A SCUOLA DI GIALLO SCRITTORI IMPROVVISATI
GLI AUTORI
IAET Cacace Lorenzo Cafeo Raffaele Cincotta Nicolas Crimi Davide D’Andrea Giuseppe De Luca Giuseppe Di Bella Roberto Formica Francesco Foti Gioacchino Giardina Alessio Iacono Fabrizio Impalà Fabio Isgrò Alessandro Isgrò Nunzio Maestrale Domenico Maimone Francesco Milazzo Luigi Mirabile Federico Puglisi Filippo Quattrocchi Carmelo Rizzo Francesco Russo Gabriele Scibilia Alessandro Scibilia Giuseppe Pio Trio Marco
GLI AUTORI
IBM Amovilla Andrea Campagna fabio Caravello Lorenzo Fiumara Antonio Galeno Emanuel Giordano Roberto Ingegnere Gabriele Puglisi Mattia Rizzo Salvatore Santoro Salvatore Siroli Samuele Torre Francesco Triboli Michael Mirco
…ai nostri genitori, ai fratelli, ai nonni, agli amici nostri ai nostri amici animali, ai giovani, ai bambini malati, bisognosi, affamati, ai morti in Libia a chi ci fa riflettere, a chi ci sa consigliare, a chi ci aiuta. Siamo scrittori improvvisati di storie, ma non sono improvvisati i nostri sentimenti. Alla prof.ssa Abramo, al nostro Preside, all’Itis Majorana.
INTRODUZIONE
Questo modesto lavoro, realizzato dai ragazzi della I A ET e della I B M,si propone come un piccolo esperimento. La fantasia degli autori è stata la fonte principale a cui si è attinto per progettare e realizzare questa raccolta di racconti. Il genere del “giallo” ha affascinato i ragazzi e per questo si è scelto di approfondirne lo studio della struttura. I ragazzi hanno “montato” le loro storie dopo aver creato il loro personaggio principale, il detective, e dopo aver scelto l’ambientazione. L’assenza di scene cruente è stata “pensata” e “ voluta” con gli autori che hanno condiviso l’idea che “giallo” non deve significare orrore. La fantasia e la creatività dei ragazzi ha fatto il resto. Ognuno di essi ha avuto la possibilità di esprimere la propria personale capacità di raccontare. Sono stati forniti degli elementi che sono stati inseriti, obbligatoriamente, nelle storie: ciò allo scopo di agevolare il percorso di scrittura con delle indicazioni che fungessero da dati di partenza, ma anche al fine di dare alla costruzione dei “gialli” un’impronta personale ed originale . Quindi alcuni aspetti in apparenza ripetitivi, in realtà rappresentano il rispetto dell’obbligo di inserimento di questi elementi che, talvolta, sono stati scelti e concordati con i ragazzi stessi. Chiedendo scusa per gli inevitabili errori e per le eventuali mancanze o ripetizioni e fiduciosi della comprensione dei lettori, gli autori sono orgogliosi di offrire questo piccolo spaccato della loro creatività. Buona lettura!
LE INTUIZIONI DI OSCRAM Nella notte del tre Novembre 1989 un uomo lasciò la sua fidanzata perché era stata scoperta mentre lo tradiva con Frank Molone. Il tre Novembre del 1990 un assassino entrò in casa di Frank e lo soffocò, durante la notte, per vendetta. Quella stessa notte, alle 5.00 del mattino, il detective Oscram ricevette a casa la telefonata dell’agente di polizia che gli comunicava quanto era successo. Arrivato sul luogo del misfatto, vide la stanza in disordine e il cadavere sul letto, la finestra aperta, un sigaro spento sulla coperta ed un fazzoletto poggiato vicino alla finestra. Oscram cominciò ad indagare con molta attenzione perché l’assassino era stato attento a non lasciare tracce. L’oggetto che lo incuriosiva di più era il sigaro che faceva pensare ad un assassino che, nel commettere il delitto, avesse agito come se fosse un gesto abituale, come se non fosse la prima volta. Quella sera Oscram tornò a casa, ma non dormì per tutta la notte e, mentre continuava a leggere il giornale, notò la fotografia di un uomo, ricercato per l’omicidio dell’ex moglie. L’indomani, tornato sul luogo dell’omicidio, Oscram riesaminò anche il fazzoletto e si accorse che sulla stoffa c’era scritto un messaggio: “Ti aspetto alla fattoria abbandonata”. Con tutte le unità di polizia, allora Oscram si recò alla fattoria che aveva presto individuato perché sentì che l’assassino voleva essere preso. Arrivato lì trovò, infatti, un uomo che lo aspettava con le mani in alto. Serviva, però, una confessione per sapere se fosse davvero lui l’omicida. Durante il primo interrogatorio, l’uomo riferì che era stato lui a commettere il delitto, ma che per fornire altri dettagli voleva in cambio un bel letto al posto di quello che c’era nella sua cella. Gli venne portato, però venne messo in isolamento; allora chiese ad Oscram di lasciarlo andare altrimenti avrebbe ucciso altre persone entro le 6.00 del mattino. Oscram non lo liberò e, la mattina stessa, appena gli agenti di turno in auto accesero i motori delle macchine, ci fu un’esplosione che uccise molti dei colleghi di Oscram. Arrabbiato, il detective andò di corsa dall’assassino e gli chiese perché stesse facendo tutto quello ed egli rispose che agiva così perché voleva cambiare il sistema in quanto, per omicidio, venivano dati pochi anni di galera. Oscram, con il suo collega più fidato, si recarono in un garage di proprietà dell’assassino e scoprirono che era collegato alla cella in cui era rinchiuso tramite delle gallerie in modo che l’uomo potesse uscire e rientrare quando voleva; infatti quando tornò alla cella, l’uomo non si
trovava lì. Il detective si chiese dove potesse essere andato e, immediatamente, si ricordò che quel giorno si sarebbero riuniti i membri del Comitato governativo. Oscram scappò di corsa sul luogo della riunione e, nei locali sotto la sala riunioni, trovò una bomba. Prima che l’assassino la facesse esplodere, Oscram la prese e la spostò sotto il lettino della cella che ospitava l’uomo. Gli sembrò l’unica soluzione: al clic del telecomando, la cella dell’omicida, che nel frattempo era rientrato in carcere, esplose. Nessuno seppe mai che era stato Oscram. Lorenzo Cacace
UN NATALE ALL’INSEGNA DEL GIALLO Era la mattina del giorno che precedeva il Natale e l’orologio posto sul campanile della chiesa batteva le dieci. Il paese era ricoperto da una fitta coltre di neve. Tutto era pronto, in questo piccolo paesino vicino Catania, per festeggiare. Tutti erano indaffarati ad ultimare gli ultimi acquisti per parenti ed amici e per preparare il tradizionale pranzo. Jack, un uomo alto e grassoccio dall’espressione sempre sorridente, si muoveva con passo svelto, ma la sua attenzione fu attratta da un particolare, quando entrò nella farmacia del paese: Giorgio, il commesso della farmacia, aveva qualcosa di strano. Incuriosito aspettò che l’uomo uscisse e decise di seguirlo. Jack era noto agli abitanti della zona per la sua fama di investigatore, dato che aveva avuto l’occasione di partecipare ad importanti indagini e, per questo motivo, era invidiato, ma anche rispettato da tutti. Ad un certo punto, Giorgio si fermò di colpo per rispondere al telefonino che squillava. Jack riuscì a sentire la conversazione e capì che, dall’altro lato, parlava una guardia forestale, ma nello stesso tempo intuì che qualcosa di tragico stesse per succedere. Giorgio si girò di scatto, ma l’investigatore fu pronto a nascondersi sotto il portico di un edificio vicino. Cominciò subito a riflettere come potesse evitare che accadesse quanto aveva sentito: un omicidio, all’alba, sulla piccola pista sciistica del paese. L’indomani prestissimo, Jack si mise gli sci in spalla e s’incamminò seguendo un tortuoso sentiero attraverso la fitta boscaglia. Quando raggiunse sul luogo del presunto omicidio, il sole era già alto e la pista cominciava a popolarsi. Si nascose dietro un robusto tronco e rimase in osservazione. Vide Giorgio passare impugnando un coltello e seguendolo con lo sguardo si accorse che si avvicinava minacciosamente ad un uomo che sembrava riposarsi dalla fatica della sciata. Jack immediatamente si lanciò verso Giorgio riuscendo a farlo cadere sulla neve, ma non riuscì ad evitare l’omicidio perché all’improvviso sbucò una guardia forestale che colpì a morte la vittima riuscendo a dileguarsi in un istante. Jack, tenendo fermo in terra Giorgio, prese il telefonino e contattò la polizia. Pochi minuti dopo sul posto era tutto un brulicare di persone: agenti, infermieri dell’ambulanza, molti curiosi e il medico legale. Giorgio ammanettato, fu condotto nel carcere più vicino. La mattina dopo l’aria di festa sembrava essersi disciolta nel nulla. Jack aveva dormito poco e decise di recarsi sul luogo del delitto per cercare qualche indizio. Arrivato sulla pista cominciò a
guardarsi intorno e a rovistare ovunque, così dentro la spaccatura di un tronco trovò la divisa della guardia forestale. Frugò nelle tasche e trovò un tesserino identificativo, ma subito pensò: “può essere così facile risalire al colpevole?” Fu un attimo, all’improvviso si accorse che qualcuno, nascosto nell’ombra che lo stava osservando, ora si stava allontanando velocemente. Jack provò ad inseguirlo seguendo le impronte lasciate sulla neve. Percorse un lungo tragitto, poi, stanco, si fermò davanti ad un dirupo e, deluso, si sedette a riflettere. Si accese una sigaretta e rimase lì finche il freddo non gli ricordò che era giunti il momento di tornare a casa. Fu allora che si accorse che, legata ben salda ad un tronco, una fune era stata fatta scivolare nel dirupo: forse lì sotto vi era un rifugio. Non perse un attimo, corse fino alla sua auto per prendere una torcia elettrica, ma il buio e il freddo gli sconsigliarono di continuare le ricerche. Il mattino seguente si alzò presto e decise di scendere nel dirupo. Arrivato sul posto, scese e trovò, con grande sorpresa, una radura nascosta da un folto gruppo di alberi e, celata da questi, una casa che era stato impossibile vedere dall’alto. Pensò subito che si doveva trattare dell’abitazione della guardia forestale che si era macchiato dell’omicidio. Silenziosamente si avvicinò alla casa e fece irruzione sorprendendo l’uomo che cercava di sbarazzarsi dell’arma del delitto. La guardia forestale, accortasi della sua presenza, gli saltò addosso cercando di strangolarlo con le mani e, non riuscendoci, si voltò velocemente per prendere una corda, ma Jack fu più veloce e riuscì ad estrarre la pistola e a sparare. Lo colpì alla mano in modo che l’uomo non potesse più prendere la corda. Steso l’assassino a terra, Jack riuscì a immobilizzarlo e a condurlo in commissariato. Dopo un lungo interrogatorio infine confessò che, appartenendo ad una storica famiglia del paese, aveva vendicato un vecchio omicidio perpetrato contro un suo familiare. Jack aveva concluso le sue indagini.
Raffaele Cafeo
I CUGINI Un giovane di nome Mike si era appena laureato in medicina e aveva l’intenzione di partecipare a dei corsi per realizzare il suo sogno di diventare medico. Dopo avere frequentato questi corsi, Mike scoprì che suo cugino Matteo era diventato medico senza alcun titolo. Questa notizia scatenò un’invidia spaventosa nel giovane che decise di rinunciare al suo sogno. Una domenica Mike incontrò Matteo in un bar e lì si misero a discutere. Mike, sempre roso dall’invidia, invitò il cugino per il martedì successivo per continuare il discorso iniziato al bar. Matteo accettò. Mike, quel martedì, si mise ad aspettare il cugino in un vicolo molto buio finchè Matteo, anche se con dieci minuti di ritardo, arrivò. Mike, vedendolo arrivare, afferrò un bastone e, aggredendolo alle spalle, cominciò a picchiare Matteo. L’omicida si sbarazzò poi del corpo sotterrandolo. L’indomani mattina Mike, temendo che qualche traccia potesse far rinvenire il corpo alla polizia, lo prese e lo gettò in mare. Nel frattempo in televisione veniva data la notizia della scomparsa del giovane e tutti cominciarono a cercarlo. Un pescatore, mentre tirava le sue reti, vide il cadavere e lo riferì subito alla polizia che lo recuperò e lo fece esaminare. Sotto le unghie del povero Matteo furono trovati i capelli di Mike che il giovane, nel tentativo di difendersi, aveva strappato al cugino. La polizia arrestò Mike che confessò tutto.
Nicolas Cincotta
PAISTE ALLE PRESE CON UN NUOVO CASO Era una notte molto fredda e, mentre dormiva, il commissario Paiste d’un tratto sentì squillare il telefono; era il suo assistente Mail che gli comunicava che c’era stato un omicidio nelle vicinanze del laghetto che c’era vicino al vecchio cimitero abbandonato. Il commissario si vestì velocemente e si precipitò sul luogo dell’omicidio. Arrivato lì, trovò già il medico legale che stava esaminando il cadavere. Dopo aver finito, il medico disse che si trattava di una giovane donna di ventinove anni della quale sapevano le generalità grazie al fatto che aveva con sé la borsa che ancora conteneva tutti i documenti e anche dei soldi. Paiste dedusse subito che il delitto non era stato commesso a scopo di rapina. Il commissario chiese al medico se sapesse a che ora risaliva l’ora del decesso e quello rispose che il fatto era accaduto circa due ore prima. A questo punto Paiste e Mail cominciarono a studiare la dinamica dell’omicidio e alla fine conclusero che sembrava fosse stata uccisa per strangolamento. Successivamente, arrivato in commissariato, Paiste fece convocare tutti gli amici più intimi e anche il fidanzato della vittima. L’interrogatorio di queste persone durò a lungo, ma tutti sembravano avere un buon alibi. Paiste, però, trovò strano il fatto che un amico della giovane, Robert, che aveva detto di non vedere la ragazza da almeno due anni, avesse un graffio molto evidente su una mano. Dopo che i convocati andarono via, Paiste e Mail cominciarono a riflettere sul caso cercando di indovinare, per ciascuna delle persone appena sentite, un movente per l’omicidio. E ancora tutti gli indizi sembravano portare a Robert che faceva il muratore presso un cantiere che si trovava vicino al luogo del delitto e che, sicuramente, non avrebbe avuto nessuna difficoltà a procurarsi una corda: inoltre dimostrava di avere una grande perché il suo fisico rivelava la sua passione per il culturismo. Paiste, continuando ad indagare, seppe che Robert e la ragazza erano stati fidanzati e che lui ne era ancora innamorato. Il giovane, che fu nuovamente interrogato diverse volte, continuava a negare di essere il responsabile, ma quando Paiste ebbe il risultato dell’autopsia non ebbe più dubbi: sotto le unghie della donna erano stati trovati frammenti di pelle che, rapidamente, si capì che appartenevano a Robert. A quel punto il ragazzo scoppiò in un pianto disperato e confessò di averla uccisa, ma che non avrebbe voluto farlo perché lui l’amava tantissimo, però quando aveva scoperto che lei stava per sposarsi le aveva chiesto di concedergli un
ultimo appuntamento che, poi, si era concluso con l’omicidio. Paiste aveva finalmente risolto il caso. Davide Crimi
QUESTIONE DI EREDITA’ Quel lunedì Calogero, un investigatore privato che lavorava presso un’azienda, era uscito prima dal lavoro. Subito prima di andar via, aveva parlato telefonicamente con suo fratello, poi si era infilato la giacca a vento gialla e si era avviato verso la stazione a piedi. Trentacinque minuti dopo era seduto da solo in uno scompartimento vuoto. Secondo i suoi calcoli stavano per partire, se il treno viaggiava in orario. Appoggiata la testa contro lo schienale, chiuse gli occhi. Mentre il treno si avviava, Calogero pensava al bel piatto di lenticchie, caldo e fumante, che si sarebbe preparato a casa. Improvvisamente la porta dello scompartimento si aprì ed entrò una ragazza che si sedette nel posto più lontano da Calogero e che sembrava tenere d’occhio il corridoio. Dopo un po’ guardò Calogero e disse educatamente:” Buonasera”. “Buonasera”, rispose lui. Poi più niente. Calogero si voltò verso il finestrino e, come se guardasse fuori, si mise ad osservare la ragazza dal riflesso sul vetro. Intanto nel corridoio passò un uomo che si girò a guardare la giovane. Lei se ne accorse e fissò il pavimento, ignorandolo. L’uomo si fermò un istante di fronte allo scompartimento di Calogero, poi si allontanò. La ragazza allora si voltò verso Calogero e disse:” Sa, ho un po’ paura a viaggiare di sera su questa linea, a volte si incontrano delle persone che non sembrano molto a posto con la testa”. Calogero rispose:” Io prendo questo treno tutti i giorni a quest’ora, sono un pendolare, ma non mi sento minacciato; però forse per una donna è diverso”. “Già”, aggiunse lei, “ vede, prima ero seduta in un altro scompartimento e c’era anche quel signore che è passato adesso nel corridoio. Non so se l’ha notato…” . “Si, l’ho notato” rispose Calogero. E lei continuò: “Beh, mi ha…come dire? Infastidita. Niente di grave, però non appena mi sono seduta, non ha fatto altro che fissarmi, poi si è alzato in piedi, in mezzo allo scompartimento. Non mi sono spostata subito perché adesso i posti sono prenotati. E’ una scocciatura doversi sedere dove viene indicato sul biglietto, senza poter scegliere”. “Già” ammise Calogero. La ragazza continuò:” Beh, poi quel signore ha cominciato a parlare, come a se stesso, però ho capito che si rivolgeva a me. Non ho sentito bene quello che ha detto perché mormorava. Poi è passato l’uomo delle vivande, sa quello con il carrello, e lui ha comprato una birra e mentre bevevo la situazione mi è sembrato che peggiorasse”. “E poi?” chiese Calogero. “Poi si è messo in piedi di nuovo. Bevevo e parlava, con
la lattina in mano. Ho pensato che forse era il caso di spostarmi, quindi ho afferrato la mia borsa e sono andata via”. Il controllore interruppe la conversazione: vidimò i biglietti e si allontanò. Calogero allora suggerì:” Forse dovrebbe raccontare al controllore quello che ha detto a me, signora”. “No, non è successo niente di grave” rispose lei. E poi domandò:” Mi scusi se glielo chiedo, ma lei dove scende?” “A Torino” rispose Calogero. Lei sembrò sollevata:”Ah, bene, anch’io”. In corridoio ripassò l’uomo che aveva spaventato la ragazza camminando lentamente e fissando prima Calogero e poi lei. La giovane fece finta di nulla, poi chiese a Calogero:”Può guardare un momento la mia borsa, per favore?”. “Certo, signora” rispose lui. La donna si alzò e Calogero pensò che andava sicuramente in bagno. Il treno entrò in galleria e, ad un certo punto, si sentì un urlo. Subito si creò tanta confusione: gente che si alzava, parlava, si muoveva, chiamava, correva, gridava. Calogero non si mosse: la donna che era andata in bagno non era ancora tornata. Calogero aspettò, ma i minuti divennero troppi. Fuori della galleria il treno si fermò. Calogero sentì le sirene delle auto della polizia e di un’ambulanza. Tutti passavano nel corridoio. Quando Calogero vide il controllore lo fermò e gli domandò cosa fosse successo. Quello rispose:” Hanno trovato una donna in bagno. Il bagno era chiuso a chiave e me l’hanno fatto aprire. La donna è morta”. “Morta?” chiese Calogero “morta come?”. “Era un passeggero del treno, non so altro” rispose il controllore scansandosi per far passare gli uomini della scientifica che trasportavano un sacco nero. Un uomo, dietro di essi, fece loro cenno di fermarsi e si presentò a Calogero: era l’ispettore Mancuso. Calogero gli disse di essere un investigatore privato e gli chiese di vedere il corpo della vittima. L’ispettore acconsentì e gli chiese se fosse disposto a collaborare alle indagini, dato che era un investigatore. Calogero accettò. Poi gli uomini della scientifica aprirono leggermente il sacco e lui si accorse subito che non si trattava della donna che era con lui nello scompartimento, così disse:”Non l’ho mai vista. Come si chiama?”. L’ispettore rispose:”Si chiamava Grazia Bossi”. Poi il suo sguardo si posò sulla borsa da donna posata sul sedile e disse:”Lei non è solo nello scompartimento”. Calogero disse:”C’era una donna, ma da quando è iniziata tutta questa confusione non l’ho più vista”. Allora intervenne il controllore dicendo:”Si, è la donna che ha trovato il corpo e che mi ha fatto aprire il bagno”. Calogero capì che era stata lei a gridare. Lentamente tutti i passeggeri cominciarono a scendere dato che era stato messo a disposizione un pullman per riportare ognuno alla propria destinazione.
Calogero rimase sul treno. L’ispettore gli domandò:” Ha notato qualcosa di strano, anche di poco conto, che ritiene utile segnalarci?”. “Beh” disse Calogero “forse la signora che ha scoperto il corpo ve lo ha già detto di quell’uomo…” . “Quale uomo?” chiese l’ispettore. “Un tipo strano che l’aveva un po’ infastidita. Lei si era spostata in questo scompartimento per questo motivo” rispose lui. Mancuso si ricordò che la signora, troppo sconvolta, era stata affidata ai medici dell’ambulanza, ma fece subito fermare l’uomo di cui gli aveva parlato Calogero che si trovava ancora sul treno. L’uomo raggiunto dagli agenti cominciò a protestare, alzando la voce: era sicuramente ubriaco e gesticolava in maniera esagerata. Calogero si rivolse all’ispettore Mancuso e gli disse:” Non arrestate quell’uomo, non c’entra niente con l’omicidio. Il colpevole ormai non è più sicuramente su questo treno. Gli avete dato la possibilità di scappare facendo scendere tutti i passeggeri. Qualche tempo fa ho letto su un quotidiano locale che la signora Bossi aveva ricevuto una grossa eredità che, se lei fosse deceduta, sarebbe passata ad un suo cugino che, guarda caso, si trovava proprio su questo treno e l’ho riconosciuto perché lo conosco da tempo”. L’ispettore Mancuso rispose:” Giusta osservazione, signor Calogero, procederemo alla ricerca del cugino. Ancora grazie !” “Mi sembra che non ci sia più nulla da fare qui” disse allora Calogero e se ne andò pensando alle sue lenticchie. Il cugino tuttavia non fu mai trovato. Giuseppe D’Andrea
OMICIDIO AL CENTRO COMMERCIALE Nel cuore di Lusaka Town si sentivano le sirene della polizia: un delitto. Il tenente Hatchette fu svegliato dai suoi colleghi al mattino presto. Appena arrivato il tenente, iniziarono le indagini e si scoprì subito che la vittima era il direttore del centro commerciale della città. Ad un certo punto, si sentì squillare il cellulare della vittima per un secondo: era un suo cassiere che, dopo un po’, aveva lasciato un messaggio. Il cellulare era protetto da una password, perciò, per sentire il messaggio, dovettero trasferirlo su un altro telefono. Il messaggio era breve, ma impossibile da capire perché in lingua giapponese. Il tenente decise di parlare con tutti i dipendenti del centro commerciale e, dopo ore di interrogatori, arrivò ad una conclusione: se la maggior parte dei dipendenti era sconvolta dall’omicidio, altri lo erano meno perché avevano raccontato che il loro datore di lavoro era molto crudele ed anche razzista, visto che il 60% dei dipendenti era di origine straniera. Hatchette pensò a quella chiamata incomprensibile e capì che l’omicidio era stato commesso da uno dei dipendenti stranieri, di origine asiatica. Nel pomeriggio, il tenente entrò nel centro commerciale e andò a perlustrare tutto l’edificio e, nella stanza dove si trovava l’impianto della corrente elettrica, vide un giapponese nascosto. Appena quest’ultimo si vide scoperto, scappò fuori dell’edificio dove però ormai per lui era finita: all’esterno c’era una miriade di pattuglie della polizia. Arrestato confermò che il movente riguardava i pessimi rapporti che il direttore aveva con i suoi dipendenti. Il giapponese fu arrestato e Hatchette concluse il caso. Giuseppe De Luca
LA VENDETTA PERFETTA Quella mattina il cielo era nuvoloso. L’aria era umida a causa della tempesta durata tutta la notte sulla città di Helios; il cielo era ancora nuvoloso, non penetrava il minimo raggio di luce e la città era avvolta da una nebbiolina spettrale. Poteva sembrare una mattina come tutte le altre; ma c’era agitazione nell’aria, un’agitazione quasi materiale, palpabile, che uno straniero non avrebbe mai potuto percepire. Ma nella casa dell’investigatore Hermann Grass predominavano, come sempre, la calma e la tranquillità, dovuta all’ignoranza di ciò che stava succedendo fuori del portone di casa. Al suono della sveglia, alle otto del mattino, il detective si alzò, scese le scale e si avvicinò alla fessura del portone, dove abitualmente il postino gli gettava il giornale. Ma quella mattina il giornale non c’era. “Strano…” pensò Grass. Incapace ancora di formulare qualsiasi pensiero per quanto era intontito dal sonno, andò in cucina e si fece il caffè; poi si sedette al tavolo, accese la TV e cominciò lentamente a sorseggiare la bevanda calda. La presentatrice che di solito annunciava le notizie dell’edizione del mattino del TG annunciò, dopo la breve sigla:”Il Sun Palace distrutto; Helios nel caos”. All’inizio Grass non fece caso a ciò che aveva appena sentito, ma due secondi dopo, sputò il caffè con una tale forza da far arrivare lo schizzo dalla parte opposta della stanza, imbrattando il muro. Come poteva essere? Era qualcosa di impossibile per gli abitanti della città…Gettò la tazzina nel lavandino e si fiondò oltre il portone in tutta la sua goffaggine, in pigiama e pantofole, per verificare di persona. Si buttò per strada per avere una visuale migliore, poi alzò lo sguardo verso il cielo: una grande colonna di fumo si alzava dalla zona costiera. La strada era deserta, non c’era un’anima viva in giro. Grass cominciò a correre per la strada, ma inciampò nel pigiama e un’auto gli arrivò quasi di sopra; per fortuna il giovane autista frenò al momento giusto. “Ma cosa caspita fai? Io vengo a prenderti e tu…tu ti butti nella strada?!” disse il ragazzo con aria di rimprovero dal finestrino dell’auto. Aveva capelli neri e lunghi, legati in un codino, e indossava una giacca blu scuro. Grass alzò lo sguardo e riconobbe l’autista: era Nero, il suo aiutante più fidato. “Alzati e monta sulla macchina, ti spiego tutto durante il tragitto!”. Così l’investigatore si rialzò da terra con tutta la sua mole e salì sul sedile posteriore dell’auto che un istante dopo partì. “Non dovresti parlare così al tuo insegnante, lo sai?” disse Grass in tono di rimprovero,
ma Nero fece come se l’investigatore non avesse parlato. Senza distogliere lo sguardo dal parabrezza, il giovane cominciò a parlare:”Intanto vestiti, no?” e gli indicò i vestiti accanto a lui con un cenno del capo. “Allora… stanotte sono successe ben due cose. La prima, come ben saprai, è che il Sun Palace è stato fatto saltare in aria, alle tre; di tutta la gente che ci viveva dentro ne è sopravvissuto solo uno. Poi…”continuò sospirando “un uomo è andato a schiantarsi con la sua moto contro un palazzo oltre il Death Bridge. Non sono riusciti ancora a capire chi fosse”. Calò un silenzio insopportabile, rotto dal rombo del motore dell’auto. Grass osservò il cielo dal finestrino, mentre si grattava il naso grasso e grosso: l’oscurità piombava sulla città e la nebbia si infittiva. Lentamente, si cominciò a vedere sempre più gente per la strada e Nero fermò la macchina: erano arrivati a Sun Square. Nella grande piazza circolare incombeva il caos: gente che piangeva e urlava, mentre i vigili del fuoco cercavano ancora di domare le fiamme. Il suolo era costellato di lenzuola sotto le quali si delineavano forme umane: erano i cadaveri che erano riusciti a recuperare. Il grattacielo era ridotto ad un cumulo di macerie collassate su loro stesse, ancora in fiamme. “Qui c’è qualcosa che non va…” disse tra sé e sé Grass. “Ci sono i vigili del fuoco…c’è l’ambulanza…cosa manca…?”. Fece un saltello per scendere dall’auto, ma scivolò e cadde a terra; mentre tentava di rialzarsi da terra, squillò il cellulare di Nero che rispose in un istante:”Si, sono io, cosa c’è? Uhm…si…bene” e riattaccò. Si rivolse a Grass:”Scusa Hermann, ma ho una questione urgente da sbrigare…Ci vediamo dopo” e partì in quarta. Il detective si affrettò a raggiungere la tenda dei vigili del fuoco, inciampando diverse volte; ma quando raggiunse l’ingresso, i due uomini di guardia non lo fecero passare, neanche quando disse che se l’avessero fatto passare avrebbe offerto loro un gelato (a Grass sembrava una proposta ragionevole…). Si allontanò, ma venne immediatamente attratto da un’esplosione proveniente dalle rovine del palazzo. In quel momento, dalla tenda uscirono due uomini: uno era il signor Floreus, il comandante dei vigili del fuoco, inconfondibile per la sua zucca pelata e il fisico balestrato; l’altro era un uomo alto, dai capelli neri, lunghi e leggermente mossi e dal vestito poteva sembrare un grande imprenditore. I due osservarono la scena qualche secondo, poi l’uomo con i capelli neri corse al di là della piazza, sulla strada a destra del palazzo. “Ma chi era quell’uomo?” si chiese l’investigatore. Grass sapeva che lì non avrebbe trovato nulla: tutta la zona circostante era recintata e gran parte del resto
della piazza era coperta dalle lenzuola. Cosa avrebbe potuto fare? Beh…forse sarebbe stato meglio andare in centro. Visto che era rimasto a piedi, Grass fu costretto a dirigersi verso il municipio camminando; il caos andava via via diradandosi e presto la strada divenne di nuovo deserta. La nebbiolina spettrale non accennava a sparire ed era ancora forte la puzza emanata dalla colonna di fumo. Dato che si annoiava a camminare, Grass decise di distrarsi facendo il punto della situazione. “Allora…Un’esplosione, uno schianto, decine di morti…Il capitano si rifiuta di parlare con la gente… L’uomo dai capelli lunghi…esplosioni che continuano…Tutto questo non ha senso…però sono più che convinto che tutto questo è collegato…”.Mentre pensava ciò, tirò un calcio a qualcosa che, a primo impatto, gli sembrò una pietra; poi la sua attenzione venne attirata da quell’oggetto scintillante. Grass la afferrò: era una spilla dorata raffigurante un ingranaggio e sul retro vi era una didascalia:”Industrie HALL, dove tutto è realizzabile”. Grass si chiese subito cosa ci facesse quella spilla lì se le industrie Hall erano chiuse da dieci anni. Presto si accorse di aver preso la strada sbagliata: era dall’altro lato della città, al Death Bridge. Scorse nella nebbiolina un gruppetto di persone dalla parte opposta del ponte e si ricordò che Nero gli aveva accennato allo schianto di un uomo con la sua moto. Si avvicinò, facendosi strada fra la piccola folla e vide la lucente carrozzeria di una moto distrutta sulle cui fiancate si poteva intravedere una scritta: Fenrir. E sotto si vedeva inciso il nome di un uomo:Adam. Il corpo del motociclista era stato probabilmente trasportato altrove, ma le tracce di sangue si vedevano ancora sulla strada; ma non c’era alcun segno di frenata. Fenrir… Adam… Industrie Hall…Grass sentì di avere uno dei suoi colpi di genio. Aveva risolto il mistero dello schianto. “Ora devo capire cosa c’entra tutti questo con l’esplosione” disse tra sé e sé. Tutto ad un tratto sentì una donna esclamare.”Ma dov’è la polizia quando serve!?”, ebbe un secondo lampo di genio. Era così ovvio… mancava la polizia! In città non si vedeva un poliziotto! Doveva raggiungere il commissariato, ma non poteva fare più di tanto: due ore prima si era separato da Nero e, da quel momento, era come se lui si fosse volatilizzato. Adesso doveva andare sul serio in centro, nel più breve tempo possibile: aveva bisogno di incontrare il sindaco, Rob Shaklebolt. Erano quasi le undici del mattino, ma sembrava essere tardo pomeriggio a causa dell’ombra generata dalle grandi nubi di fumo. Grass cercava di fare il più velocemente possibile: doveva andare alla centrale di polizia e poi avvisare il sindaco. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva
ad andare più velocemente. I grandi grattacieli occupavano le vie già buie dove la gente cominciava a sbucare dalle porte e l’intera città ricominciava a prendere vita. Dopo qualche chilometro, il detective riuscì finalmente a raggiungere Privet Drive, dove aveva sede la centrale di polizia. Entrò di corsa, ma non vi trovò nessuno: c’era solo un agente, seduto sul divano, che leggeva il giornale. Grass conosceva quell’agente, Henry Ionas, il suo vicino di casa. “Henry!” esclamò Grass,rivelando il fiatone per la corsa che aveva fatto, “dove sono gli altri?”. “Altri chi, signore? Intende gli altri agenti? Beh, sono tutti nella zona malfamata della città…A quanto pare, la malavita è uscita allo scoperto! Un uomo, che è voluto rimanere anonimo, ha rivelato il loro nascondiglio stamattina, verso le sette…” Henry staccò gli occhi dal giornale e vide l’investigatore affannato. Facendo uno sforzo enorme, Grass aprì di nuovo bocca:”Henry, avrei bisogno di un favore…”. Un minuto dopo un’auto della polizia sfrecciava verso la piazza centrale, trasportando Grass e l’agente Jonas. Con una sgommata tremenda, l’auto si fermò proprio davanti alla statua del fondatore della città. Sulle scale che portavano all’ingresso del grande municipio scuro, l’edificio più vecchio della città conosciuto come Palazzo d’Ossidiana, si stava raccogliendo molta gente, formando una specie di ring al centro. Grass scese dall’auto più velocemente possibile, ma salendo le scale inciampò un’altra volta. Si rialzò subito e si fece strada, deciso, verso il bordo del ring. La gente era bloccata da una ventina di uomini ognuno dei quali era armato di mitra; al centro del cerchio, c’era la figura snella, occhialuta e vestita per bene del sindaco Rob Shaklebolt e, di fronte a lui, c’era lo stesso uomo che aveva visto in compagnia del capitano dei vigili del fuoco a Sun Square, con il braccio destro teso e una rivoltella puntata verso Shaklebolt. Dal limite del ring, dove era riuscito a mettersi Grass, i lineamenti dell’uomo erano più marcati che mai; i suoi capelli lunghi erano trasportati dal vento e i suoi occhiali da sole e i suoi vestiti neri gli davano un’aria cupa. Regnava il silenzio; si sentiva la tensione nell’aria. “Hall” esordì Rob, rompendo il silenzio. “Blake Hall. E così ci sei riuscito, eh? Ti sei vendicato. E adesso cosa farai? Mi sparerai?”. Sul volto del sindaco c’era una smorfia che sembrava un sorriso di sfida. Hall sorrise con aria soddisfatta. Eccolo: l’ultimo tassello. Ciò che Grass aveva cercato di ricordare: perché le industrie Hall avevano chiuso i battenti e, sentendo il nome del proprietario di quelle industrie, la soluzione gli fu praticamente davanti. Cercò di avvicinarsi di più al centro dello scontro, ma uno degli uomini gli puntò il mitra contro, urlando qualcosa di simile a “Fermo o ti buco lo
stomaco!”; potè soltanto tornare indietro. Intanto Blake cominciò a parlare. “Ne sei sicuro? Non avrei più alcuna utilità a lasciarti in vita. Mi sono vendicato? Oh, no, la mia non è una vendetta; sto solo per portarti via la tua amata città e, se mi va, anche la tua vita, dopo che tu mi hai portato via tutto quanto. Mi hai mandato sul lastrico, mi hai tolto la MIA vita…e adesso potrò portarti via la tua!”. Detto ciò esplose in una risata isterica che echeggiò tutt’intorno. “Fossi in te, non lo farei” disse Rob. “Devo ammetterlo, un piano ben congegnato, allontanare la polizia, attirarmi fuori del Palazzo d’Ossidiana e uccidermi. Ma la polizia non tarderà ad arrivare…e tu rimarrai fregato”. Un sorriso beffardo era ancora stampato sul suo viso. Hall cominciò a ridere. “Quanto sei stupido…non sarò io ad ucciderti, né tanto meno succederà ora. Questo è soltanto l’inizio dell’atto finale…”. Mentre parlava, alzò la pistola verso il cielo e sparò un colpo; un attimo dopo, Hall si fece strada fra la folla, ancora trattenuta dagli uomini armati, salì su una limousine scura e partì, verso il Death Bridge. Grass riuscì a liberarsi dalla morsa degli uomini armati, ma cadde da uno scalino e rotolò fino ai piedi della scalinata, dove finì di nuovo quasi sotto l’auto di Nero, che era arrivato un attimo prima. “Sali, presto! Dobbiamo seguirlo!”. Grass non se lo fece ripetere: salì sull’auto mentre questa era già in movimento. Grass si rivolse a Nero:”Ma dove sei stato? Tre ore in giro per la città…Alla faccia dell’impegno!”. Il ragazzo aveva un volto pallido, non guardò neanche il suo maestro. Sfrecciarono per le strade, attraversando la città e raggiungendo il Death Bridge. “Abbiamo fatto la fine del topo in trappola!” esclamò Grass dopo aver superato il ponte accorgendosi che quest’ultimo era esploso. Qui si accorse che una seconda auto si era lanciata all’inseguimento: un’auto della polizia. Dopodichè, intuendo ciò che sarebbe successo, prese il cellulare di Nero dal portaoggetti, fece qualcosa con i tasti e lo ripose. Nero non si accorse di nulla. Erano entrati nella zona malfamata. Seguirono la limousine in un vicolo e poi la raggiunsero in un grande piazzale; la limousine era ferma e si fermarono anche loro. Hall era in piedi al centro del piazzale. Grass scese dall’auto con insolita grazia e si posizionò davanti a lui. “Fine dei giochi, Hall!” esclamò il detective soddisfatto. “Io non direi…” disse una voce dietro di lui. Nero gli puntava una pistola contro la schiena. “Fermi tutti!” dissero all’unisono altre due voci; l’agente Jonas puntava una pistola contro Nero e Rob era dietro di lui. “Nero…immaginavo che Hall avesse un braccio destro…Proprio tu, che ti eri sottratto alla tua vita da delinquente, sei tornato a farne parte? Tu, Nero Hall, mi hai deluso!”.
Grass mise una nota di tristezza in queste parole, ma dal suo tono non nascondeva che se l’aspettasse. Blake esplose in un’altra risata isterica. “Fine dei giochi, Grass! Sei un uomo morto! Venite, ragazzi!”. Da dietro la limousine sbucarono una decina di uomini armati di mitra; m in quello stesso momento, dai viottoli, comparvero frotte di poliziotti e puntavano tutti le loro pistole contro il gruppo armato di mitra. Blake ebbe un’espressione di sorpresa e, per la prima volta, il sorriso scomparve dal suo volto. “Bene, signori” disse Grass “credo che possiamo mettere fine a tutta questa storia”. Blake era immobile al centro della piazza, serio,e osservava Grass. Dietro quest’ultimo, Nero puntava ancora la sua pistola ed era a sua volta tenuto sotto tiro dall’agente Jonas; il sindaco Rob osservava la scena alla destra di Jonas e una cinquantina di poliziotti tenevano sotto tiro i malavitosi dietro Blake. Hermann Grass cominciò a parlare. “Anzitutto, volevo dire che tutti gli avvenimenti di ieri notte sono collegati. Dunque…come sappiamo, ieri notte il Sun Palace è stato fatto saltare in aria da diverse cariche esplosive e, poco tempo dopo, un uomo si è schiantato con la sua moto, un Fenrir, al limite del ponte. Se non fosse stato per questo inconveniente, sarebbe stato un piano perfetto. Un piano ben congegnato che serviva solo a distrarre la polizia dal tuo VERO intento, Blake. Alle due del mattino, Adam Hall, noto scassinatore professionista, nonché nipote del qui presente Blake, è riuscito ad aprire una breccia nella sicurezza del Sun Palace, dove avevano alloggio gran parte degli operai pubblici. Programmate diverse cariche esplosive ad orari diversi, è uscito dal palazzo ed ha atteso il momento dell’innesco. Probabilmente, quando ha visto il palazzo in fiamme e sentendo le urla delle vittime, è stato travolto dai sensi di colpa e ha deciso di mettere fine alla sua vita. Come faccio a sapere che è stato un suicidio? Perché nei pressi del luogo dell’impatto non ho trovato segni di frenate. Inoltre, qualche metro prima gli era caduta questa spilla( e mostrò la spilla a tutti quanti) appartenente solo a chi ha avuto a che fare con le industrie Hall. E ancora, il modello Fenrir era il più famoso prodotto da quelle industrie e, sulla moto, sotto il logo era inciso il nome di Adam. Ma serviva che si pensasse che la malavita aveva fatto tutto questo. Qui entra in gioco il fratello di Adam: Nero. Alzatosi presto, era andato a testimoniare che era stata la malavita a organizzare tutto e che questa aveva la sua sede al centro della zona malfamata. Dopodichè è venuto a prendermi e mi ha portato a Sun Square. Contemporaneamente Blake entrava in azione: andava ad accertarsi che la situazione fosse tragica, per poi scappare
all’esplosione successiva, facendo finta di niente col capitano Floreus. Nero, intanto, preparava la trappola al sindaco radunando la banda e nascondendola nei pressi del municipio. Due ore dopo, metteva in atto il vero piano: i poliziotti erano fuori gioco lasciando a Blake tutto il tempo che gli serviva per entrare in azione. Nero doveva dirigersi al Death Bridge con Blake, ma non aspettandosi di trovarmi davanti al municipio e, per non destare sospetti, mi trascina fin qui. Ora, se le mie deduzioni sono esatte, il sindaco sarebbe dovuto rientrare al municipio per poi saltare in aria con tutto l’edificio! Dico bene?” “E così hai scoperto tutto, eh? Sono stato preso con le mani nel sacco. Ero convinto di aver fatto scacco matto…ma non è stato così. Volevo che colui che, con quell’accusa, mi aveva tolto tutto, patisse almeno un po’ di ciò che ho sopportato io. Rob Shaklebolt…la città ha pagato per i tuoi errori!”. Gli occhi di Hall sembrarono uscire dalle orbite. “Quattro cariche di esplosivo…Ben quattro, tutte disposte nel Palazzo d’Ossidiana! Il simbolo della tua vita ti sarebbe crollato addosso!...Mi hai tolto le mie industrie, mi hai tolto la mia famiglia!!”. Dicendo questo, cadde in ginocchio. Il viso rigato dalle lacrime era coperto dai lunghi capelli neri. Le nubi, che fino a quel momento avevano solo minacciato pioggia, cominciarono a versare acqua su tutti. Dopo un breve silenzio, il sindaco si rivolse ai poliziotti chiedendo loro di arrestare tutta la banda, poi andò verso Blake al quale, sollevato da terra da un poliziotto, rivolse uno sguardo colmo di odio. Nero si consegnò volontariamente a Jonas che lo ammanettò. E mentre li portavano via, Grass si avvicinò a Blake, tenuto da due agenti. Col suo volto grassoccio gli rivolse uno sguardo di rimprovero e gli disse:” Per una tua vendetta, hai ucciso decine di uomini…Si, forse Rob ti ha tolto la famiglia, ma nulla vale quanto decine di vite umane. Ma questo lo imparerai presto in carcere”. Roberto Di Bella
PAURA OMICIDA Era un pomeriggio d’estate e un gruppo di ragazzi si incontrò in una piazza per giocare e divertirsi un po’. Arrivati in questa piazza, però, sotto un albero trovarono il cadavere di un uomo che poteva avere più o meno trentacinque anni. I ragazzi chiamarono subito la polizia e il pronto soccorso che giunsero sul luogo dopo pochi minuti. I poliziotti fecero allontanare tutti i curiosi e interrogarono i ragazzi, mentre i medici eseguivano un primo esame del corpo: la vittima mostrava due tagli alla gola e tre coltellate al petto, tutte causate sicuramente da un coltellino svizzero. Dopo circa mezz’ora dall’arrivo della polizia e del pronto soccorso, giunse sul luogo del delitto l’investigatore Antonio Maimone, il migliore investigatore della regione. Subito cominciò ad ispezionare attentamente tutto ciò che circondava la vittima e, dopo qualche minuto, l’ispettore Maimone trovò un indizio: l’impronta di una scarpa da donna molto particolare, con la suola intagliata e il tacco molto sottile, stampata sulla terra che circondava l’albero sotto il quale era stata trovata la vittima. Maimone fece interrogare tutti i proprietari di negozi di scarpe per scoprire chi vendesse quel particolare tipo di calzature. La mattina seguente venne rintracciato il negozio giusto; l’ispettore chiese alla proprietaria chi avesse acquistato quelle scarpe e lei rispose:”Beh…se non ricordo male ne ho vendute due paia, un paio alla signora Barbera e un paio alla signora Venuti!”. “Ma la signora Barbera è la moglie della vittima!” esclamò Maimone. “Vittima!?” quasi urlò la negoziante”Ma cosa è successo ispettore?”. Egli rispose:”Il marito della signora Barbera è stato trovato morto in una piazza in periferia”. “Oddio!!” esclamò la donna.Maimone chiese ancora:”Ascolti signora, sa dirmi anche quale numero di scarpe calzi la signora Barbera?”. La donna rispose:”Si lo ricordo. Calza il numero 40”. “Grazie, lei è stata molto gentile, arrivederci” disse Maimone uscendo dal negozio. In strada Maimone, riflettendo a voce alta, aggiunse:”La signora Barbera calza il numero 40, mentre le impronte erano un 37-38! Non resta che la signora Venuti!”. Maimone si diresse subito a casa della signora Venuti che, assillata dal rimorso e dal senso di colpa, confessò subito all’investigatore di essere lei l’assassina. “Era il proprietario del supermercato nel quale lavoro e voleva chiuderlo per aprire una sala giochi. Non potevo restare senza lavoro!” disse la signora. L’ispettore Maimone chiuse così il caso. Francesco Formica
UN NATALE PARTICOLARE Cinque amici di mezza età, di nome Giovanni, Paolo, Luca, Martina e Sara, un giorno ricevettero un biglietto di invito anonimo per trascorrere le vacanze di Natale in un castello non molto lontano. I cinque amici ne discussero un po’, ma non individuarono l’anonimo proprietario del castello; decisero, comunque, di andare pensando ad una festa a sorpresa o all’invito di un amico. La mattina del 24 Dicembre 1973, Giovanni, Paolo, Luca, Martina e Sara, con le loro valige partirono per raggiungere il castello. Dopo un’oretta di viaggio iniziarono a salire lungo una stradina di montagna, desolata, ma piena di decorazioni natalizie. Alla fina della stradina, in cima, trovarono il castello: era tutto illuminato da luci natalizie e decori bellissimi. I cinque amici aprirono la porta e trovarono una lettera sul tavolo che diceva:”Tantissimi auguri di buon Natale. Nel castello troverete molte cose insolite, ma non vi preoccupate!”. Paolo, letta la lettera, la mise in valigia e non si preoccupò di nulla. Gli amici cercarono di capire chi potesse averla scritta, ma non giungendo ad una conclusione e scherzando ringraziarono l’anonimo autore per gli auguri di Natale. Martina e Sara andarono in cucina per preparare la cena, mentre Giovanni, Paolo e Luca raggiunsero le stanze del piano superiore con le valige. La cucina era perfetta, non mancava nulla; allora le due donne decisero il menu da cucinare per la cena di Natale e, con molto entusiasmo, prepararono tutto. Gli altri, al piano superiore, perlustrarono tutte le stanze, tranne una chiusa a chiave. Sistemarono bene le valige e misero tutti regali in un sacco natalizio, per la sera. Alle nove tutti si sedettero a tavola ed iniziarono a cenare; mangiarono di tutto e, quando scoccò la mezzanotte, Luca andò a prendere il sacco dei regali di Natale. Salito al piano superiore, vide la porta della stanza che non avevano visitato prima socchiusa e ciò lo inquietò; andò comunque a prendere il sacco dei regali che però trovò vuoto. Nello stesso istante fu assalito alle spalle da qualcuno che, con un coltello affilato, lo uccise e lo mise nel sacco. L’assassino uscì dalla finestra portando con sé il sacco che adesso conteneva il cadavere di Luca. Dopo un po’ i quattro amici cominciarono a chiamare Luca per capire dove fosse finito quando sentirono bussare alla porta d’ingresso. Martina, credendo fosse l’anonimo amico che li aveva invitati, andò ad aprire la porta, ma dietro l’uscio vi trovò Babbo Natale. Lo fece entrare e lo invitò a tavola. Babbo Natale non parlò molto e, dopo
averli salutati, prima di andarsene, disse:”Chi di voi tornerà?”. Sara, colpita da quella frase, lo accompagnò alla porta, ma appena la aprì l’uomo si dileguò. La donna, stupita, vide davanti all’uscio il sacco dei regali macchiato di sangue e si accorse subito che conteneva qualcosa. Chiamò terrorizzata gli altri tre amici. Insieme portarono il sacco dentro e, quando lo aprirono, trovarono il cadavere di Luca. Allora i quattro amici rimasti, corsero verso la stanza del primo piano per cercare qualche indizio, ma una volta arrivati nella camera che prima era chiusa a chiave, videro tutti regali sparsi sul pavimento. Martina, Sara e Giovanni allora corsero fuori del castello per salire in macchina e fuggire, ma giunti all’aperto non videro più l’auto e a terra trovarono un coltello insanguinato, probabilmente quello che aveva ucciso Luca. Si fecero coraggio e si chinarono per prenderlo, ma all’improvviso furono abbagliati dai fari della loro macchina che li stava investendo. Paolo, rimasto dentro, non sentendoli più si affacciò alla finestra e vide i tre amici schiacciati dall’auto. Sicuro della sua prossima fine, Paolo si chiuse in bagno e decise di passare la notte là. La mattina fece chiaro presto e decise coraggiosamente di uscire dal bagno; guardandosi bene intorno scese le scale e sul tavolo trovò il pranzo pronto e Babbo Natale seduto lì ad aspettarlo. In silenzio si sedette alla tavola apparecchiata. Ad un certo punto ruppe il silenzio e chiese, addolorato, a Babbo Natale il perché di tutti quei delitti, ma l’uomo non rispose. Paolo, molto preoccupato, rimase seduto lì, immobile, ma appena Babbo Natale si alzò per dirigersi in cucina, Paolo si accorse che aveva un coltello sotto la cintura dei pantaloni. Allora silenziosamente si alzò e fuggì senza voltarsi indietro. Salì in auto. Allontanandosi, dallo specchietto vide Babbo Natale col coltello in mano. In quel momento capì tutto: il proprietario del castello, sotto le sembianze di Babbo Natale, era un crudele assassino seriale. Solo in seguito seppe che quell’uomo era ricercato nella zona da molti anni per aver commesso altri atroci delitti. Gioacchino Foti
L’INDAGINE DI TOM Si chiamava Tom, ma tutti lo conoscevano come Tom “occhi di ghiaccio”. Era, come si suol dire, un uomo tutto d’un pezzo; aveva i capelli biondi lisci, gli occhi grigi profondi e penetranti, da qui il suo soprannome, e spesso bastava un suo sguardo per far cadere le donne ai suoi piedi. Il viso era ben scolpito, mancava però d’espressione. Era alto circa un metro e ottantasette, le sue spalle erano larghe come quelle di un giocatore di rugby e il resto del corpo faceva invidia ai bronzi di Riace. Portava sempre un cappello ed un cappotto scuro, di pelle, lungo fino alle caviglie e, nel taschino interno di questo, aveva sempre un block notes e una penna d’oro, regalo del padre deceduto non prima, però, di vedere suo figlio diventare detective. Era un bell’uomo, duro, rigoroso ed estremamente esigente sul lavoro, ma simpatico e dongiovanni nel tempo libero, disponibile con tutti, anche se difendeva molto la sua privacy. Come tutte le sere, dopo un paio di ore trascorse in palestra, Tom era rientrato a casa e, dopo aver fatto una lunga doccia, si era messo a letto sfinito. Nel cuore della notte lo squillo del telefonino stroncò il suo sonno: un nuovo caso lo aspettava! Arrivato sul luogo del delitto si trovò davanti ad un cadavere e gli parve di riconoscerlo: era Ugo Robert de Santis, dirigente sportivo della squadra di calcio più forte del campionato, la Lucci, balzato agli onori della cronaca, la settimana prima, in quanto diventato uno degli uomini più ricchi del paese grazie all’eredità lasciatagli dal padre deceduto improvvisamente per un infarto. Indossò i guanti, si chinò sulla vittima e frugò nelle tasche esterne e poi in quella interna della giacca dell’uomo; lì trovò il telefonino, fortunatamente scampato ai proiettili che lo avevano ucciso. Scorse velocemente il registro delle chiamate ricevute, poi quelle effettuate; annotò alcuni numeri e poi diede il cellulare agli uomini della scientifica per farlo analizzare. Dopo aver dato disposizioni sul da farsi ai suoi uomini, andò in centrale: voleva risolvere subito questo caso e tornare al suo sonno! Estrasse dalla tasca il block notes, guardò gli appunti e chiamò l’ultimo numero a cui aveva telefonato la vittima: era Fabio Tawone, vecchia conoscenza del detective, spacciatore, usuraio e sospetto omicida, proprio u bel tipo! Lo fece convocare alla centrale per interrogarlo e, nel frattempo, iniziò a delineare il quadro dell’omicidio: usura? droga? Tutte piste da seguire, così chiamò due suoi uomini e disse loro di indagare sulla vita privata del defunto: amicizie, frequentazioni, tutto poteva servire a
risolvere presto questo caso. Dopo aver interrogato l’unico sospettato, Fabio Tawone, per un paio di ore, Tom aveva le idee chiare: la vittima faceva uso di cocaina e Tawone era il suo fornitore; ora che Ugo Robert de Santis era diventato ricchissimo, lui lo stava ricattando chiedendogli un’enorme somma di denaro in cambio del suo silenzio, altrimenti avrebbe rivelato a tutti il suo segreto. La vittima, inizialmente, aveva pagato, ma poi le richieste si erano fatte sempre più pesanti, così Ugo aveva dato appuntamento a Fabio in quel luogo poco frequentato per farlo uccidere, probabilmente da un sicario che aveva assoldato; solo che qualcosa era andato storto. Il sicario non si era presentato e, nel corso di un’accesa discussione che era seguita tra i due, era partito un colpo dalla pistola di Fabio che aveva ferito Ugo. Lo spacciatore aveva, però, intuito che se lo avesse lasciato in vita, Ugo avrebbe parlato, così aveva deciso di finirlo, ma nella fretta di fuggire non aveva avuto la prontezza di guardare nella tasca interna della giacca della vittima dove c’era il telefonino. Anche questa notte era volata via, le luci del nuovo giorno illuminavano la stanza di Tom, un altro criminale era stato assicurato alla giustizia; si alzò dalla scrivania, guardò fuori e disse tra sé:”Il mondo là fuori è più “pulito” grazie al nostro lavoro…dopotutto la notte insonne non era stata sprecata! Alessio Giardina
IL MIO PRIMO CASO:”CHI HA UCCISO LAURA?” Nel bel mezzo della notte, precisamente alle 4.40, squillò il telefonino. Risposi un po’ seccato perché stavo dormendo: era la polizia che mi comunicava che era stato commesso un omicidio vicino al mio quartiere. Sobbalzai dal letto e mi vestii in fretta per andare immediatamente sul luogo del delitto. Arrivai lì a piedi. Già c’erano i miei colleghi di lavoro e l mio aiutante Frenki. Il luogo dell’omicidio era una casa abbandonata alla fine della strada. Entrai nella casa e vidi il corpo di una ragazza riversa per terra e una vistosa macchia di sangue. Il corpo lo inviammo subito alla sezione di medicina legale per farlo esaminare e per sapere la causa della morte. Guardai nel borsellino della giovane per cercare i documenti e scoprii che la ragazza si chiamava Laura, aveva trentacinque anni, era alta un metro e settanta. La segnalazione dell’omicidio l’avevano fatta dei ragazzi che andavano girando tirando fino a tardi. Fattesi le dieci del mattino, arrivarono molte persone, curiose di sapere dell’accaduto. Intanto io con Frenki continuammo a cercare indizi nella casa. Infine trovai nel giardino un fazzoletto intriso di sangue, allora pensai che Laura si era forse difesa prima di morire, ferendo l’omicida. Mandai subito il fazzoletto alla scientifica per avere un riscontro del dna. Mentre andavo a consegnare gli indizi, incontrai i genitori ed il fidanzato della giovane e chiesi loro se Laura avesse dei problemi con qualcuno. Loro mi risposero di no, ma notai che il fidanzato aveva dei graffi su una mano. Mi allontanai e mi recai alla scientifica. Dai risultati dell’autopsia seppi che Laura era morta a causa di sei coltellate al petto e sicuramente non era stato un serial killer perché l’assassino aveva lasciato tante prove sulla scena del delitto. Alle 17.30 andai a parlare con un’amica di Laura, Veronica, che era stata l’ultima persona con cui aveva parlato al telefono. Le aveva detto di avere tanta paura perché il fidanzato l’aveva minacciata, ma Veronica non si spiegava come potesse essere accaduto tutto questo. Il giorno dopo, alle 9.00, ricevetti i risultai del dna trovato sul fazzoletto e si scoprì facilmente che corrispondeva al dna del fidanzato. Andai subito a casa del giovane, ma non lo trovai. Mi resi conto che, sentendosi braccato, stava tentando di fuggire; con l’aiuto dei miei uomini riuscii a bloccare tutte le vie di fuga, lo portai in centrale per farlo confessare e così seppi che l’aveva uccisa per gelosia. L’aveva vista spesso con un altro che poi scoprimmo essere il cugino della vittima. Lo arrestai. Fabrizio Iacono
OMICIDIO PER AMORE Erano ancora le 6,35 quando il telefono squillò: incominciava un’altra giornata di lavoro. Nella notte era stato commesso un omicidio nei pressi della spiaggia. Alle 7,05 il commissario Jonson si trovava già sulla scena del crimine; si avvicinò alla vittima e vide che si trattava di una donna, giovane, con indosso solo una mogliettina a maniche corte e dei jeans. Subito cominciò a cercare degli indizi intorno al luogo in cui si era consumato l’omicidio: tra la sabbia un po’ bagnata c’era un portafogli, senza soldi, ma che conteneva dei documenti, un’agendina, una patente, una carta d’identità, che identificava la donna in Marta Tessori, e un bigliettino che recitava:”Stasera alle 20,30 vediamoci al molo, ho una sorpresa per te. Fabry”. Che si trattasse di un messaggio mandato dall’assassino per attirare la vittima nella sua trappola? Dopo avere letto il bigliettino, il commissario si avvicinò nuovamente alla donna stesa a terra per osservarne meglio la posizione e subito si rese conto che il corpo era supino e bagnato fradicio, con una serie di coltellate al petto ed una alla gola. Allora una cosa incuriosì il commissario: la mancanza, vicino al corpo, di sangue e l’assenza di particolari segni di trascinamento. Questo significava che la vittima era stata uccisa lì, ma allora perché il corpo era bagnato e non c’erano tracce di sangue? Il commissario Jonson pensando ad alta voce disse: “Se la donna è stata uccisa qui vicino e non ci sono segni di trascinamento, come è arrivata fin qua?”. “Semplicemente trasportata dall’alta marea, che ora si è abbassata” rispose l’assistente del commissario, appena giunto sulla scena del crimine. “Giusta osservazione” ammise Jonson”questo spiegherebbe il corpo bagnato, il portafogli sporco di sabbia e l’assenza di sangue”. “Inoltre” aggiunse l’assistente, guardando attentamente una bustina contenente degli oggetti che uno degli agenti gli aveva appena consegnato, “l’assassino doveva andare di fretta se ha dimenticato l’arma del delitto sul molo e anche un portacellulare viola e blu”. “Lei non smette mai di sorprendermi” disse il commissario al suo assistente”Non ci resta che cercare questo Fabry”. Nel frattempo, sul luogo delitto, arrivò una giovane, Giulia, che si presentò come la sorella della vittima. Alla vista del corpo della ragazza scoppiò in un lungo pianto. Dopo che si fu un po’ calmata, il commissario Jonson le chiese chi fosse questo Fabry e perché, eventualmente, avrebbe potuto uccidere la sorella. La giovane spiegò che Fabry, cioè Fabrizio, era l’ex fidanzato di Marta,
ma che era stato lui a lasciarla, quindi non poteva avere un movente per commettere l’assassinio. Il commissario le domandò se Marta avesse dei nemici e la giovane rispose che tutti le volevano bene e che andava d’accordo con chiunque. Allora il commissario ipotizzò che forse si trattava di un delitto passionale e chiese a Giulia se fosse a conoscenza di spasimanti o di una rivale in amore. Lei riflettè a lungo, poi si ricordò del fatto che sua sorella, qualche tempo prima, le aveva confessato di amare ancora il suo ex, ma che l’attuale fidanzata di Fabrizio era molto possessiva e l’aveva perfino minacciata; Marta non aveva creduto alle minacce e aveva continuato a mandare sms a Fabrizio il quale, spesso, non le rispondeva, ma una volta l’aveva minacciata di suicidarsi se non l’avesse lasciato stare così almeno avrebbe ritrovato la pace. Bastò questo al commissario per trarre delle conclusioni; congedò Giulia e si precipitò in ufficio dove convocò subito per un interrogatorio Marika, l’attuale fidanzata di Fabrizio. Appena arrivata in commissariato, la giovane domandò con tono arrogante:”Cosa volete da me? Ho ben altro da fare che stare qui a chiacchierare con voi, come dedicarmi al mio fidanzato”. “Forse è proprio questa tua ossessività che ti ha spinto ad uccidere una donna, non è vero?” esordì Jonson. Colta di sorpresa, Marika rispose:”Che cosa? Io avrei ucciso chi? Mi state accusando di qualcosa che non ho commesso, non avete prove per accusarmi di niente”. “Ah si?” ribattè il commissario”allora dammi il tuo cellulare e vediamo una cosuccia”. Jonson afferrò con forza il telefono dalle mani di Marika e prese il portacellulare trovato sul molo. “Vedi? Entra perfettamente! Un telefono non si sfila da solo dalla sua custodia, ma se è in corso una colluttazione allora può capitare che si sfili e che il suo proprietario, forse per la fretta di gettare in acqua il corpo della vittima, non se ne accorga!”. A quel punto, la giovane scoppiò in lacrime, ma il commissario continuò:”Perché l’hai uccisa?Per gelosia?” “No!” sospirò la ragazza. Jonson insistette:”E per cosa allora? Per paura che Fabrizio tornasse con lei?” “No!” singhiozzò ancora Marika” lei non la smetteva, io l’aveva avvisata di lasciarlo stare, invece lei era diventata pazza, ci seguiva, faceva telefonate anonime al cellulare di Fabrizio, non avevamo più un attimo di pace. Un giorno Fabrizio ha trovato sul suo comodino delle fotografie che Marta aveva lasciato mentre lui dormiva e un’altra volta l’ha sorpresa in casa sua mentre frugava fra le sue cose. Continuava a ripetergli che sarebbe stato suo per sempre, che l’avrebbe fatto impazzire così come lei era pazza di lui” “Tutto questo non giustifica ciò che hai fatto” disse amaramente
Jonson. Marika allora aggiunse con un tono quasi sommesso:”Mi dica, commissario, lei ucciderebbe per salvare una vita? Non ce la facevamo più. Fabrizio mi aveva detto che si sarebbe ucciso pur di ritrovare la pace. A quel punto ho dovuto scegliere: o lasciare morire il mio amore o uccidere lei. Ho scelto di uccidere lei.”. Il commissario le rispose:”Tu hai fatto la tua scelta: hai preferito uccidere piuttosto che denunciare. E’ per questo che pagherai”. Fabio Impalà
LA MORTE IN VACANZA Nel bel mezzo d’agosto, quando l’isola di Lipari era piena di turisti, accadde un fatto molto grave. Tra tutta quella folla si trovava la famiglia Bartolone di Milano che aveva affittato una casa per trascorrere le vacanze estive dopo che, per motivi di lavoro, si era trasferita a Messina. Un giorno la signora Rosa Bartolone, tornando a casa dopo la mattinata trascorsa al mare, trovò il marito Francesco morto. Chiamò subito i carabinieri che contattarono un detective molto bravo e specializzato in casi come questo. Egli si fece spiegare la situazione e, dopo aver riempito di informazioni le pagine del suo blocco, cominciò ad indagare. Pose delle domande ai figli della vittima,Cristina e Luigi, che ,tra le altre cose, gli raccontarono un episodio risalente al periodo in cui vivevano a Milano. Il padre, operaio presso un’azienda che lavorava marmi, un giorno ebbe un incidente sul lavoro: dal camioncino che guidava era caduto un blocco di marmo causando la morte di un collega, Mario. Aveva subito una pesante condanna pecuniaria e, dispiaciuto, si era anche licenziato. Il detective, ascoltata questa storia, capì che occorreva rintracciare la famiglia di Mario e, quasi subito, scoprì che anch’essa si trovava a Lipari. Dopo che il detective riunì la famiglia, li portò tutti in caserma per far loro delle domande. Apparve immediatamente chiaro che le due famiglie erano in aperto conflitto e che vi era ancora una causa in corso. Esaminando la casa delle vacanze della vittima gli agenti avevano prelevato delle impronte sul tavolino nel salone. Il detective prese le impronte a tutti i familiari di Mario e, dalla comparazione, emerse che appartenevano al fratello dell’uomo morto nell’incidente a Milano. L’uomo venne fermato, mentre proseguivano le ricerche di tracce nella casa dei Bartolone. Così braccato, il fratello di Mario confessò: era successo tutto il terzo giorno di vacanza della famiglia Bartolone quando l’accusato, volendo vendicare il suo familiare, era entrato in casa dei Bartolone la cui porta d’ingresso era socchiusa perché Francesco stava per uscire. L’assassino aveva afferrato un coltello da cucina e lo aveva colpito alla schiena sette volte. Dopo la confessione tutti andarono via dalla caserma molto tristi. Il caso era risolto. Alessandro Isgrò
ASSASSINIO SUL FIUME Il detective Tom era un investigatore molto noto per aver risolto casi estremamente complessi. Stanco per il troppo lavoro, decise di trascorrere un fine settimana al suo paese di origine dai genitori. Sceso alla stazione, prese un taxi per recarsi a casa dei suoi. Rimase sbalordito: era da anni che non tornava a casa e vide un paesaggio molto diverso da come lo ricordava. Mentre osservava tutto dal finestrino del taxi, la sua attenzione fu attirata dalla vista di una ragazza che correva verso la strada chiedendo aiuto. Di scatto fece fermare il taxi e scese velocemente dall’auto correndo verso la ragazza tremante chiedendole cosa fosse successo. La giovane, che disse di chiamarsi Martina, gli riferì che aveva visto un cadavere presso la riva del fiume e un uomo che fuggiva. Tom si fece accompagnare sul posto e disse al tassista di chiamare i carabinieri. Arrivato al fiume, vide un uomo riverso in terra con la testa tumefatta e insanguinata. Immediatamente arrivarono i carabinieri che chiesero a Tom di spostarsi e non toccare nulla. Tom allora mostrò il suo distintivo al comandante dei carabinieri che subito riconobbe l’abile detective. Esaminato il corpo, non trovarono nessun documento per poterlo identificare. Tom, intanto, ricordando che i suoi genitori lo stavano aspettando, chiese ad uno dei carabinieri di accompagnarlo . Giunto a casa, suo padre e sua madre lo abbracciarono forte, contenti di rivederlo, ma Tom, spiegato ai suoi quanto accaduto durante il tragitto, li salutò nuovamente per tornare sul luogo del delitto. Lì cominciò a guardarsi intorno per cercare qualche indizio e . all’improvviso, si accorse che qualcosa luccicava sotto i raggi del sole: dietro c’era un cespuglio un bracciale d’ oro con incisa sopra una M. Subito gli tornò in mente che la ragazza, poco prima, gli aveva detto di chiamarsi Martina, così cominciarono a sorgergli dei dubbi sull’innocenza della giovane. Intanto in caserma avevano scoperto l’identità del cadavere: si trattava di un commerciante romano che, da un po’ di tempo, tutti i fine settimana li trascorreva in un albergo del paese. Tom scoprì che la ragazza aveva lavorato presso gli uffici del commerciante così i sospetti si infittirono; qualcuno, in paese, mormorava anche di averli visti insieme più di una volta. Raccogliendo altre informazioni, seppe da una donna che, quel giorno, li aveva visti litigare in albergo e che poi erano usciti insieme. Tom non ebbe più dubbi: era stata lei ad uccidere l’uomo, così andò dal commissario e gli spiegò tutto. La giovane fu arrestata e, dopo
due ore di interrogatorio, confessò l’omicidio spiegando che l’aveva ucciso perché voleva lasciarla per un ‘altra donna. Tom tornò dai suoi genitori, ma solo per risalutarli: la sua piccola vacanza era già finita. Nunzio Isgrò
IL MAGGIORDOMO Presso una nobile dimora, un grande palazzo ai piedi del Monte Bianco, avvenne un omicidio: fu ucciso il maggiordomo che, per tanti anni, aveva servito la famiglia che ci viveva. Questa era composta dal conte, la moglie e due figli di circa trent’anni, un maschio ed una femmina. Il conte si rivolse subito all’investigatore Colombo, un uomo molto silenzioso che amava lavorare in solitudine, ma che era il migliore in questo campo. Egli, osservando il corpo del maggiordomo, capì che era stato ucciso con un’arma da taglio, più precisamente un coltello da cucina. Ne dedusse che l’assassino doveva aver nascosto l’arma nuovamente in cucina e perlustrandola ne ebbe conferma in quanto trovò il coltello ancora sporco di sangue. Tra i vari indizi che rintracciò sparsi per la casa, uno lo colpì in modo particolare: si trattava di un braccialetto d’oro che era stato rinvenuto non lontano dalla scena del crimine. L’investigatore intuì allora che l’assassino doveva essere sicuramente la figlia del conte. Decise di interrogarla e la ragazza, quasi immediatamente, confessò di essere lei la colpevole: aveva scoperto che il maggiordomo era l’amante di sua madre e non voleva che il padre prima o pio lo scoprisse. Colombo risolse così il suo caso. Domenico Maestrale
UN CASO PER BUSH Il commissario William Bush ed il suo braccio destro Brian Jones vennero chiamati per risolvere un nuovo caso. Si diressero subito sul luogo del delitto. Arrivati, il commissario ed il suo assistente, videro il corpo di un uomo riverso in terra con dei segni inequivocabili sul collo; subito interrogarono i presenti al momento del dell’omicidio, ma non trovandoli molto convincenti, li portarono in caserma per risentirli con più calma. Ritornando sulla scena del crimine, Jones, guardandosi intorno, trovò parecchi indizi; quindi chiamò William e il commissario di recò esattamente nel punto in cui era stata trovata la vittima e da lì raggiunse, poi, lo scantinato dove trovò, tra mucchi di robaccia accatastata, un filo che gli ricordò i segni sul collo dell’uomo ucciso che facevano pensare ad uno strangolamento. William incontrò, poi, la moglie della vittima e la portò con sé in caserma per interrogarla. Dalla conversazione con la donna ne ricavò un senso di inadeguatezza perché le sue parole non lo convincevano. Il commissario, allora, chiamò gli agenti del Ris e con loro ritornò ancora sul luogo del delitto dove, dopo attente ricerche, trovarono delle impronte che furono mandate in laboratorio per essere analizzate. Si scoprì presto che coincidevano con quelle della moglie della vittima. William arrestò la donna e lei confessò. Disse al commissario che suo marito era molto ricco e lei aveva pensato di godersi l’eredità con un compagno più giovane. Dopo l’arresto della donna, William tornò a casa e non ci pensò più. Francesco Maimone
IL DETECTIVE MORTON Il commissario Sullivan della polizia di Blackwater chiamò il detective Morton; era ormai trascorso un mese dalla morte del rinomato avvocato Colloway e la polizia non era ancora riuscita a smascherare il colpevole. Il detective, dopo un’ora, si recò alla villa dell’avvocato e iniziò a compiere i primi rilievi; poco dopo giunse il commissario che vide il detective rinchiuso nell’armadio e chiese:”Che ci fa lì dentro, Morton?”. “Salve, commissario!” rispose il detective” Stavo solo verificando se da dentro l’armadio fosse possibile vedere ciò che accadeva nella stanza”. “Perché mai?” chiese Sullivan. “Solo ipotesi, commissario” rispose Morton. Il commissario lo informò sulle indagini che erano già state effettuate: il corpo dell’avvocato era stato ritrovato nel giardino, con una ferita da taglio in pancia e un coltello in mano e tutto lasciava, inizialmente, credere ad un suicidio in quanto l’avvocato era sotto processo per corruzione, ma molti erano stati subito i dubbi. Anche il detective scartò immediatamente l’ipotesi del suicidio e volle esaminare i reperti, solo dopo avrebbe interrogato i familiari ed i conoscenti di Colloway. Quindi Morton salì al primo piano ed entrò nella stanza che dava sul balcone dal quale l’avvocato era caduto, finendo in giardino. Spostando una pianta vide che, dietro di essa, vi era un pacchetto di sigarette con tre mozziconi all’interno e chiese se la vittima fumasse. Il commissario rispose di no e Morton consegnò le cicche a Sullivan per farle analizzare. Il giorno, in commissariato, dopo il detective incontrò i familiari e li interrogò. Cominciò dal figlio dell’avvocato, l’ingegnere Mark, sposato con due figli. Morton gli chiese:”Dove si trovava al momento della morte dell’avvocato?”. L’uomo rispose:”Ero in viaggio per andare a vedere un terreno per una nuova costruzione”. “Bene, quindi lei era fuori città”commentò il detective. “Si, esattamente” ribadì l’ingegnere. Morton continuò:”Qualcuno può confermarlo?”. Il figlio dell’avvocato rispose:”Si, mia moglie era con me”. Morton proseguì:”Suo padre era sotto processo, giusto?”. “Si, ma questo cosa c’entra?” chiese l’uomo. Morton spiegò:”Noi avevamo pensato inizialmente che si trattasse di un suicidio, ma le indagini ci hanno confermato il contrario. Lei sa se suo padre aveva qualche controversia con qualcuno?”. L’ingegnere rispose:”Non lo so, perché?” Morton disse:”Perché forse a causa di questa rivalità suo padre ha avuto un faccia a faccia violento con qualcuno e ci è scappato il morto”. Il figlio di
Colloway concluse:”Io non so niente di nessuna controversia, mi dispiace”. Morton disse:”Va bene, grazie, lei per il momento può andare; arrivederci e veda di non lasciare la città, per ora”. “Bene, arrivederci” salutò l’ingegnere. Andandosene, questi, fece cadere per sbaglio un pacchetto di sigarette e non se ne accorse; il detective lo prese e vide che era della stessa marca di quello ritrovato nella stanza del delitto. Morton, successivamente, interrogò la moglie dell’ingegnere, la signora Jannette. Subito le chiese:”Lei conferma che suo marito era fuori città il giorno della morte dell’avvocato Colloway?”. “Si, ero con lui” rispose la donna. Morton aggiunse:”Lei lavora?”. “No” ammise lei. “Quindi lei, le giornate le trascorre a casa?” chiese ancora Morton”. “Si” confermò Jannette. “Va bene, può andare,grazie” salutò il detective; poi aggiunse:”Ah, un’ultima cosa: suo marito fuma?”. “Si” rispose lei un po’ stupita” ma solo quando è nervoso, perché?”. Morton, porgendole il pacchetto di sigarette che era caduto prima all’ingegnere, rispose:”Allora gli dia queste, sono le sue, gli sono cadute poco fa”. La donna andò via. Il detective, finito il lavoro per quel giorno, tornò a casa, ma durante il tragitto passò dalla villa posta sotto sequestro, nella quale era avvenuto il delitto e vide una luce accesa; si guardò intorno per vedere se ci fossero auto nei paraggi, ma non ne vide, allora decise di fermarsi e andare a controllare. Entrato in casa, trovò tutte le altre luci spente; solo la stanza del delitto era illuminata, ma trovò tutto in ordine. Diede ancora un’occhiata alla stanza e trovò una lettera in cui l’avvocato scriveva ad un certo Jack Colloway che, nel suo testamento, avrebbe lasciato tutto a suo nipote Max Colloway. Il detective prese la lettera e se ne andò a casa. L’indomani Morton fece una ricerca su Jack Colloway e scoprì che era il fratello dell’avvocato. Poco dopo andò a casa di quest’ultimo, poco fuori città. Arrivato, fu accolto da Max, il figlio di Jack che non era in casa,e che era l’erede citato nella lettera al quale Morton fece subito alcune domande: gli chiese se sapesse il motivo per il quale l’avvocato avrebbe lasciato tutto a lui e non al figlio e Max rispose che tra Colloway e il figlio non c’era mai stato un buon rapporto. Morton gli chiese anche se fosse a conoscenza del fatto che Mark, il giorno dell’omicidio, si trovava fuori città e il giovane rispose di si. Dal momento che Jack Colloway non rientrava, se ne andò. Morton cominciava a formulare dei sospetti e si stava facendo un’idea della vicenda, ma aveva bisogno di qualche prova. Mentre andava in ufficio, Morton si fermò alla casa dell’avvocato ed entrò ancora nella stanza del delitto per cercare qualche altro indizio. Rovistando, gli cadde dal taschino la penna che andò
a finire sotto la scrivania; quando si chinò per prenderla, si accorse che lì sotto c’era inciso sul legno il nome di Max. A questo punto il detective non ebbe quasi più dubbi e si precipitò al commissariato dove Sullivan gli riferì di avere scoperto che Mark aveva dei debiti; insieme cercarono di ricostruire la vicenda per vedere se era tutto chiaro. Nel frattempo arrivarono i risultati delle analisi dei mozziconi di sigarette ritrovati al primo sopralluogo: le impronte digitali e i campioni di saliva corrispondevano a quelli di Mark Colloway. Il detective pensò allora a quello che gli aveva detto la moglie di Mark, cioè che il marito fumava soltanto quando era nervoso. Allora tutto fu chiaro, Max e Mark Colloway con la moglie furono portati in caserma e, dopo ore di interrogatorio , i tre confessarono tutto e fu possibile ricostruire la vicenda: Max e Mark si erano presentati a casa dell’avvocato con la semplice scusa di una visita. Dopo aver preso il discorso del testamento, i due fecero finta di arrabbiarsi e tentarono di strozzarlo, ma l’avvocato era riuscito a scappare e si era chiuso in una camera mettendosi sotto la scrivania, sulla quale aveva inciso il nome di Max. Aveva cercato di chiamare la polizia, ma i due erano riusciti ad entrare e Mark lo aveva accoltellato lasciando il coltello, sul quale non furono trovate tracce perché Mark aveva indossato i guanti, in mano alla vittima che, barcollando era caduta dal balcone. Nel frattempo era arrivata la moglie di Mark che li aveva aiutati a sistemare tutti per far credere al suicidio. Mark, subito dopo, nervoso com’era, aveva fumato velocemente le ultime tre sigarette e aveva messo i mozziconi nel pacchetto per non lasciare tracce, ma il pacchetto gli era caduto ed era andato a finire dietro la pianta senza che lui se ne accorgesse. I tre si erano poi messi d’accordo su cosa dire negli interrogatori e, successivamente, si sarebbero divisi l’eredità. Il detective chiese perché non avessero aspettato la morte “naturale” dell’avvocato e Mark spiegò che i suoi debiti erano urgenti. Tutti e tre furono arrestati. Sullivan ringraziò Morton. Luigi Milazzo
IL MOLESTATORE Il detective Roger ed il suo fido pappagallo Paul erano gli individui più famosi di Apple. Venivano chiamati da tutti per risolvere ogni caso. Un giorno si recò da loro una signora molto spaventata perché c’era qualcuno che le mandava strane lettere. Roger si mise subito alla ricerca di tracce, incominciando ad esaminare le lettere che erano piene di errori commessi dal molestatore ed anche parecchie cancellature. Ad un certo punto arrivò un’altra missiva. La signora vide dalla finestra un uomo che scappava e lo inseguì fino ad una via dove quello sparì. Chiamò Roger che capì subito che il colpevole era il cugino della signora sia per le cancellature, in quanto l’uomo non era mai andato a scuola e le uniche cose che sapeva gliele aveva insegnate la cugina, ovvero la signora, sia per il fatto che in quella via abitava solo lui in quel periodo, in quanto gli altri appartamenti erano abitati solo in estate. Roger si diresse verso l’abitazione del molestatore, gli bussò e l’uomo gli sembrò quasi sollevato al pensiero di confessare. Spiegò che inseguiva la cugina per vendetta dato che lei, pochi anni prima, lo aveva fatto divorziare dalla moglie. Alla fine il detective Roger e il suo fidato pappagallo Paul, capita la situazione, se ne tronarono a casa a prendere una bella tazza di the. Federico Mirabile
CONAN E IL SERIAL KILLER Conan era il nome di un detective che viveva vicino Catania ed era conosciuto da tante persone perché svolgeva il suo lavoro sempre bene. Era alto un metro e ottanta, con una capigliatura folta e riccioluta; i capelli erano neri così come gli occhi, sovrastati da sopracciglia molto folte. Aveva una pelle rugosa per via di alcune cicatrici causate da colluttazioni con delinquenti. Aveva un fisico robusto, ma molto agile. Il suo hobby consisteva nel comprendere la psicologia umana. Conan aveva una caratteristica particolare che lo contraddistingueva e cioè aveva una capacità molto acuta di osservare. La sua tecnica si basava sull’evidenza dei fatti e sugli indizi che trovava. Un giorno gli fu assegnato un caso: molte persone erano scomparse senza un motivo. Nonostante le indagini accurate, trascorse molto tempo senza che il detective riuscisse a risolverlo. Un giorno Conan venne a sapere che, in una casa abbandonata, erano stati trovati molti corpi senza vita. L’orrore crebbe quando si scoprì che a tutte quelle persone erano stati sottratti organi vitali e che su ogni corpo era stato lasciato un simbolo, quasi una sfida lanciata al detective. Conan capì che si trattava di un serial killer, ma ciò che non sapeva ancora era che l’assassino aveva preso ultimamente come bersaglio un’amica del detective. Una sera il detective e la ragazza avevano deciso di cenare insieme: Conan si recò sotto casa della sua giovane amica e, mentre aspettava che scendesse, notò una persona che stava disegnando sul muro un simbolo particolare. Conan osservò la scena di nascosto e poi decise di seguire il serial killer per vedere cosa avesse intenzione di fare. Lo vide entrare in casa della sua amica, allora si fiondò nell’appartamento prima che l’uomo potesse farle del male e per arrestarlo, ma quello riuscì a fuggire. Conan lo inseguì fino in cima ad un palazzo dove il detective invitò l’assassino a consegnarsi. L’uomo però reagì aggredendo Conan, ma durante la lotta il serial killer inciampò e cadde dal terrazzo dell’edificio mettendo fine al tormento di Conan. Filippo Pugliesi
IL SUICIDA A Catania, una provincia della Sicilia, viveva un noto investigatore privato. Il suo nome era Giovanni Micale, aveva ventisette anni, occhi verdi, capelli castani ed era abbastanza alto. Era molto sicuro di sé e, non a caso, era divenuto famoso per il suo acume e la sua prontezza nell’intervenire. Era nato a Sant’Agata di Militello, dove ancora vivevano i suoi genitori. Un sabato pomeriggio, Giovanni decise di andare a trovare i suoi familiari. Arrivato tardi in un paesino chiamato Scala Torregrotta, decise di fermarsi a dormire là perché in quel paesino c’era un albergo dove prese una camera. La mattina seguente si alzò di buon’ora e decise di mettersi in viaggio. All’uscita dell’albergo, mentre si avviava verso l’auto, si accorse che qualcuno ne aveva alzato i tergicristalli; si avvicinò all’auto per abbassarli, quando notò dal riflesso del vetro una corda che sporgeva da una delle finestre dell’albergo, andò a guardare da vicino e notò un cadavere nascosto dietro un cespuglio. Giovanni allora chiamò la polizia e il proprietario dell’albergo. La polizia arrivò in meno di cinque minuti,Giovanni intanto guardava il cadavere: era un uomo sulla quarantina con capelli brizzolati e occhi marroni. Il commissario e Giovanni si conoscevano, erano stati compagni all’accademia di polizia. Il commissario cominciò ad indagare con l’aiuto di Giovanni che dovette perciò rimandare la visita ai suoi genitori. Nella stanza della vittima non c’erano segni di scasso, ciò fece presumere a Giovanni che potesse trattarsi di suicidio, vista anche la corda appesa alla finestra, ma una cosa che lo spinse a riflettere era il fatto che la corda era fissata in modo piuttosto maldestro e che sicuramente non avrebbe retto il peso della vittima. Nella furono trovati i documenti dell’uomo: si chiamava Aldo Giacobbe ed aveva quarantuno anni. Il commissario interrogò tutte le persone presenti nell’albergo,compreso lo staff, ma sembrava che nessuno lo conoscesse. Giovanni cominciava a dubitare che si trattasse di suicidio. L’indomani arrivarono gli esiti dell’autopsia dai quali si evinceva che sul collo non c’erano segni di strangolamento e il corpo non si trovava da subito sul luogo del ritrovamento, ma che era stato spostato. I dubbi di Giovanni erano, dunque, fondati perché la corda attaccata in quel modo non avrebbe retto nessuno. L’autopsia diceva che la vittima era morta per annegamento e infatti sulla vasca da bagno dell’albergo l’investigatore trovò tracce del Dna della vittima. Giovanni interrogò nuovamente tutte le persone presenti
nell’albergo e chiese a ognuno il proprio alibi. Alla fine del lunghissimo interrogatorio solo tre non avevano un buon alibi. Giovanni non escluse neanche che l’assassino potesse essere giunto da fuori, ma il portiere aveva affermato di non aver visto entrare nessuno quella sera. Giovanni era confuso, non riusciva a collegare niente di niente. Volle rivisitare la stanza con il commissario e nel cestino trovò una lettera indirizzata alla vittima. Fece controllare le grafie dei tre sospettati e venne fuori che la grafia della lettera corrispondeva a quella di una sospettata, la signora Visalli. La donna confessò che lei e la vittima si frequentavano, ma lei lo voleva lasciare, per questo gli aveva scritto quella lettera, ma gliela aveva lasciata in camera prima dell’omicidio quando lui non c’era. La signora, dunque, rimaneva l’unica sospettata. Giovanni però constatò che il movente non era sufficiente per spiegare l’omicidio perché se la signora Visalli voleva lasciarlo, non aveva alcun senso ucciderlo. Tutto continuava ad essere in disordine nella mente del detective e Giovanni cercò di ordinare i pezzi, quando di colpo si ricordò della dichiarazione del proprietario dell’albergo che aveva detto che la vittima era un poveraccio. Giovanni interrogò nuovamente la signora Visalli per averne la conferma e lei disse che in effetti gli aveva prestato dei soldi perché era in un momento di crisi e aggiunse che lui non glieli aveva ancora restituiti. Giovanni chiamò il commissario di polizia ed insieme convocarono il proprietario dell’albergo. Giovanni lo accusò dell’omicidio spiegando che la vittima aveva un problema di soldi e lui lo avrebbe ucciso perché non pagava il conto. Il proprietario dell’albergo negò ogni cosa aggiungendo che non avevano alcuna prova di quello che affermavano. In effetti non ne avevano per incriminarlo. Allora Giovanni ed il commissario gli tesero un tranello e gli dissero che negli ultimi test dell’autopsia avevano trovato le sue impronte sui vestiti della vittima. Il proprietario, credendo di essere stato ormai scoperto, confessò che quella sera era andato nella camera della vittima chiedendogli i soldi; lui si era preparato un bagno e mentre parlavano la situazione era degenerata così lo aveva annegato nella vasca, poi lo aveva preso e nascosto sotto un carrello usato per il servizio in camera e lo aveva nascosto dietro il cespuglio. Poi era tornato nella camera e aveva legato una corda alla finestra così tutti avrebbero creduto che si fosse suicidato perché la signora Visalli lo aveva lasciato. Lo portarono in commissariato e Giovanni ripartì. Carmelo Quattrocchi
QUELLE VACANZE INVERNALI DA DIMENTICARE Erano finalmente arrivate le vacanze invernali per la giornalista Patricia Queen che aveva programmato di trascorrerle in compagnia di sua sorella Laura. Non le restava che prendere un aereo e andare a Los Angeles. Arrivata, prese un taxi e raggiunse la casa della sorella: era una grandissima villa nel cui giardino c’erano alberi e fiori di tutte le specie. Patricia si accorse immediatamente che era successo qualcosa in quella villa, infatti trovò sia la polizia sia l’ambulanza e molte persone che cercavano di scorgere qualcosa per capirne di più. Patricia si avvicinò alla folla e vide la sorella che piangeva disperatamente; più in là si vedeva galleggiare nella piscina un corpo d’uomo, sicuramente il fidanzato di Laura. Finito il trambusto e rimosso il corpo, Patricia potè finalmente parlare con la sorella e farsi spiegare esattamente ciò che era accaduto in quella casa. Laura era totalmente sconvolta, ma riuscì a spiegare che quella mattina aveva deciso di fare spese, ma il suo fidanzato, che si chiamava Mark, aveva preferito rimanere a casa; quando era tornata Mark era già morto. Patricia decise di investigare affidandosi al suo fiuto di giornalista. Parlò con vari poliziotti e osservò le varie prove. Quasi alla fine della sua vacanza notò un ragazzo che gironzolava sempre da quelle parti, osservando la casa. Patricia decise di seguirlo e scoprì che il ragazzo conosceva Mark e che questo aveva un debito con un tipo poco affidabile, un vero delinquente che aveva mandato qualcuno per ucciderlo. A Patricia non restò altro da fare che trovare delle prove; per questo decise di affiancare un poliziotto che seguiva il caso e che probabilmente era innamorato di lei. Il poliziotto, Charlie, ormai deciso a risolvere il caso, seguì gli indizi e le dritte che gli aveva dato la giornalista. Infine riuscì ad ottenere del materiale per incastrare il losco tizio, con i suoi complici, e a farlo finire in prigione. Patricia salutò Laura e Charlie promettendo loro di tornare per l’estate. Arrivata a casa aveva già un pezzo da scrivere e faccende da sbrigare. Francesco Rizzo
CARTER E IL DELITTO DEL FARO John Carter viene chiamato da una signora che gli dice di aver visto due uomini entrare in un faro da cui poi ne è uscito uno solo; la signora dà a Carter l’indirizzo di casa sua e si accordano per incontrarsi per le 15,30. Puntuale Carte è a casa della signora Francesca la quale lo guida fino al faro, un rudere diroccato e ormai disabitato. La porta del faro è vecchia ed arrugginita e si fa fatica ad aprirla. Appena entrati vedono delle ragnatele tagliate e impronte di piedi nella polvere. Un indizio porta verso il lato mare, l’altro verso la scala a chiocciola. Mentre vanno verso la porta che esce sulla spiaggia, qualcuno apre la porta d’ingresso e la richiude velocemente dopo aver visto Francesca. Carter decide di far tornare la donna a casa, mentre lui osserva la forma e le dimensioni delle impronte: subito si accorge che alcune di esse sono piccole, quindi o di una donna o di un ragazzo,ma scarta l’idea che Francesca abbia mentito. Uscito in spiaggia, vede il cadavere di un uomo, sui trenta anni, che veste una strana maglietta ormai a brandelli, senza alcuna ferita da taglio o arma da fuoco. Solo la testa è insanguinata per il colpo causato, sicuramente, dalla caduta dalla cima del faro.Scopre presto che l’uomo è Erik Fringe, l’ex marito di Francesca. A questo punto tutto fa credere che l’uomo sia stato spinto dalla donna mentre erano sul faro, ma l’acuta vista di Carter nota delle impronte di passi cancellate con altra sabbia. Carter scopre anche che l’uomo aveva già due figli e che molte volte era stato visto litigare con Francesca per questo motivo. Carter non si spiega però ancora chi abbia aperto la porta richiudendola alla loro vista e come mai gli indizi verso direzioni diverse. Il giorno dopo vede che un ragazzo e suo padre stanno pescando dietro il faro e così scopre che tutte le impronte sono le loro e che era stato il padre a dirigersi verso il faro, il giorno prima, per prendere le esche. Ecco così spiegato come mai Francesca aveva visto uscire solo una persona dall’edificio. Carter si reca allora dalla signora e le chiede di mostrargli il giardino che usciva sulla scogliera, ma mentre osserva la casa accanto, nota la recinzione del vicino rotta e del sangue su una sedia. Poi nota altri brandelli di maglietta sparsi nel giardino e sulla sedia insanguinata trova le impronte del vicino. Carter capisce così che è stato lui ad uccidere l’ex marito di Francesca facendo in modo che venisse accusata la donna. Erik aveva un debito con lui che ancora, dopo diversi mesi, non aveva pagato. Amareggiato Carter se ne torna a casa. Gabriele Russo
UN ALTRO CASO PER IL COMMISSARIO MANCUSO Era la mattina del primo di Settembre, molto calda a Torregrotta, quando il commissario Antonio fu svegliato bruscamente dallo squillo del telefono. Preso dal sonno rispose quasi sbadigliando. -Pronto? -Si, pronto, parlo con il commissario Antonio Mancuso? -Si, lei chi è? -Ah, scusi, non mi sono presentata. Sono Antonietta Cargiuli. -Mi dica, signora Antonietta, posso fare qualcosa per lei? -Si, è da due giorni che non vedo anima viva nella casa della mia vicina, sa, è molto anziana e non vorrei che le fosse accaduto qualcosa. -Bene, se gentilmente mi indica la via e il numero civico della casa, sarò da lei fra circa mezz’ora. -Va bene, allora, via Giacomo Leopardi numero 217. -Va bene, signora, a più tardi. Finita la conversazione al telefono il commissario Antonio si preparò per recarsi all’indirizzo che gli era stato dato dalla signora Antonietta.Arrivato a destinazione, Antonio venne ricevuto dalla signora Antonietta davanti alla casa dell’anziana vicina. -Aspetti, commissario, che prendo le chiavi per aprire. Il commissario Mancuso, incuriosito al fatto che la signora Antonietta fosse in possesso di un mazzo di chiavi che appartenevano alla casa della sua vicina, le chiese: -Mi scusi, come è entrata in possesso delle chiavi di casa della sua vicina? -Sa, la signora Maria è molto anziana e non vive nessuno in casa, a parte lei; mi ha dato queste chiavi in modo che io, tre volte alla settimana, vengo a farle le pulizie. -Capisco, e quando sarebbe dovuta andare a fare le pulizie in casa della signora Maria, perché è così che si chiama, se non ho capito male? -Si, il suo nome è Maria Antonelli; è rimasta vedova da giovane e non ha avuto figli, Per quanto riguarda l’altra sua domanda, sarei dovuta andare a fare le pulizie in casa della signora Maria proprio oggi, ma vedendo serrande e finestre chiuse, avevo timore ad entrare da sola. La signora Antonietta con le lacrime agli occhi aggiunse: -La prego, commissario, entri insieme a me, ho paura! -Non si preoccupi, apra questa porta così vedremo che cosa è successo.
Quando la porta venne aperta dalla signora Antonietta, il commissario Antonio vide che all’interno della casa era tutto buio, neanche una luce accesa. Entrò da solo. Dopo aver indossato i guanti, accese la luce del corridoio, ma non vide nessuno. Allora si recò nella stanza da letto dove trovò sdraiata sul pavimento, in una pozza di sangue, il corpo senza vita della signora Maria. Gli occhi della povera vittima erano spalancati per il terrore, come se la signora Maria, prima di morire, avesse visto un mostro. Il commissario cercò subito degli indizi e sul comò trovò un paio di occhiali da uomo e li mise in un apposito sacchetto. Dopodichè chiamò la scientifica per fare esaminare il corpo della povera defunta. Finita la telefonata, il commissario Antonio si recò dalla signora Antonietta per darle la brutta notizia. Qusta scoppiò subito a piangere. Il commissario, vista la situazione, chiese alla signora Antonietta: -Scusi, posso farle delle domande riguardo l’omicidio della signora Maria? -Si, mi dica. -Ha notato qualcosa di strano, in questi giorni, ad esempio qualche lite in cui era coinvolta la signora Maria? -Si, ho dimenticato di dirglielo. Tre giorni fa, dopo aver finito le pulizie in casa della signora Maria, me ne andai subito a casa mia, ma mentre stavo salendo le scale, ho visto arrivare dalla finestra il nipote della signora, Giovanni De Salvo. Mi è sembrato strano che lui venisse a trovare sua zia, detto tra noi, commissario, andava soltanto il giorno di Natale per farle gli auguri. Comunque quel giorno uscì dalla casa della zia, pace all’anima sua,nervoso, gridando come un pazzo contro la povera donna. Allora io, credendo che fosse accaduto qualcosa alla signora, corsi subito da lei, ma la trovai davanti al portone che guardava suo nipote andar via. Le ho chiesto cosa fosse successo, ma lei mi disse che era tutto a posto e io me ne tornai a casa mia tranquilla. -Grazie, signora Antonietta, mi raccomando, si tenga a disposizione. -Sissignore, sarò sempre a disposizione per lei, signor commissario. Tornato a casa, Mancuso, trovò un fax della scientifica dal quale apprese che la povera signora Maria era stata uccisa da due coltellate alla schiena e una alla nuca. Dopo aver letto il fax, il commissario chiamò l’ispettore Muarizio De Angelis, suo grande amico, nonché suo collega, che lo aiutava sempre a risolvere casi di questo genere. -Pronto? -Si, pronto. Antonio, come mai non ti sei fatto vedere oggi in commissariato?E’ successo qualcosa? Mi devo preoccupare?
-No, non ti preoccupare, Maurizio, verrò più tardi in commissariato perché questa mattina mi ha telefonato una certa Antonietta Cargiuli, dicendomi che era preoccupata per la sua vicina di casa, Maria Antonelli. -E allora?Cosa è successo? -Allora, sono andato da questa signora Antonietta e ho trovato nella casa della sua vicina il corpo defunto di quest’ultima. -La scientifica l’hai chiamata? -Si, l’ho chiamata e ho ricevuto ora i risultati. -E perché mi hai chiamato visto che hai già i risultati della scientifica? -Ti ho chiamato perché vorrei che mi facessi una ricerca su un certo Giovanni De Salvo, mi raccomando, fammela avere per quando arrivo in commissariato. -Va bene, mi metto subito all’opera. -Ciao, grazie, sarò lì tra un’ora circa. -Ciao Antonio, a più tardi. Trascorsa un’ora, Antonio arrivò in commissariato dove incontrò l’ispettore Maurizio. Subito gli chiese: -Allora, l’hai fatta la ricerca? -Si, ma chi è questo Giovanni De Salvo? -E’ il nipote della vittima; mi è stato raccontato dalla signora Antonietta che circa tre giorni fa ha avuto una lite con sua zia. -Maria Antonelli, giusto? -Esatto. Allora, questa ricerca me la dai, si o no? -Si, si, eccola qua! Il commissario Antonio, letta la ricerca, scoprì che Giovanni De Salvo era stato in carcere per un anno a causa di una rapina con scasso. Dopodichè disse all’ispettore Maurizio: -Vieni con me, devo fare delle domande alla signora Antonietta. -Va bene, aspettami in macchina che arrivo. -Ok, sbrigati! Saliti in auto, i due si recarono a casa della signora Antonietta. Arrivati, citofonarono e rispose la signora: -Si, chi è? -Sono il commissario Antonio, posso salire? Ah, lei è, signor commissario, prego salga. Aperto il portone i due vennero accolti dalla signora Antonietta nella sala da pranzo. La donna chiese: -Avete delle domande da farmi, signor commissario?
-Si, volevo sapere se, per caso, Giovanni De Salvo aveva problemi di debiti, visto che è stato in carcere per un anno a causa di una rapina. -Ah, l’avete saputo che Giovanni è stato in carcere!Ebbene si, è stato in carcere proprio perché gli servivano soldi e quindi ha fatto una rapina. Ma la signora Maria pagò la cauzione e Giovanni uscì dal carcere, ma senza mai ringraziarla. -Sa se Giovanni aveva di nuovo dei debiti con qualcuno? -Mi sembra di si, ne ho sentito parlare in giro, sa qui le voci corrono! -Capisco, mi saprebbe dire dove abita Giovanni De Salvo? -Si, abita in via XX Settembre al numero 410. -Grazie molte, signora Antonietta, spero di non aver disturbato. -Non si preoccupi, signor commissario,gliel’ho detto che per lei sono sempre libera, pur di risolvere il caso della povera signora Maria, pace all’anima sua! -Arrivederci e grazie di nuovo. Usciti dalla casa della signora Antonietta, l’ispettore Maurizio si rivolse al commissario dicendogli: -A quanto pare abbiamo il colpevole: Giovanni De Salvo! -Può darsi, ma per scoprirlo è meglio recarci da lui. Saliti in auto, i due si recarono a casa di Giovanni De Salvo. Citofonarono e rispose il presunto assassino: -Si, chi è? -Sono il commissario Mnacuso, posso entrare? -Si, prego, commissario, entri. Entrati, i due vennero accolti da Giovanni il quale disse: -Suppongo che siete qui per l’omicidio di mia zia, ma se credete che io c’entri qualcosa, vi sbagliate. -Stia calmo, non si agiti, voglio farle soltanto qualche domanda. -Scusi, commissario. Prego, mi faccia queste domande. -Allora, è vero che lei tre giorni fa ha avuto una lite con sua zia? -Si, è vero. -E’ vero che lei in questi ultimi tempi si è indebitato? -Si, è vero. -E’ vero che lei ha ucciso sua zia Maria Antonelli perché aveva bisogno di soldi, ma sua zia non glieli ha dati quando avete avuto quella lite? Giovanni De Salvo, furibondo e piangendo rispose: -No! Non è vero! Io non ho ucciso mia zia! Io volevo bene a mia zia! E poi non avrei avuto nessun motivo per ucciderla; io il mio debito l’ho saldato e
se non ci credete potete andare al bar “Peccati di gola”. Il proprietario è un mio amico ed è stato lui a prestarmi 1000 Euro per finire di pagare l’automobile, ma io appena ho potuto glieli ho restituiti ed è stato proprio quattro giorni prima della lite con mia zia. E adesso andate, sono stanco! -Va bene, signor Giovanni, ci accerteremo di quello che ci ha detto ora lei. -Arrivederci, signor commissario; arrivederci, ispettore. I due si recarono subito al bar “Peccati di gola” dove ebbero la conferma di quello che aveva detto Giovanni De Salvo. Usciti dal bar, l’ispettore disse al commissario: -E adesso siamo di nuovo punto e a capo. -Non credo, forse abbiamo trovato l’assassino, ma prima… -Ma prima cosa? -Prima rechiamoci a casa della signora Maria. Arrivati, il commissario Antonio forzò la serratura della porta dell’appartamento. L’ispettore Maurizio, vedendolo all’opera, gli disse: -Ma sei pazzo? Non abbiamo nessun mandato! -E zitto per una volta! Devo farlo per risolvere il caso. Entrati in casa, si recarono nella stanza da letto dove il commissario Antonio si mise a rovistare ovunque fino a quando trovò dei capelli lunghi e ricci sul pavimento, sotto un mobile. Disse tra sé: -Questi non possono essere della signora Maria. Lei aveva i capelli lisci e corti…La signora Antonietta! E’ lei l’assassina! L’ispettore Maurizio, vedendo chino per terra, il commissario gli chiese: -Allora? -Andiamo dalla signora Antonietta, devo farle delle domande. -Va bene. La trovarono nel piazzale davanti alla sua casa che stava pulendo. Con espressione preoccupata chiese: -Come mai di nuovo qua?Avete altre domande da farmi? Il commissario Antonio esclamò: -Signora Antonietta! Ho trovato dei capelli tali e quali ai suoi sul luogo del delitto. -E allora? Facevo sempre le pulizie nella stanza da letto della signora Maria, può essere che si sono strappati perché si sono impigliati ad una maniglia del mobile. -Signora Antonietta, veniamo subito al dunque. Lei ha ucciso la signora Maria perché voleva più soldi per le pulizie che faceva in casa sua, ma la signora glieli aveva rifiutati. Poi lei pensò di incolpare il nipote lasciando
degli occhiali da uomo sul comò. Ma io ho scoperto che Giovanni De Salvo porta solo occhiali da vista. -E va bene, commissario, ha scoperto tutto. Il commissario Mancuso e l’ispettore Maurizio chiusero il caso e andarono a prendere un gelato. Alessandro Scibilia
IL COMMISSARIO PINCOPALLINO Era una fredda mattina d’inverno. Il commissario Pincopallino mangiava una delle sue ciambelle preferite, con la glassa al cioccolato. Tutta quella calma era sul punto di essere interrotta da una telefonata della signora Maria che denunciava la scomparsa di suo marito: l’uomo,ormai da ben due settimane, non telefonava e non si faceva vedere. Per prima cosa il commissario si fece dire cosa fosse successo in quei giorni e, soprattutto, se lo scomparso avesse dei nemici. Pochi giorni dopo, il commissario venne a sapere il nome di un vecchio “conoscente” dell’uomo, lo andò a cercare a casa sua e, dopo una lunga conversazione, seppe che già da un po’ di tempo il marito della signora Maria litigava, anche in modo violento con suo vecchio “amico”. Saputo il nome e l’indirizzo dell’uomo, il commissario si recò a casa dell’”amico” che, subito, confessò di essere stato lui a ucciderlo e farlo sparire. Ciò, però, non convinse il commissario. Come mai aveva confessato subito? E il corpo dov’era? Il commissario capì che si trattava solo di un mitomane, così tornò a parlare con la signora Maria. Proprio all’interno della casa della donna, si accorse di una traccia di sangue e, nonostante le proteste di lei, cominciò a seguirla. Arrivò fino ad una porta, entrò e scoprì il cadavere! A quel punto chiese alla donna cosa significasse tutto quello; lei si mise a piangere e si giustificò dicendo:”Ma lui mi ha tradita!!” Il commissario già non l’ascoltava più. Tornò alla sua ciambella. Giuseppe Pio Scibilia
TRADIMENTO E VENDETTA L’investigatore James Burton fu guidato dal suo assistente sulla scena del delitto. La vittima, secondo i primi rilievi, non era stata uccisa nel vicolo in cui era stata trovata, ma vi era stata trasportata dopo. Si trattava di una donna, capelli biondi, alta circa un metro e settanta, un fisico da modella. Burton, dopo che gli consegnarono tutte le informazioni raccolte sul posto, chiamò il suo assistente Nick Adams e gli disse: -Nick, hai trovato qualcosa di particolare? -Si, sul cranio della vittima ho visto la ferita che molto probabilmente è stata la causa del decesso e ho notato che ha una forma strana, come se a colpirla fosse stato qualcosa di molto duro, un oggetto con stampato sopra un disegno! -Ottimo lavoro! Visto che siamo qua cerchiamo di trovare altri indizi. Dopo un po’ Nick si rivolse all’investigatore: -Burton, non sono riuscito a trovare altro. Tu hai notato qualcosa? -La donna faceva quasi sicuramente l’indossatrice. -Come fai ad esserne così sicuro? -Guarda sotto le ascelle e sotto il braccio: c’è un’irritazione che si ha, di solito, quando una persona si sveste e si riveste continuamente. -Giusto, non ci avevo pensato. Dividiamoci e cerchiamo di scoprire il posto in cui lavorava. In città c’erano solo quattro ditte che confezionavano abiti e che li facevano provare a delle indossatrici prima di consegnarli. Dopo ore di ricerche, l’investigatore sembrò aver trovato il posto in cui lavorava la giovane. Entrò nel negozio e, mostrando la foto della vittima, chiese: -Salve, mi sa dire se questa ragazza lavorava qua? -Si, era una delle nostre indossatrici. Cosa le è successo? -E’ stata assassinata. Mi sa dire qualcosa di lei? Il suo nome, l’età, insomma tutto quello che sa! La prego. -Si, certo. Il suo nome era Cristal Duprè, aveva ventitrè anni e aveva iniziato a studiare teatro. Aveva pure un fidanzato, stavano insieme da circa tre anni. -Grazie mille, mi ha aiutato molto. Arrivederci. Burton, finito il giro, chiamò il suo assistente e gli disse di incontrarsi allo studio per scambiarsi le informazioni raccolte. Nick riferì a Burton, una volta arrivato all’ ufficio, che aveva delle novità molto importanti.
-Mentre chiedevo alle persone che incontravo se conoscessero la vittima, m sono imbattuto in una ragazza di nome Keri Hilson che ha detto di essere un’amica intima di Cristal, così mi ha detto che si chiamava la vittima, e che ci stava cercando per fornirci delle informazioni. -Ottimo! Che ti ha detto di interessante? -Mi ha detto che da qualche mese le cose con il suo ragazzo non andavano più tanto bene e che la nostra vittima aveva intenzione di lasciarlo. -Ti ha saputo dire altro? -Si, mi ha detto che il suo ragazzo si chiama Mike, è alto un metro e ottanta e lavora in una gioielleria in periferia. -Andiamo a trovare il nostro amico! Si avviarono verso la gioielleria per interrogare il ragazzo. Giunti lì chiesero all’uomo presente in negozio: -Salve! Cerchiamo un certo Mike, lo conosce? -Si, sono io, cosa succede? -Conosce la signorina Cristal Duprè? -Certo è la mia fidanzata. Le è successo qualcosa? -Ma come? Lei è il suo ragazzo e non sa nemmeno dove si trova la sua fidanzata? Da quanto tempo non la vede? -Non la vedo e non la sento da due giorni. Ma lei dov’è? Come sta? -La sua ragazza è stata uccisa ieri sera. Lei dove si trovava ieri? Il ragazzo portò le mani al volto in un gesto di disperazione e si sedette. Burton in quel momento notò l’anello che il giovane portava al dito e che somigliava tanto alla strana forma della ferita riscontrata sul cranio della vittima. Ripresero a parlare. Il giovane disse: -Io ieri sera ero a casa e guardavo un film. -Era solo? Ha testimoni? -No, ero solo a casa e sono arrivato tardi, non credo che mi abbia visto qualcuno! -Come immaginavo! Mi potrebbe fare vedere il suo anello? -Si, certo! -Dove lo ha preso? -Me lo ha regalato la mia ragazza quando abbiamo festeggiato due anni di fidanzamento. -Ho saputo che ultimamente c’erano delle tensioni fra voi, mi può dire il perché? -Non lo so, diceva che voleva più tempo per se stessa e che era stanca di stare con me perché le dedicavo poche attenzioni.
In quel momento squillò il cellulare del detective; era il suo assistente che voleva avvertirlo del fatto che aveva trovato un testimone che affermava che Mike era stato visto parlare con la vittima mezz’ora prima dell’omicidio. Chiusa la telefonata, Burton si rivolse al giovane: -Mike ci sono dei testimoni che affermano di averti visto insieme alla vittima la sera stessa del delitto e, sul cranio della ragazza, abbiamo rilevato una ferita procurata dal tuo anello.Confessa! Sei stato tu ad uccidere Cristal! -…!! L’avevo sorpresa baciare un altro. Sono rimasto scioccato e sono andato a parlarle. Mi disse che mi lasciava e che non dovevo più cercarla. Preso dalla rabbia le diedi un pugno, ma non era mia intenzione ucciderla. Volevo solo farle male! -Andrai in carcere! -Ma…posso riavere il mio anello? Burton non rispose, ma pensò fra sé:”Si, fra settant’anni!” Marco Trio
UN DELITTO VELOCE Un ragazzo che viaggiava quotidianamente dalla montagna per andare a scuola, un giorno non tornò a casa e, dopo le prime ricerche, si scoprì che non era andato neanche a scuola. Il padre chiamò subito la polizia che affidò il caso al detective Monroe. Egli cominciò ad indagare facendo domande a tutti i conoscenti. Nella stanza del giovane trovò un indizio, una lettera scritta con dei caratteri presi dai giornali; leggendo la missiva, Monroe capì che si trattava di un appuntamento al fiume vicino a casa. Andarono a controllare e trovarono il cadavere del ragazzo che aveva segni di strangolamento. La scientifica arrivò sul posto e subito trovò del dna sotto le unghie, segno che il giovane aveva lottato…Confrontato con quello dei conoscenti del ragazzo, Monroe dedusse facilmente che si trattava di quello della fidanzatina. Interrogata, scoppiò in lacrime, confessando di averlo ucciso per gelosia. Andrea Amovilla
L’OMICIDIO DEI DUE ANZIANI E’ notte fonda. Una coppia di anziani vive in un grande casolare, vecchio, circondato da alberi di pino fradici e pipistrelli che svolazzano tutto intorno senza mai fermarsi. Essi avevano un grosso debito con alcune persone perché, con quel denaro, avevano comprato dei maiali e delle pecore. Trascorse due settimane dall’acquisto, il debito non era stato pagato e così Pinuccio, uno dei creditori, lasciò un avvertimento facendo trovare loro tutti gli animali morti e un biglietto minaccioso che diceva che, se il giorno dopo non gli fosse stato pagato il debito, li avrebbe uccisi entrambi. I due anziani, non sapendo dove prendere tutto quel denaro, si chiusero in casa e inchiodarono tutte le serrature delle porte in modo che non si potesse entrare. Arrivata la sera, gli anziani cominciarono ad avere paura, ma la stanchezza che sentivano fu più forte della stessa paura e si addormentarono. In piena notte fecero irruzione i manigoldi che scassinarono la porta in silenzio. Entrati nel casolare, si diressero nella camera da letto e uccisero i due anziani. L’indomani i vicini si notarono che la coppia non si vedeva in giro e, avvicinatisi al casolare incuriositi, videro la porta scassinata. Chiamarono subito la polizia che mandò sul luogo un detective: era il migliore nel risolvere i delitti. Si chiamava Mr Cola, detto lo Zoppo per una vecchia ferita ad una gamba durante uno scontro con un criminale. Era un uomo pauroso, non aveva capelli e aveva una cicatrice in testa, un grosso naso a patata e la faccia grande quanto un melone. Gli mancava anche una mano e l’altra era provvista solo di tre dita con le quali teneva un bastone per non barcollare e il suo aspetto faceva veramente paura. Nonostante tutto era un ottimo detective e quando indagava non gli sfuggiva nulla. Aveva un solo difetto: quando parlava balbettava, ma riusciva lo stesso a farsi capire. Mr Cola arrivato al casolare, cominciò ad ispezionare tutto e, entrato nella camera da letto, vide i due anziani morti, coperti da un telo bianco. Sul pavimento, in bella vista, c’era un coltello sul quale sicuramente dovevano esserci delle impronte. Dopo l’esame dell’arma del delitto, Mr Cola venne a sapere che le impronte appartenevano ad una persona che lui conosceva bene: si trattava di Mario Rossi, un grande mafioso, ricercato da tempo. A questo punto il detective ordinò un mandato di cattura nei confronti dell’uomo che venne rintracciato in un bar e arrestato. Portato in questura, confessò di essere stato lui, assieme ad altre persone, a commettere il delitto e fece i
nomi dei suoi complici. Ormai il caso era risolto e Mr Cola potè ritornare a casa. Fabio Campagna
UNO STRANO ASSASSINIO Un giorno d’estate un gruppo di persone si erano raccolte intorno ad un albero: sopra vi era sdraiato un ragazzo che sembrava morto. Vennero chiamati i pompieri per tirarlo giù, ma il poveretto cadde a terra da solo, spinto forse da un gatto. Erano intanto arrivati anche un’autoambulanza, i cui operatori si resero conto che il giovane non era morto e lo portarono in ospedale, ed una pattuglia di agenti che cominciarono subito ad indagare, alla ricerca di una traccia o di un indizio che facesse scoprire chi avesse tentato di uccidere il ragazzo e come fosse stato caricato sull’albero. Sul momento non venne trovato nulla, neanche i passanti avevano visto qualcosa. I genitori del giovane, accorsi in tutta fretta all’ospedale, si ritrovarono di fronte il medico di guardia che disse loro che il figlio era sano come un pesce nonostante non si fosse ancora svegliato. Trascorsero dei giorni ed il ragazzo non apriva gli occhi. I genitori non sapevano cosa fare. Furono eseguite altre analisi finchè i medici decisero di tentare il tutto per tutto e lo portarono in sala operatoria. Intanto le indagini proseguivano senza alcun risultato. In ospedale, dopo alcune ore di attesa, finalmente videro uscire dalla sala operatoria una figura: era il giovane! Sano, calmo ed in piedi sulle sue gambe. Chiese subito ai genitori che cosa ci facesse lì e quelli risposero spiegandogli che era stato trovato su un albero. Il ragazzo ascoltò sbalordito e alla fine, per l’emozione, cadde a terra. Intanto erano sopraggiunti gli agenti della polizia che, avendo saputo che il giovane si era infine svegliato, lo volevano interrogare. Il commissario comunicò che avevano trovato anche una scarpa da uomo e che ormai bastava rintracciarne il proprietario per scoprire il colpevole. Quando incontrarono il ragazzo e gli mostrarono la calzatura, questi li ringraziò per aver ritrovato la sua scarpa. Così infine il giovane spiegò:” Sapete, io , a volte, dormo poco e quella sera avevo preso un sonnifero molto forte. Poi, visto che sono sonnambulo, devo essere uscito di casa e… come sono salito sull’albero proprio non lo so!”. I poliziotti rimasero a bocca aperta, ma ugualmente contenti della felice conclusione del misterioso caso. Lorenzo Caravello
ASSASSINIO A NEW YORK Era il primo di Luglio e il detective Gioacchino Calizzone, per i conoscenti Jack, si trovava con la moglie e la figlia nella città di New York. Quel giorno faceva un caldo bestiale, quasi 40° all’ombra, e tutto stava andando per il meglio quando, all’improvviso, si udirono degli spari provenire dalla metropolitana. A quel frastuono accorsero molti curiosi per vedere cosa fosse successo: c’era stata una sparatoria. Il sangue era sparso ovunque e, accanto al cadavere di un uomo, c’erano una pistola, dei bossoli e un paio di guanti in lattice. Jack cercò di fare subito delle supposizioni fino all’arrivo della polizia e dell’autoambulanza che, vedendo l’uomo ormai deceduto, se ne ritornò all’ospedale. Il detective, insieme con l’ispettore della polizia, cominciò a esaminare la pistola, i bossoli e i guanti, ma non trovò alcuna traccia utile alle indagini né alcuna impronta digitale. L’ispettore di polizia vide una macchia di sangue cinque metri più in là del cadavere. Jack prese, dal taschino della giacca, la sua lente di ingrandimento per visualizzare meglio quella macchia che, poi, fu lasciata all’esame della scientifica. Jack non si arrese e continuò a cercare tracce e, finalmente, si accorse di alcune orme che conducevano all’uscita della metropolitana. Le seguì, ma quelle diventavano sempre meno visibili. Si trattava, comunque, di orme di scarpe invernali, nuove di zecca, acquistate probabilmente subito prima della sparatoria. In quella zona, pensò Jack, c’era un solo negozio che vendeva quel genere di articoli così il detective e l’ispettore si recarono immediatamente lì. Insieme interrogarono le commesse, chiedendo loro se ricordassero chi aveva comprato da poco quelle scarpe e le ragazze, prontamente, risposero che erano state acquistate da due uomini: uno era alto e magro e l’altro basso e grasso, ma si somigliavano molto; probabilmente erano due fratelli. Dopo aver ringraziato le commesse per le preziose informazioni, ritornarono sul luogo del delitto e lì decisero di dare un’occhiata al filmato registrato dalla telecamera in funzione 24 ore su 24. Lo osservarono attentamente e ripetutamente finchè non individuarono i due uomini descritti dalle commesse: in effetti erano due tipi conosciuti, per la precisione si trattava di due ex poliziotti in pensione, famosi tra i colleghi per essere due teste calde. Jack e l’ispettore conclusero facilmente che la loro bravata doveva essere il frutto di qualche idea balorda che pensavano di realizzare. Jack
considerò il caso risolto e lasciò che fosse l’ispettore ad arrestare i due malviventi. Antonio Fiumara
ASSASSINIO PER INVIDIA Will, detective di fama, quel giorno doveva giocare una partita di calcetto: era un quarto di finale, ma proprio quel giorno, uno dei suoi compagni più forti, il portiere, non si presentò al campo. La partita fu giocata senza di lui. Finito l’incontro, Will cercò di scoprire perché il suo compagno non si fosse presentato al campo e così cominciò ad indagare. Due giorni dopo, un tale informò la polizia della presenza del cadavere di un uomo; avvisato, Will, andò a controllare di chi si trattasse: era il suo compagno. A questo punto Will non indagava più su una scomparsa, ma su un omicidio. Scoprì presto, dal fratello della vittima, che, il giorno della sparizione, non si era presentato neanche a pranzo dicendo che doveva accompagnare la fidanzata al bowling. I vicini di casa, però, informarono Will di aver visto l’uomo nel cortile del palazzo. Allora il detective interrogò tutti i componenti della famiglia e alla fine si convinse che, ad uccidere il suo amico, era stato il fratello. Gli chiese se fosse lui il colpevole e quello, dopo aver tentato di negare per un po’ , alla fine crollò e confessò. Will scoprì che il suo compagno era stato ucciso dal fratello perché quando questi gli chiedeva di giocare, lui diceva sempre di no . Cos Will risolse il caso. Emanuel Galeno
UN ALTRO DELITTO PER JOSEPH Seguito dal dottor Alex, il detective Joseph, dopo essere arrivato sulla scena del delitto, si avvicinò alla fontana di Trevi e trovò il corpo della vittima in acqua: si trattava di un giovane. Era molto difficile capire come si fossero svolti i fatti e soprattutto chi potesse essere il responsabile. Joseph chiese al dottor Alex di analizzare il corpo e notò subito che la vittima era stata strattonata e, cadendo a terra, forse aveva battuto la testa. Tornato in commissariato, Joseph continuava a non capire chi potesse aver fatto una cosa del genere ad un ragazzo così giovane. La mattina seguente, dopo aver preso un buon caffè, tornò al lavoro. Insieme con il dottore si recò alla scientifica e lì appresero il nome del ragazzo che si chiamava Franco Cozzo e viveva in via Poli 26, a Roma. Scoprirono così che faceva il meccanico. Joseph cominciò a chiedere informazioni e scoprì anche che la sua officina era chiusa da un mese. Molti clienti si lamentavano perché Franco aveva molti debiti con loro, perché si faceva dare prima i soldi e poi montava i pezzi sulle auto. Joseph si recò, quindi, a casa di Franco e lì trovò sua madre Antonina De Santis. Questa gli raccontò molte cose interessanti sul figlio e soprattutto confermò il fatto che aveva dei debiti che non riusciva a pagare e poi gli disse che, due giorni prima, erano andate due persone che indossavano delle magliette con su scritto Car Center: avevano parlato con Franco e dopo se ne erano andati. Joseph le chiese se avesse notato qualcosa o se il figlio avesse ricevuto una telefonata o una lettera che lo avesse spaventato. La madre rispose di no . Joseph notò che il telefonino del giovane era ancora sulla scrivania, lo prese e vide che tra i messaggi ricevuti ce n’era uno che si riferiva ad un incontro alla fontana di Trevi con due persone. Joseph pensò subito che fossero stati loro ad ucciderlo. Cercò nei Car Center vicino casa di Franco e trovò presto le due persone che erano state a casa della vittima. Li portò in commissariato per interrogarli e, nel frattempo, chiamò il dottor Alex che lo informò che Franco Cozzo era stato ucciso alle 2,35 del mattino. Così Joseph interrogò le due persone e seppe che uno si chiamava Alessio e l’altro Enzo. Poi chiese loro dove si trovassero la notte del delitto, alle 2,35. Enzo e Alessio risposero che si trovavano al lavoro perché avevano il turno di notte e questo era testimoniato anche dal rapporto che avevano stilato alle 3,00. Joseph adesso non aveva più idea su chi potesse essere il colpevole. Ad un certo punto però squillò il telefonino della vittima e sul
display comparve un messaggio della stessa vittima che diceva che gli dispiaceva per quello che aveva fatto e si scusava con tutti per i debiti che aveva. In quel momento Joseph capì che il giovane si era ucciso perché non aveva trovato altra via d’uscita e così comprese anche la dinamica dell’incidente. Franco era salito sulla fontana, sulla parte più alta, e si era buttato a testa in giù. Così aveva sbattuto la testa.Joseph, un po’ amareggiato, chiuse il caso. Roberto Giordano.
OMICIDIO IN FAMIGLIA Saro Falsapella, stimato detective siciliano, venne invitato da Salvatore, un suo vecchio amico, nella sua casa di Floresta. Salvatore era un uomo molto ricco, ma non aveva alcuna fiducia nelle sue due figlie che gli sembravano troppo avide. Giunto a casa di Salvatore, Saro fu accolto calorosamente dall’amico che lo invitò subito a prendere un caffè nel suo studio. Lì Saro trovò seduto un altro uomo, un medico, di cui Salvatore aveva grande stima. L’amico spiegò a Saro i suoi dubbi sulle figlie e lo invitava ad osservarle con discrezione in quei giorni di permanenza in casa sua. Il detective lo rassicurò e si fece presentare le ragazze che, effettivamente, gli parvero un po’ scontrose. La sera, mentre stavano aspettando la cena, una delle figlie si allontanò furtivamente recandosi in cantina. Saro la seguì e la vide iniettare del veleno in una bottiglia di vino, ma all’improvviso qualcuno colpì Saro violentemente alla nuca e perse i sensi. Nel frattempo la ragazza era tornata in salone dove erano tutti riuniti per l’imminente cena e offrì un bicchiere di vivo al padre. Egli lo accettò e, dopo poco, cadde riverso a terra al centro della stanza. Subito le figlie ed il dottore si avvicinarono all’uomo che però ormai, constatò il medico, era morto. Ripresi i sensi, Saro risalì al piano superiore e, visto il corpo dell’amico riverso in terra privo di vita, chiamò la polizia. Gli agenti, sentito quanto raccontato dal detective relativamente all’episodio di cui era stato vittima in cantina, perquisirono la borsa della figlia di Salvatore e, in effetti, trovarono una siringa ed un boccettina di veleno. Venne arrestata immediatamente. Ma qualcosa ancora non convinceva il detective. Continuando a cercare delle tracce, si accorse di una telecamera nascosta dietro un quadro del salone. Saro si precipitò a visionare il filmato della serata e, con sorpresa, vide il suo amico Salvatore prendere il bicchiere di vino dalle mani della figlia che glielo offriva, ma anziché berlo, lo versò di nascosto nel vaso di una pianta. Dopo Salvatore si gettò in terra fingendo il malore per vedere la reazione delle figlie. Ma Saro si accorse anche che il dottore si era avvicinato per ultimo al corpo steso in terra e, sebbene ripreso di spalle, lo vide armeggiare vicino a Salvatore che, in quel momento, era ancora vivo. Saro capì immediatamente che era stato il medico ad avvelenare Salvatore, probabilmente d’accordo con l’altra figlia del suo amico. Saro, risolto il caso, se ne tornò triste a casa sua. Gabriele Ingegnere
IL MAGGIORDOMO SICILIANO E’ una sera buia e tenebrosa con lampi, fulmini e pioggia fitta che cade su una casa spettarle, piena di polvere e circondata da animali notturni. E’ mezzanotte…all’improvviso si sente un urlo…il maggiordomo è stato ucciso. Arriva subito la polizia, ma nessuno riesce a darsi una spiegazione. Con il sangue della vittima è stato disegnato uno strano simbolo e il coltello sporco di sangue è ancora vicino al corpo. Dopo giorni di indagini si scopre il primo indizio: il giardiniere racconta che, quella notte, aveva appena finito il suo spuntino di mezzanotte quando, all’improvviso, aveva sentito un urlo e, subito dopo, il rumore del motore di una motocicletta che andava via di corsa. Grazie a questa testimonianza si scopre che la moto dell’assassino è un fuori strada proprio come quello del padrone di casa che, però, aveva un alibi confermato dalla madre dalla quale diceva di essersi recato quella sera a cena. L’assassino però ha commesso un errore disegnando quello strano simbolo: un cuore fucilato, che era raffigurato sul blasone della famiglia del padrone di casa. Interrogato nuovamente l’uomo, questa volta confessa che il maggiordomo era siciliano ed era stato assunto da poco. Il padrone di casa non era a conoscenza delle sue origini, ma col tempo era venuto a sapere che era stata la famiglia della vittima a uccidere suo padre e così, furioso, lo aveva detto alla madre con la quale avevano progettato e messo in atto il delitto. Entrambi vengono subito assicurati alla giustizia. Mattia Puglisi
IL COMPLEANNO DI SUSY In un tranquillo paesino della Scozia vivevano con la loro zia due sorelle, Susy e Betty, rimaste orfane quando erano molto piccole. La zia Marta era una donna premurosa e gentile e, rimasta vedova, aveva ereditato dal marito un’ingente patrimonio che, alla sua morte, sarebbe andato alle nipoti. Con loro viveva anche una giovane cameriera dall’apparenza sciocca. Quella sera era il compleanno di Susy e la zia Marta aveva invitato il suo fidanzato Bobby che poi, data l’ora tarda, era rimasto a dormire lì. La zia era molto contenta che Bobby dormisse con lei, perché si sentiva più sicura quando c’era un uomo in casa. La mattina seguente, quando si ritrovarono tutti a fare colazione, Susy ,Bobby e Betty si chiesero come mai la zia non si fosse ancora alzata, visto che era sua abitudine svegliarsi molto presto. Susy andò in camera sua a chiamarla e, constatando che non rispondeva, entrò. Lanciò un urlo vedendo il corpo della donna steso sul pavimento con una mano sul petto. Subito si precipitarono anche Bobby e Betty che pensarono di chiamare subito il medico, il dottor Sullivan. Il dottore confermò la morte della donna e richiese un’autopsia per sapere quale fosse stata la causa del decesso. La camera della zia era in ordine e quindi scartarono l’ipotesi che fosse entrato un ladro. Bobby, nel frattempo, aveva chiamato un investigatore, il famoso Peter Land. Trascorsi alcuni giorni, dall’esame dell’autopsia risultò che la donna era stata avvelenata, ma non riuscivano a capire chi potesse essere stato a fare una cosa tanto orribile. Le nipoti erano le uniche eredi, la cameriera aveva sempre vissuto con loro e il fidanzato era molto affezionato alla zia. L’investigatore aveva subito perlustrato la villa palmo a palmo, ma aveva trovato tutto in ordine, non mancava niente, quindi il colpevole doveva essere uno di loro. Nella camera di Betty vide una boccettina di gocce vuota che lei disse di non aver mai visto né usato. Era evidente che qualcuno voleva incastrare lei. In camera di Bobby, dietro il comodino, Land trovò una chiave un po’ particolare che Bobby disse non appartenergli, poi confidò all’investigatore che, la sera prima, aveva visto la cameriera molto agitata. Interrogata da Land, la giovane accusò Bobby di volerla incolpare dell’omicidio perché non la sopportava, infatti non la salutava mai, neanche quando la incontrava per strada, come era accaduto qualche giorno prima quando lo aveva visto uscire dallo studio del medico e aveva fatto finta di non vederla. Bobby negò tutto dicendo che era pazza
e che non era mai stato nello studio del dottore. Questo, interrogato, disse di non ricordare se l’uomo fosse stato da lui, ma che era certo di avere visto la vittima una settimana prima e che godeva di ottima salute. Aggiunse, poi, che non riusciva neanche a immaginare chi potesse averla uccisa perché Marta era una persona buona e generosa con tutti. Ma l’investigatore Land era un professionista e con un po’ d’impegno avrebbe risolto questo caso. Ripensando a tutti gli elementi che aveva e cercando dei riscontri, scoprì che la chiave che aveva trovato nella camera di Bobby apriva l’armadietto dei veleni dello studio del dottore il quale, invitato a controllare che non mancasse nulla, constatò l’assenza di un flacone. Non c’erano più dubbi: il colpevole era Bobby che voleva far ricadere la colpa su Betty . Sicuramente avrebbe, in seguito, corteggiato Susy inducendola a sposarlo così avrebbe ereditato, indirettamente, tutti i beni di Marta. Purtroppo aveva dimenticato di fare sparire le chiavi e la cameriera, che sembrava una sciocca, aveva permesso di risolvere il caso. Salvatore Rizzo
DELITTO IN SVIZZERA John era in vacanza in Svizzera dove pensava di potersi prendere una lunga e piacevole pausa dal suo lavoro di detective. Un giorno, mentre passeggiava lungo un sentiero che fiancheggiava una bella villetta, notò una cosa che lo inquietò: la porta d’ingresso era aperta e, colpita dal vento, sbatteva rumorosamente. Possibile che nessuno all’interno della casa sentisse quell’insistente e fastidioso rumore? Si avvicinò alla porta aperta e fece qualche passo all’interno della villetta. Subito si accorse del cadavere di un uomo che stava disteso sul pavimento del corridoio. John informò immediatamente la polizia che arrivò in pochi minuti. Esaminando l’appartamento,John notò che la finestra di una camera che sporgeva sul retro era spalancata: probabilmente l’assassino era fuggito da lì. Il detective cominciò ad interrogare i vicini di casa della vittima, il signor Viktor, che di lui avevano un’alta considerazione, anche se sapevano che aveva dei problemi con alcuni dei dipendenti della sua fabbrica perché , a quanto si diceva in giro, non li pagava con regolarità. John pensò allora che l’omicida doveva essere sicuramente qualcuno di essi e, indagando, scoprì che uno di loro, Adolf Ginsred, era andato a casa di Viktor proprio il giorno dell’omicidio. John cercò l’uomo e lo interrogò insistentemente inducendolo a confessare il delitto. John riprese, soddisfatto, la sua vacanza tra le stupende montagne e valli della Svizzera. Salvatore Santoro
TRA VICINI DI CASA Era mattina presto e il telefono squillava sulla scrivania dello sceriffo Bill. Egli risposee, immediatamente, l’espressione del suo viso cambiò: era stato commesso un omicidio. Bill, chiuso il telefono, indossò la giacca, il cappello e disse a John, il suo assistente, di andare con lui perché era successo qualcosa ad un suo amico, Robert, e alla moglie di questo. Arrivati a casa di Robert entrarono e trovarono subito all’ingresso il corpo del figlio colpito a morte da un colpo di fucile alla nuca. Salite le scale con la pistola in pugno, Bill e John trovarono Robert e sua moglie adagiati contro la parete della camera da letto, anch’essi morti e coperti di sangue. Bill, sconvolto e disperato, chiamò la scientifica comunicando il luogo del delitto per fare subito gli opportuni rilievi. Gli agenti esaminarono con attenzione il posto cercando tracce, impronte e qualsiasi altra cosa che potesse metterli sulla strada giusta. Nel bagno trovarono dei capelli nella doccia e altre tracce di sangue, ne presero qualche campione e inviarono tutto ad analizzare. Dagli esami si scoprì il dna dell’aggressore che, in breve Bill identificò con un vicino di casa di Robert. Bill si recò subito a casa del sospettato e lo interrogò chiedendogli dove si trovasse al momento del delitto, ma l’uomo sembrava avere un alibi di ferro. Bill non lo potè portare in caserma, ma quando altre tracce di sangue lo inchiodarono definitivamente, tornò a cercarlo per arrestarlo. L’uomo, però, sentendosi braccato era già fuggito dal suo appartamento. Bill, con l’aiuto dei suoi uomini, riuscì a fermarlo e a farlo confessare: era stata una semplice vendetta dettata dall’ invidia. Quella famiglia, così serena e felice, lo irritava così tanto! Samuele Siroli
IL CORVO Antonella entrò in casa e trovò tutto in subbuglio, chiamò la figlia, ma non ottenne risposta. Allora si diresse verso la cameretta della ragazza e lì la trovò distesa a terra circondata da numerose macchie di sangue. Antonella cominciò ad urlare e corse in strada chiedendo aiuto. Arrivò la polizia e, con lei, il migliore detective della zona, il Corvo. Tutta la scena del crimine venne attentamente esaminata, controllata, fotografata, e poi vennero messi i sigilli alla casa. Trascorsero alcune settimane e la polizia non riusciva a trovare il colpevole di quel terribile delitto. Ma il Corvo, in quelle settimane, aveva indagato sulla vita privata della giovane per scoprire se qualcuno poteva desiderarne la morte. Venne analizzato anche il cadavere e il Corvo, dalle fotografie scattate dalla scientifica, dedusse facilmente che la donna era stata uccisa con tre coltellate al petto. Intuì anche che l’omicida usava la mano destra e, dalla profondità delle ferite, che doveva trattarsi di un uomo. Il Corvo decise di tornare all’interno della casa e, osservando i muri delle pareti un po’ anneriti dal tempo, si accorse che in basso, sul muro, vi era un piccolo segno bianco. Lo osservò meglio e arrivò alla conclusione che era proprio una “ C”. Pensò immediatamente che la vittima aveva tentato di scrivere sul muro il nome del suo aggressore per cui cominciò a cercare lì intorno qualche oggetto che poteva essere stato usato a questo scopo. Dopo un po’ notò una lametta per unghie e, allora, fu certo che era stata proprio la vittima a incidere quella lettera sul muro. Riprese ad indagare sugli amici della ragazza e scoprì che, qualche settimana prima, aveva improvvisamente troncato il suo fidanzamento con un giovane che si chiamava Fabio, ma che lei aveva sempre affettuosamente chiamato Cucciolo. Nonostante gli indizi portassero ormai chiaramente in questa direzione, la polizia volle fare dei riscontri e così furono chiamati i Ris per rintracciare eventuali tracce di dna che, in effetti, furono trovate e analizzate. Circa dieci giorni dopo arrivarono i risultati e fu confermata l’ipotesi del Corvo. L’assassino era Fabio che non aveva accettato l’idea di vivere senza la sua fidanzata. Il Corvo si considerò soddisfatto della soluzione del caso. Francesco Torre
OMICIDIO SUL TRENO Nel 1909, su un treno, fu uccisa una donna di nome Rachele, madre di tre figli. Il controllore, scoperto il corpo, fece fermare il treno e chiamò il detective Zoro che, avendo molta esperienza ed essendo un tipo molto sicuro di sé, pensò che, anche questa volta, avrebbe in breve risolto il caso. Appena salito sul convoglio, sempre sicuro e sorridente, vide il cadavere della donna e disse che, sicuramente, si trattava di un omicidio: la signora era stata uccisa con un colpo di arma da fuoco. Zoro decise di iniziare subito le indagini, così si mise alla ricerca dell’arma del delitto. Controllò ogni singola parte del vagone, ma non trovò niente. Rimase però colpito da una scatola d’acciaio chiusa, come se fosse una cassaforte, nascosta dietro ad un quadro ormai rovinato dalla polvere appeso nel vano del conducente del treno. Questo disse che non aveva le chiavi di quella scatola e Zoro, allora, prese una pinza per tentare di aprirla. Dopo un po’ ci riuscì e guardandone il contenuto trovò delle vecchie carte e una pistola avvolta nella carta di giornale. Zoro capì subito che il conducente ne sapeva più di quanto non avesse detto fino a quel momento. Interrogatolo nuovamente, l’uomo infine crollò e confessò che, la sera prima, aveva litigato con la moglie e aveva avuto una sorta di attacco di pazzia. Arrestato il conducente del treno,Zoro andò via. Michael Mirco Trimboli