Aree tematiche di ricerca
•
IL RUOLO DELL’APPIA NELLA DIFFUSIONE DEGLI ALIMENTI E DELLE ABITUDINI ALIMENTARI
•
GLI ALIMENTI BASE DELLA DIETA, LA FILIERA PRODUTTIVA E LA CONSERVAZIONE DEI PRODOTTI
•
L’ARS CULINARIA E LA DIETA DEGLI ANTICHI ROMANI
•
COMMERCIO E MESTIERI SULLA VIA APPIA
•
ARCHEOLOGIA E ALIMENTAZIONE
•
LE PIANTE: IL LORO NOME E LA LORO ORIGINE TRA CUCINA E MEDICINA
•
I PRODOTTI TIPICI LOCALI
1
Temi di approfondimento e di ricerca Coltivazione, allevamento, raccolta, conservazione e distribuzione di alcuni prodotti alla base dell’alimentazione del romano medio L’olio, il vino, il pane e gli altri alimenti ottenuti dai cereali, il latte ed i latticini, i prodotti orticoli conservati: sono questi i prodotti alla base dell’alimentazione delle popolazioni nel bacino del Mediterraneo. Le tecniche di coltivazione e di allevamento; i metodi per ottenere la materia prima; la lavorazione del prodotto; le tecniche di conservazione; il trasporto; il consumo finale, attività dalle origini antiche, che si sono evolute con la storia dell’uomo e ne hanno caratterizzato per millenni la cultura e le abitudini di vita, scandendone i ritmi. La ricerca vuole ripercorrere questa filiera nell’epoca romana e le sue eventuali variazioni dalle regioni meridionali della penisola, sino Roma, con un occhio a quanto è pervenuto sino ai nostri giorni di queste attività tradizionali. La denominazione scientifica delle piante alimentari e medicinali: l’origine ed il significato L’utilizzo da parte dell’uomo delle piante, a scopi alimentari e medicinali, è strettamente connesso alla sua storia fin dalle origini. Con l’evoluzione della cultura e l’aumento di complessità dell’organizzazione sociale e delle abitudini di vita, il miglioramento dell’alimentazione ed un certo progresso nella medicina, anche l’uso delle piante si è parallelamente fatto più complesso. Accanto all’uso prettamente legato alla nutrizione, le piante vengono allora utilizzate sempre più anche per insaporire, conservare, colorare, etc. Il nome delle piante, di allora e di oggi, spesso rispecchia l’uso che se ne faceva. Un viaggio attraverso la denominazione delle piante rivela interessanti informazioni sull’origine e l’uso che se ne faceva. Tracce che spesso la denominazione volgare, come anche quella scientifica linneana, hanno conservato. La tradizione centro-meridionale a tale riguardo è durata a lungo e fino ai nostri giorni. ——————————— La ricerca e la preparazione degli alimenti (ars culinaria) da parte del romano medio Nell’antica Roma, la preparazione degli alimenti rivela un’attenzione tutta particolare, in ogni fascia sociale. Roma eredita dalla Grecia la valenza culturale propria del pasto e la connota grazie anche agli apporti provenienti dalle Province dell’Impero. In particolare dal bacino del mediterraneo, attraverso i grandi porti del Sud, culture e prodotti alimentari arrivano a Roma attraverso la via Appia. La diversità tra gli strati della società romana diventa a questo punto grande: la materia prima, la preparazione, la presentazione ed il consumo degli alimenti segnano profondamente la diversità tra i ceti più bassi e quelli ricchi ed aristocratici. Si possono però individuare degli elementi comuni. Da questo contesto socio-economico è arrivata la maggior parte dell’eredità che abbiamo ricevuto da quella cultura e che in parte è entrata anche delle nostre abitudini alimentari. Anche la ricerca e l’approvvigionamento degli alimenti raggiungono nella civiltà romana dimensioni “moderne”. Lo Stato si occupava di provvedere ad una parte di queste attività, su grande scala, per l’esigenza di fornire materia prima alla Capitale e ai grandi centri dell’Impero. Dei cibi venivano considerate le virtù dietetiche e medicinali. La cucina romana mescolava insieme molti alimenti, anche molto diversi tra loro (carni diverse, selvaggina, pesce, frutta potevano entrare tutti in uno stesso piatto) e dava molta importanza ai condimenti, che con la lunga preparazione finivano per camuffare il vero sapore degli alimenti base: aceto, miele, fecola, strutto, spezie, olio, 2
uovo, garum erano gli elementi base di molte salse e creme, spesso agrodolci. I cuochi romani erano bravissimi nell'imitare forma e sapore dei cibi, partendo da materia prima completamente differente. I farinacei si presentavano spesso come zuppe o focacce (es. il moretum, salata alle erbe e al formaggio). I brodi di verdura erano considerati salutari al pari di una medicina. Si utilizzavano le erbe medicinali, ma in prevalenza in forma di creme e salse. ——————————— La dieta del romano e la sua evoluzione fino alla nostra dieta mediterranea: il contenuto nutrizionale del pasto (cereali, legumi, frutta, verdura, olio, vino) La ricerca dietologica e nutrizionistica si è spesso soffermata sull’origine delle nostre abitudini alimentari, frutto certamente di eredità culturali, biologiche ed ecologiche offerte dall’ambiente. Il viaggio a ritroso nel tempo rivela spesso delle sorprese: la dieta mediterranea come la intendiamo noi oggi ha una storia relativamente recente. Anche nell’antica Roma, l’alimentazione era piuttosto diversa da quella attuale. Gli alimenti, a parità di tipologia, avevano caratteristiche nutrizionali diverse dalle attuali. La tecnologia della produzione, trasformazione e preparazione degli alimenti, unitamente ai progressi nella selezione operata sui vegetali hanno dato agli alimenti primari della dieta un valore in genere superiore e comunque diverso da quello attuale. La ricerca vuole indagare questa evoluzione, prendendo in considerazione i prodotti alimentari che sono alla base di questa dieta ed il loro significato nutrizionale. Tra i legumi: lenticchie, piselli, cicerchia, ceci, fave. Tra i prodotti orticoli: cipolle, cavoli, porri, carciofi, carote, rape, asparagi, funghi, lattuga, rape, barbabietole, carote, ravanelli, cipolle, aglio, porri, cicoria, carciofi, cetrioli, melone, cocomero e zucca. Tra i frutti: nocciole, prugne, ciliegie, more, fragole, sorbe nere, mirtilli, pinoli, castagne, noci, mandorle, ghiande, mele, cotogne, melograni, uva, fichi, olive, pesche, albicocche, datteri, more. L’olio era prevalentemente di oliva. I cereali erano soprattutto frumento, orzo, segale, farro, miglio. Il vino aveva grande importanza. ——————————— I mestieri itineranti legati all’alimentazione nell’antica Roma e nelle sue vie suburbane: l’acquaiolo, il lattaio, il “nevaro”, il pollivendolo, i pasciatori di animali da cortile Le strade dell’antichità erano luoghi di incontro e di scambio molto vivaci, forse più di oggi. Le grandi arterie dell’organizzazione statale romana, trasferivano attraverso di essere la cultura materiale ed intellettuale di una società vivace e multiforme. Proprio sulle strade dell’antica Roma, vere e proprie città itineranti, si viveva, si lavorava, si combatteva, si moriva, si svolgeva una parte della vita di intere famiglie e gruppi sociali. A questa vivacità erano collegati mestieri, attività umane ed abitudini di vita. Alcuni di questi mestieri, collegati all’esigenza di alimentarsi delle genti che percorrevano queste strade, avevano una connotazione del tutto particolare; un’originalità che merita di essere riscoperta e studiata. Itineranti come i viaggiatori, a rincorrere i beneficiari del loro lavoro, questi uomini erano spesso rappresentati di ceti sociali umili che si improvvisavano in mestieri a non grande specializzazione. L’acquaiolo, il lattaio, il nevaro, il pollivendolo, i pasciatori di animali da cortile, ma anche il venditore di vino e di pane. Mestieri originali ed antichi, che a lungo si sono conservati, per poi scomparire con l’avvento della civiltà moderna. ———————————
3
L’alimentazione negli antichi romani, attraverso il viaggio di Orazio da Roma a Brindisi (V Satira) Il viaggio che il grande poeta latino fece da Roma a Brindisi, percorrendo la Regina Viarum, rappresenta un’affascinante spaccato di vita quotidiana ai tempi degli antichi romani. L’occasione è interessante per riscoprire itinerari, spazi, scenari, personaggi, abitudini, sapori, visti da un viaggiatore contemporaneo, costretto a confrontarsi anche con i disagi che la vita di allora imponeva. Città oramai scomparse e di cui resta solo il nome del luogo, villaggi divenuti grandi città, fiorenti centri ridotti oggi a piccoli paesi, paesaggi perduti, testimonianze che arrivano da un mondo lontano e che offrono l’occasione per guardare come oggi sia molto cambiato l’itinerario percorso dalla Via Appia. Tra le righe, si coglie ad ogni tappa un particolare aspetto delle abitudini enogastronomiche della gente comune: prodotti e alimenti che avevano un forte legame con i luoghi di produzione e consumo; costumi di vita e alimentari. Molti di questi elementi si legano ancora oggi alle nostre tradizioni alimentari e alle nostre attività di produzione, a testimonianza di come il luogo sia elemento fondamentale nel caratterizzare la tipicità di prodotti. Un elemento dalle basi solide che merita di essere riscoperto e valorizzato. ——————————— I latticini ed i prodotti dell’attività pastorizia: formaggi e pecorini della campagna romana di ieri e di oggi L’arte casearia ha in tutti i paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo origini lontane. Il legami dei prodotti latticini romani con la storia alimentare del nostro territorio sono molto importanti: l’antico mondo pastorale, gli usi e i mestieri legati alla transumanza, l’arcaica sapienza con cui il casaro trae da una stessa materia prima i prodotti per il consumo fresco ed i formaggi da serbo, e la grande capacità di valorizzare i sottoprodotti. Il latte inizialmente era un alimento indispensabile per i Romani in tutti i pasti e veniva impiegato in vari prodotti. Veniva utilizzato il latte ovi-caprino, vaccino, di asina e di cavalla. Il primo era senz’altro di uso grandemente più importante. Era bevuto fresco oppure aromatizzato. Inizialmente era usato anche per zuppe e minestre. Molto usato poi in pasticceria. Il formaggio era un alimento completo, ottenuto unendo al latte succo ottenuto dal rigurgito di un vitellino o di un bambino non ancora svezzato. Tutto questo trova ampio respiro nella grande varietà e tradizione dei prodotti caseari della campagna romana. Gli antichi formaggi di Columella, il Caciofiore ed il Pressato a mano, prodotti freschissimi come la giuncata e la ricotta, la grande varietà di pecorini, il cacio e le caciotte. I formaggi avevano spesso sapori particolari: affumicato tenendo il formaggio nelle fiscellae (contenitori forati); salato e pressato a mano e poi immerso in salamoia. Il formaggio era utilizzato per fare la polenta taragna e veniva usato come condimento. La nuova e antica gamma dei formaggi di Roma si presenta con una storia importante, ma soprattutto con la personalità del suo territorio e i suoi produttori. La loro arte è un patrimonio di qualità, dal forte legame con il territorio, su cui continuare a costruire la nostra cultura alimentare. La varietà dei prodotti freschi e conservati è grande; ripercorrerla ci proietta direttamente nel passato e ci lega in maniera forte alle più antiche tradizioni alimentari delle nostre genti.
———————————
4
Il ruolo della Via Appia nella diffusione degli alimenti e delle abitudini alimentari La Via Appia ha avuto nel passato e fino a buona parte del Medioevo un ruolo importante nelle comunicazioni. Fin dalla sua costruzione (III secolo a.C.) la strada ebbe un ruolo strategico per Roma; la sua grande qualità costruttiva ne garantì un uso ininterrotto per parecchi secoli. Il collasso dell’Impero Romano nel V secolo ne provocò la rovina; restaurata un’ultima volta da Teodorico, ne rimase funzionante il solo tratto da Roma ai Colli Albani. Fino alla fine del ’700, quando l’attenzione tornò su questo importante tracciato viario. La lunga storia di questa Via ha consentito ad un gran numero di genti di attraversarla. Il flusso da e per la Capitale è stato immenso e con esso costumi, tradizioni, culture, abitudini. Le merci ed i prodotti di terre vicine come quelle del Sud Italia, e lontane come quelle dell’Oriente hanno portato a Roma forti cambiamenti nel costume alimentare romano ed hanno arricchito la varietà della dieta. Da una tradizionale e semplice alimentazione, tipica degli antichi popoli mediterranei, basata sui cereali, l’orticoltura, la pastorizia ed il piccolo allevamento, si passa, almeno tra le classi più agiate, ad una cucina più ricercata, ad un maggior consumo di cacciagione, all’allevamento intensivo, al massiccio uso delle spezie orientali. Esempi più e meno noti, arrivati a noi tramite questo ruolo della Via Appia, sono ancora oggi riconoscibili. La ricerca in questo senso si fa interessante e ricca di spunti. ———————————
La panificazione e l’attività dolciaria nell’antica Roma: dalla puls alla grande varietà dei lieviti Dal primo pane non lievitato forse di origine egizia (il moretum era un pane non lievitato ricordato da Apicio), all’introduzione della lievitazione in epoca cristiana, la ricetta per la preparazione del pane è sostanzialmente rimasta immutata lungo i millenni. I primi pistores (fornai, mugnai), comparvero nella Città Eterna già nel II secolo a.C., schiavi provenienti dalla Grecia appena conquistata. Fino allora i romani avevano consumato i cereali prevalentemente sotto forma di pappa o purea chiamata polta (puls), il piatto nazionale della cucina romana arcaica, frantumati con rudimentali mortai di pietra, cotti in acqua, nel latte o nel brodo in pentole di terracotta e arricchiti con fave, cavoli, cipolle, formaggio e talvolta pezzetti di carne o pesce. Poi la raffinata Grecia iniziò i rudi quiriti a nuovi piaceri culinari, tra cui quello del pane di frumento, che diventò un alimento di base. Il primo frumento usato per fare il pane era chiamato farro o spelta, di cui vi erano più tipologie (Triticum monococcum, T. dicoccum, T. spelta). Vario Flacco precisa che “il popolo romano fece uso esclusivamente di farro per trecento anni”. Presso i Romani il farro era sacro, ritenuto chicco della potenza, protetto da Cerere dea delle messi. Nell’antico rito matrimoniale romano, la conferratio consisteva nello scambio tra gli sposi e nell’offerta a Giove di una focaccia di farro (panis farreus), come vincolo legale e patrimoniale necessario all’unione e per favorirsi la buona sorte. La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi. Poiché il pane era molto duro, veniva mangiato intinto nel vino, nell'olio, nelle minestre o con le salse. C’erano tre tipologie principali di pane (panis niger, nero, dei poveri, fatto di farine setacciate rade; panis secundarius, più bianco, setacciato più volte; panis candidus, bianco di farina finissima, per i ricchi) e molte varietà, alcune scadenti e altre erano pani preparati con miele, vino, latte, olio, zafferano, frutti canditi, rosmarino, zenzero, capperi o pepe. Anticamente il pane veniva fabbricato in casa; poi vennero aperte le panetterie da cuochi e artigiani specializzati che avevano mulini e forni. Da allora fu un crescendo, soprattutto sulla mensa dei ricchi, per trovare nuove formule e nuove preparazione a base di questo alimento. Il lievito veniva preparato una volta l’anno all’epoca della vendemmia, mescolando farina di miglio, mosto e crusca di grano.
5
I pistores dulciarii erano gli artigiani specializzati nella preparazione dei dolci. Questi venivano in genere preparati con fiori di farina, chiamata pollen (polvere). ——————————— L’uso delle erbe medicinali e aromatiche nell’alimentazione dei Romani L’utilizzo da parte dell’uomo delle piante, a scopi alimentari e medicinali, è strettamente connesso alla sua storia fin dalle origini. Con l’evoluzione della cultura e l’aumento di complessità dell’organizzazione sociale e delle abitudini di vita, il miglioramento dell’alimentazione ed un certo progresso nella medicina, anche l’uso delle piante si è parallelamente fatto più complesso. Accanto all’uso prettamente legato alla nutrizione, le piante vengono allora utilizzate sempre più anche per insaporire, conservare, colorare, etc. Parallelamente anche l’uso come medicamento si affina, diventa meno empirico, e tuttavia si complica assumendo significati talvolta più esoterici che propriamente pratico-scientifici. Il mondo mediterraneo offre per i popoli che vi gravitano una grande varietà di vegetali che si prestano a questo utilizzo. I romani creano un pezzo di questo vario mondo all’interno delle loro dimore; nasce l’orto familiare delle dimore i campagna e di città (hortus conclusus), dove la ricca tradizione giardinistica romana, arricchita dalle influenze orientali, assume un aspetto domestico ed utilitaristico. Molte di queste erbe ed arbusti sono usate ancora oggi come allora, a dimostrazione del radicato significato che hanno assunto nella cultura dei popoli, e rappresentano ancora una componente fondamentale della nostra cucina e della nostra farmacopea. Un viaggio attraverso questo mondo verde, ricco di profumi, sapori, utilità, significati e suggestioni, costituisce un’interessante finestra che si apre sulle tradizioni dei nostri popoli. ——————————— I magazzini militari lungo l’itinerario della Via Appia. L’approvvigionamento dei soldati e la razione alimentare base Un’interessante finestra sulle abitudini alimentari dei romani e soprattutto sulla loro dieta, viene dalla rilettura di quanto somministrato con la razione alimentare dei legionari, sviluppata per fornire una base alimentare equilibrata e completa alle truppe. Essa, pur elaborata per soddisfare esigenze legate ad intensi e prolungati sforzi fisici, fornisce delle indicazioni sufficientemente esaustive di ciò che costituiva la base dell’alimentazione del romano medio. Spesso variabile nella sua costituzione, in relazione all’approvvigionamento in zone che fornivano differenti prodotti, aveva delle componenti base che si rifacevano direttamente alle tradizioni alimentari dei popoli italici, che vedevano nei cereali la fonte principale di carboidrati, nei latticini e carni d’allevamento la fonte di proteine, e nell’olio di oliva la fonte di grassi. Queste componenti primarie, elaborate in alcuni alimenti base, andavano a costituire il comune pasto. Alcuni magazzini di approvvigionamento seguivano le truppe, con la dislocazione lungo le loro vie di spostamento. La Via Appia, nata appunto come via militare per lo spostamento veloce delle milizie, conserva alcuni di questi interessanti siti archeologici, più o meno conosciuti e oggetto di ricerche archeologiche. La conoscenza della loro funzione e di ciò che contenevano, può rivelarsi un interessante tema di ricerca alimentare. ———————————
6
I prodotti orticoli e frutticoli nella piana del basso Lazio e nell’area campana, all’epoca dei romani Le aree non paludose del basso Lazio e l’area campana, costituiscono dei bacini molto favoriti dalle condizioni pedoclimatiche ed idriche per lo sviluppo di una agricoltura intensiva di pregio, quale è quella orticola: ottimi terreni, abbondanza di acqua, profilo pianeggiante o lievemente collinare, clima dolce. Tutti fattori che hanno favorito anche in tempi antichi questo tipo di coltivazioni, la tipizzazione dei prodotti ed il loro indissolubile legame col territorio. La collocazione di buona parte di queste aree lungo l’itinerario della Via Appia ha portato alla diffusione di certi prodotti e alla loro rinomanza presso i mercati urbani e non solo. Alcuni prodotti sono scomparsi dalle nostre mense; altri, i più, anche ai nostri giorni hanno mantenuto questa caratterizzazione. Vale la pena di ricordare cipolle, cavoli e crauti di Cuma, porri e cavoli di Ariccia, lenticchie di Ventotene, cicerchia di Latina e Fondi; e ancora carciofi, carote, rape, legumi, e tanti altri, che freschi o conservati hanno viaggiato sull’Appia ed hanno soddisfatto il palato di quanti l’hanno attraversata. Tra i principali prodotti orticoli consumati dai Romani si ricordano: asparagi, funghi, cavoli, lattuga, radici varie come rape, barbabietole, carote, ravanelli, maceroni, bulbi come cipolle, aglio, porri, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie, cicerchia e piselli, melone, cocomero e zucca. Tra i frutti: nocciole, noci, mandorle, prugne, ciliegie, more, fragole, sorbe nere, mirtilli, pinoli, castagne, ghiande, mele, cotogne, uva, fichi, olive, pesche, albicocche, datteri, more. ——————————— Il vino dei romani: la vite ed il prodotto finito; il consumo Gli antichi romani erano cultori del vino e ne avevano grandissima stima. La coltivazione della vite e la preparazione del vino era assimilata all’arte e si producevano dei vini eccellenti. I romani ereditarono dai greci e dai popoli italici, primi fra tutti gli etruschi, l’arte della coltivazione della vite e della vinificazione. La tradizione fa risalire a Romolo e al successore Numa Pompilio la diffusione della viticoltura a Roma. Il commercio del vino era un'attività fiorente e redditizia. Il vino, ricco di fascino e mistero è legato ad alcuni grandi miti comuni a molte civiltà, tra cui quella romana. Il romano dio Bacco é il dio del vino, del piacere, dell'esaltazione orgiastica, ed in relazione con la vegetazione, i boschi, ed il regno dei morti. Il vino nella tavola dei Romani aveva un significato “sacro”; era un alimento fondamentale della mensa, tanto da essere compreso perfino nelle razioni degli schiavi. In origine la produzione locale di vino era scarsa: lo si poteva infatti bere solo in occasioni speciali e il suo consumo era permesso ai soli uomini in età matura; agli schiavi era vietato e alle donne era proibito fino al matrimonio. E' difficile farsi un'idea del sapore del vino di allora. Gli haustores, dal palato sensibilissimo, classificavano i vini in un'infinità di modi (dolce, soave, nobile, prezioso, molle, delicato, ecc.). Il vino si mesceva in coppe larghe e quasi piatte. Prima di iniziare un banchetto, si sorteggiava un arbiter bibendi, che si asteneva dalla bevanda e stabiliva le parti di acqua, calda o fredda, che vi si mescolavano. All'inizio si servivano i vini migliori, e man mano quelli sempre più scadenti. Il vino era consumato puro solo in occasioni importanti; di norma era allungato con l’acqua. L’acqua usata per allungare il vino era preferibilmente tiepida, meglio se di mare. In mancanza di acqua marina, si procedeva così: si prendeva acqua piovana o di fonte, la si lasciava imputridire per cinque anni in recipienti ben chiusi, quindi (eliminati i residui) la si bolliva con sale bianco e miele. Il risultato veniva quindi unito al mosto. Molti predicavano, come Plinio, che il vino doveva essere puro, ma i “raffinati” della tavola, usavano misture d’ogni tipo. La più comune era quella fatta con l’aggiunta di miele: il vinum mulsum, ritenuto assai prelibato e servito come aperitivo. A fine pasto si usava un vino passito (vinum passim). Inoltre, il vino veniva consumato anche speziato con erbe aromatiche (rosmarino, mirto, ruta, zafferano) o con pepe, cannella, chiodi di garofano. Lo si poteva perfino condire con il terribile garum, la salamoia a base di pesce (spesso marcio) macerato per un mese in 7
aceto e sale. Altre misture erano realizzate con pece, resine, profumi femminili, acqua marina o gesso. Il vino si presentava denso e simile ad un mosto cotto; i metodi dell’epoca non consentivano infatti una lunga conservazione e lo si doveva produrre con un forte residuo zuccherino e bollirlo. La bollitura, tra l’altro, ne riduceva il volume facilitandone il trasporto. La conservazione dei vini arrivava spesso fino a quindici anni. Durante la giornata ogni scusa era buona per bere un buon bicchiere di vino e si brindava spesso. I tipi di vino erano molti: in epoca imperiale ne circolavano almeno 140 che, per via dell'estensione dell'Impero, arrivavano da ogni parte. Una delle prime classificazioni dei vini la troviamo all’interno del trattato romano Naturalis Historia, dove Plinio il Vecchio distingue tra circa ottanta vini di alta qualità, destinati alla nobiltà, ed un centinaio di vini di media e bassa qualità destinati per lo più alla plebe. Ai vini laziali (i Colli Albani erano coperti di vigne) i romani preferivano quelli campani, come il Cecubo, il Greco, il Faustiniano, il Caleno e soprattutto il Falerno, ricordato da Orazio. Il Falernum era il vino più noto, apprezzato e costoso dell'antichità; veniva conservto in anfore chiuse da tappi muniti di targhette (pittacium) che ne garantivano l'origine e l'annata . Tibullo pregava - nunc mihi Gumosus veteris proferte Falernos - di avere subito una coppa di Falerno, vecchio e affumicato. Plinio, Marziale, Orazio, Cicerone ne hanno più volte tessuto le lodi. Petronio racconta che durante la famosa cena di Trimalcione venne servito un Falerno vecchio di 100 anni. L’area campana disponeva di condizioni ottimali per la produzione viticola: clima mite, possibilità di attingere facilmente dal mare acqua salata per la sterilizzazione delle anfore, abbondanza di pini che producevano resina per l’impermeabilizzazione dei contenitori. L'origine del Falerno è avvolta nella leggenda: "Bacco, sotto mentite spoglie, chiese ospitalità al vecchio Falerno; commosso dalla sua generosità fece nascere sulla pendici del Monte Massico viti lussureggianti" (Silio Italico). I vitigni antichi erano parecchi ed i romani operarono un intenso lavoro di selezione. Si ricordano le “Vitis Hellenica”, “Aminea Gemina”, “Vitis Apiana”, “Uve Alopeci”, “Aminea Lanata” o “Minuscola”, etc. Anche la vinificazione venne affinata e le operazioni fondamentali sono le stesse da millenni; l’uva viene pigiata con i piedi nel calcatorium oppure torchiata nel turcularium, il mosto così ottenuto viene versato nei dolia, grandi anfore di terracotta dove fermenta dando origine al vino. ——————————— Il tartufo: dalla mensa dei romani ricchi alla nostra I romani tenevano in grande considerazione i tartufi (tuberacee e terfeziacee), tanto che Nerone lo considerava cibo degli dei. Cicerone, Plutarco, Giovenale, Plinio, Porfirio e Locullo lo esaltarono, anche per le presunte proprietà afrodisiache. Della natura di questo fungo si occuparono Plutarco, Plinio il Vecchio, Marziale, Giovenale e Galeno. Tuttavia erano loro noti funghi terricoli meno pregiati dei tartufi e diversi da quelli che intendiamo noi oggi, le terfezie e le tirmanie di Grecia e Libia, che crescevano anche in alcune zone d’Italia. Plinio il vecchio, nella sua Naturalis Historia parla dei tartufi. Ai Romani si devono alcuni dei nomi correnti del tartufo: terrae tuber (tubero di terra, Plinio il Vecchio e Petronio) o traffolae terrae (rigonfiamento della terra), da questo il dialettale trifola e le voci straniere (fr. traffe, ingl. truffle). I cinghiali e maiali erano ghiotti di questi funghi, ma i romani non seppero sfruttare appieno queste loro capacità di individuarli; per questo non conobbero i pregiati tartufi bianchi e neri, non entrando a far parte della loro raffinatissime ricette. Dagli autori latini che ne parlano si comprende molto bene che si riferiscono ad un prodotto diverso da quello che arriva oggi sulle nostre tavole: le terfezie che, come funghi sotterranei delle zone desertiche e costiere mediterranee, rassomigliano molto ai tartufi per la loro forma ma sono prive di sapore e di profumo. I “tartufi” che deliziavano i palati dei patrizi romani erano dunque scadenti solo nella qualità; tuttavia il prezzo era salatissimo, tanto che Apicio nel suo De re coquinaria inserisce le sei ricette al tartufo nel VII libro, dove tratta delle pietanze più costose. 8
Della natura di questo fungo si occuparono in molti. Si evolvevano le conoscenze dei romani sul tartufo, rispetto a quanto affermato già da Teofrasto e Galeno. Plutarco affermò che il tartufo fosse il prodotto oltre che dell'acqua e della folgore anche del calore, uniti insieme. Plinio il vecchio lo definisce callo della terra e lo pone tra le meraviglie: “Massimo miracolo della natura è la nascita e la vita di questo tubero che cresce isolato e circondato di sola terra”. per la sua facoltà di crescere e di riprodursi mister iosamente. Lucullo lo voleva come il tocco poetico dei suoi squisiti pranzi e Giovenale si infatuò a tal punto che giunse ad affermare che "era preferibile che mancasse il grano piuttosto che i tartufi". Anche Marziale ne parlò. ——————————— Le abitudini alimentari dei romani alla luce degli scavi archeologici di Pompei (gli affreschi, gli strumenti di lavoro e gli oggetti di cucina, le botteghe, i reperti alimentari, i forni e i mulini) Pompei e gli altri centri distrutti dall’eruzione del Vesuvio, hanno conservato intatte parecchie tracce che hanno consentito di fare luce sulla vita quotidiana dei romani. Attraverso queste e le testimonianze documentali, molte delle abitudini legate all’alimentazione sono state conosciute e spesso se ne è individuato il legame con le nostre moderne tradizioni culinarie. Questi centri, collocati non lontano dalla Via Appia, hanno contribuito non poco, anche in virtù della loro vicinanza al mare, alla diffusione di alimenti, tradizioni e culture legate al cibo provenienti dal sud e dalle altre parti del mediterraneo, e che si sono sommate alle forti e radicate tradizioni che hanno caratterizzato la cultura romana fino a tutta l’epoca repubblicana e non solo. Il romano medio possedeva un luogo della casa i cui preparare i pasti. Nei tempi antichi si desinava nell’atrio della casa, vicino al focolare, dove si veneravano i Lari; in età imperiale il luogo deputato divenne il triclinium. La cucina era attrezzata con banconi in muratura; il focolare, che era il piano di cottura ed utilizzava inferiormente la cenere; i lavelli servivano per pulire le stoviglie (bacinelle di legna, terracotta o in muratura con un foro di scolo). Esisteva anche un forno, per cuocere il cibo più grosso e i farinacei. I pasti giornalieri erano tre: la colazione del mattino, ientaculum, in cui si mangiava pane condito con sale, uva secca, olive, formaggio e spesso carne e qualche avanzo del pasto serale. All’ora sesta (mezzogiorno), un pasto frugale (prandium) era a volte consumato in piedi, spesso fuori casa nelle tabernae, con pesce, uova, legumi o frutta. La coena era invece il pasto più elaborato. Cominciava a metà pomeriggio, dopo la visita alle terme; si terminava sempre alla stessa ora, per cui prima si iniziava a banchettare e più si mangiava. I vestimenta cubitoria erano indossati appositamente nelle cene e prima di iniziare ci si lavava i piedi. La cena era spesso occasione per convocare amici ed era elaborato e ricco in relazione alla condizione sociale della famiglia. Si iniziava con un antipasto (gustus) a base di verdura, uova vino e miele; la prima portata (primae mensae) era ricca e a base di pesce e carne. La secundae mensae concludeva con frutta fresca, secca e dolci. Su tutto abbondante vino: mulsum nell’antipasto (mosto di vino e miele), merum (vino caldo, puro o allungato con acqua), spesso aromatizzato. Il cibo veniva suddiviso in piccole porzioni (pulmenta) da uno scissor per evitare di sporcarsi ma anche perché per mangiare usavano una sola mano visto che con l’altra si appoggiavano al letto triclinare. Il coltello era poco usato, mentre il cucchiaio (colcher) serviva a sorbire i cibi liquidi. L’uso della tovaglia si affermò solo nel I secolo d.c., mentre il tovagliolo (mappa) era fornito dall’ospite o portato da casa dal commensale che alla fine della cena vi avvolgeva gli avanzi da portar via. Il cibo variava con la classe sociale; gli schiavi mangiavano in prevalenza grano (triticum): 4 moggi d'inverno a 4 moggi e mezzo d'estate. Ad essi spettava una razione giornaliera di vino piuttosto scadente; come soldati e contadini, ricevevano 1,3 kg di pane al giorno o fichi e 262 litri di vino all'anno, con l’aggiunta di cipolle, rape ed altre radici, legumi e verdure fresche. Contadini e schiavi “benestanti” avevano un’alimentazione simile. Alcuni cibi tipici dell’area sono giunti sino a noi, come le polpette pompeiane. 9
——————————— Il commercio sulla Via Appia: le stazioni e le osterie (tabernae); luoghi di commercio; preparazione e consumo di cibo lungo l’itinerario da Roma a Brindisi I Romani avevano una socialità molto attiva; amavano strade e piazze e mescolarsi alla gente per vivere le manifestazioni attive della vita sociale. Il consumo di pasti frugali avveniva spesso in tabernae, molto frequentate, o presso venditori ambulanti di cibi e bevande; questo soprattutto tra le classi meno agiate che non potevano permettersi di cucinare in casa. Ancor più, lungo i grandi itinerari solcati dalle vie consolari. Le tabernae subirono una evoluzione per renderle sempre più luogo di non solo di consumo di cibo, ma anche di convivialità. La loro struttura era spesso assai semplice: un bancone di pietra, alcuni contenitori incassati e messi in mostra per la gente che passava; accanto al banco vi un fornello con una casseruola piena di acqua calda; nelretro la cucina e le sale per la consumazione. I venditori ambulanti (lixae), esibivano le cibarie su bancarelle smontabili in legno, protette da tende. Vicino ai luoghi molto frequentati, presso le porte della città, teatri, bagni, piazze, templi, grandi vie si poteva alloggiare. Vari erano vari tipi di taverna. Taberna vinaria per il consumo di vino e secondariamente di cibo; popina dove il vino veniva portato solo per accompagnare il pasto; gurgustium che era più che altro una bettola; cauponae o osterie di campagna; tabula in cui vi era posto sia per viaggiatori che per i cavalli; deversorium aveva la stessa funzione di luogo di sosta con alloggio; mansiones o alberghi per la notte dislocati lungo le strade, dirette da un praepositus (sovrintendente) e da un manceps (imprenditore), che disponevano anche di una polizia stradale; mutationes o luoghi per il cambio dei cavalli posti a metà strada tra le mansiones. Attorno a questi luoghi si articolavano attività economiche certamente modeste ma molto vitali, soprattutto nei periodi di pace. Ad esse erano legate le attività produttive primarie, che conferivano i prodotti della coltivazione e dell’allevamento, pronti per la trasformazione e la preparazione. Le ricche testimonianze archeologiche e documentali su questi luoghi forniscono un interessante spaccato delle abitudini sociali e alimentari dei Romani. ——————————— I metodi di conservazione degli alimenti nell’epoca romana, prima del massiccio arrivo delle spezie dall’Oriente (essiccatura, salatura, stagionatura, acidificazione, dolcificazione)
In epoca antica, la mancanza del freddo come mezzo di conservazione degli alimenti costringeva ad adottare a questo scopo tecniche piuttosto elaborate, soprattutto per affrontare i mesi caldi. Le soluzioni erano diverse: affumicare (es. per le carni ed i formaggi), disidratare (es. per carni, frutta ed altri cibi), dolcificare (es. per la frutta fresca), salare (per una grande varietà di cibi), acidificare (specialmente con aceto; il latte era acidificato con aceto e cipolla.). Alcuni procedimenti utilizzavano più soluzioni contemporaneamente, basti pensare alla stagionatura dei formaggi (salatura e disidratazione e talvolta ingrassatura). A questi metodi primari di conservazione si aggiunsero solo in epoca successiva l’uso massiccio di aromi e spezie, con una funzione antisettica e conservante ma anche allo scopo di camuffare i cattivi aromi che esalavano i cibi malamente conservati. Questi prodotti si diffusero notevolmente solo dopo la conquista romana dell’Oriente e la conseguente acquisizione di molte delle abitudini culinarie di quei popoli. Le tecniche di conservazione, applicate a cibi diversi, conobbero un impulso notevole con l’aumentare degli spostamenti; in particolare si pensi all’esigenza di approvvigionare le truppe in movimento lungo le grandi arterie consolari. Anche l’incostanza delle produzioni, dovuta agli alterni andamenti stagionali e alla scarsa possibilità di influire sui fattori produttivi, costringeva ad attuare sempre di 10
più metodi di conservazione. Tecniche affinate e spesso con un considerevole livello tecnologico, che è interessante ripercorrere come tema di ricerca. ——————————— Le carni conservate e insaccate, le verdure selvatiche, il miele: i cibi “ricchi” del romano povero L’alimentazione del romano di modesta condizione era certamente molto diversa da quella di un ricco patrizio in epoca imperiale. Agli alimenti base si accompagnavano però alcuni cibi, semplici nella loro formulazione ma ricercati per il loro non comune utilizzo. Tra questi vi era il miele, il dolcificante per eccellenza fino a qualche secolo orsono. Utilizzato come tale, nella conservazione dei cibi e per aromatizzarli, era un elemento molto importante nella cucina romana. Il suo utilizzo per il povero era raro e solamente in occasioni particolari; era legato anche ai riti religiosi, a scopi medicinali e cosmetici. I Romani avevano una tale considerazione per il miele che la sua richiesta eccedeva la produzione tanto che, da sempre, i Romani importarono il miele da Creta, Cipro, Spagna e Malta. Anche l’apicoltura subì notevole impulso a Roma antica, tanto che gli alveari di oggi furono una loro invenzione. Oltre al miele anche la carne, specie se conservata, era un cibo non molto frequente sulla tavola dell’uomo comune; si pensi alla lucanica, antenato della nostra salsiccia. L’allevamento era un’attività complessa che forniva un prodotto altamente energetico e di alto valore alimentare. La conservazione inoltre aumentava il valore di questi alimenti. Per la conservazione si preferiva la carne di suino. Al pari di questi cibi, anche alcune erbe selvatiche, ad uso alimentare ma anche medicinale, furono a lungo considerate un elemento di arricchimento della dieta e delle mense: Orazio mangiava con piacere cicoria e malva. ——————————— Olio, cereali, legumi: la base della dieta romana antica e mediterranea La dieta dei popoli del mediterraneo trova la sua base in un apporto bilanciato di carboidrati, grassi e proteine. Questi elementi sono ritrovabili in tipologie e quantità opportune ed in alta qualità in alcuni prodotti base come nei cereali (orzo, frumento, farro, segale, miglio), nei legumi (fave, lenticchie, cicerchia, ceci, piselli, etc.) e nell’olio di oliva (i romani ne distinguevano diversi tipi a qualità decrescente: ex albis ulivis, viride, maturum, caducum, cibarium). Questo tipo di alimentazione, caratterizzando tutte le genti che si affacciavano sul bacino del mediterraneo è stata la base anche per i popoli italici, pre-romani (etruschi in testa) e romani. Per tutta l’età repubblicana questo consumo, certamente in maniera qualitativamente differenziata, era ritrovabile anche tra le classi più agiate. L’Impero, con la conquista di altri popoli e l’introduzione di diversi costumi alimentari, ha fatto perdere in parte e specie nelle classi elevate, la memoria di questa tradizione alimentare, che tuttavia si è conservata negli strati più bassi della popolazione, attraversando i secoli fino ad arrivare, riformulata, sino ai nostri giorni. Questi alimenti, frutto delle particolari condizioni pedoclimatiche dell’areale e dell’abile lavoro umano, il loro opportuno abbinamento ed il consumo equilibrato, vengono considerati anche oggi come una sana abitudine alimentare ed una dieta bilanciata e corretta. L’organizzazione statale romana ha certamente contribuito alla diffusione di queste abitudini, anche nelle zone più interne. Si rivela interessante riscoprire dunque l’origine di questi alimenti ed abitudini, che affondano nella storia stessa dell’uomo del mediterraneo del vicino Oriente. ——————————— I prodotti ittici nella Roma antica e la loro conservazione e preparazione 11
I romani si sa sono nati come pastori ed anche l’alimentazione rispecchiò a lungo questo loro carattere; ma ben presto si rivolsero al mare per le loro conquiste, il loro approvvigionamenti ed i loro commerci. Parallelamente anche il consumo di pesce, molto gradito al loro palato, sia di mare che d’acqua dolce, diventò una delle principali fonti proteiche e di grassi animali, oltre che un consolidato fatto di costume. Addirittura molti cibi poveri vennero preparati in tutto simili al pesce, per imitarne la forma ed il sapore. Il pesce non costituiva solo una pietanza di per sé ma era la base per la preparazione ed il condimento di un gran numero di cibi. Di conseguenza si svilupparono la pesca e l’allevamento ittico, e le tecniche ad essi legati. Tecniche che talvolta sono arrivate fino ai nostri giorni. Anche Columella ce ne parla nel su De rustica, descrivendo la pesca e la costruzione degli stabilimenti per la lavorazione del pesce. La lavorazione e la conservazione del pesce raggiunsero in epoca romana uno sviluppo e delle dimensioni riferibili a delle vere e proprie industrie, soprattutto in aree meridionali. Le salse di pesce (le più famose erano il garum ed i derivati liquamen e hallec) e il prodotto salato e disidratato erano molto richiesti sulle mense dei romani che li consumavano in gran quantità nei loro banchetti. Le classi meno abbienti consumavano il pesce preferibilmente fresco o i salamoia, in prossimità dei luoghi di pesca. Tra i tipi più consumati (ve ne erano oltre 150 tipi): lacerti (sgombri?), perca (pesce persico?), orata, triglia, dentice, sogliola e luccio. I frutti di mare anticamente erano mangiati durante il periodo della carestia, ma vennero ben presto considerati piatti pregiati e prelibati. Venivano mangiati cotti o crudi, conservai in giare con sale e insaporiti con salsine. Tra i molluschi ed i crostacei polipi, seppie, astici, scampi, gamberi, datteri di mare, ostriche, mitili. Anche gli anfibi, come le rane, erano ampiamente utilizzati.
12