone non c’è, perché quell’anno era a Siracusa da Dionigi il giovane - e comincia a lavorare tenendo da subito corsi di lezioni, probabilmente di retorica; pare che Platone lo abbia utilizzato come una sorta di carne da cannone per combattere il concorrente Isocrate; con Aristotele infatti poteva dimostrare l’alto livello di insegnamento della filosofia dell’Accademia nei confronti della scuola di Isocrate. Comunque la vita marciana racconta che il giovane Aristotele non frequentava, o spesso si assentava dalle lezioni dell’Accademia; bigiava, stava a casa a studiare, stava a casa a leggere invece di presentarsi all’Accademia e partecipare ai dibattiti orali che si svolgevano lì dentro. Dunque Aristotele, secondo questa biografia, che non si sa quanto sia attendibile e, comunque, come dicono i francesi, se non è vero è ben pensato, se ne stava a casa a leggere dei libri. Platone era abbastanza infastidito da questa abitudine di Aristotele e pare che gridasse ad alta voce: “oggi manca la mente!” o nous (l’intelletto); fosse ironico o non ironico non lo so, ma la cosa non
gli piaceva e, piuttosto che fare lezione senza Aristotele, diceva;” beh, andiamo a casa sua!” Prendeva baracca e burattini ed andava da Aristotele che stava a casa a leggere libri. Emerge chiaramente come questo modo di fare di Aristotele fosse proprio il contrario di quello di Platone. Platone preferiva l’oralità, la discussione, il confronto tra le persone, il dialogo. Aristotele disprezza il dialogo e dice:”cosa vengo a fare, a sentire le vostre chiacchiere? sto a casa a leggere libri.” In effetti è proprio con Aristotele che inizia questo uso, ormai chiaramente ben diffuso, per cui la filosofia la s’impara sui libri e non la s’impara parlando, chiacchierando o con il dialogo socratico uno ad uno, anima con anima come dice Socrate. Questa fiducia nella parola scritta, secondo me, da un lato è legata ad un aspetto che riguarda la memoria, dall’altro lato, inaugura una nuova stagione della filosofia, che poi è la stagione che ci riguarda tutti in qualche maniera. Non vi fatte ingannare dal fatto che io sto parlando, non sto facendo nessun dialogo, sto parlando solo io, il fatto che usi la voce non è che qualifichi questa lezione come non libresca, è libresca lo stesso, perché sto parlando solo io. Nell’Accademia non era così: si parlava, si interloquiva; anzi pare che nella scuola di Platone ci fosse anche libertà di opinioni, cioè dire platonico, dire accademico non voleva dire seguire pedissequamente le teorie di Platone; voleva dire stare lì dentro, voleva dire comunanza di vita, comunanza di ricerca o di interessi; però, se noi andiamo a vedere le opinioni dei personaggi che inizialmente stavano accanto a Platone, quasi subito, quasi tutti, lo criticano aspramente. Non solo Aristotele, ma anche il suo genero Speusippo a cui ha lasciato la scuola ed anche Senocrate, prendono subito le distanze; dunque c’era un ambiente di vivace discussione. Qui quello che contava in fondo è quello che io chiamo il sapere dell’anima, la convinzione interiore, il mettersi a confronto con le altre persone e assentire dialogando, dire sì sono convinto, no non sono convinto, dove, secondo me, per Platone risiede il nerbo della verità filosofica. Aristotele invece sta a casa a leggere; leggeva evidentemente testi già scritti; c’era già infatti una piccola tradizione rappresentata dai testi di Platone, o dai testi di altri autori come Democrito, un loro contemporaneo, che aveva scritto molto, o dei retori, o dei filosofi presocratici; il mercato librario già nello scorcio del V secolo ad Atene aveva una sua dignità; i libri si compravano nelle bancarelle. Dice Patone nel Fedone: “il libro di Anassagora si trova dappertutto, se te lo vuoi comprare, te lo compri”. Ecco che Platone contesta questo sapere libresco, questa convinzione di portarsi a casa il sapere solo per aver comprato un libro; prima il libro deve essere letto, ma neanche questo basta, secondo lo devi capire, se non l’hai capito è perfettamente inutile che te lo sei letto. A me capita tragicamente spesso di prendere in mano un libro e dire guarda che cosa interessante, poi riconosco un mio segno e mi accorgo che l’avevo già letto; evidentemente l’avevo letto ma è entrato di qua e uscito di là, perché se no qualcosa mi doveva restare. Vi assicuro che è un’esperienza molto frustrante perché, come dice Dante:” non c’è scienza senza ritener l’aver inteso” (senza ricordare quello che hai capito). E’ inutile farsi gli appunti, l’alibi delle fotocopie, inutile dire ah! me lo sono fotocopiato; io ho la casa piena di fotocopie che ovviamente non ho mai letto; l’intenzione è di portare a casa il sapere. Ora questo differente atteggiamento di Aristotele, la fiducia nei libri, è motivata non solo da circostanze contingenti ma proprio da un diverso atteggiamento filosofico che ha Aristotele nei confronti della verità, è per questo che vi ho dato i testi che avete lì davanti. Vi leggo il primo, rapidamente dal “De interpretazione”, un trattatelo che fa parte delle opere di logica, il cui inizio è un passo citatissimo: ”or dunque, dice, i toni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce; allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia suoni e lettere risultano segni anzitutto delle affezioni dell’anima che sono (questa è una frase chiave) le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per tutti. Questo testo è molto famoso perché viene considerato il manifesto della visione naturale della conoscenza, quella che tende a conoscere come rispecchiamento tra la realtà ed i mezzi di apprensione della realtà. Cioè conoscere cosa vuol dire? vuol dire semplicemente riflettere adeguatamente un oggetto con mezzi che abbiamo, che possono essere le affezioni dell’anima, i pensieri, le parole. Ora come vedete Aristotele parla innanzitutto dei suoni, dice i suoni della voce sono simboli delle affezioni dell’anima (poi dico cosa sono) e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Una
cosa importante è che alle spalle ci sono le cose. Le cose sono uguali per tutti. Le cose cosa fanno? producono in noi delle affezioni dell’anima, termine greco e ovviamente arcaico (se non lo volete modernizzare), la mente, cioè modificazioni della nostra mente, cioè io vedo, percepisco qualcosa e ne ho un’immagine, un’impressione; anche queste, dice, che sono uguali per tutti. Dice: le cose sono uguali per tutti, le affezioni dell’anima pure; i suoni possono essere diversi perché le lingue sono diverse, e la scrittura pure. Però il fatto che i suoni e scrittura e lettere siano diversi è solo contingente; cioè per gli inglesi una cosa vuol dire questo, in italiano può voler dire un’altra cosa, ma l’importante è che l’oggetto che ci sta dietro sia uguale, uguale per tutti. Questo è, a mio parere, un principio fondamentale per capire in che modo Aristotele concepiva la filosofia: cioè, c’è una realtà che tutti hanno visto, che è presente. Perché Aristotele non pensava come Platone che ci fosse una realtà nascosta da recuperare con la memoria - parlavo la volta scorsa di reminiscenza - non credeva che alle spalle delle nostre voci, parole, discorsi, pensieri ci fosse una lontananza originaria da una cosa che abbiamo perso e che dobbiamo recuperare; quello che c’è da vedere è lì davanti; il mondo è tutto qua, non c’è altro e quello che ci lega è uguale per tutti. Ora succede che, tra le cose uguali per tutti, anche le affezioni dell’anima sono uguali per tutti, cioè non c’è un difformità di opinioni originaria perché, se ci fosse, basta confrontare le cose e si può dirimere la questione: tu dici che è bianco, io dico che è nero; guarda la realtà è li da vedere; confuta la differenza delle opinioni, una cosa o è bianca o è nera. Dunque se l’unità della cosa è uguale per tutti, l’unità dell’affezione dell’anima è uguale per tutti, la scrittura è senza diaframma, posso tranquillamente scrivere della filosofia della verità della cosa perché l’oggetto è lì davanti a me, identico, uguale. Aristotele non è che dica che tutti poi questa cosa la vediamo, che tutti abbiamo colto il vero; può accadere che alcuni si siano sbagliati, però è un problema loro, tant’è vero che, alle volte, Aristotele, quando critica le opinioni di qualcuno, dice: quello ha un metodo sbagliato, tuttavia, costretto dalla verità della cosa, qualcosa di giusto finisce pur sempre per dire; perché, come dire, la cosa è vicina, la realtà è quella che abbiamo davanti tutti i giorni, non è una realtà che ha un’origine lontana, nascosta, o indecifrabile, o calata in un contesto mitico o metafisico come in Platone. A questo proposito io leggerei l’inizio del secondo libro della metafisica. La metafisica ha due libri: alfa maggiore e alfa minore o alfa minuscolo perché sono due introduzioni che sembrano alternative l’un l’altra. Gli editori antichi, del I secolo a.C., le hanno inserite tutte e due. Ora vi leggerò l’inizio del secondo libro: “Si può dire che lo studio della verità è facile sotto un certo profilo e difficile sotto l’altro – è molto bello questo testo, guardate che ha un suo fascino, anche se Aristotele è uno dei filosofi meno apprezzati e meno amati, io stesso non sono un entusiasta – lo prova il fatto che nessuno può condurlo a termine adeguatamente e, nello stesso tempo, nessuno è completamente estraneo ad esso, ma ciascuno ha da dire qualcosa circa la natura e anche se i filosofi singolarmente presi non hanno dato alcun contributo o hanno contribuito da soli in una sola piccola parte alla conoscenza di essa, tutti quanti messi insieme hanno conseguito risultati di una certa importanza; perché se noi intendiamo paragonare la verità a quella porta proverbiale che nessuno potrebbe sbagliare, essa può risultare facilmente raggiungibile”. Qui allude al proverbio che dice: “Chi potrebbe sbagliare una porta?” io ho sempre pensato che volesse dire: chi potrebbe mai, cercando di uscire dalla porta, andare a sbattere contro lo stipite ? Per quanto a me capiti che cerchi di infilare la porta e vada a sbattere lo stesso. In realtà il proverbio fa riferimento al tiro all’arco; infatti tirando con la freccia si possono mancare i bersagli piccoli, ma non un bersaglio grande come una porta ; una porta la prendono tutti. Cioè ci sono cose talmente facili che nessuno può sbagliare, è impossibile; chi potrebbe sbagliare una porta? Ma il fatto che noi, pur possedendone una visione d’insieme, non siamo in grado di conoscerla nelle sue parti, sta ad indicare con evidenza quanto quell’evidenza sia ardua. Se per certi versi è facile, chi potrebbe dire mai delle idiozie talmente grossolane? Qualunque cosa uno dica, bene o male, un’aspetto di vero c’è nel suo insieme, in generale; poi se andiamo nei particolari è più difficile. Come dire: ”tu hai la febbre perché hai la fronte calda.” Chi potrebbe sbagliare questa diagnosi? Però capire perché uno ha la febbre è più difficile; i particolari li sa il medico, questo è tecnico, questo è difficile. Però c’è l’aspetto generale delle cose che è come un porta. Capirlo è come azzeccare una porta; è difficile sbagliarsi su questo.
Proseguendo col secondo libro della la metafisica leggiamo: “ma quantunque la difficoltà si determini in due maniere, (vi spiego), forse nell’altro caso bisogna individuare la causa non già nella realtà oggettiva bensì in noi, come, infatti, gli occhi dei pipistrelli si comportano di fronte alla luce del giorno, così anche la parte intellettiva della nostra anima si comporta di fronte alle cose che, per natura, sono della massima evidenza. Dunque il fatto che Aristotele dica che le cose sono uguali per tutti, le affezioni sono uguali per tutti, non vuol dire che chiunque è in grado di conoscere tutto; non è così facile la filosofia; diciamo che è impossibile sbagliarsi del tutto. Però, detto questo, si può sbagliare lo stesso nei particolari, approfondendo; ma dov’è il problema? sta in noi non nelle cose. Questo è estremamente interessante e spiega la differenza fondamentale che c’è con Platone. Per Platone, come vi dicevo l’altra volta, c’è una difformità di opinioni che dipende dal fatto che noi non possiamo far altro che descrivere in maniera approssimativa, sulla base dei ricordi, una realtà che non conosciamo più; dunque la difformità delle opinioni è per certi versi, direi, strutturale. Noi siamo davanti a relazioni difformi di una realtà che al momento non è presente. Facevo l’esempio del fatto criminoso, siamo relazioni di un fatto che una volta è stato, ma che ora non vediamo; quindi, ripeto, il difetto non è solo in noi, è nella cosa, per Platone, cioè è la cosa che di per sè ha una distanza da noi, è lontana, si recupera solo in parte. Per Aristotele le cose sono tutte qui, dunque se c’è difetto di conoscenza, questo difetto dipende evidentemente da noi. Questo vuol dire che con Aristotele si inaugura una prospettiva che non risale più all’indietro, ma va avanti. Cioè, per Platone, se ci pensate un attimo, recuperare la conoscenza, conquistare la conoscenza è ricordare, dice nella dottrina della reminiscenza, è risalire all’indietro, ai ricordi, a quello che l’anima ha visto prima di nascere, perché quello che c’è da sapere è dietro. Per Aristotele invece è davanti, cioè dietro non ho niente, tutto quello che c’è è qui. Siccome il difetto è mio, se non conosco bene la realtà che ho qui davanti, quello che posso fare, che sono in grado di fare, è perfezionare i miei metodi di conoscenza, è acquistare progressivamente una conoscenza della realtà che non ha ostacoli strutturali, che non ha niente dietro, niente di diverso. Il patrimonio è tutto davanti a noi, non ho dimenticato niente. Nasce con Aristotele, prima ancora che con Bacone - anche se Aristotele non ne era consapevole, ma sino a un certo punto - l’idea ottimistica secondo la quale c’è una strada del conoscere piana, percorribile, aperta, un progressivo aumento del sapere. Avete visto in questo passo di metafisica che abbiamo letto, Aristotele dice: tutti insieme gli uomini, la conoscenza come esperienza collettiva, uno magari non riesce a dire niente, ma dopo di lui un altro dice di più; è centrata la famosa espressione di quel medioevale, di cui non ricordo mai il nome, che dice: noi siamo dei nani sulle spalle dei giganti; poi ribadisce: noi siamo più intelligenti di Platone ed Aristotele? no! loro sono dei giganti, noi siamo dei nani ma siamo sulle loro spalle e diamo di più perché possiamo sfruttare l’esperienza delle generazioni precedenti. Ed anche Aristotele fa questo: stava a casa a leggere, perché sfruttava l’esperienza dei filosofi precedenti. Il sapere è depositato nelle nostre esperienze. Non c’è un sapere che si colloca in un luogo in cui l’esperienza non può arrivare. E’ molto interessante anche il confronto che spesso viene fatto tra Aristotele come filosofo empirico, il filosofo dell’esperienza, e Platone invece come filosofo della trascendenza. Avete presente, nelle stanze vaticane, il citatissimo affresco di Raffaello che rappresenta la scuola di Atene, c’è sulla copertina di tutti i libri di filosofia; è la scuola di Atene ma in realtà sono rappresentati tutti i filosofi presocratici, davanti ci sono Platone ed Aristotele, Platone col dito per aria che indica uranio che ne so e Aristotele con la mano rivolta verso il basso per dire: stiamo sulle cose concrete, stiamo sull’esperienza. In realtà l’esperienza per Aristotele non è l’esperienza dei filosofi moderni, le sensate dimostrazioni di Galileo..., l’esperienza per Aristotele è soprattutto conoscere quello che hanno detto gli altri. Quando Aristotele parla di esperienza, quasi sempre, fa riferimento ad opinioni già riversate questa è la parola che usa “riversate” - negli scritti degli altri. E perché tanta fiducia di ricavarci qualcosa di buono? perché dice:” chi potrebbe sbagliare una porta?” tutti qualcosa di sensato avranno detto, se mai si tratta di correggere, è inutile ripartire da zero. Questo è estremamente interessante. Qualcuno ha messo in rilievo la differenza che c’è tra gli storici della filosofia e i filosofi (io sono uno storico, mai mi sentirete dire che faccio il filosofo).
La differenza che c’è tra gli storici della filosofia e i filosofi è quella che c’è tra quelli che giocano a calcio e quelli che guardano le partite, noi saremmo quelli che guardano le partite mentre i filosofi giocano a calcio. Si dice che la differenza tra i filosofi e gli analitici continentali sia questa: il filosofo storico continentale, come siamo noi, sta studiando sempre un autore, il filosofo analitico anglosassone studia un problema. La filosofia non è come la fisica che, risolto un problema, pensa ad un’altro problema; la filosofia agita sempre gli stessi problemi. Dunque si costruisce come progressione, come aumento di nani sulle spalle dei giganti. Uno non può partire da zero e mettersi a riflettere, come uno studente che oggi mi ha fatto un pò ridere perché mi ha detto: io come filosofo... Mi ricorderò sempre quando durante un esame di filosofia moderna mi fecero una domanda su un tema che consideravo il mio cavallo di battaglia per cui esordisco dicendo: “professore, secondo me... Lui fa: “alt! non mi interessa affatto quello che pensa lei, mi interessa quello che pensa Platone o Aristotele o chi altro”. E’ una sorte di umiltà che Aristotele riprende nel passo successivo dove dice: è chiaro che quello lì sembra un medico primitivo, Galeno ci fa ridere come medico, Ippocrate anche ci fa ridere, ma se non ci fossero stati quelli non avremmo adesso questi altri che hanno costruito sulla base di quello che hanno fatto loro. Dunque per Aristotele si inaugura questa storia infinita di progressivo sapere fiducioso, sereno. Aristotele è solare; non ha questi abissi metafisici per cui l’anima, non si sa dove abiti, no, Aristotele si accontenta di non fare nient’altro che spiegare l’esperienza e te la spiega senza utilizzare delle cause arcane, motivazioni sottili, abissi metafisici, no, spiega quello che vedi, il significato delle tue parole; inoltre, con infinita umiltà, si serve dell’esperienza di quelli che hanno lavorato prima di lui; infatti, all’inizio di alcune delle sue opere come: la Fisica, la Metafisica, il De generatione et corruptione e il De anima, fa una revisione delle opinioni degli altri, poi le critica, ma criticandole, quanto meno le discute, ed in parte, quelle che trova valide, le fa proprie. Vi faccio un esempio che è molto interessante: all’inizio della Metafisica Aristotele cerca di dare una definizione della filosofia: la filosofia, la filosofia prima, come lui la chiama, è la scienza delle cause e dei principi primi. Ora quante sono le cause? per me sono quattro dice Aristotele, la causa formale, la materiale, l’efficiente e la finale. Come faccio ad esserne sicuro? ah! dice, cominciamo a vedere cosa ne hanno detto gli altri, se qualcun altro ne ha trovata un’altra, oltre a queste, allora forse mi sbaglio, ma se anche gli altri prima di me non ne hanno trovato altre, probabilmente ho ragione. Cioè Aristotele era pienamente convinto che, se una cosa la dicono tutti, molto probabilmente è vera; cioè non c’è da cercare una risposta particolarmente travolgente. Adesso vi faccio un esempio, (non volevo parlare di questo ma, visto che ci siamo, riguarda anche il nostro tema, ne parlo) allora ci sono definizioni in Aristotele che hanno suscitato dibattiti, ne hanno parlato filosofi, storici, ricordo Heidegger, Bergson. Una di queste definizioni, per esempio, (la troviamo nella Fisica) è la definizione del tempo, (faccio rilevare che definire il tempo non è facile), allora: il tempo è la misura del movimento secondo il prima e il poi. Chissà cosa vuol dire, ma è una cosa di una semplicità travolgente; cioè il movimento uno come lo può misurare? in tanti modi; può dire: si è mosso alla velocità di 30 Km/h.; si è mosso da Milano a Roma; oppure da Milano a Roma ci ha impiegato 4 ore. Se misuri il movimento cercando di dire il prima ed il poi, se lo misuri cercando di dire dove sei adesso e dove sarai dopo, ecco hai definito il tempo. Ci ho messo 4 ore; 4 ore cos’è? è il tempo, è la misura del movimento, per esempio, di un viaggio tra Milano e Roma. E’ una cosa semplicissima, il tempo è nient’altro che un modo di misurare il movimento; vogliamo trovarci sotto degli abissi metafisici? probabilmente non ci sono. Posso misurare il movimento in vari modi, uno di questi è misurarlo secondo il tempo. Tutto questo ci fa capire che cosa Aristotele ha dato alla civiltà occidentale: ha dato questa fiducia nella filosofia intesa come gigantesca impresa collettiva; questo modo di intendere la filosofia vale anche per le scienze, perché poi in Aristotele, bene o male, di filosofia come la intendiamo oggi, non è che ce ne sia tantissima; perché egli ha scritto di biologia, di fisica, di astronomia, di logica, e la filosofia, se noi la intendiamo in senso stretto, è ciò che resta. Col passare degli anni cosa è successo alla filosofia? E’ successo che da una situazione in cui comprendeva tutto il sapere, si è passati ad un’altra in cui il suo oggetto di studio si è molto limitato; progressivamente le scienze se ne sono andate una dopo l’altra; tant’è vero che qualcuno ha detto, nel ‘900: dalla filosofia non è nato più niente, se la sono mangiata via le scienze; se è rimasto qualcosa attaccato alla filosofia è il compito di aiutare le scienze a precisare i fondamenti del loro sapere; allora nasce tutto un filone di
filosofie epistemologiche ecc. Io non sono d’accordo su questo modo di intendere la filosofia e garantisco che non conosco neanche uno scienziato che venga a chiedere ad un filosofo come fare, per contro, le sue ricerche. Il filosofo è li alla finestra e, visto che ormai le scienze si sono mangiate la filosofia, il filosofo o cambia mestiere oppure bussa alla porta degli scienziati: “per favore datemi qualcosa ..” Tanti filosofi nel 900 hanno detto: ma la scienza ha perso i fondamenti del suo operare... ma glieli spieghiamo noi! ma non c’ mai stato uno scienziato che abbia dato retta ad un filosofo. Per Aristotele la filosofia è ancora un insieme organico di tutto lo scibile; cioè lui scrive di tutto, tranne che di matematica, e fonda una enciclopedia del sapere che chiaramente si riempie con l’andare del tempo: alcuni problemi li risolve, altri no, ma di altri pone le basi, proseguiranno i suoi discepoli. Pensate che dopo Aristotele la sua scuola, il Liceo o Peripatos, come si diceva, ha fatto proprio questo, raccoglieva informazioni, raccoglieva dei testi, raccoglieva dei dati. Il museo di Alessandria e l’annessa biblioteca sono stati fondati da un discepolo di Aristotele; si è raccolto di tutto: informazioni, oggetti, libri, tutto quel che c’era, per costruire questo patrimonio del sapere. Un sapere, che come vedete, si oggettivizza in qualcosa di concreto, di stabile; non è, dunque, il sapere dell’anima, virtuale, a rischio, di cui parlava Platone C’è un testo anch’esso tratto dal secondo libro della metafisica, in cui Aristotele inserisce questa tesi: “occorre infine esercitare la scelta anche partendo dai discorsi scritti, dalle descrizioni riguardanti ogni genere di cose, si devono altresì notare le opinioni di individui, ad esempio l’affermazione di Empedocle ecc..” Si deve prendere nota di tutto, scrivere schede...; Aristotele, io dico sempre, è stato il primo manovratore di schede della storia della filosofia, infatti egli leggeva, scriveva il libro, lo metteva in archivio, poi avanti così, poi usava queste schede quando scriveva libri. L’esperienza era abbastanza lontana e tutto si fondava sul presupposto metafisico che abbiamo spiegato prima, cioè che nessuno può sbagliare la porta, dunque interrogo uno e faccio prima. Aristotele ha scritto parecchi trattati di biologia però è da credere che non le contasse lui le zampe degli insetti; non è che facesse qualche osservazione personale, ma si riferiva ai testi di gente che ne aveva scritto. Tutto questo ha una relazione con la memoria, a mio parere; cioè la filosofia, secondo Aristotele, si costituisce a partire da adesso, da che l’umanità ha incominciato ad usare la sua ragione, il suo logos. Aristotele è il primo che ha una coscienza storica della filosofia, è lui che ci dice che il primo filosofo è Talete. La storiellina che trovate su tutti i manuali di filosofia, secondo la quale il primo filosofo non beve acqua, non assume aria, non si cambia abito, è di Aristotele, si trova nel primo libro della metafisica. Talete si distingue dai mitologi perchè usa il ragionamento; ma d’ora in avanti c’è la filosofia che si costituisce sul patrimonio di quello che hanno detto gli altri, una sorta di gigantesca memoria collettiva, molto più ampia di quella umana, tanto è vero che mi servono i libri, mi serve la biblioteca di Alessandria. Aristotele è chiaramente il topo di biblioteca, non è il filosofo alla Socrate che va in mezzo alla gente. Adesso, prima di chiudere farò un’altra osservazione: per Aristotele la memoria non ha la struttura della reminiscenza, cioè la memoria è semplicemente quella che si costituisce adesso, cioè gli uomini nascono senza niente; non c’è conoscenza nè virtuale nè attuale prima di nascere, dunque, tutto quello che so, me lo costruisco. Sono indicativi di questo, quegli altri due testi che vi ho dato; sono testi tolti da opere diverse ma abbastanza sovrapponibili nella sostanza: ”Nella vita degli altri animali, - cioè negli animali non umani, come si dice oggi - sono presenti solo immagini e ricordi, mentre l’esperienza vi ha solo una limitatissima parte. Nella vita del genere umano, invece, sono presenti attività artistiche e razionali. Cioè Aristotele riconosceva anche agli animali una certa memoria, però con una differenza - negli uomini l’esperienza trae origine dalla memoria giacché la molteplicità dei ricordi di un medesimo oggetto offre la possibilità di compiere un’unica esperienza. Mi fermo qui, il resto ve lo spiego con parole mie, cosa dice Aristotele? Nasco, quando ho l’età della ragione guardo il mondo, vedo le cose come sono fatte, detta conoscenza delle cose attraverso i cinque sensi si imprime nella memoria e si replica. Si replica nel senso che, prima vedo un cavallo, poi ne vedo un’altro, quando ho visto cento volte un cavallo allora mi nasce nella testa il concetto universale del cavallo e da qui parte la scienza. Infatti sia per Aristotele che per Platone la
scienza ha a che fare con concetti universali e non con cose particolari; non c’è, dice Aristotele, scienza di Socrate, c’è scienza dell’uomo, del cavallo; non c’è scienza di Fido, ma c’è scienza del cane. Questi concetti si costituiscono piano piano attraverso reiterate esperienze. La ripetizione crea il concetto universale. Come dice anche il secondo testo: “il conseguente è necessario perché noi siamo in possesso di una qualche capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole delle suddette facoltà quanto l’acutezza; pare d’altronde che queste capacità appartengano effettivamente a tutti gli animali in effetti tutti gli animali hanno un’innata capacità discriminante - questo è chiaro, anche gli animali ce l’hanno... non è che il cane si mangia le cose che non siano commestibili - che viene chiamata sensazione; dunque la sensazione è insita negli animali, ma mentre in alcuni di essi si produce una persistenza dell’impressione sensibile, in altri ciò non avviene”. Cioè Aristotele dice: non è che gli animali siano senza memoria, hanno una memoria corta, cortissima, non sufficiente a produrre il concetto universale, e gli uomini invece si. Quegli animali in cui non si produce tale persistenza (di memoria), mancano o totalmente, o rispetto agli oggetti la cui percezione non lascia in essi alcuna traccia, di qualsiasi conoscenza al di fuori della sensazione. Conoscono solo la sensazione: caldo, freddo, bianco, nero, non di colore, o il colore bianco. Altri animali, invece, possono, dopo che la sensazione è cessata, conservare ancora qualcosa nell’anima, quando poi, questo è il punto chiave, si siano prodotte molte impressioni persistenti di questa natura, si presenta una certa differenziazione; di conseguenza in certi animali si sviluppa, sulla base della persistenza di siffatte impressioni, un nesso discorsivo, è il logos. In altri animali, invece, ciò non si produce. Dalla sensazione si sviluppa ciò che chiamiamo ricordo, dal ricordo, spesso rinnovato di un medesimo oggetto, l’esperienza poi dall’esperienza la scienza e tutto il resto. Che cosa vuol dire? Vuol dire che l’universale, per Aristotele, viene costituito sulla base dell’esperienza. Questo è il contrario di quello che diceva Platone. Qui si combattono due prospettive completamente diverse di intendere la realtà, quella di Platone sostiene che, se c’è esperienza è perché l’universale è predisposto, cioè posso vedere un cane e riconoscerlo come un cane perché devo aver avuto prima l’esperienza del concetto universale di cane. Cioè l’esistenza del concetto universale è condizione di possibilità del fatto che riconosco questo oggetto per quello che è. Prima, non so dove, non ho l’esperienza di questa roba, però mi trovo che funge nella testa questa struttura, non so dove andarla a cercare; tanto è vero che Platone dice: l’anima prima di nascere, ma è una concezione mitica perché di fatto uso questa struttura, ma non so dov’è. Aristotele dice invece il contrario: non c’è niente, tanto per incominciare. E’ piano piano, attraverso la sensazione, cioè dal basso che si produce l’universale. L’universale si costruisce progressivamente attraverso l’esperienza reiterata; un pò quello che, se avete presente, è il contrasto tra Hume e Kant nel secolo XVIII. Hume sosteneva che certi concetti, considerati a priori da Kant, si sviluppano sulla base dell’abitudine, dell’impressione, della reiterata impressione; invece Kant dice: no!, sono condizioni, sono possibilità dell’esperienza. Facciamo l’esempio della causalità, avete presente la famosa storia delle palle da biliardo? Secondo Hume, il fatto che una palla da biliardo muova l’altra non dipende dal concetto a priori di causa, ma dal fatto che noi, vedendo sempre questa cosa prodursi uguale, alla fine pensiamo che anche la prossima volta capiti così. E sorge il mito della causalità. Kant ragiona al contrario: c’è prima come condizione di possibilità, perché una singola esperienza possa apparirmi così, l’azione, la funzione, possiamo dire, del concetto universale. Platone la pensa uguale anche se evidentemente i concetti di Platone non sono solo trascendentali quindi addentro nel complesso, ma sono qualcosa di metafisico, sono qualcosa di più. Dunque, come vedete, già da Platone e Aristotele si inaugura una prospettiva completamente diversa, che ha influenza anche sul pensiero di oggi; perché i filosofi di oggi parlano molto sul tema della differenza, di ogni genere, in filosofia ecc. Cosa è questa differenza? c’è prima la differenza o c’è prima l’identico? c’è prima il molteplice o c’è prima l’unità? quale dei due viene prima ? prima l’universale o prima il particolare? Questi due pensatori hanno già messo in riga due sentieri su cui si muove la filosofia occidentale; ecco perché questa divisione tra storici e teoreti non sta tanto in piedi perché, se voi leggete un filosofo grandissimo, tra l’altro del nostro tempo, come Pilkensen, come Davidson, di estrazione analitica, che dicono delle cose come se fossero nuove, non sono nuove, sono vecchi problemi che loro semplicemente non sanno, semplicemente non hanno letto
quella gente lì, semplicemente non li hanno letti quindi questi non hanno letto niente; allora ripropone: il mondo è tutto ciò che accade, si, ma l’hanno detto in tanti, non è una cosa così. Devi ripercorre questa storia; ecco perché, nonostante io mi occupi di anticaglie come Platone ed Aristotele, ho una piccola produzione di cognizioni fuori dal mondo come qualcuno potrebbe anche pensare. Chiudo con un’osservazione che ci riporta sul piano politico: questo atteggiamento di Aristotele ha influenze notevolissime anche sul piano etico e politico. Cioè Aristotele, non vedendo questo scarto originario tra ideale e reale, quando si tratta di governare la vita etica e politica, non va alla caccia di un bene di carattere metafisico, ma, così come fa in tutti gli altri casi, prende tutto sommato per buone, magari mettendovi ordine, le varie opinioni che gli uomini hanno già sul bene. Chi potrebbe sbagliare una porta? ancora. Non sapete cos’è il bene? cosa deve interrogare? deve interrogare le opinioni degli uomini, quelle che Aristotele chiamava gli endoxa termine tecnico che vuol dire coloro più autorevoli. Anche Platone interroga le opinioni; la differenza è che per Platone s’interrogano le opinioni perché nelle anime è depositata la traccia della verità metafisica; Aristotele li interroga perché tutto quello che c’è è qui; dunque, se interroga le opinioni sul bene, è sicuro di avere un ventaglio completo, si tratta solo di scegliere tra quello che già c’è, non di proporre qualcosa di nuovo. Anche per quanto riguarda la politica è interessante rilevare la differenza tra Aristotele e Platone. Per Aristotele non è come dice Platone: rifaccio il mondo da zero sulla base del bene, teorizzo dal nulla come fanno i pensatori utopisti, alla Rousseau, alla Marx (Marx non è un utopista non vorrei dire un’eresia), come fanno i filosofi che pensano di rifare dal nulla, in qualche maniera, no, si prende quello che c’è. E’ veramente disarmante quello che Aristotele dice nella sua etica quando si tratta di capire come deve comportarsi l’uomo buono, deve comportarsi, dice, come si deve, cosa vuol dire come si deve? deve pigliare nella sua società quelli che sono considerati uomini buoni e imitarli, fare quello che fanno loro; non c’è un’indagine da zero sui valori, non si chiede cosa siano i valori in assoluto, perché tutto quello che c’è, come dico, è qui; i valori sono incarnati in quello che gli uomini fanno; non è che sono superiori alla prassi, ma sono già dentro lì con il manifestarsi della prassi; si tratta di scegliere qual’è la prassi che ci sembra più razionale, ma non c’è da scoprire niente si nuovo. Tant’è vero - e questa è la cosa interessante e clamorosa con cui vorrei concludere oggi – tant’è vero che Aristotele, nonostante sia un pensatore legato all’esperienza e non metafisico, è un pensatore conservatore in etica ed in politica, perché, per lui, è la tradizione che conta; che cos’è il bene? E’ quello che tutti hanno sempre fatto; se tuo nonno diceva che devi fare così, probabilmente aveva ragione, sempre per lo stesso principio che la verità di qui la gente la coglie. Platone, viceversa, pensatore metafisico, trascendentista tutt’altro che empirico, può apparire come pensatore rivoluzionario perché se c’è uno scarto tra il modello ideale ed il reale, se il reale non corrisponde all’ideale, posso promuovere qualcosa di completamente nuovo. Se quello che devo fare è guardare questo scarto, se c’è lo spazio per guardare questo scarto, tra ciò che c’è e ciò che ci dovrebbe essere, allora se lo scarto è enorme probabilmente dovremmo rifare tutto; se lo scarto non c’è, se i valori sono solo quelli che sono stati consolidati, approvati come valori, si tratta solo di fare qualche piccola scelta, allora da qualche sensato ritocco ad una tradizione conservativa difficilmente si riesce. Chiudo con un esempio. Aristotele, in un passo famoso dell’etica nicomachea dice: nessuno si interroga, cerca di capire se la salute sia un bene o no; tutti lo sanno, chi potrebbe dire che la salute è un male? Quando c’è la salute..! si dice. In un passo del Lachete dove si parla del medico, Platone dice: il medico saprà il modo in cui condurre un malato alla salute; ma il medico, dice Socrate in quel dialogo, non sa quando e per chi la salute sia un bene o un male e l’altro dice: “hai ragione”. Come non sai quando la salute è un bene o un male? Potremmo trovare degli esempi: l’altro giorno sentivo una trasmissione televisiva, Blu notte, in cui Lucarelli raccontava di Vallanzasca, come fosse evaso dal carcere facendosi venire l’epatite con iniezioni della propria urina; dunque lui ha rinunciato alla salute per scappare dal carcere; pensate a quelli che nella seconda guerra mondiale si tagliavano un piede o si facevano venire l’ernia, per non andare al fronte, non sempre la salute è un bene, cioè non ci sono queste ovvietà. Questa è la differenza, cioè in Platone proprio per questo scarto che ci può essere sempre tra reale e ideale, nulla di quello che è reale di per sè può essere valido; mi sembra possibile lo scarto, si può discutere tutto, si può rifare da zero.
Invece Aristotele, bene o male - non è che non sia apprezzabile perchè in fondo anche questo può essere apprezzabile - insegna che tutto quello che l’uomo ritiene per bene qualcheduno l’ha già provato, si tratta di selezionare tra queste cose; ovviamente quello che ne viene fuori, come è l’opinione del mio caro amico Vegetti, ne viene fuori che Aristotele, da questo punto di vista, per quanto più legato all’esperienza, diventa il filosofo che ispira una tradizione ermeneutica contemporanea che, in politica, è conservativa, che si fida sulla tradizione, conta la tradizione, contano le opinioni autorevoli, conta quello che si è già detto, non tanto quello che si può fare di nuovo, da zero. Ovviamente nella filosofia platonica si vaga un pò nel vuoto rispetto a quella di Aristotele però, per certi versi, è più provocatoria, più interessante sotto il profilo dell’innovazione anche se i due filosofi evidentemente incarnano, sotto questo profilo, due anime a mio avviso complementari e persistenti del modo d’intendere sia la filosofia sia la politica.