ALLEGATO 2 Brani di lettura, tracce di discussione da proporre in classe in vista della partecipazione al seminario formativo Brano 1 A PIEDI NUDI di Fulvia Degl’Innocenti tratto dal libro “Chiamarlo amore non si può” La suola di gomma delle nuove scarpe da ginnastica di Silvia cigolava al ritmo dei suoi passi ampi e decisi. I cigolii si accompagnavano allo scricchiolio del vecchio parquet della biblioteca. Nel silenzio delle stanze piene di vecchi libri che nessuno consultava mai, quei passi risuonavano con la stessa violenza di un plotone in marcia. Eppure le teste restavano chine sui libri. Di studenti universitari per lo più. Ma anche di qualche liceale che, come lei, preferiva studiare nelle sale della biblioteca civica che a casa propria. Silvia frequentava il quarto anno del liceo psicopedagogico. I capelli castani e sottili le cadevano sulle spalle, una frangetta a coprirle la fronte. Aveva un viso dai tratti decisi: occhi scuri sotto folte sopracciglia, labbra piene che non ave- vano bisogno del rossetto per risaltare con il loro colore su un incarnato chiaro, attraversato ai lati del naso da una costellazione di minuscole efelidi. Sotto il labbro, un neo rotondo che quasi scompariva quando la bocca si apriva per sorridere. Il suo solito posto era occupato: era arrivata un po’ più tardi, perché era passata dal negozio di articoli sportivi a comprare le scarpe da ginnastica. Le aveva covate con gli occhi da giorni e le aveva indossate subito, impaziente di vedersele ai piedi. Speriamo che col tempo la smettano di cigolare, pensò mentre, dopo aver trovato una sedia libera, sistemava libri e 35quaderni sul tavolo. Aveva solo qualche esercizio di matematica e due capitoli di psicologia da ripassare. Una delle sue materie preferite, si sarebbe fatta interrogare. Poi, in scooter, avrebbe raggiunto gli amici in piazza, come ogni sera. Era concentrata su un problema di geometria quando avvertì una presenza vicino a lei. Distolse gli occhi dal quaderno e a pochi centimetri dalla sua spalla vide la stoffa di un paio di jeans. Alzò lo sguardo e sopra i jeans c’era una camicia bianca di lino, e ancora più su, il volto abbronzato di un ragazzo che proprio in quel momento stava chinandosi verso di lei. La sua bocca puntava dritta verso la sua, prima di deviare leggermente più a sinistra e fermarsi all’altezza del suo orecchio: - Io vado fuori a fumare una sigaretta, mi fai compagnia? Non aveva nemmeno finto di chiederle da accendere. Dentro di sé Silvia sentiva montare l’insofferenza per quell’approccio così diretto e improvviso. Il viso di quel ragazzo non le era del tutto sconosciuto. L’aveva visto in biblioteca, anche se le era parso più dedito alle pause che allo studio. Forse si erano scambiati qualche cenno di saluto, come accadeva per tutti i frequentatori della biblioteca che si riconoscevano anche se non si erano mai parlati. Non era bello, e lei non fumava. Ma lo seguì. Il giorno dopo erano già una coppia. Davide, quattro anni più di lei, una famiglia di industriali alle spalle, frequentava giurisprudenza in una università privata. Pochi esami sul libretto e tanta voglia di divertirsi: la moto, l’auto sportiva, il tennis, e il mito della barca vela attraccata in uno dei porticcioli turistici più esclusivi della città di mare in cui entrambi vivevano.
Era sicuro di sé, e sapeva quello che voleva. E tra tante, nel suo mondo fatto di occasioni da cogliere, aveva scelto lei, Silvia. Figlia di un operaio e di una casalinga che, quando gli altri due figli più piccoli erano a scuola, faceva la baby sitter a una coppia di gemelli. - Sei unica, lo sai? Sei speciale, sei vera. E nessun altro dovrà baciare quel tuo piccolo neo, è mio, come sono miei i tuoi capelli, la tua bocca, le tue mani affusolate, da pianista, le tue natiche sode fatte per essere strette. Silvia era stordita da quella venerazione che invase il suo tran tran da brava ragazza studiosa, per sparigliare le sue abitudini. Nel pomeriggio, come al solito, raggiungeva la biblioteca con lo scooter, ma quasi mai saliva le scale per accomodarsi a una scrivania e studiare. Trovava Davide ad attenderla, impaziente, la sigaretta in bocca, un giubbotto di pelle sgualcita sui pantaloni con la piega, oppure una giacca blu elegante sui jeans firmati strappati ad arte. Gli piacevano gli abbinamenti inconsueti, eleganza mista a finta trasanda- tezza, tutto studiato, come la barba incolta al punto giusto, la montatura rossa degli occhiali, un filo d’oro al polso, il colore vivace dei calzini. Silvia si sedeva al suo fianco nella Golf Gti color canna di fucile, la musica già accesa: lui guidava sicuro verso uno degli angoli nascosti tra i boschi e le cave, nei monti che abbracciavano il golfo. Gli amici in piazza non la vedevano più. La sua trasformazione cominciò con un complimento. - La linea del tuo seno è dolce come una collina. Perché nasconderla dentro maglie troppo larghe? Un altro giorno, un altro complimento: - Hai gambe lunghe fatte per essere guardate. Meglio un abito che i pantaloni. E ancora: - Un arco sottile di sopracciglia sarebbe la cornice ideale per i tuoi occhiSilvia, però, si sentiva bene nei suoi abiti sportivi, jeans non troppo attillati, scarpe comode che rendevano elastica la sua falcata, maglie colorate. Un filo di trucco e orecchini a cerchio erano il suo omaggio alla femminilità. Eppure si scoprì a desiderarsi diversa, come lui la stava immaginando. Via le scarpe da ginnastica, i capelli spenti sul collo, la pelle diafana, le felpe informi, i pantaloni, via tutto. - Sarai la mia sirena - le disse quel giorno in cui l’auto aveva cambiato direzione e invece di inerpicarsi tra le curve dei monti aveva imboccato l’autostrada, direzione Forte dei Marmi, dove i genitori di Davide avevano una casa sul mare. Ma era inverno e non c’era nessuno. Nel salotto al secondo piano della villetta, le vetrate di una porta finestra occupavano un’intera parete lasciando che il mare invadesse la stanza con la sua massa scura. La sagoma nera di una ragazza addormentata era adagiata sul divano: un abito corto e scollato pronto per essere indossato. Alla base del divano un paio di scarpe di vernice nera con un laccetto alla caviglia, in bilico su tacchi sottili. - Sono per te. Lui si era seduto sulla poltrona, le gambe accavallate, la schiena all’indietro nell’atteggiamento di chi padroneggia la situazione, perfettamente a suo agio nel ruolo di spettatore e regista. Silvia esitava di fronte a quella scena troppo studiata, in cui si sentiva quasi una marionetta. Poi ricordò che non erano mai stati da nessuna parte, che non l’aveva mai portata a mangiare una pizza, a passeggia- re nelle vie del centro mano nella mano, a condividere una coppa di gelato in un bar sul mare. E pensò che se avesse indossato quell’abito e fosse salita su quelle scarpe sarebbe cambiato tutto.
Dopo, la accompagnò in un salone di bellezza, dove i suoi capelli furono lievemente scuriti e lucidati, e dove le insegnarono a truccarsi, valorizzando gli occhi con la matita nera e l’ombretto sfumato, a disegnare le labbra e a sottolineare gli zigomi. Quando tornarono alla villetta sul mare Davide le chiese di sfilare per lui. - Sei stupenda così. Come non gongolare di fronte a quella ammirazione, come non godere della sensazione di essere la più bella. Come non sentirsi il cuore esplodere al suono di quel Ti amo che prima Davide non aveva pronunciato mai. E il giorno dopo erano davvero una coppia allo struscio serale, dove gli amici di sempre quasi non la riconoscevano, e tante facce sino ad allora sconosciute la salutavano. Quando l’anno scolastico finì c’era qualche otto in meno nella sua pagella, e qualche abito in più nel suo armadio. Le passeggiate in centro diventarono quotidiane, così come gli aperitivi al bar più elegante, quello sotto i portici, dove mettersi in mostra nei tavoli all’aperto. - Fai attenzione a come cammini - le diceva spesso Davide. - Hai un’andatura a sobbalzi, poco elegante. Saresti più armoniosa se camminassi muovendo lievemente le anche, come fanno le modelle. Lei era una sirena, dimenticava? Perché non provare ad accontentarlo per così poco. Bastava rallentare il passo, accorciare la falcata, appoggiare prima la punta e poi il tallone, oscillare alternativamente le braccia lungo i fianchi. E immaginare di avere qualcosa in bilico sul capo. - Un portamento da regina, la mia regina. Quando si distraeva, quando era presa da un pensiero, una conversazione che la coinvolgeva, l’emozione per un in- contro o per un paesaggio, la sua andatura un po’ marziale prendeva il sopravvento, e prima che la facesse incespicare sui tacchi arrivava la voce di Davide, una punta di irritazione, che le ricordava il corretto portamento. - Silvia, te l’ho detto mille volte, stai più attenta. Aveva preso a controllarle quello che mangiava. - Non finirla la pizza... invece del gelato prendiamo una coca light. Poi quella domanda: - Com’è tua madre? È grassa? Per un istante pensò che si stesse interessando alla sua fa- miglia. Che era un modo, anche se un po’ bizzarro, per chie- derle di andare a conoscere i suoi genitori. La domanda andava in realtà in tutt’altra direzione: - Per ora hai un bel fisico, le forme al punto giusto. Mi chiedevo però quanto durerà. Se per esempio tua madre è in sovrappeso, questo potrebbe significare che hai la tendenza a ingrassare e allora sarebbe utile porvi rimedio sin da subito... - Che devo fare, cambiare madre? - si sorprese a ribattere stizzita. Strano, con lui non riusciva mai a replicare, anche quando la assillava con i suoi consigli sulla postura da tenere a tavola, sul modo di sorridere senza scoprire troppo i den- ti, sul tono della voce che andava un po’ abbassata perché a tratti si faceva stridula, su quell’intercalare, allora, che stava diventando troppo ripetitivo. - Certo che no - disse lui con un sorriso indulgente - Volevo solo dire che dovresti abituarti a mangiare di meno, tutto qui. In effetti sua madre con l’età stava prendendo peso. E il pensiero del suo sedere debordante fasciato dai jeans e dale braccia più che tornite la fece sentire in colpa due volte. Una, perché pensando a Davide se ne vergognava e due, perché quella vergogna le metteva disagio. Per qualche giorno un alito di risentimento soffiò sul fuoco della sua adorazione per
Davide. Poi arrivò inaspettato l’invito: - I miei genitori inaugurano la stagione al Forte con un apericena il prossimo sabato. Abbiamo cinque giorni per prepararci. Non era un invito, era una specie di ordine di scuderia. E come per i cavalli che devono cimentarsi in un dressage, nulla doveva essere lasciato al caso. Il dio Look innanzitutto, e poi: - Una dieta leggera, c’è un filo di pancia da smaltire. - Attenta alla camminata. - Abbassa quel tono. - Non leggere troppo per non affaticare gli occhi... In mezzo a quella cascata di assillanti raccomandazioni, parole dolci che la facevano sentire speciale: - Guarderanno tutti te. Tu che sei bella e lievemente imperfetta. Unica. Silvia cominciava a sentirsi come il look di Davide, un accostamento di perfezione e casualità apparente. Un cocktail, ecco che cos’era per lui. In cui, come un barman esperto, sapeva mescolare le giuste dosi di ingredienti e aggiungere alla fine la ciliegina. Eccola la ciliegina, in quel pacchetto che le stava porgendo poco prima dell’ingresso ufficiale nella villetta di famiglia. Un braccialetto d’oro con un piccolo lucchetto come ciondolo. Accompagnato da una frase a effetto: - A colei che tiene la chiave del mio cuore. La vista di quel lucchetto le suggerì ben altre sensazioni: una catena da cui giorno dopo giorno si sentiva sempre più stretta, e di cui Davide teneva la chiave. Non c’era altro da fare in quel momento che recitare la parte della ragazza grata di tante premure, ben attenta a non eccedere nelle manifestazioni d’affetto per non rovinare il trucco. Fu quando entrò nel giardino che dava sulla spiaggia e vide la madre di lui, che capì. Una donna bellissima, ritocca- ta con classe, un sorriso misurato per non strizzare le rughe, salutava gli ospiti con parole studiate, mentre dietro di lei, come un’ombra, il marito annuiva, lo sguardo della donna a cercare l’approvazione dei suoi occhi. C’era una catena invisibile intorno al suo collo, Silvia la percepiva con chiarezza. Finiva nelle mani dell’uomo, terminando con un lucchetto del tutto simile a quello che aveva appena ricevuto in dono. Non solo riusciva a vedere la catena, ma sentiva come toglieva il fiato, quando veniva tirata. Fu una mancanza d’aria improvvisa, la vertigine davanti agli occhi e lo scalciare del cuore a farle imboccare il cancello da cui era appena entrata, approfittando della distrazione di Davide che era salito in casa. Nessuno si era accorto di lei, nessuno la fermò quando, appena girato l’angolo della villetta, si mise a correre, fermandosi solo per sfilarsi i sandali dorati con il tacco, per abbandonarli in un cestino dei rifiuti. E con i piedi nudi sull’asfalto tiepido di quella sera di fine giugno ritrovò il gusto pieno della sua falcata, l’intonazione alta della sua voce che aveva voglia di cantare, e la sensazione di essersi liberata da una catena invisibile che le stava facendo male. Sul treno che la riportava a casa si ricordò del lucchetto d’oro. Fu con un gesto plateale e senza rimpianto che lo lanciò dal finestrino verso il binario parallelo su cui stava sopraggiungendo un altro treno. Non sarebbe più stata la marionetta di nessuno.
Brano 2: TADDEO E LA PASTICCERA di Annalisa Strada tratto dal libro “Chiamarlo amore non si può” - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso - disse Taddeo a Maddalena la prima volta che entrò nella sua pasticceria. Lei sorrise, il giorno dopo preparò una torta al cioccolato e aggiunse una goccia di miele, pensando a lui. Tutti i clienti ne avrebbero voluta una doppia porzio- ne, ma lei difese l’ultima fetta con ardore e la tenne da parte per Taddeo. Gliela servì su un piatto coperto da un tovagliolino di carta leggera, bordato di rosa e azzurro, con una primula gialla disegnata in un angolo. Taddeo la mangiò piano, gustandola ad occhi chiusi e, dopo l’ultimo boccone, disse: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ne mangerei volentieri una intera. Il giorno dopo Maddalena preparò una torta alla vaniglia con il tocco segreto di una lacrima di latte di mandorla. Non la volle vendere a nessuno per portarla tutta intera a Taddeo. Lui ne mangiò una fetta a larghi bocconi, tra l’invidia di tutti. Alla fine fissò i suoi occhi dritti in quelli della bella pasticcera e mormorò: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ne mangerei una a due piani, se la trovassi. – Poi si alzò e portò via quel che rimaneva del dolce. Maddalena non l’aveva nemmeno assaggiato, ma non ebbe il tempo di accorgersene perché corse nel suo laboratorio a cercare una ricetta adatta per una torta a due piani. Il giorno dopo Maddalena aveva gli occhi gonfi e le braccia stanche, perché aveva rifatto tre volte la torta a due piani prima di essere soddisfatta del risultato. Aspettò Taddeo con gli occhi fissi alla porta, servendo distratta- mente gli altri clienti. Lui arrivò tardi, un po’ distratto, ma mangiò volentieri una fetta della torta a due piani che si trovò davanti appena seduto. Si pulì la bocca e prese la mani di Maddalena tra le sue: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Vorrei mangiarne direttamente dalle tue mani. – A Maddalena tremò il cuore. Il giorno dopo Maddalena aspettò che lui entrasse, poi immerse le mani in una ciotola di zuppa inglese e gliele porse. Lui le leccò le dita, le mordicchiò i polpastrelli e poi le mangiò le mani fino ai polsi. La guardò con sguardo tenero: - Le tue torte mi aprono le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ne mangerei dalla tua bocca. – Maddalena ebbe un sussulto. Il giorno dopo non c’erano torte nella pasticceria e i clienti entravano, guardavano il bancone vuoto e se ne uscivano delusi, accompagnati solo da un sorriso di Maddalena. Lei, però, non sorrideva a loro. Sorrideva alla por- ta da cui Taddeo sarebbe entrato. Appena lo vide, si chinò sul bancone e si riempì la bocca di crema al mascarpone, poi voltò il capo verso di lui. Taddeo le baciò le labbra e le divorò il volto fino sotto il naso. Aveva i baffi pieni di crema, quando le alitò in viso: - Tu mi apri le porte del paradiso e i tuoi occhi mi spalancano il cuore. Ti mangerei tutta. – A Maddalena tremò il cuore, ma non era più come la prima volta. Gli occhi le si riempirono di lacrime e avrebbe gridato aiuto, se avesse avuto ancora la
bocca. Il giorno dopo, sola in mezzo alla sua pasticceria vuota, aspettò che Taddeo arrivasse. Quando lui fu sulla soglia, fece cadere un enorme vaso di cioccolato. La crema si sparpagliò su pavimento. Lei s’inginocchiò, respirò a fondo e poi si tuffo in quell’ultimo lago di dolcezza. Si rotolò lì in mezzo, senza badare ai vetri che la ferivano, gli occhi fissi in quelli di lui che la guardavano bramosi. E si lasciò mangiare a bocconi, rimpiangendo di aver confuso l’amore col possesso. Brano 3: di Romano Guardini tratto da “La cortesia, in Etica. Lezioni all’Università di Monaco” La cortesia tra i sessi sorge col decadere della violenza predatrice dell’uomo. Il seme della cortesia matura laddove il desiderio maschile, dismesse le vesti della conquista brutale, acquisisce la coscienza che la donna è una creatura di pari dignità morale. La natura personale della donna esige che in lei si veda un essere autonomo e indipendente, per nulla vinto o passivo, del quale non è concesso disporre a proprio piacimento. [..] Da qui emerge che in linea di principio il vero soggetto della cortesia è la persona, vale a dire quella libertà, dignità e irripetibile unicità dell’essere umano, fondata nello spirito, che va al di là della mera individualità.