Sabato 25 settembre 2010
Lograto, Villa Morando, ore 9.00
Convegno e dibattito pubblico
Aggressività: significati relazionali, quadri clinici ed approcci terapeutici, organizzato da ASSOCIAZIONE UMA.NA.MENTE
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Espressioni artistiche dell’aggressività Luigi Tonoli
Il termine “aggressivo” è un aggettivo durativo di derivazione latina. All’origine si trova il participio aggressus da aggrĕdi, composto da ad (verso) e gradi (parola di radice indoeuropea nordoccidentale che significa camminare1). Dal punto di vista etimologico dunque il verbo “aggredire” significa “procedere, intraprendere o raggiungere i propri scopi” senza implicazioni morali, in quanto non prevede necessariamente una tendenza all’ostilità, all’etero o autodistruzione, insomma al creare vittime. Il preverbo ad è grammaticalmente connesso con la cosa o persona verso la quale ci si muove; il verbo gradior ha diatesi media, cioè indica una particolare partecipazione del soggetto a un’azione che è sentita come interamente propria. Si potrebbe rendere il significato del verbo con "mi avvicino all'altro con intenzione di lasciare un segno". La condotta aggressiva andrebbe cioè interpretata come una “strategia di rapporto con la realtà”2 Così inteso, il verbo avrebbe come correlativo afficior, vale a dire “sono segnato (non per forza in senso distruttivo) dall'avvicinamento a me dell'altro”. Il movimento dunque può essere verso l’oggetto o verso il soggetto. E l’aggressività può essere forza agita o subita. Quando è forza agita, l’aggressività può essere filtrata dal soggetto: può essere piegata verso la distruttività e allora deforma l’altro, oppure può inclinarsi all’assertività e allora l’oggetto ne risulta trasformato3. Quando invece è subita è il soggetto a conservarne l’impronta: naturalmente la profondità e la nitidezza del segno dipendono dal materiale di cui egli è fatto. Un conto è essere sabbia, un conto roccia. E parzialmente la qualità dell’impronta dipende anche dal filtro di chi la riceve: come se la sabbia potesse decidere se essere bagnata oppure no. In altre parole dipende anche dal soggetto l’essere e il considerarsi vittima, oppure no, di un forza esterna. L’aggressività può essere subita o agita, reattiva o proattiva4, fredda o calda, flemmatica o melancolica, sanguigna o collerica, mossa dalla ragione o dall’emozione: in ogni caso senza di essa nulla di ciò che si vive è Forte. Un’ulteriore precisazione può essere ricavata da una scena del film Frida, del 2002, per la regia di Julie Taymor con Salma Hayek nella parte di Frida Kahlo5, la pittrice messicana morta nel 1954. Affetta da spina bifida scambiata per poliomelite, riportò nell’incidente che coinvolse l’autobus su cui viaggiava la frattura delle vertebre, un corrimano le trafisse il bacino da parte a parte, la gamba sinistra fratturata in 11 punti. Nel corso degli anni seguirono 32 operazioni chirurgiche. Dopo l’incidente fu costretta a letto a casa col busto ingessato. Si dedicò alla lettura e iniziò a dipingere. Il primo soggetto fu il suo piede, l’unica parte di sé che riusciva a distinguere tra le lenzuola. I genitori le fecero collocare uno specchio sul soffitto e Frida iniziò la serie degli autoritratti.
1
DEVOTO, Giacomo, 1968, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze, Le Monnier, s.v. “aggressivo” e “grado” 2 Enciclopedia Garzanti di filosofia, 2004, s.v. “aggressività” 3 Cfr. posizione di Stephen A. Mitchell cit. in SPATUZZI, Andrea L, 2005, “Aggressività: sintesi dei contributi sviluppati dalla psicologia”, Psiconline.it (coordinatore dott. Luigi Di Giuseppe), “Ricerche&contributi”, URL: http://www.psiconline.it/article.php?sid=4000 4 Cfr FAGIANI RAMAGLIA, 2006, p. 14 5 La pellicola è un adattamento cinematografico del libro Frida: A Biography of Frida Kahlo di Hayden Herrera. La scena citata è visibile al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=fMKz23FLwHU
Pare che il marito, il pittore geniale e di fama Diego Rivera, definisse l’atteggiamento di Frida “tranquillamente feroce”6. Ecco. Si potrebbe affermare che nella perdita di qualcosa si trova un minimo ma anche un massimo di vita. L’aggressività è il massimo di vita nel minimo di vita.
Pensiero alla morte, 1943
6
Cfr.TOGNI, Beatrice, “Frida Kahlo”, Uniurb.it, “Filosofia/bibliografie/Frida”, http://www.uniurb.it/ Filosofia/bibliografie/Frida/Frida.htm
URL:
Autoritratto, 1940
Le due Frida, 1939
Autoritratto, 1947
La colonna spezzata, 1944 Nei dipinti di Kahlo sono evidenti i riferimenti alla perdita, evidenti le impronte della forza subita, tuttavia il modo di rappresentare se stessa è un atto di volontà di potenza, di autonomia, di affermazione di sé. Sceglie di presentarsi con un linguaggio nuovo e da un punto di vista diverso da quello consueto: non si mostra come la vedono gli uomini o il marito in particolare (si fa più brutta di quanto sia in realtà, addirittura si attribuisce tratti maschili, oppure peluria e a volte non indossa il costume che piaceva al marito, ma addirittura abiti da uomo). Dunque la creatività e ogni creatività non è altro che aggressività, agita o subita, ma sempre pura aggressività. È un avvicinarsi all’altro per lasciare il segno; è, nella perdita di qualcosa, una tensione al massimo di vita.
Tuttavia nell’arte è possibile trovare un aspetto particolare di aggressività: è la reazione alla perdita di un linguaggio condiviso e alla perdita della connessa visione del mondo. Cioè un processo di azzeramento prima, di riempimento poi. Un minimo e un massimo di vita, che sono tutt’uno con un’invenzione linguistica che lascia il segno. Un esempio: Bacon il pittore di Dublino morto a Madrid per infarto il 28 aprile 1992.
Bacon nel suo studio Quando Bacon inizia un lavoro, dipinge figurativamente un soggetto poi con gesto casuale deturpa l’immagine realizzata (è il momento dell’azzeramento del linguaggio, il processo della perdita). Lo fa gettando, ad esempio, una quantità di colore racchiuso nel pugno direttamente sulla tela (o contro la tela) oppure passando una spugna sul dipinto, senza sapere cosa succederà. L’intervento casuale viene protratto finché l’immagine corrisponde alla sensazione che il soggetto da rappresentare suscita nel pittore. Tra l’altro per avere la libertà di intervenire istintivamente sull’immagine figurativa Bacon preferisce che la persona ritratta non sia fisicamente presente in studio: il modello si sentirebbe offeso dall’istinto aggressivo con cui Bacon deturpa l’immagine e questo renderebbe difficile dipingere. Il pittore quindi si serve non di modelli in carne e ossa ma di fotografie. Quindi: Bacon inizia a dipingere la Figura realisticamente, poi la deturpa con gesto casuale (e la tensione cambia improvvisamente, perché l’immagine è strappata al sistema nervoso7) Infine, dopo il gesto di azzeramento, il pittore lavora sull’effetto prodotto dal caso riportando il quadro a un minimo di figuratività8. L’immagine finale conserva quindi un’analogia estetica con quella iniziale. Ma ne esprime l’essenza. L’immagine insomma ritorna riconoscibile, ma è passata attraverso il caso, l’istinto, la perdita volontaria della volontà9. Quindi l’immagine finale è costruita in un nuovo linguaggio che sostituisce il vecchio e che è il risultato di un reciproco avvicinamento fra soggetti che lasciano il segno. 7
Afferma Bacon: “Viviamo quasi sempre protetti da schermi. Viviamo un’esistenza schermata. Quando sento dire che il mio lavoro è violento, penso che forse, di tanto in tanto, sono riuscito a tirar via qualche velo, qualche schermo. […] Cerco soltanto di strappare al mio sistema nervoso le immagini più fedeli, le più vere” (FALCONE, 2000, epigrafe) 8 A proposito di deformazione che registra l’apparenza, di uccisione dell’oggetto amato, di rappresentazione come inevitabile oltraggio, si veda il dialogo fra David Sylvester e Francis Bacon riportata in FALCONE, 2000, pp. 88-90 9 Cfr. DELEUZE, 1995, p. 162
“Quando parlo di violenza in pittura – dichiara Bacon - alludo a tutte quelle implicazioni di una immagine che si possono comunicare solo violentemente. Quando ti guardo di là dal tavolo, non vedo soltanto te, ma tutto ciò che da te emana. Trasferire questo in un ritratto significa che il ritratto diventerà violento”10
In questo modo Bacon riesce a catturare le forze, cioè a rappresentare i segni dell’interazione fra l’io e il tu. Qualche esempio di trasferimento nel ritratto di ciò che “emana” dal soggetto da rappresentare. A volte la figura appare imprigionata da una forza che proviene dall’esterno e sembra essere in preda alla pressione della campitura (lo spazio esterno monocromo e statico11). La figura assume identità in quanto reclusa, forse anche per propria scelta.
Ritratto di George Dyer mentre parla, 1966
Autoritratto, 1978
Oppure la forza di resistenza. In Painting del 1978 la figura è tesa nello sforzo di girare la chiave nella serratura dall’altro lato del quadro (l’interno è rappresentato dal tondo arancio oro che costituisce il punto su cui la figura sembra stare in bilico).
10
BACON, 1991, p. 67, cit. in FALCONE, 2000, p. 37. Per quanto riguarda la possibilità di “sbloccare le valvole del sentimento e di rimandare lo spettatore alla vita con più violenza” si veda il dialogo fra David Sylvester e Francis Bacon riportata in FALCONE, 2000, pp. 110-114 11 Secondo Deleuze, nei dipinti di Bacon sono presenti tre elementi pittorici: 1) le grandi campiture come spazio che circonda la figura; 2) la Figura; 3) il luogo specifico, cioè il tondo, la pista o il contorno, che è il limite comune alla Figura e alla campitura. (DELEUZE, 1995, p. 33). E tra le tre parti si creano tensioni.
Dipingere, 1978 O ancora, la volontà di uscire dalla reclusione e di perdersi nella campitura. Il corpo tenta di fuggire, “passando tutto intero attraverso il tubo di scarico”12. Si veda la direzione della forza, indicata dalla freccia. Il mondo si chiude sulla figura e forza la figura e la figura si apre al mondo e forza il mondo13.
Figura al lavandino, 1976 Ma anche la voglia di dormire: in Sleeping figure del 1974 la figura sembra schiacciata sul letto. 12
13
DELEUZE, 1995, p. 41 DELEUZE, 1995, pp. 85-101
Figura dormiente, 1974 Così nei ritratti14. Bacon non dipinge il viso, ma la testa. Come il corpo è senza organi, la testa sembra essere solo carne, senza ossa, carne compatta e dura. Carne come luogo su cui si esercitano le forze della vita e dell’aggressività, superficie su cui si imprimono le tracce dell’esistenza, ma anche luogo da cui si sprigionano verso l’esterno forze di comunicazione e di relazione con gli altri, quindi la superficie della testa (e del corpo) come punto di contenimento-separazione15. Da qui le deformazioni e gli stravolgimenti.
Autoritratto, 1969
14
John Deakin, Francis Bacon, 1959-1960
Per gli autoritratti si fa riferimento a “Galleria degli autoritratti di Francis Bacon”, a cura di Nadia Mazzon, La Rivista di Engramma 38, dicembre 2004-gennaio 2005, “Gallerie”, URL: http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/galleria/38/galleria_bacon.htm a cui si rinvia per altre immagini 15 Cfr. CONTRAN, Laura, “Francis Bacon”, (recensione a ANZIEU, Didier 2009, Francis Bacon, Torino, Ananke) in SpiWeb, Società psicanalitica italiana, “Cultura. Libri psicanalitici”; URL: http://www.spiweb.it/IT/index.php?option=com_content&task=view&id=418&Itemid=151
Autoritratto, 1971
Francis Bacon al Grand Palais di Parigi, ottobre 1971
Tre studi per ritratti, Incluso autoritratto (part.), 1969
Jorge Lewinsky, Francis Bacon, Ritratto, Londra, 1967
Anche lo spettatore è coinvolto. Nel saggio Movimento, emozione, empatia. I fenomeni che si producono a livello corporeo osservando le opere d’arte Freedberg e Gallese spiegano come l’osservatore provi una forte emozione empatica in due casi: quando coglie nell’opera un’azione intenzionale del soggetto rappresentato oppure quando scorge le tracce visibili dei gesti creativi dell’artista (energica distribuzione della pittura o segni prodotti dalla mano del pittore).16 Proprio le caratteristiche essenziali della pittura di Bacon. Dunque anche lo spettatore entra nel gioco dell’aggressività intesa come avvicinamento che lascia il segno. Con le parole di Bacon, la pittura è violenta perché colpisce il sistema nervoso dello spettatore17.
16
“1. la relazione fra emozioni empatiche imitative nell’osservatore e il contenuto rappresentativo delle opere in termini di azioni, intenzioni, oggetti, emozioni e sensazioni descritte in un certo dipinto o scultura; 2. la relazione fra emozioni empatiche imitative nell’osservatore e la composizione dell’opera, in termini di tracce visibili dei gesti creativi dell’artista, per esempio una modellatura vigorosa dell’argilla, un’energica distribuzione della pittura, un tratto veloce del pennello e, più in generale, i segni prodotti dal movimento della mano. Entrambe le componenti sono sempre presenti, seppure in proporzioni variabili. Nell’arte non figurativa moderna e contemporanea la relazione fra emozioni empatiche imitative nell’osservatore e struttura dell’opera costituisce una parte sostanziale dell’esperienza estetica.” (FREEDBERG GALLESE, 2008, p. 56) 17 Bacon: “È una questione difficile, una differenza impercettibile, che non si riesce a spiegare a parole […] Comunque c’è una pittura che ti colpisce direttamente al sistema nervoso […]” (BACON, 1991, p. 20, cit. in FALCONE, 2000, pp. 110 ss)
Altra situazione in cui nella perdita di un linguaggio si trovano un minimo e un massimo di vita. Nel 1960, Webern, coinvolgendo Schönberg e Berg, scrive: “è stata una dura battaglia, ci sono stati ostacoli da superare della più spaventosa specie, e poi la paura di chiedersi: “è possibile tutto ciò?” […]. Da parte nostra questo è stato un impulso in avanti, che doveva essere dato, un impulso come non ce n’è mai stati prima”18 A quale battaglia si riferisce Webern? Tra fine 800 e inizi 900 l’Impero asburgico si sgretola e con esso entrano in crisi una precisa visione del mondo, ma anche il linguaggio che tale concezione esprimeva. La perdita di fiducia nelle cose è perdita di fiducia nelle parole.
Schönberg e poi i suoi allievi, Webern e Berg, portano a esaurimento il linguaggio musicale della tradizione e affrontano l’irreversibile alternativa: o il silenzio o un nuovo codice linguistico. L’aggressività – si diceva – è la dimensione interiore senza la quale nulla di ciò che si vive è Forte. Per Schönberg “solo chi è coraggioso è un artista”19. L’invenzione di un linguaggio nuovo è il risultato di una “spaventosa battaglia” perché è anche apertura a una nuova concezione del mondo, “una nuova etica. Di qui l’altissima tensione morale che caratterizza la vicenda artistica di Schönberg e della sua scuola”20. L’invenzione di una legge che tenga in calcolato rapporto di equilibrio i suoni21 costituisce il massimo della creatività, distruttiva di forme e contenuti della tradizione, ma in sé massimamente costruttiva. La creazione è un radicale ripensamento del mondo stesso a partire dall’abissale assenza 18
19
Cfr. LISCIANI-PETRINI, 2001, p. 107
Schönberg: “Il vero musicista pretende una nuova sonorità, con tutto il suo effetto di inusitato e di moderno, solo perché deve esprimere sentimenti nuovi e inauditi che premono nel suo animo. [...] Una sonorità nuova è un simbolo trovato involontariamente: esso preannuncia l’uomo nuovo che in esso si esprime […] solo chi è coraggioso è un artista (LISCIANIPETRINI, 2001, p. 109) 20 LISCIANI-PETRINI, 2001, p. 119 21 Cfr. LISCIANI-PETRINI, 2001, p. 116
riscontrata, un ripensamento compiuto senza nostalgia, nel “gelo”22 dichiara Schönberg e al gelo, nel Doktor Faustus, si ispira Thomas Mann per costruire il personaggio di Adrian Leverkühn, che poi è Schönberg. Un esempio dell’innovazione: Pierrot lunaire op. 21. Composto nel 1912 su commissione, è una serie di brani per voce femminile, pianoforte, flauto, clarinetto, violino e violoncello eseguita per la prima volta a Berlino il 16 ottobre dello stesso anno. Era stata la cantante di cabaret Albertine Zehme a chiedere a Schönberg un ciclo di canzoni. Il musicista scelse 21 testi (sui 50 originari) della traduzione tedesca23 di un’opera del poeta simbolista belga, Albert Giraud. Si tratta di una serie di quadri slegati fra loro. In ciascuno di essi il protagonista (un Pierrot che vaga nella notte), esprime visioni liriche, incubi, spesso crudi e violenti, sogni, follia e delirio, cinismo, angoscia. Immagini di assassinio, macabre e morbose. La musica, che varia da brano a brano, è una consapevole e razionalissima deformazione e stilizzazione del genere del cabaret. L’elemento più importante è il canto. Lo Sprechgesang (o Sprechstimme) – letteralmente “canto o voce parlata” – introduce un uso della parte vocale completamente nuovo rispetto al passato. Dell’opera di Schönberg si propone la versione cinematografica di OLIVER HERMANN Eine Nacht. Ein Leben, del 1999, con Christine Schäfer (Sprechstimme), Ensemble InterContemporain, Pierre Boulez (direttore). Pierrot lunaire, op. 21, parte II, 824
II. Teil 8. Nacht (Passacaglia) Finstre, schwarze Riesenfalter Töteten der Sonne Glanz. Ein geschloßnes Zauberbuch, Ruht der Horizont – verschwiegen. Aus dem Qualm verlorner Tiefen Steigt ein Duft, Erinnrung mordend! Finstre, schwarze Riesenfalter Töteten der Sonne Glanz. Und vom Himmel erdenwärts Senken sich mit schweren Schwingen Unsichtbar die Ungetüme Auf die Menschenherzen nieder… Finstre, schwarze Riesenfalter
Parte seconda 8. Notte. Notturne, nere farfalle gigantesche spensero lo splendore del sole. Chiuso libro di magia, riposa l’orizzonte – silenziosamente. Dalla nebbia di perdute profondità sale un profumo, che uccide il ricordo. Notturne nere farfalle gigantesche spensero lo splendore dei sole. E dal cielo verso la terra calano volteggiando pesantemente invisibili mostri nei cuori degli uomini… Notturne, nere farfalle gigantesche.
22 Cfr. LISCIANI-PETRINI, 2001, p. 110. La parola tra virgolette è di Schönberg. Si veda lo stesso saggio, alle pp. 110-111, per i riferimenti relativi al Doktor Faustus di T. MANN, in cui il motivo del gelo è uno dei fili-conduttori della rappresentazione di Schönberg nella figura di Leverkühn 23 L’opera di Albert Giraud era stata tradotta in tedesco da Otto Erich Hartleben, una ventina d’anni prima 24 La scena è visibile al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=u6LyYdSQQAQ
Schönberg avvicina la voce cantata a quella parlata. In una nota introduttiva al Pierrot lunaire fissa le regole del nuovo linguaggio: il canto osservi sì l'altezza delle note ma, una volta raggiunta, la lasci cadere senza intonarla pienamente, “le note [cioè] non devono essere intonate bensì accennate e subito lasciate”25. L’effetto è antilirico, spoglio e angosciante. E il disordine solo apparente. Il gesto che risponde alla dissoluzione del linguaggio tradizionale non è dovuto alla casualità nervosa, ma a un rigoroso e scientifico metodo compositivo. In ogni caso, come i gesti forti della mano di Bacon, così l’abbandono della nota appena intonata, colpisce empaticamente l’ascoltatore. E lascia il segno. Si avverte il nuovo che si afferma. Si è accennato al Doktor Faustus di Thomas Mann, Nel romanzo il personaggio di Adrian Leverkühn allude alla personalità di Schönberg come inventore dello Sprechgesang e poi soprattutto della dodecafonia. È curioso che Mann attribuisca al suo personaggio la convinzione che il senso stia nel calcolo, nell’ordine, nell’apollineo di Nietzsche e ritenga che in tale fredda purezza apollinea sia insinuata la suprema manifestazione del diabolico. Come se ci fosse del demoniaco nel nuovo e nel razionale che si afferma. Nel massimo del pensiero che dà la sensazione di assenza di pensiero Pare che Schönberg si sia offeso per il riferimento al demoniaco e abbia rotto l’amicizia con Mann.
Un altro salto. Siamo in Spagna. Nel 1987. Escono le poesie Dal manicomio di Mondragón.
Un loco tocado de la maldición del cielo canta humillado en una esquina sua canciones hablan de ángeles y cosas oue cuestan la vida al ojo humano la vida se pudre a sus pies como una rosa y ya cerca de la tumba, pasa junto e él una Princesa.26
25
LISCIANI-PETRINI, 2001, p. 122
26
PANERO, 2007, pp. 36-37
Un pazzo toccato dalla maledizione del cielo canta umiliato in un angolo le sue canzoni parlano di angeli e cose che costano la vita all’occhio umano la vita marcisce ai suoi piedi come una rosa e ormai prossimo alla tomba, gli passa a fianco una Principessa.
I versi sono di Leopoldo María Panero. Pochi in Italia lo conoscono, ma è molto famoso in Spagna dove è considerato uno dei poeti spagnoli più grandi e controversi. Su di lui e sulla sua famiglia sono stati girati due film, nel ‘76 e nel ‘94. La sua produzione è vastissima e irregolare (ha pubblicato più di cinquanta opere, di poesia, narrativa, saggistica). Il filo rosso che attraversa i suoi scritti è la volontà di distruzione. Nel film Il disincanto, del ‘76, afferma: “Io mi autodistruggo per non essere come gli altri”. Si riconosce in una frase di Mallarmé che costituisce anche il titolo di una sua composizione: “La destruction fut ma Beatrice”27. Come afferma Ianus Pravo, traduttore in italiano del poeta, “Leopoldo dà l’impressione di muoversi nel mondo in un suo nero sogno, di ritorno da una morte feroce”28. Alcune composizioni raccolte in Narciso nell’accordo estremo dei flauti vanno sotto il titolo “Come scrivevo prima di uccidermi”. Che cosa significa essere “di ritorno da una morte feroce”? e “come scrivevo prima di uccidermi”? di che morte si tratta? Un passo indietro. Panero nasce il 16 giugno 1948 a Madrid. A cinque anni scrive poesie come “Fatemi uscire dalla tomba ma / là mi lasciarono con gli abitanti / delle cose distrutte / che ormai non erano più / che quattromila scheletri”29. A 18 anni il primo arresto, per attività antifranchista. Vive da dandy, ha personalità brillante, ma eccentrica. Nel giro di pochi mesi altri tre arresti. Poi il tentativo di suicidio per amore. E il primo ricovero in ospedale psichiatrico. La depressione, la droga, altri tentativi di suicidio. E altri ricoveri. Il primo libro, ben accolto dalla critica, è del 1968. Nel ‘79 a Parigi, dove sopravvive frugando nell’immondizia e cercando in essa il senso dell’esistenza, scrive Narciso nell’accordo estremo dei flauti. Attualmente vive (ma solo la notte) nell’Hospital Psiquiátrico Insular di Las Palmas de Gran Canaria. E continua a scrivere. La scrittura di Panero è singolare, disubbidiente, aggressiva nella sua trasgressione di ogni norma, compresa la propria norma, e nelle lucida oscurità delle immagini. Nella distruzione la creatività. Los ángeles cabalgan a lomos de una tortuga y el destino de los hombres es arrojar piedras a la rosa Mañana morirá otro loco: de la sangre de sus ojos nadie sino la tumba sabrá mañana nada30.
Gli angeli cavalcano sul dorso di una tartaruga e il destino degli uomini è scagliar pietre sulla rosa Domani morirà un altro pazzo: del sangue dei suoi occhi nessuno se non la tomba saprà domani più nulla
Distruzione che è anche autodistruzione:
27
STEPHANE MALLARME, Lettera a Eugène Lefébure, 27 maggio 1867 PRAVO, Ianus, 2007, “L(a) M(orte) P(ossibile). Breve presentazione di Leopoldo María Panero”, Galassialibri.wordpress.com, URL: http://galassialibri.wordpress.com/2007/06/18/la-morte-possibile-breve-presentazionedi-leopoldo-maria-panero/ 29 PRAVO, 2005, p. 7 30 PANERO, 2007, pp. 38-39 28
“sono la cenere della poesia in cui non credo, sono la cenere del verso e della poesia, son colui che vive senza aver più senso”31.
La distruzione dunque come guida (non ispirazione), Panero non crede all’ispirazione, ma a un metodo compositivo scientifico32. Come Bacon deturpa la figura con gesto casuale, così Panero deturpa l’immagine di sé e delle cose intervenendo con aggressiva brutalità sul linguaggio e offrendolo decostruito al lettore. “Il verso deve essere [...] il morso di serpente nella bocca. Il morso azzurro del morto”33
Panero dunque inventa un linguaggio che porta alla dissoluzione il linguaggio: il critico Blesa lo ha definito logofagico. Il testo logofágico si distrugge e si ricompone, si moltiplica disperdendosi in altri testi oppure si annulla disperdendo altri testi dentro di sé. Il risultato è la distruzione dell’io lirico, cioè dell’immagine che chi legge si fa di chi scrive. Come se l’autore volesse uccidere l’immagine di sé nei propri versi34. È la morte di cui si diceva. Ad esempio Panero inserisce nel proprio testo altri testi (citazioni, allusioni, riscritture, riprese in varie forme) tutto in forma non segnalata, quasi irriconoscibile, così che per il lettore è difficile identificare chi sta parlando. Nei versi posti a epigrafe di Last river toghether35 Panero si sovrappone direttamente a Cavalcanti
I’ vo come colui ch’è fuor di vita, che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto di rame o di pietra o di legno, sol uno fior mi trae della ferita, sol a uno sguarda credo ch’io sia.
Solo i primi tre versi appartengono al sonetto di Cavalcanti, gli altri due sono versi aggiunti da Panero. La poesia cioè, senza un territorio proprio, vaga entro i confini del già detto, della letteratura e del linguaggio. E il poeta è una sorta di correttore di bozze. Il referente della letteratura non è la realtà, ma la letteratura stessa. Panero è al termine del percorso: lo scrittore dell’ultimo libro, l’ultimo correttore di bozze36. 31
Cit. da PRAVO, 2007 Cfr. MONTINI, 2010, p. 10 33 PANERO, Leopoldo María, 2005, “Leopoldo María Panero: discepolo della follia”, in PANERO, 2005, p. 21 34 Nel ‘73 scriveva: “Nulla della mia esperienza t’interessa: vuoi solo sapere di questa finzione… di questa entità chiamata autore che ti serve per digerirmi, questa povera immaginazione (Leopoldo María Panero) che ora divorano i cani… Lasciate adesso che questa legione di formiche porti a spasso la sua imbecille laboriosità sopra la maschera caduta sull’asfalto…” (Cit. da PRAVO, 2007) 35 Last River Together, pubblicata dalla casa editrice Ayuso nel 1980, è la quinta raccolta di poesie di Leopoldo María Panero 36 DE ARCE 2009, p. XI, cit. in MONTINI, 2010, p. 10 32
L’immagine di Guido Cavalcanti dell’uomo “fatto di rame o di pietra o di legno, / che si conduca sol per maestria” torna in un altro testo, con effetto logofagico. Lo ascoltiamo recitato e musicato. Il brano è tratto dall’edizione del 2007 di un libro-disco inciso nel 2004 dallo stesso Leopoldo María Panero, insieme a Carlos Ann, Enrique Bunbury, Jose Maria Ponce e Bruno Galindo. Del poeta il disco porta anche il nome37.
Le bon pasteur (Haikú) Es duro el trabajo de la pesadilla, es duro arrastrar de día el carro de las marionetas, de noche; y ser una de ellas mañana, cuando abran los ojos para no ver que la bailarina de cuerda danzando entre ellas mueve ella misma el resorte.38
Le bon pasteur (Haiku) È duro il lavoro dell’incubo è duro giorno e notte trascinare il carro delle marionette; ed esserne una domani, quando aprano gli occhi per non vedere che la ballerina a molla danzante tra loro carica lei stessa il meccanismo.
Ma il linguaggio logofagico è anche incompleto o logorroico, stravolge le forme poetiche tradizionali, spezza la sintassi, alterna registri linguistici differenti, crea una babele di lingue, si inventa segni grafici inesistenti, mescola poetico e volgare, bellezza e orrore, riferimenti a pratiche sessuali, cannibalismo, bisogni fisiologici, necrofilia, trasgressione, oscenità39. Come Bacon deforma il già visto, Panero deforma il già detto. Il destino della poesia è la kenosis: l’appropriarsi di tutto e poi lo svuotamento. Quando la poesia ingloba tutto in congerie disorganica, non dice più nulla, si trasforma in nulla. Nulla come conseguenza dell’eccesso. La parola è parola di violenza. Dunque la volontà di non dir niente, le parole diventano vuote e scrivono il silenzio. Da qui nasce però la poesia. Convertirsi in “nulla”, cioè morire, unica possibilità per trasformare la poesia in poesia40. Stavolta poesia come resa all’impossibilità di dire cose nuove, così come all’impossibilità di vivere per la presenza costante della morte nella vita. La distruzione come metodo compositivo rigoroso. Paradossalmente in Panero si trova che il massimo di vita si ha nel dar corpo al minimo di vita. Proprio nel processo di azzeramento del linguaggio, nel modo in cui si azzera il linguaggio, si genera creatività. Poi il resto è compito del lettore.
Dallo stesso libro-disco del 2004 (edizione 2007) ascoltiamo un brano costruito nella decostruzione del linguaggio: mescolanza di poetico e volgare, bellezza e orrore, amore e morte, amore e nulla, ci si perde nel nulla, è la morte.
37
PANERO, Leopoldo Maria – ANN, Carlos, BUNBURY, Enrique, PONCE, Jose Maria y GALINDO, Bruno, 2004, Leopoldo María Panero, Barcelona, Moviedisco Recors y la editorial El europeo. La prima edizione andò esaurita in poche settimane. Ne uscì subito una seconda che includeva anche il dvd Un dia con Panero. 38 PANERO, 2005, p. 114-117 39 Cfr. BLESA, Túa, 1998, Logofagias. Los trazos del silencio, Trópica. Anexos de Tropelías, Zaragoza, p. 15, cit. in MONTINI, 2010, p. 18 40 Cfr. DE ARCE, 2009, “p. XVII, cit. in MONTINI, 2010, pp. 27-29, 34
La alucinación de una mano o la esperanza póstuma y absurda en la caridad de la noche A Isa-belle Bonet
«Todo el bienestar del mundo lo encuentro en Suleika cuando la achucho un poco me siento digno de mí mismo, si me dejara – perdería los ojos.» (GOETHE, Diván Oriental Occidental.)
Una mujer se acercó a mí y en suos ojos vi todos mis amores derruidos y me asombró que alguien amase aún el cadáver, alguien como esa mujer cuyo susurro repetía en la noche el eco de todos mis amores aplastados y me asombró que alguien lamiese en las costras todavía tercamente la sustancia que fue oro, aquello que el tiempo purificó en nada. Y la vi como quien ve sin creerla En el desierto la sombra de un agua, la amé sin atreverme a creerlo. Y la ofrecí entonces mi cerebro desnudo, obsceno como un sapo, como una paz inservible animándola a que día tras día lo tocase suavemente con su lengua repitiendo así una ceremonia cuyo sentido único es que olvidarlo es sagrado41.
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PANERO, 2005, p. 116-119
L’allucinazione di una mano o la speranza postuma e assurda nella carità della notte A Isa-belle Bonet
«Tutta la grandezza del mondo la trovo in Suleika quando la tormento un poco mi sento degno di me stesso; se mi lasciasse – perderei gli occhi.» (GOETHE, Divano Orientale Occidentale.)
Una donna vicino a me, e in quegli occhi vidi ogni mio amore crollato e mi stupii che qualcuno amasse ancora il cadavere, qualcuno come quella donna il cui sussurro ripeteva nella notte l’eco di tutti i miei amori schiacciati e mi stupii che qualcuno leccasse ancora nelle croste ostinatamente la sostanza che fu oro, ciò che il tempo ha purificato in nulla. E la vidi come chi vede senza crederci nel deserto una scintilla d’acqua, l’amai senza osare crederlo. E le offrii allora il mio cervello nudo, osceno come un rospo, come una pace inservibile incitandola perché giorno dopo giorno lo toccasse dolcemente con la lingua ripetendo così una cerimonia il cui unico senso è che sacro è dimenticare.
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