VERSO IL R E F E R E N D U M C O S T IT U Z IO N A L E a cura di Quirino Camerlengo Associato di Diritto costituzionale Dipartimento di Scienze economiche e aziendali Università degli Studi di Pavia
Molte delle informazioni di seguito riportate sono state ricavate dalle Schede di lettura relative al Disegno di legge costituzionale A.C. 2613-D, predisposte dal Servizio Studi della Camera dei Deputati (n. 216/12 parte prima – aprile 2016), a cura di Cristina de Cesare e di Chiara Martuscelli.
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LA RIFORMA COSTITUZIONALE IN SINTESI Le principali modifiche e innovazioni
SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO
Senato e Camera con strutture e funzioni diverse ◊ Camera eletta a suffragio universale quale organo di rappresentanza della Nazione ◊ Senato eletto dai consigli regionali quale organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali ◊ Funzione legislativa → regola monocamerale (Camera) → eccezione bicamerale (Camera e Senato) ◊ Funzione di indirizzo politico e di controllo politico del Governo → rapporto di fiducia solo con la Camera Rapporti tra Parlamento e Governo ◊ Decreto legge → costituzionalizzazione dei limiti e differimento del termine in caso di rinvio presidenziale ◊ Efficienza del processo legislativo → il “voto a data certa”
RISCRITTURA DEL TITOLO V, PARTE II, DELLA COSTITUZIONE SUI RAPPORTI TRA STATO, REGIONI ED ENTI LOCALI
◊ Soppressione della potestà legislativa concorrente ◊ Riallocazione delle materie tra legislatore statale e legislatori regionali ◊ Introduzione della “clausola di supremazia” ◊ Revisione del regionalismo differenziato ◊ Soppressione delle Province
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ALTRE MODIFICHE E INNOVAZIONI DI RILIEVO
◊ Referendum abrogativo → quorum ad assetto variabile ◊ Introduzione del referendum propositivo e del referendum di indirizzo ◊ Modifiche relative alla iniziativa legislativa popolare ◊ Promozione dell’equilibrio tra donne e uomini in materia elettorale ◊ Maggioranze nella elezione del Presidente della Repubblica ◊ Elezione dei giudici della Corte costituzionale di investitura parlamentare ◊ Giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali di Camera e Senato ◊ Tutela delle minoranze e delle opposizioni ◊ Soppressione del C.n.e.l. ◊ Princìpi sull’amministrazione
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ANALISI DEI PRINCIPALI ELEMENTI DI NOVITÀ Al termine di un procedimento che si concretizzato in sei distinte deliberazioni, il Parlamento ha varato una riforma costituzionale i cui due elementi essenziali sono i seguenti: 1) superamento del “bicameralismo perfetto (o paritario)”; 2) riscrittura del Titolo V della Parte II, relativo ai rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali. L’8 aprile 2014 il Governo ha presentato un disegno di legge costituzionale (S. 1429), recante il superamento del bicameralismo perfetto, la revisione del riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni, l’espunzione dal testo costituzionale del riferimento alle province, la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Dopo quattro mesi, il disegno di legge è stato approvato dal Senato, con modificazioni, nella seduta dell’8 agosto 2014. Il testo è stato, poi, trasmesso alla Camera che ne ha avviato l’esame nel mese di settembre 2014 e lo ha approvato, con modificazioni, il 10 marzo 2015. Il testo, nuovamente emendato dal Senato, è stato da questo approvato, in prima deliberazione, il 13 ottobre 2015, con 178 voti favorevoli, 17 voti contrari e 7 astenuti (202 votanti). Nella seduta dell’11 gennaio 2016 la Camera ha approvato, in prima deliberazione, senza modificazioni, il testo già approvato dal Senato con 367 voti favorevoli, 194 voti contrari e 5 astenuti (561 votanti). Il Senato ha quindi approvato, in seconda deliberazione, il 20 gennaio 2016, il testo già approvato in prima deliberazione dalla Camera, con 180 voti favorevoli, 112 voti contrari e 1 astenuto (293 votanti). Infine, nella seduta del 12 aprile 2016 la Camera ha licenziato, in seconda deliberazione, il testo con 361 voti favorevoli, 7 voti contrari e 2 astenuti.
SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO Il bicameralismo perfetto (o paritario), voluto dall’Assemblea costituente, è stato superato attraverso l’introduzione di un distinto modello (bicameralismo non paritario) che conserva l’articolazione duale del Parlamento (i due “rami” restano la Camera e il Senato), ma con i seguenti elementi innovativi: a) il Senato diviene organo collegiale di rappresentanza delle istituzioni territoriali; b) muta la composizione del Senato, composto da 95 senatori scelti dai consigli regionali e delle due province autonome di Trento e di Bolzano, da 5 senatori nominati dal Capo dello Stato e dagli ex Presidenti della Repubblica; c) il rapporto fiduciario, che continua a caratterizzare la nostra forma di governo parlamentare, intercorre solo tra la Camera dei Deputati e il Governo; d) il procedimento legislativo è, di regola, monocamerale, nel senso che la funzione legislativa è assegnata alla Camera. Solo in casi tassativamente previsti anche il Senato è chiamato ad esercitare la predetta funzione secondo il modello bicamerale. Restano ferme le competenze del “Parlamento in seduta comune” (in particolare quella relativa alla elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Non così per
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l’elezione dei parlamentare).
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giudici
della
Corte
costituzionale
di
investitura
Il Senato quale organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali Nel testo originario, il Senato fu qualificato come organo collegiale eletto «su base regionale». Era chiaro l’intendimento dei Costituenti di creare una qualche connessione rappresentativa con le comunità locali. Senonché, mai questa clausola ha funzionato nel senso di connotare il Senato come assemblea esponenziale delle istanze territoriali. Con la riforma, il Senato è espressamente qualificato come organo rappresentativo delle istituzioni territoriali, vale a dire delle Regioni, delle due Province autonome, delle Città metropolitane e dei Comuni. Si coglie, in questa modifica, la volontà di allineare il nostro assetto istituzionale agli ordinamenti federali dove la seconda Camera è chiamata a svolgere un simile ruolo di rappresentanza (si pensi al Senato degli Stati Uniti o al Bundesrat tedesco). Questa riforma mira, in particolare, a: - assecondare appieno il principio autonomistico sancito nell’art. 5, sia pure nel rispetto della unità ed indivisibilità della Repubblica; - consacrare la pari dignità costituzionale degli enti che, ai sensi dell’art. 114, costituiscono la Repubblica: dunque, Stato, Regioni e Comuni come istituzioni “parimenti repubblicane” ossia chiamate ad attuare i valori costituzionali in un assetto non gerarchico, ma fondato sulla pari rilevanza costituzionale dei suoi elementi costitutivi (non più “livelli di governo”, ma “anelli istituzionali”); - bilanciare il rafforzamento del ruolo dello Stato imputabile alla riscrittura del titolo V, attraverso il riconoscimento di un ruolo forte al Senato nella interazione con la Camera; - creare una sede politica di effettiva rappresentazione delle esigenze e delle sollecitazioni provenienti dal tessuto locale, capaci di imporsi anche a livello statale grazie all’azione di senatori direttamente collegati ai diversi luoghi nei quali si anima la sovranità popolare e la democrazia rappresentativa: il Senato come organo rappresentativo degli interessi territoriali; la Camera come organo rappresentativo degli interessi nazionali (o unitari). In effetti, in base al nuovo terzo comma dell’art. 55 solo i deputati rappresentano la Nazione, laddove, ai sensi del quinto comma, il Senato rappresenta le “istituzioni territoriali”. È importante segnalare che, in virtù del nuovo art. 67, «i membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato». Ciò significa che anche i Senatori saranno assistiti dalla guarentigia del “divieto di mandato imperativo”, con ripercussioni però sul tasso di rappresentatività degli stessi rispetto alle istituzioni di appartenenza. A proposito di garanzie, i Senatori non avranno alcuna indennità (diversamente dai Deputati), ma godranno della insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (art. 68, primo comma), nonché delle particolari forme di immunità previste dai commi secondo e terzo dello stesso art. 68. Peraltro, è introdotto, a livello costituzionale, un limite massimo agli emolumenti dei del Presidente della giunta regionale e dei consiglieri regionali, individuato con l’importo spettante ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione.
La composizione del nuovo Senato
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Il Senato (che serba immutata la vigente denominazione di “Senato della Repubblica”) diviene un organo ad elezione indiretta. Rispetto ai 315 senatori elettivi previsti dalla vigente Costituzione vigente, il Senato sarà composto da 95 senatori eletti dai Consigli regionali e delle due Province autonome di Trento e di Bolzano – «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» - tra i consiglieri regionali (e provinciali) ed i sindaci del territorio, cui si aggiungono gli ex Presidenti della Repubblica e 5 senatori che potranno essere nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni. I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due. Nel rispetto di tale condizione, la ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale. La composizione del nuovo Senato sarà, dunque, così configurata: - 95 senatori di elezione regionale: - 74 sono eletti tra i membri dei Consigli regionali e delle due Province autonome; - 21 sono eletti tra i Sindaci dei comuni dei rispettivi territori, nella misura di uno per ciascun consiglio; - fino a 5 senatori sono di nomina presidenziale, scelti tra coloro che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario; - gli ex Presidenti della Repubblica. A questi vanno aggiunti, in virtù di una disposizione transitoria, i senatori a vita già nominati e in carica alla data di entrata in vigore della legge costituzionale.
Dunque, in base al censimento del 2011, la distribuzione risulterebbe essere la seguente: Piemonte 7; Valle d'Aosta 2; Lombardia 14; Prov. Bolzano 2; Prov. Trento 2; Veneto 7; Friuli-Venezia Giulia 2; Liguria 2; Emilia-Romagna 6; Toscana 5; Umbria 2; Marche 2; Lazio 8; Abruzzo 2; Molise 2; Campania 9; Puglia 6; Basilicata 2; Calabria 3; Sicilia 7; Sardegna 3. Giova ribadire che quanto ai seggi assegnati a ciascuna Regione e Provincia autonoma, un seggio sarà destinato ad un sindaco ed i restanti ai consiglieri regionali. Pertanto, nelle 8 Regioni meno popolose e nelle 2 Province autonome, alle quali spettano 2 senatori, il rapporto sindaco/consiglieri regionali è paritario, laddove nelle altre Regioni si registra una rappresentanza più consistente di consiglieri regionali.
Per quanto concerne la durata del mandato dei senatori elettivi, questa coincide con quella dell’organo dell’istituzione territoriale “da cui” sono stati eletti, ossia con la durata dei consigli regionali e provinciali. Il Senato diventa, quindi, un organo a rinnovo parziale, non sottoposto a scioglimento. L’abrogazione dell’art. 58 fa sì che non è più previsto il requisito, per diventare senatori, del compimento di quaranta anni di età, né quello di venticinque anni per esercitare il diritto di voto. Per la Camera, invece, l’età anagrafica per essere eletti resta fissata a 25 anni.
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Le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei componenti del Senato tra i consiglieri e i sindaci saranno determinate e disciplinate da una apposita legge approvata da entrambe le Camere. La novellata disciplina costituzionale individua i due criteri che il Parlamento dovrà rispettare nella ripartizione dei seggi: innanzitutto, i voti espressi; in secondo luogo, la composizione di ciascun Consiglio. Nell’incertezza del dato normativo i due criteri potrebbero alludere ad un sistema con voto dei consiglieri e successiva attribuzione dei seggi con metodo proporzionale.
Ciò che, però, rileva maggiormente è la previsione – introdotta dal Senato in ultima lettura – secondo cui i senatori sono eletti dai consigli regionali e provinciali «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri» in occasione delle elezioni dei consigli regionali o delle Province autonome. La nuova legge elettorale del Senato determinerà le modalità con cui il richiamo alle scelte degli elettori inciderà sull’elezione dei senatori da parte dei consiglieri regionali e provinciali. È chiaro l’intendimento di valorizzare gli elettori locali nella designazione dei futuri membri del Senato. Occorre, inoltre, tener presente che il nuovo art. 55, secondo comma, Cost. prescrive alle leggi elettorali delle Camere di promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza. Ancora, ai sensi della disposizione finale dell’art. 40, comma 6, i senatori della Provincia autonoma di Bolzano sono eletti tenendo conto della consistenza dei gruppi linguistici in base all’ultimo censimento.
Si segnala, infine, che il termine per l’approvazione della nuova legge elettorale del Senato decorre dall’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale e perdura fino a sei mesi dalla data di svolgimento delle elezioni della Camera dei deputati successiva alla data di entrata in vigore della stessa legge costituzionale. Nelle more dell’entrata in vigore della legge elettorale del Senato, la legge costituzionale in oggetto detta specifiche disposizioni elettorali riguardanti la prima applicazione. In ciascuna regione (e Provincia autonoma), ogni consigliere può votare per una unica lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei comuni compresi nel relativo territorio. I seggi sono attribuiti alle liste secondo il metodo proporzionale. Nell’ambito della lista, sono eletti i candidati secondo l’ordine di presentazione (cd. “lista bloccata”). Per la lista che abbia ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l’opzione per l’elezione del sindaco o, in alternativa, di un consigliere.
Le funzioni del nuovo Senato Mentre la Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo, il Senato rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita le seguenti funzioni: - raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica; - concorso all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione; - concorso all’esercizio di funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea; - la partecipazione alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea;
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- la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; - la verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori; - concorso all’espressione dei pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge; - concorso alla verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato. Si rammenta altresì che: il nuovo articolo 70, ultimo comma, Cost. prevede che il Senato possa svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera; i nuovi articoli 120 e 126 Cost. attribuiscono al Senato la competenza all’espressione del parere ai fini, rispettivamente, dell’esercizio del potere sostitutivo del Governo e dello scioglimento del Consiglio regionale e della rimozione del Presidente della giunta regionale.
… in particolare, il Senato e la funzione legislativa Per effetto della riforma, sarà possibile individuare le seguenti tipologie di legge (e, dunque, di procedimento legislativo). A) Leggi bicamerali. La funzione legislativa continuerà ad essere esercitata collettivamente dalle due Camere soltanto nei casi tassativamente previsti dalla Costituzione: in particolare, per le leggi di revisione costituzionale; per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni; per la legge elettorale del Senato. Saranno, ancora, leggi bicamerali, tra le altre: le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71; la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea; la legge che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore; le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
Il nuovo art. 70 dispone, peraltro, che le leggi bicamerali, «ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate» con il procedimento bicamerale. Pertanto, le leggi bicamerali sono leggi dal contenuto omogeneo, idonee a dettare una disciplina esaustiva dell’ambito di intervento loro devoluto. Ne consegue che esse sono dotate di una forza passiva peculiare, potendo essere abrogate, modificate o derogate solo espressamente e da leggi ugualmente bicamerali. Dunque: - è precluso alle leggi monocamerali di intervenire in ambiti riservati alle leggi bicamerali; - è precluso alle leggi bicamerali di disciplinare ambiti non riconducibili a quelli ad essa assegnati. Il riferimento testuale all’ «oggetto proprio» delle leggi bicamerali può essere inteso nel senso di vietare l’adozione di “leggi miste”, vale a dire leggi che incidono sia su ambiti riservati alla legge bicamerali che su ambiti demandati alla legge monocamerale.
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B) Leggi monocamerali. Vale per esse la clausola residuale a favore della Camera, nel senso che tutte «le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati». Nel caso delle leggi monocamerali, però, il Senato non è del tutto escluso. Infatti, ogni disegno di legge approvato dalla Camera è immediatamente trasmesso al Senato. Il Senato, entro i successivi dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre, con apposita deliberazione, di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi lo stesso Senato può deliberare proposte di modificazione del testo. Su queste modifiche la Camera si pronuncia in via definitiva. La eventuale seconda lettura da parte della Camera (che riguarda comunque le sole proposte di emendamento presentate dal Senato, e non l’intero testo) è, dunque, necessariamente l’ultima lettura. Ne consegue che la legge potrà essere promulgata dal Capo dello Stato: - qualora il Senato non deliberi di procedere all’esame; - qualora sia inutilmente decorso il termine per deliberare; - qualora la Camera si pronunci in via definitiva. Si tratta, dunque, di un procedimento monocamerale “partecipato”, applicabile alla generalità dei disegni di legge vale a dire a tutti i disegni di legge, salvo quelli per i quali sia previsto un procedimento diverso. Si segnala che l’esame da parte del Senato è comunque subordinato al consenso della maggioranza, essendo riconosciuta alla minoranza (un terzo dei Senatori) solo il potere di richiedere la delibera di esame.
C) Clausola di supremazia. Come si vedrà più avanti, su proposta del Governo la legge statale può intervenire in materie regionali qualora lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Ebbene, in questi casi: - non è necessaria alcuna richiesta ad opera di una parte dei Senatori; - l’esame da parte del Senato è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge; - il Senato ha trenta giorni a disposizione per deliberare eventuali proposte di modifica; - la Camera può disattendere le proposte di modificazione del Senato solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. Poiché questo procedimento valorizza il ruolo del Senato, si parla di procedimento monocamerale “rinforzato”. D) Manovra di bilancio. Il procedimento per le leggi di bilancio si differenzia dal procedimento monocamerale “partecipato” in quanto: - l’esame da parte del Senato è automatico; - le proposte di modificazione da parte del Senato devono essere deliberate entro 15 giorni dalla trasmissione, anziché entro 30 giorni. Sempre in relazione al ruolo del Senato in ordine all’esercizio della funzione legislativa, si segnala che, ai sensi del novellato art. 71, il Senato può, a maggioranza assoluta, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato.
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Peraltro, l’articolazione del procedimento legislativo nelle descritte tipologie si riverbera anche sul versante della iniziativa legislativa. Infatti: - i disegni di legge ad approvazione bicamerale sono presentati alla Camera o al Senato; - tutti gli altri disegni di legge devono necessariamente essere presentati alla Camera; - i disegni di legge di conversione dei decreti-legge devono essere presentati alla Camera; - i disegni di legge di iniziativa dei Consigli regionali devono essere presentati alla Camera.
Infine, eventuali conflitti di competenza sono rimessi alla decisione dei Presidenti dei due rami del Parlamento: invero, «i Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti». Una eventuale decisione condivisa non preclude alla Corte costituzionale di rilevare, nei modi previsti, un vizio procedurale tale da determinare l’incostituzionalità della legge. Sui rapporti tra la Camera e il Governo Come si è visto, il superamento del bicameralismo paritario ha condotto alla ridefinizione del rapporto fiduciario tra l’organo esecutivo e le istituzioni parlamentari. Analogamente ad altri ordinamenti di stampo federale (si pensi, soprattutto, alla Germania), con la riforma il Governo dovrà godere della sola fiducia della Camera dei Deputati: il nuovo art. 55 è chiaro nel disporre che «la Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo». In questo modo il quadro istituzionale risulta semplificato e, nel contempo, rafforzato sul piano della stabilità, visto che d’ora in avanti la permanenza in carica del Governo sarà una questione che vedrà interagire soltanto due (e non più tre) organi. Sicché, solo la Camera dovrà votare la mozione di fiducia. Solo la Camera potrà determinare le dimissioni del Governo votando una mozione di sfiducia. Solo alla Camera ci sarà spazio per la posizione della questione di fiducia. La struttura e le funzioni del Governo non sono state modificate dalla legge di revisione costituzionale. Piuttosto, il Parlamento ha inteso porre in essere alcuni interventi di “manutenzione” volti a riequilibrare le relazioni tra il Governo e la Camera in modo tale da preservare, da un lato, la legalità costituzionale e da migliorare, dall’altro, l’efficienza dei processi decisionali. Invero: A) Decretazione d’urgenza. La riforma Renzi-Boschi ha riscritto l’art. 77. Più precisamente, il Parlamento ha “costituzionalizzato” i limiti che circoscrivono l’utilizzo, da parte del Governo, dei decreti legge. Alcuni di tali limiti furono sanciti a livello legislativo (la legge n. 400 del 1988), altri sono stati individuati dalla Corte costituzionale. Pertanto il Governo non potrà, con decreto legge: - disciplinare le materie indicate nell’articolo 72, quinto comma, (materia costituzionale ed elettorale, delegazione legislativa, conversione in legge di decreti, autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, approvazione di bilanci e consuntivi), con esclusione della disciplina dell’organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle elezioni;
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- reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi (cfr. sentenza n. 360 del 1996 della Corte costituzionale); - ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento. Per scongiurare il rischio di un uso disinvolto di tale potere, il nuovo art. 77 stabilisce altresì che i decreti leggi debbono recare «misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». L’intervento riformatore non si è arrestato al decreto legge, ma ha anche investito il procedimento di conversione in legge allo scopo di favorire il rispetto del termine tassativo di sessanta giorni nel caso in cui il Senato abbia intenzione di “partecipare” al procedimento stesso. Pertanto, l’esame dei disegni di legge di conversione è disposto dal Senato entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera. Le proposte di modificazione possono essere deliberate entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione. Inoltre, alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 22 del 2012, «nel corso dell’esame di disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto». Com’è noto, la conversione in legge del decreto è sempre stata l’occasione più propizia per l’inserimento di disposizioni del tutto eccentriche rispetto all’oggetto originario del decreto. La previsione di un iter più veloce per questa tipologia di disegni di legge e le alte probabilità di successo del procedimento hanno indotto i parlamentari ad approfittare di questa opportunità per far confluire nella legge di conversione disposizioni che, altrimenti, difficilmente sarebbero state licenziate dal Parlamento. In questo modo, quindi, la riforma ha inteso prevenire l’abuso non tanto della decretazione d’urgenza quanto della conversione in legge. Resta ferma la legittimazione della Corte costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità di un decreto legge per palese mancanza dei presupposti stabiliti dall’art. 77 (casi straordinari di necessità e d’urgenza): v. la sentenza n. 171 del 2007.
Anche la modifica relativa ai tempi per il rinvio presidenziale delle leggi concorre a favorire la sostenibilità costituzionale del decreto legge. Secondo il novellato art. 74, «qualora la richiesta riguardi la legge di conversione di un decreto adottato a norma dell’articolo 77, il termine per la conversione in legge è differito di trenta giorni». Il differimento del termine per la conversione (da sessanta a novanta giorni) nel caso in cui il Capo dello Stato decida di rinviare la legge alla Camera (anziché procedere alla sua promulgazione) può in qualche misura rimuovere lo scrupolo che da sempre accompagna questo tipo di controllo. La finalità sottesa a tale innovazione è quella di non scoraggiare l’esercizio di questo potere di controllo. Invero, il più delle volte il testo da promulgare è trasmesso al Presidente a strettissimo ridosso del sessantesimo giorno dalla pubblicazione, e magari risulta anche composto da un numero particolarmente alto di disposizioni. B) Il «voto a data certa». Anche l’introduzione del “voto a data certa” potrebbe sortire l’effetto di ridurre la propensione del Governo ad avvalersi della decretazione d’urgenza, e altresì della questione di fiducia. Più in generale 10
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l’introduzione di questo istituto mira a garantire al Governo tempi definiti quanto ai disegni di legge ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo. L’art. 72, settimo comma, come modificato, dispone infatti che, salvi i casi che verranno più avanti indicati, il Governo può chiedere alla Camera di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera stessa (che include quindi anche l’esame delle proposte di modifica del Senato) entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. Sicché, i termini di cui all’articolo 70, terzo comma, (relativi – come si è detto – alla partecipazione del Senato) sono ridotti della metà. Il termine può essere differito, di non oltre quindici giorni, in relazione ai tempi di esame da parte della commissione nonché alla complessità del disegno di legge. Il «voto a data certa» è, invece, precluso nei seguenti casi: - le leggi bicamerali; - le leggi in materia elettorale; - le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali; - le leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto; - la legge che reca il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri per l’equilibrio di bilancio.
RIDEFINIZIONE DEI RAPPORTI TRA STATO E REGIONI (ED ENTI LOCALI) L’intervento riformatore del Parlamento ha inciso significativamente sul titolo V, parte II, della Costituzione. Le modifiche ed integrazioni riguardano, in particolare: 1) la distribuzione del potere legislativo; 2) il regionalismo differenziato; 3) la soppressione, dal testo costituzionale, del riferimento alle Province. Sulla funzione legislativa tra Stato e Regioni Il Parlamento ha riscritto l’art. 117 relativo alla distribuzione della potestà legislativa tra Stato e Regioni. Più precisamente… A) Soppressione della potestà legislativa concorrente. È stata soppressa la potestà legislativa concorrente (o ripartita), vale a dire quel modello di normazione condivisa caratterizzata dal diverso ruolo assegnato alla legge statale e alla legge regionale: alla prima l’enunciazione dei princìpi fondamentali (la cd. legislazione “di cornice”); alla seconda lo svolgimento di tali princìpi (la cd. legislazione “di dettaglio”). Si rammenta che questa fu la più rilevante e incisiva forma di funzione legislativa che l’Assemblea costituente assegnò alle Regioni a statuto ordinario, peraltro circoscrivendola ad un gruppo ristretto di materie. La potestà concorrente fu ribadita nel 2001 attraverso la ridefinizione di un nutrito elenco di ambiti materiali.
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La potestà legislativa concorrente rispondeva alla necessità di garantire la compresenza di norme statali e regionali in settori nei quali poteva considerarsi difficile individuare, in maniera netta, il livello di interessi (nazionali o regionali) dominante. In presenza di interessi da contemperare, la scelta della Costituente fu quella di affidare allo Stato la definizione di norme di principio comuni a tutte le Regioni, lasciando ai legislatori regionali il compito di differenziare le relative discipline in modo congeniale alle reali esigenze e peculiarità dei rispettivi ambiti territoriali. B) Riallocazione delle materie. Per effetto della soppressione della potestà concorrente il Parlamento ha ridisegnato il riparto di materie tra Stato e Regioni, dovendo riallocare gli ambiti prima sottoposti alla potestà concorrente stessa. È importante sottolineare che il Parlamento ha confermato la scelta già adottata nel 2001 di adeguare il nostro ordinamento ai sistemi federali quanto alla cd. clausola residuale. Al legislatore statale spettano soltanto le materie espressamente indicate in Costituzione: tutte le altre materie sono devolute alle cure dei legislatori regionali (anche se il novellato art. 117, diversamente dalle costituzioni dei principali Stati federali, reca comunque una elencazione – esemplificativa ? – delle materie di competenza residuale delle Regioni ordinarie). Pertanto, a seguito della riforma in oggetto vi saranno soltanto due livelli di legislazione: - legislazione esclusiva statale (nelle materie indicate nell’art. 117, secondo comma); - legislazione residuale regionale (nelle materie indicate nel nuovo terzo comma dell’art. 117, «nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato»). Sicché, al legislatore statale sono state: a) confermate alcune materie già di sua competenza esclusiva; b) assegnate materie già di potestà concorrente; c) assegnate nuove materie. Appartengono al gruppo a): politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; immigrazione; rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie; organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; cittadinanza, stato civile e anagrafi; giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; disposizioni generali e comuni sull’istruzione; previdenza sociale; legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane; dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Appartengono al gruppo b): coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica; previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro;
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disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale; commercio con l’estero; valorizzazione dei beni culturali; ordinamento delle professioni e della comunicazione; disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile; produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia; infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale. Appartengono al gruppo c): mercati assicurativi; promozione della concorrenza; norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale; ordinamento di Comuni e Città metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni; coordinamento informativo statistico e informatico dei processi e delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche dell’amministrazione statale, regionale e locale; tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici.
Quanto ai legislatori regionali, come si è detto il Parlamento ha accompagnato la conferma della clausola residuale con la individuazione esplicita di “nuove materie”: alcune di esse sono davvero il frutto di opzioni discrezionali del legislatore costituzionale, altre sono state in qualche misura ispirate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Resta inteso che, in forza della clausola residuale e tenuto conto delle materie oggi affidate in via esclusiva al legislatore statale, tra le materie di competenza residuale rientrano ambiti già qualificati come tali dalla pregressa giurisprudenza costituzionale (ad esempio, l’edilizia residenziale pubblica; il commercio; l’industria; l’artigianato; l’agricoltura). Ecco, dunque, le “nuove” materie devolute al legislatore regionale: rappresentanza delle minoranze linguistiche; pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno; dotazione infrastrutturale; programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali; promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale; salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, servizi scolastici, promozione del diritto allo studio, anche universitario; disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici; valorizzazione e organizzazione regionale del turismo; regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica.
Giova rimarcare come in alcune materie siano state introdotte le cd. clausole di colegislazione. Esse sono identificabili grazie ad espressioni quali «disposizioni generali e comuni»; «disposizioni di principio»; «norme (…) tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale»; «profili ordinamentali generali». Nonostante l’analogia, tali clausole non dovrebbero essere interpretate quali riproposizione fittizia (una sorta di reviviscenza) dei “princìpi fondamentali” che – come si è visto – caratterizzavano il ruolo del legislatore statale nelle materie di potestà concorrente. In effetti, se è chiara e inequivocabile la volontà del Parlamento di sopprimere questo tipo di potestà, altrettanto nitido è l’intendimento di definire un distinto e inedito modello di normazione condivisa. A tal fine sovviene la giurisprudenza costituzionale sulle «norme generali sull’istruzione». Sotto la vigenza dell’art. 117, come novellato nel 2001, si pose in quell’ambito materiale un problema analogo di distinzione tra le suddette norme generali e i princìpi fondamentali che lo Stato avrebbe potuto dettare in materia. La Corte stabilì che «le norme generali in materia di istruzione sono quelle sorrette, in relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell’ambito propriamente regionale», con ciò alludendo alla possibilità che esse 13
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si esprimano anche attraverso precetti puntuali e self executing. Diversamente, i princìpi fondamentali, «pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose». Dunque, «nel definire gli istituti generali e fondamentali dell’istruzione, i quali vengono soltanto assunti a base della legislazione regionale», il legislatore statale ben può fissare norme direttamente precettive: esse sono indispensabili per individuare «le caratteristiche basilari del sistema scolastico» (sentenze n. 279 del 2005 e n. 200 del 2009).
C) La clausola di supremazia. Ispirandosi alla Costituzione tedesca, il Parlamento ha introdotto la cd. clausola di supremazia: «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Analogamente ai cd. compiti trasversali, già identificati dalla Corte costituzionale successivamente al varo della riforma del 2001 (ad esempio: la tutela della concorrenza; l’ordinamento civile; la tutela dell’ambiente; la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), attraverso la clausola di supremazia il legislatore statale può ingerirsi in ambiti materiali che, ai sensi dell’art. 117, sono stati devoluti alla competenza residuale delle Regioni. I presupposti legittimanti l’attivazione di tale clausola (unità giuridica; unità economica; interesse nazionale) condividono la medesima matrice, vale a dire il principio unitario di cui all’art. 5. Quanto, in particolare, all’interesse nazionale, è utile ricordare che l’Assemblea costituente lo introdusse nel titolo V quale limite “di merito” azionabile dinanzi al Parlamento contro le leggi regionali ritenute con esso incompatibili. Questa strada non è stata mai percorsa però. Nel contempo la Corte costituzionale ha “giurisdizionalizzato” il limite dell’interesse nazionale (cioè, da limite di merito lo ha trasformato in limite di legittimità), al fine di fornire un fondamento forte ad alcuni poteri (indirizzo e coordinamento; il potere sostitutivo) che hanno condizionato parecchio l’autonomia regionale. La riforma del 2001 ha espunto dal testo ogni riferimento all’interesse nazionale, ma – ancora una volta – la Corte costituzionale lo ha riproposto, sotto mentite spoglie, inventando la cd. «attrazione (o chiamata) in sussidiarietà» (a partire dalla sentenza n. 303 del 2003): se, in una materia regionale, vi è un interesse unitario da soddisfare, la corrispondente funzione amministrativa è assegnata allo Stato, quale ente più idoneo al suo esercizio (principio di sussidiarietà). Siccome, in base al principio di legalità, non può mai mancare una disciplina legislativa su cui fondare un potere amministrativo, in questo caso la funzione legislativa non può che essere statale. Dunque, in una materia regionale lo Stato assegna a sé una funzione amministrativa e, nel contempo, attrae la corrispondente funzione legislativa, in deroga al riparto di attribuzioni legislative di cui all’art. 117. Per farlo occorre, però, rispettare il principio di leale collaborazione e il principio di proporzionalità. Resta fermo il potere statale di sostituzione, di cui all’art. 120, con alcune significative novità. Innanzitutto, salvi i casi di motivata urgenza, il Governo deve preliminarmente richiedere il parere del Senato, che deve essere reso entro quindici giorni dalla richiesta. In secondo luogo, la legge, cui spetta il compito di disciplinare tale potere, stabilisce altresì «i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente». Si ricorda, a questo proposito, che una ipotesi di rimozione del Presidente della Regione responsabile del grave dissesto finanziario dell’ente era stata introdotta dal d.lgs. n. 149 del 2011 (cd. decreto “premi e sanzioni”) ed è stata, però, successivamente dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 219 del 2013.
Sul regionalismo differenziato 14
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Già nel 2001 il Parlamento aveva provveduto a modificare l’art. 116 introducendo la possibilità per le Regioni di acquisire «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» nelle materie di potestà concorrente ed in alcune materie di competenza esclusiva dello Stato. Attraverso, quindi, una legge dello Stato, adottata sulla base di una intesa con la Regione interessata, si sarebbe dato vita ad un regionalismo differenziato (o asimmetrico). La Costituzione vigente prefigura tre distinti livelli di autonomia regionale: - le Regioni a statuto speciale, con forme di autonomia definite dai rispettivi statuti approvati con legge costituzionale; - le Regioni a statuto ordinario che non abbiano attivato la procedura appena descritta; - Regioni a statuto ordinario che abbiano ottenuto, ex art. 116, terzo comma, forme speciali di autonomia, che possono essere diverse da Regione e Regione. Peraltro, questa disposizione non ha mai trovato attuazione. Ebbene, la riforma Renzi-Boschi è intervenuta sul versante delle materie suscettibili di essere incise dal regionalismo differenziato, sul versante dei presupposti e, infine, sul versante della procedura da seguire. Rispetto alla attuale formulazione: a) è confermata la possibilità di attribuire forme e condizioni di particolare autonomia alle regioni nelle seguenti materie: organizzazione della giustizia di pace; istruzione, ordinamento scolastico; ricerca scientifica e tecnologica; commercio con l’estero; tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; attività culturali; governo del territorio; b) è introdotta la possibilità di attribuire le forme e condizioni di particolare autonomia nelle materie: istruzione universitaria e politiche attive del lavoro; politiche sociali, istruzione e formazione professionale e turismo; c) non possono più essere oggetto di attribuzione di particolari forme e condizioni di autonomia le seguenti materie: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; tutela e sicurezza del lavoro (per la parte non rientrante nelle politiche attive del lavoro); professioni; sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; protezione civile; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
È stata, poi, introdotta una nuova condizione in base alla quale, oltre al rispetto dei principi di autonomia finanziaria degli enti territoriali sanciti dall’art. 119 Cost., è necessario che la Regione interessata ad accedere a ulteriori forme e condizioni di autonomia versi in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio. Infine, l’iniziativa della Regione interessata non è più richiesta ai fini dell’attivazione di questo procedimento, ma è solo condizione eventuale: infatti, il nuovo testo prevede che la legge sia adottata «anche su richiesta delle regioni». Nel contempo, l’attribuzione delle forme speciali di autonomia ha luogo con legge bicamerale senza, tuttavia, esigere (come oggi previsto) la maggioranza assoluta dei componenti. Resta ferma l’intesa tra lo Stato e la Regione interessata. Sulla autonomia finanziaria
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La riforma ha inciso anche sull’art. 119 relativo alla autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali. Più precisamente, la riforma: a) adegua l’art. 119 alla nuova competenza legislativa statale sul coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; b) introduce un riferimento ai costi e fabbisogni standard. Pertanto: a) l’autonomia finanziaria degli enti territoriali deve essere esercitata non solo in armonia con la Costituzione, ma anche secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (e non più «secondo i principi» di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario); b) inoltre, «con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni». Da segnalare, poi, che quanto al parallelismo tra le funzioni esercitate dall’ente territoriale e il complesso delle risorse necessarie per esercitare tali compiti, è stabilito che le risorse di cui dispongono gli enti territoriali “assicurano” nel loro insieme il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche loro attribuite, laddove il testo costituzionale vigente prevede che dette risorse “consentono” di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Si coglie, quindi, il recepimento dei più recenti sviluppi in tema di federalismo fiscale (legge n. 42 del 2009) che hanno sancito il superamento del sistema di finanza derivata attraverso l’attribuzione di una maggiore autonomia di entrata e di spesa agli enti territoriali, nel rispetto dei principi di solidarietà, riequilibrio territoriale e coesione sociale. Enunciando i princìpi fondamentali in materia di sistema di finanziamento delle autonomie territoriali, la citata legge del 2009 opera una distinzione tra le spese relative ai livelli essenziali delle prestazioni (sanità, assistenza, istruzione, in parte trasporto pubblico locale) e le spese inerenti alle funzioni fondamentali degli enti locali. Quanto alle funzioni fondamentali vi sono spese per le quali è prevista l’integrale copertura dei fabbisogni finanziari e spese per le quali si prevede una perequazione delle capacità fiscali, cioè un finanziamento delle funzioni che tiene conto dei livelli di ricchezza differenziati dei territori. Alle funzioni concernenti i livelli essenziali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale in condizione di efficienza e di appropriatezza, sono associate i fabbisogni standard necessari ad assicurare le relative prestazioni. La determinazione dei fabbisogni standard è assurta, così, a fondamento della fiscalità delineata dalla legge n. 42 del 2009, che a sua volta si articola nella sequenza: costi standard, differenza tra fabbisogno/costo standard e risorse fiscali dell’ente, perequazione integrale, con il concorso dello Stato, del fabbisogno standard per quanto concerne i livelli essenziali delle prestazioni e perequazione “parziale” (riferita alla capacità fiscale) per le altre funzioni.
La soppressione del riferimento costituzionale alle Province La riforma in parola ha cancellato dal testo costituzionale ogni riferimento alle Province. Sicché, tali enti pubblici territoriali perdono l’originaria qualità di enti costituzionalmente necessari. Una disposizione finale (art. 40, comma 4) disciplina, peraltro, il riparto di competenza legislativa relativamente agli «enti di area vasta», attribuendo i profili ordinamentali generali alla legge statale e le ulteriori disposizioni alla legge regionale. Si rammenta che la legge n. 56 del 2014, che ha istituito le città metropolitane e riordinato le 16
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province, definisce “enti territoriali di area vasta” sia le città metropolitane – che restano enti costituzionalmente necessari - che le province. Questa legge ha trasformato il presidente della provincia ed i consigli provinciali in organi elettivi di secondo grado, con diritto di elettorato attivo e passivo riconosciuto ai sindaci e ai consiglieri dei comuni della provincia. A questi organi è affiancata l’assemblea dei sindaci. È stata soppressa la giunta provinciale. Il presidente della provincia può conferire deleghe ai consiglieri provinciali, tra i quali può anche essere nominato un vicepresidente.
… e le Regioni a statuto speciale ? Per effetto di una disposizione transitoria, le modifiche al titolo V della parte II della Costituzione non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome. In sintesi, e salva la disciplina speciale prevista dai rispettivi statuti, non si applicano alle Regioni speciali, sino alla revisione degli statuti medesimi: - le modifiche all’articolo 114, che eliminano il riferimento alle Province quali enti costitutivi della Repubblica; - le modifiche all’articolo 117, sul riparto di competenze legislative e regolamentari e sulla clausola di supremazia; - le modifiche all’articolo 118, che: espungono il riferimento alla province per l’esercizio delle funzioni amministrative; prevedono il principio di semplificazione e trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di responsabilità ed efficienza degli amministratori; prevedono che la legge statale possa disciplinare forme di intesa e coordinamento tra Stato e regioni anche in materia di tutela dei beni paesaggistici (oltre che di tutela dei beni culturali); - le modifiche all’articolo 119, che: prevedono che la legge dello Stato possa disporre direttamente ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, anziché dettare principi; rimettono alla legge dello Stato la definizione di indicatori di riferimento e di costo e di fabbisogno; espungono i riferimenti alla province; - le modifiche all’articolo 122, primo comma, che attribuiscono alla legge statale la determinazione degli emolumenti degli organi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di regione, nonché la definizione dei principi fondamentali per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza; - la sostituzione del parere della Commissione bicamerale per le questioni regionali con il parere del Senato ai fini dell’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica di scioglimento del Consiglio regionale e rimozione del Presidente della Giunta. Si applicano, invece, alle Regioni speciali anche prima della revisione degli statuti: - la modifica all’articolo 121, in base alla quale le proposte di legge dei Consigli regionali sono presentate alla Camera; - la modifica all’articolo 122, secondo comma, che elimina l’incompatibilità tra la carica di senatore e quella di consigliere regionale; - la modifica all’articolo 132, secondo comma, che elimina il riferimento alle province nella disciplina del procedimento di passaggio degli enti locali da una regione ad un’altra; - l’abrogazione dell’articolo 133, primo comma, sul mutamento delle circoscrizioni provinciali e l’istituzione di nuove province.
Inoltre, è dettata una disciplina transitoria, cioè per il periodo precedente la revisione degli statuti, in tema di “regionalismo differenziato”. Le forme di particolare autonomia delle Regioni speciali e delle Province autonome potranno essere riconosciute non solo dai rispettivi statuti, ma anche, sia pure limitatamente a determinate materie, da una legge ordinaria (bicamerale), previa intesa tra lo Stato e la regione interessata (art. 116, terzo comma).
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È, quindi, previsto un doppio binario. Fino alla revisione degli statuti si applica l’art. 116 nel testo vigente prima della riforma costituzionale, limitatamente alle seguenti materie: organizzazione della giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. A seguito della revisione degli statuti, è invece prevista l’applicabilità del nuovo art. 116.
Per quanto concerne il riparto di competenze legislative in forza della “clausola di non applicazione”, alle Regioni speciali non si applicherà il nuovo art. 117. E ciò non solo nei casi in cui dal nuovo assetto di competenze scaturisca una riduzione degli ambiti di pertinenza regionale, ma anche nell’ipotesi (che andrà verificata in fase di attuazione) in cui tale assetto determini un ampliamento dei predetti ambiti. Si ha, quindi, una netta separazione tra le due tipologie di Regione dal momento che, di fatto, alle Regioni speciali continuerà ad applicarsi il testo attualmente vigente, con il correttivo della “clausola di maggior favore” introdotta in occasione della riforma del 2001 (sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della legge cost. n. 3 del 2001 si applicano anche alle Regioni speciali ed alle Province autonome per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite). Una medesima disposizione andrà dunque valutata alla stregua di un diverso parametro costituzionale (vigente Titolo V; previgente Titolo V) a seconda che si riferisca a Regioni ordinarie o a Regioni speciali. Quanto al potere sostitutivo, fino alla revisione degli statuti non sono applicabili la modifica che prevede il parere del Senato e quella che demanda alla legge dello Stato la determinazione dei casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall’esercizio delle funzioni in caso di accertamento del grave dissesto finanziario dell’ente. Una disposizione transitoria prevede, peraltro, che a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale e sino alla revisione degli statuti speciali, resta ferma la disciplina vigente prevista dai medesimi statuti e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto previsto dall’art. 120.
ALTRE MODIFICHE Di seguito sono riportate altre modifiche al testo costituzionale, tra quelle più significative. Il referendum abrogativo e altri istituti di partecipazione diretta A) Il Parlamento è intervenuto sul quorum strutturale del referendum abrogativo di cui all’art. 75. Se la Costituzione vigente prevede un unico quorum strutturale (il referendum è valido solo «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto», ossia i cittadini italiani maggiorenni), la riforma introduce un quorum ad assetto variabile. Più precisamente: - se sono state raccolte 500.000 firme, resta il vigente quorum;
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- se sono raggiunte almeno 800.000 firme, allora il referendum è valido se partecipa alla votazione «la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati». B) La riforma ha, inoltre, assegnato ad una apposita legge costituzionale il compito di stabilire condizioni ed effetti di «referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali», allo scopo di «favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche». È utile rammentare che il 18 giugno 1989, contestualmente alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, ebbe luogo un referendum di indirizzo, indetto con la legge costituzionale n. 2 del 1989. Oggetto della consultazione fu il conferimento di un mandato al Parlamento europeo di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità.
C) Quanto alla iniziativa legislativa popolare, la riforma ha aumentato a 150.000 (rispetto alle 50.000 attualmente previste) il numero di firme necessarie per la presentazione di proposte di legge in Parlamento. Nel contempo, la stessa legge di revisione costituzionale ha stabilito che «la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari». Promozione dell’equilibrio tra donne e uomini in materia elettorale Il nuovo secondo comma dell’art. 55 prevede che le leggi che stabiliscono le modalità di elezione delle Camere promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza. Si ricorda che la legge costituzionale n. 1 del 2003 aveva aggiunto un periodo all’articolo 51, primo comma, in virtù del quale la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Già prima la legge costituzionale n. 3 del 2001, novellando l’art. 117, aveva introdotto il principio secondo cui le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive.
Analogamente, il nuovo art. 122, in tema di elezione dei consigli regionali, demanda alla legge della Repubblica il compito di dettare i princìpi fondamentali per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza. La legge 15 febbraio 2016, n. 20, di modifica dell’articolo 4 della legge 2 luglio 2004, n. 165, ha introdotto, tra i principi fondamentali in base ai quali le Regioni sono tenute a disciplinare il sistema elettorale regionale, l’adozione di specifiche misure per garantire l’equilibrio nella rappresentanza tra donne e uomini nei consigli regionali.
Elezione del Presidente della Repubblica La riforma interviene sulle maggioranze richieste per l’elezione del Presidente della Repubblica. Posto che: 19
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- l’elezione continua a spettare al Parlamento in seduta comune; - la riforma esclude dal collegio elettorale i delegati regionali (per ragioni intuibili), la seguente tabella pone a raffronto la disciplina vigente e le nuove regole… Primi tre scrutini 2/3 dei componenti
Dal IV scrutinio in poi Maggioranza assoluta dei componenti
2/3 dei componenti
IV-V-VI scrutinio: 3/5 dei componenti dal VII scrutinio: 3/5 dei votanti
Oggi
Con la riforma
Al riguardo si ricorda che, quanto al numero legale, l’art. 64 stabilisce che «le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti».
Elezione dei giudici della Corte costituzionale A Costituzione vigente un terzo dei 15 giudici della Corte costituzionale è eletto dal Parlamento in seduta comune, un terzo è eletto dalle supreme magistrature (ordinaria e amministrative), un terzo è nominato dal Presidente della Repubblica. Con la riforma, i 5 giudici di estrazione parlamentare saranno eletti: - 3 dalla Camera; - 2 dal Senato. Non mutano le modalità di votazione (elezione a scrutinio segreto) ed il quorum richiesto (maggioranza dei due terzi dei componenti fino al terzo scrutinio; maggioranza dei tre quinti dei componenti dal quarto scrutinio). In sede di prima applicazione, alla cessazione dalla carica dei giudici della Corte costituzionale a suo tempo eletti dal Parlamento in seduta comune le nuove investiture sono attribuite alternativamente, nell’ordine, alla Camera e al Senato.
Il giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali Il controllo di costituzionalità sulle leggi elettorali è reso difficile dalla struttura del giudizio «in via incidentale» e dalla natura di tali leggi, recanti disposizioni difficilmente azionabili dinanzi ad un giudice. Inoltre, da una dichiarazione di incostituzionalità di una legge elettorale scaturiscono problematiche istituzionali di grande rilievo, visto che sulla base di quella legge è stato eletto un organo che, dal momento della elezione al momento della pronuncia della Corte costituzionale, ha assunto una serie di decisioni. Il caso della legge elettorale n. 270 del 2005 (il cd. “porcellum”) dimostra le difficoltà connesse alla impugnazione di una simile legge. In effetti, non solo è stata da molti criticata la ammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata avverso tale legge, ma la stessa sentenza n. 1 del 2014, che ha colpito due parti essenziali di tale sistema elettorale, ha indotto molti a ritenere il Parlamento, eletto nel 2013, privo di legittimazione ad operare. Ebbene, per porre rimedio a tale problema la riforma in oggetto ha introdotto il giudizio preventivo di legittimità costituzionale delle leggi elettorali. Il 20
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nuovo art. 73, secondo comma, stabilisce infatti che le leggi elettorali di Camera e Senato possono essere sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di legittimità costituzionale, su ricorso motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera o almeno un terzo dei componenti del Senato, entro dieci giorni dall’approvazione della legge, prima dei quali la legge non può essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge non può essere promulgata. In altri sistemi bicamerali è riconosciuta alla minoranza parlamentare la facoltà di promuovere un giudizio di costituzionalità sulle leggi elettorali: Francia, Germania, Spagna, Austria, e anche in Polonia, Repubblica ceca, Romania, Russia. La stessa facoltà è riconosciuta in sistemi che hanno adottato il modello monocamerale, come il Portogallo e l’Ungheria. Si rammenta che, mentre in Francia il controllo è preventivo, nel senso sopra chiarito, in Germania ed in Spagna esso ha carattere successivo.
Una specifica disposizione si occupa delle leggi elettorali della Camera e del Senato promulgate nella legislatura in corso alla data di entrata in vigore della legge costituzionale. Su ricorso motivato di almeno un quarto dei componenti della Camera o di un terzo dei componenti del Senato tali leggi possono essere sottoposte al giudizio della Corte, che si pronuncia entro il termine di 30 giorni. Il ricorso deve essere presentato entro 10 giorni dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale in oggetto o, per la nuova legge elettorale del Senato, dalla data di entrata in vigore della legge medesima. Questa disciplina si giustifica per il fatto che questa legge costituzionale entra in vigore il giorno seguente a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale successiva alla promulgazione: nondimeno, fatte salve alcune disposizioni specificamente individuate, detta legge non trova applicazione da quel momento, bensì «a decorrere dalla legislatura successiva allo scioglimento di entrambe le Camere».
La tutela in Parlamento delle minoranze e delle opposizioni Con l’evidente intento di rafforzare il confronto politico in ambito parlamentare, quale contrappeso alla introduzione di misure innovative volte a promuovere l’efficienza dei processi decisionali, la riforma Renzi-Boschi si è occupata anche di tutela delle minoranze. Invero, innovando rispetto al testo vigente, che tace sul punto, il nuovo art. 64, secondo comma, demanda ai regolamenti delle Camere di garantire i diritti delle minoranze parlamentari. In particolare, «il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni». Solo il regolamento della Camera si occuperà di “opposizioni”. La ragione è chiara. Solo la Camera sarà parte del rapporto fiduciario con il Governo, e siccome l’opposizione include coloro che hanno votato contro la fiducia al Governo, ecco spiegata la differenza rispetto al Senato, in seno al quale si potranno porre problemi di interazione tra maggioranza e minoranze.
Soppressione del C.n.e.l. La riforma sopprime il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
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Secondo il vigente art. 99, il C.n.e.l. «è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa. È organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge. Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge». V., infatti, la legge n. 936 del 1986. Attualmente tale organo risulta composto da 64 membri. Fino al 2011 erano 121.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di revisione costituzionale, la soppressione del C.n.e.l. è motivata in ragione del fatto che tale organo ha prodotto un numero esiguo di iniziative parlamentari e non appare oggi più rispondente alle esigenze di raccordo con le categorie economiche e sociali che in origine ne avevano giustificato l’istituzione. Princìpi sull’amministrazione Attualmente l’art. 97 stabilisce che le leggi sull’amministrazione debbono assicurare il rispetto del buon andamento e dell’imparzialità della stessa amministrazione. La riforma ha aggiunto a questi due princìpi anche quello della trasparenza. Nel contempo, il nuovo art. 118, che definisce le regole generali di allocazione delle funzioni amministrative tra gli enti che costituiscono la Repubblica, stabilisce che le funzioni amministrative sono esercitate «in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori».
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LE RAGIONI DEL NO
Tratte, in prevalenza, da: A. PACE, La riforma Renzi-Boschi: le ragioni del no, in RivistaAIC, 2, 2016. V. ONIDA ET AL., Le ragioni del no - Appello dei costituzionalisti contrari alla riforma costituzionale (reperibile in www.federalismi.it). P. CARETTI, E. CHELI, U. DE SIERVO, V. ONIDA, Risposta a Roberto Bin, in RivistaAIC, 2, 2016.
1) Il testo della riforma è il risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche. La nostra Costituzione è stata approvata con il 90% dei voti, malgrado tutte le tensioni di quegli anni. A parte la riforma del 2001 e quella (fallita) del 2005, le altre numerose leggi di revisione della Costituzione approvate dal 1948 a oggi (anche le più recenti, comprese quelle sull’art. 81 e sul voto dei cittadini residenti all’estero) sono state approvate con la maggioranza di due terzi. 2) La riforma è frutto di iniziativa governativa, e non di iniziativa parlamentare come invece avrebbe dovuto essere secondo il nostro sistema costituzionale. La tesi secondo la quale il Governo disporrebbe dell’iniziativa legislativa anche per le leggi di revisione costituzionale, non viola un esplicito divieto costituzionale, ma certamente determina l’abbassamento della Costituzione allo stesso livello delle leggi ordinarie e della politica quotidiana. 3) Dall’inserimento del disegno di riforma costituzionale nel programma governativo e dal conseguente appiattimento della procedura ai sensi dell’art. 138 Cost. a livello di un’ordinaria legge d’indirizzo politico sono derivate delle storture procedurali, che ne hanno caratterizzato l’iter e ne hanno condizionato il risultato. 4) La riforma è stata varata da un Parlamento delegittimato, avendo la Corte costituzionale dichiarato l’incostituzionalità di parti importanti del cd. Porcellum, vale a dire della legge elettorale in base alla quale si svolsero le elezioni del 2013. 5) La riforma ha un contenuto illegittimamente disomogeneo, investendo una pluralità di parti della Costituzione prive di connessione. Ciò avrà ripercussioni negative sul referendum che, anziché essere “spacchettato”, sarà caratterizzato da un solo quesito per l’intera riforma. 6) La palese incostituzionalità dell’Italicum (che verrà giudicato dalla Corte ai primi di ottobre) trascina con sé la riforma costituzionale. In considerazione dell’impronta verticistica impressa alla riforma dall’Italicum, il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato quindi invertito, con la conseguenza che è la legge elettorale, approvata per prima, a costituire il “perno” della riforma costituzionale, e non il contrario.
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7) L’obiettivo del superamento del bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e l’obiettivo dell’attribuzione alla sola Camera del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sono stati perseguiti in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche. Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie alla luce della conformazione maggioritaria dell’Italicum. 8) L’elezione indiretta del Senato determina la violazione del principio supremo della sovranità popolare. Nel dichiarare che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» l’art. 1, secondo comma, sta a significare che, alludendo alle “forme” di esercizio della sovranità popolare, la Costituzione garantisce l’elettività diretta delle assemblee legislative. Le “forme” di esercizio della sovranità popolare, per ciò che attiene alle elezioni politiche, sono soltanto quelle “dirette”. Diversamente opinando, la funzione legislativa ordinaria e a fortiori quella di revisione costituzionale potrebbero, come appunto previsto dalla riforma Renzi-Boschi, essere esercitate anche da organi non eletti direttamente dal popolo. 9) La macroscopica differenza numerica dei deputati (630) rispetto ai senatori (100), determina la violazione del principio supremo di eguaglianza. 10) Il principio di eguaglianza, sotto il profilo della proporzionalità, è ulteriormente contraddetto nell’attribuire al Senato, composto da 100 componenti, il potere di eleggere due giudici costituzionali, mentre alla Camera, composta da 630 membri, verrebbe attribuito il potere di eleggerne solo tre. 11) La più grave irrazionalità, in quanto caratterizza la struttura e il funzionamento del “nuovo” Senato, è data dalla duplicità delle funzioni esercitate dai senatori, che non tiene conto del fatto che, pur essendo le attribuzioni del Senato diminuite, esse sono ancora molte e gravose e vanno ben oltre la mera rappresentanza delle istituzioni territoriali. 12) Oltre all’insindacabilità per i fatti posti in essere nell’esercizio delle proprie funzioni, i senatori-consiglieri regionali o sindaci godrebbero comunque dell’immunità “personale” ex art. 68, comma 3 Cost. Il che ha suscitato malevole, ma non infondate interpretazioni, correndo così il rischio, il Senato, di essere
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trasformato in un refugium peccatorum in conseguenza dell’attuale abnorme numero dei consiglieri regionali indagati (o addirittura rinviati a giudizio). 13) Un ulteriore elemento di confusione è dato dalla pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato. I procedimenti legislativi disciplinati dalla riforma dai tre attuali (il procedimento normale, quello di conversione dei decreti legge e quello costituzionale) sono diventati otto: 1) procedimento bicamerale paritario che ricorre nei 16 ambiti materiali indicati; 2) procedimento tendenzialmente monocamerale ma con intervento eventuale del Senato nelle restanti materie; 3) procedimento relativo alla clausola di supremazia; 4) procedimento monocamerale (non paritario) per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo, ma con esame obbligatorio del Senato e possibili proposte di modifica, da parte del Senato, entro 15 giorni dalla data di trasmissione; 5) procedimento monocamerale per i disegni di legge con approvazione a “data certa”; 6) procedimento di conversione dei decreti legge; 7) procedimento “speciale” monocamerale relativo all’approvazione delle leggi elettorali con possibilità di controllo preventivo da parte della Corte costituzionale; 8) procedimento monocamerale, attivato dal Senato con deliberazione a maggioranza assoluta, con la quale viene richiesto alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge. 14) Quanto alla forma di governo, il nostro ordinamento, grazie all’Italicum che determina un’investitura democratica quasi diretta del capo del Governo; grazie all’attuale titolarità in capo al Premier anche della carica di segretario nazionale del partito di maggioranza; grazie all’eliminazione del Senato come potenziale contro-potere e alla mancata previsione di effettivi contro-poteri, si orienterebbe di fatto verso un “premierato assoluto”, col duplice rischio, connesso all’uomo solo al comando, di produrre eccessivi squilibri di rappresentanza. 15) Si registra un indebolimento delle Regioni a causa di un riparto di competenze che alle Regioni stesse toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale. La riforma prevede una netta inversione di tendenza rispetto alla legge cost. n. 3 del 2001. Ciò è dimostrato dai seguenti elementi: - incremento esponenziale delle materie di competenza esclusiva dello Stato; - sottrazione alle Regioni di materie che da sempre ne qualificano la ragion d’essere (le politiche sociali, la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo); - incertezze relative alla cd. colegislazione; - la clausola residuale determinerà un grande contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale; - introduzione della clausola di supremazia. 16) La riforma non ha intaccato i rapporti con le Regioni a statuto speciale, garantite da specifiche leggi costituzionali, che da questa riforma uscirebbero addirittura rafforzate essendo prevista la necessaria intesa per le future modifiche statutarie. Sicché, le quindici Regioni ordinarie sono ridotte a poco più di enti amministrativi, mentre le cinque Regioni speciali mantengono intatti i loro poteri legislativi, amministrativi e finanziari.
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17) Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. 18) A proposito degli strumenti di democrazia diretta, la riforma aggrava notevolmente l’iniziativa legislativa popolare elevando il numero minimo dei sottoscrittori da 50 mila e 150 mila. Quanto al referendum abrogativo, il quorum di 800.000 firme è irrealistico.
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LE RAGIONI DEL SÌ
Tratte, in prevalenza, da: B. CARAVITA DI TORITTO, La riforma Renzi-Boschi: le ragioni del sì, in RivistaAIC, 2, 2016. AA. VV., Le ragioni del sì - Appello dei costituzionalisti favorevoli alla riforma costituzionale (reperibile in www.federalismi.it). R. BIN, Sulla riforma costituzionale. Lettera aperta ai professori di diritto costituzionale che hanno promosso l’appello diffuso il 22 aprile 2016, in RivistaAIC, 2, 2016.
1) Dopo anni e anni di sforzi vani, il Parlamento della XVII legislatura è riuscito a varare con una larga maggioranza – quasi il sessanta per cento dei componenti di ciascuna Camera in ognuna delle sei letture – una riforma costituzionale che affronta efficacemente alcune fra le maggiori emergenze istituzionali del nostro Paese. Nelle sei votazioni, la maggioranza è stata sempre attorno al 57% degli aventi diritto al voto. 2) L’iter della riforma è durato oltre due anni, è passato per sei letture, tre per ciascuna Camera, con quasi seimila votazioni e l’approvazione di oltre cento emendamenti. Sino alla prima lettura alla Camera il testo è stato condiviso da una maggioranza ampia, poi ridottasi per motivi non relativi al suo contenuto. Al di là dell’iniziativa e dello stimolo costanti del Governo, il contributo delle due Camere e di vari gruppi anche di opposizione è stato comunque decisivo e rilevante. 3) Il procedimento di revisione non ha prodotto alcuna “rottura” procedimentale avendo infatti rispettato il testo vigente della Costituzione, il quale non distingue, diversamente da altre costituzioni, fra revisioni puntuali o parziali e revisioni totali. 3) Non esiste alcun problema costituzionale nel fatto che il testo sia stato presentato dal Presidente del Consiglio e dal Ministro per le riforme istituzionali. Invero, il procedimento disciplinato dall’art. 138 si innesta sul procedimento legislativo ordinario, sicché l’iniziativa legislativa è disciplinata dall’art. 71, che esplicitamente prevede l’iniziativa governativa, la quale, ai sensi dell’art. 87, quarto comma, va autorizzata dal Presidente della Repubblica. Del resto, la riforma costituzionale del 2001, quella – bocciata dagli elettori – del 2005, nonché la modifica dell’art. 81 Cost. intervenuta nel 2012 sono state tutte originate da disegni di legge di iniziativa governativa. Peraltro, quando il Governo Renzi si presentò alle Camere per chiedere la fiducia, nessuno contestò di aver presentato un programma di governo ponendo al primo posto le «riforme costituzionali, istituzionali ed elettorali, sulle quali si è registrato un accordo che va oltre la maggioranza che sostiene questo Governo, e per il quale noi non possiamo che dire che gli accordi li rispetteremo nei tempi e nelle modalità prestabilite».
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4) Non vi sono dubbi sulla legittimità di questo Parlamento, considerando che la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale ha stabilito che i suoi effetti sulla legge elettorale si applicano per il futuro e non per i periodi precedenti. Si aggiunga altresì che non può che essere apprezzato positivamente il rispetto della procedura prevista in Costituzione per la revisione costituzionale. La Corte, nella evocata pronuncia, ha statuito che «le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali». La Corte ribadisce, quindi, che è «fuori di ogni ragionevole dubbio (...) che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare». Peraltro, il concetto di (de)legittimazione politica va preso con cautela, dal punto di vista giuridico, prestandosi ad interpretazioni soggettive. 5) Le modifiche contenute nella legge di revisione si pongono in continuità con i tentativi di riforma susseguitisi dagli anni ‘80 e, soprattutto, con i risultati della Commissione Quagliariello, istituita nel 2013 dall’allora Presidente del Consiglio Letta. 6) La riforma si pone in totale continuità con la Costituzione del 1947, di cui rispetta i principi ispiratori, l’assetto fondamentale e le linee istituzionali di fondo, non intaccando in nessun modo né il sistema costituzionale dei diritti, dei doveri e delle libertà, né le istituzioni di garanzia e i loro poteri. la forma di governo rimane tipicamente parlamentare, i poteri del Capo dello Stato, della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura non sono in alcun modo toccati. 7) Nel costruire un Senato quale organo ad elezione indiretta, la riforma non viola il principio supremo della sovranità popolare, atteso che, come lo stesso art. 1 dispone, tale sovranità è esercitata dal popolo, «nelle forme e nei limiti della Costituzione». La Costituzione può, dunque, disciplinare le modalità in cui si forma, si esercita e si esprime la sovranità popolare. 8) Gli elettori sono chiamati a pronunciarsi solo sulla riforma costituzionale, non anche sulla legge elettorale della Camera (l’Italicum). 9) Quanto al mancato “spacchettamento” del referendum se si dovessero artificialmente separare i contenuti in più quesiti, rischieremmo di ottenere esiti schizofrenici, come mantenere il bicameralismo paritario e non invece la riforma dell’assetto regionale, o l’esito opposto. Né sarebbe pensabile che nello stesso procedimento i parlamentari votino sull’insieme e i cittadini no. 10) È superato l’anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato, con la previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera e Governo. Il nuovo Senato delinea un modello di rappresentanza “al centro” delle istituzioni locali. È
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questa l’unica ragione che oggi possa giustificare la presenza di due Camere, in coerenza col ridisegno dei rapporti fra Stato-Regioni. Ne trarrà vantaggio sia il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, che rimane in capo alla sola Camera, superando così i problemi derivanti da sistemi elettorali diversi. Del resto, il bicameralismo paritario dell’originario testo costituzionale nacque come formula di compromesso tra il tendenziale monocameralismo della sinistra comunista e socialista e il bicameralismo differenziato voluto (secondo modelli diversi) da democristiani e liberali. Il suo carattere paritario si è sviluppato nel corso del tempo con la riconduzione delle legislature delle due Camere a cinque anni (originariamente il Senato si sarebbe dovuto rinnovare ogni sei anni) e con la progressiva “proporzionalizzazione” della legge elettorale del Senato. In questa legislatura è emersa l’urgenza di uscire da un sistema di bicameralismo che non è affatto quello voluto dai Costituenti. Anzi, è il frutto dello stravolgimento del modello da loro auspicato, operato del resto già al momento stesso dell’approvazione della legge elettorale per il Senato. 11) La questione della complicazione del procedimento legislativo non va sopravvalutata, poiché non appare diversa la situazione di tutti gli Stati composti e persino dell’Unione europea. Nel momento in cui si differenziano i ruoli dei due rami del Parlamento, ma s’intende mantenere una condivisione di funzioni in relazione a frangenti istituzionali fondamentali, è inevitabile la “complicazione” delle regole del gioco. A chi parla di sette o otto procedimenti diversi, basta opporre che si tratta di varianti procedimentali che si innestano sui due schemi delle leggi bicamerali e delle leggi monocamerali. Peraltro, contrariamente alla riforma tentata (e bocciata dal referendum) nel 2006, il ruolo legislativo del Senato non è legato alla “materia” trattata dalla legge in discussione, ma a leggi “tipiche” specificamente individuate dal primo comma del nuovo art. 70. Il che renderà meno incerto il quadro di riferimento. 12) Piuttosto, il riparto della potestà legislativa tra Camera e Senato risponde alle due funzioni tradizionali delle Camere alte: in alcuni casi, il nuovo Senato partecipa paritariamente in ragione della sua funzione di rappresentanza delle istituzioni territoriali (leggi bicamerali), in altri casi partecipa in quanto Camera di riflessione (leggi monocamerali). 13) La forma di governo che emerge dalla riforma rimane tipicamente parlamentare, non essendo stati introdotti nemmeno quegli strumenti di razionalizzazione, che potevano essere compatibili già con l’ordine del giorno Perassi. Il circuito Parlamento - Presidente della Repubblica - Governo non viene costituzionalmente modificato. 14) La riforma del Titolo V della Costituzione ridefinisce i rapporti fra Stato e Regioni nel solco della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001, con conseguente incremento delle materie di competenza statale. Si tratta della presa d’atto che le Regioni italiane hanno malamente utilizzato i poteri legislativi ad esse attribuiti, avendo operato fondamentalmente come soggetti amministrativi (d’altra parte, basti pensare che l’80% del bilancio regionale è dedicato alla sanità, e oltre il 10% al trasporto pubblico locale, per rendersi conto della collocazione costituzionale, tutta orientata all’amministrazione, dell’ente
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regione). Nello stesso tempo la riforma tipizza materie proprie di competenza regionale, cui corrispondono in gran parte leggi statali limitate alla fissazione di disposizioni generali e comuni. Inoltre: - la soppressione della legislazione concorrente non è prodromica all’azzeramento delle competenze regionali, poiché serve solamente a razionalizzare in un’ottica duale il riparto delle materie e comporta di per sé una riallocazione naturale allo stato o alle regioni della competenza a disciplinare, rispettivamente, i principi fondamentali e le norme di dettaglio che già spettava ad ognuno di essi; - l’impianto autonomistico delineato dall’art. 5 della Costituzione non viene messo in discussione perché la riforma pone le premesse per un regionalismo collaborativo più maturo, di cui la Camera delle autonomie territoriali costituirà un tassello essenziale; - quanto, in particolare alla clausola di supremazia, l’interesse nazionale torna ad essere un motivo di sovrapposizione delle scelte statali su quelle locali, ma solo attraverso un procedimento legislativo “speciale”, che prevede l’esame da parte del Senato e un prevalere finale della volontà della Camera solo se espressa a maggioranza assoluta. Il che significa che nessun’altra disposizione di legge potrà essere difesa davanti alla Corte in nome dell’interesse nazionale. 15) A fronte del presunto impoverimento dell’autonomia regionale, intesa nel suo complesso, la comparazione con un ordinamento federale, quale quello tedesco, dimostra il contrario. Nell’ordinamento federale tedesco, l’autonomia dei Länder è presidiata, soprattutto, dai seguenti istituti: - oltre ad essere titolari della potestà legislativa, i Länder hanno proprie costituzioni; - una seconda Camera, a livello federale, che rappresenta le istituzioni territoriali (tale è il Bundesrat); - il coinvolgimento di tale seconda Camera nella procedura di revisione costituzionale; - il rapporto tra le due Camere è paritario solo nel procedimento di revisione costituzionale e in altre materie espressamente individuate dalla Costituzione federale Zustimmung). Negli altri ambiti, il Bundesrat può solo ritardare l’adozione di una legge federale aggravandone il procedimento; - la seconda Camera elegge una parte dell’organo di giustizia costituzionale (Bundesverfassungsgericht); - la clausola residuale opera a favore dei Länder; - è prevista una “clausola di supremazia” (Konkurrierende Gesetzebung) per la tutela dell’unità giuridica o economica; - non è prevista una potestà legislativa di tipo concorrente secondo il modello italiano. Inoltre, sempre nell’ordinamento federale tedesco, il rapporto fiduciario a livello federale intercorre soltanto tra l’esecutivo e la Camera rappresentativa dell’elettorato nazionale (Bundestag). Ebbene, per appurare se la riforma comporti un arretramento dei risultati di potenziamento già conseguiti con la revisione costituzionale del 2001 in termini di autonomia regionale, occorre verificare se i summenzionati elementi sono presenti nell’attuale testo costituzionale e nel testo come modificato dalla riforma Renzi-
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Q. Camerlengo – Verso il referendum costituzionale
Boschi. I dati di questa comparazione possono essere riportati nella seguente tabella. Germania
Cost. it. vigente
Riforma Renzi-Boschi
Costituzioni statali
SÌ
NO
NO
Seconda Camera federale rappresentativa delle istituzioni territoriali La seconda Camera nella revisione costituzionale Bicameralismo non paritario
SÌ
NO
SÌ
SÌ
NO
SÌ
SÌ
NO
SÌ
Rapporto fiduciario tra Governo federale e Camera di rappresentanza generale Elezione giudizi costituzionali da parte della seconda Camera Clausola residuale a favore degli enti territoriali Potestà legislativa concorrente o ripartita
SÌ
NO
SÌ
SÌ
NO
SÌ
SÌ
SÌ
SÌ
NO
SÌ
NO
Clausola di supremazia
SÌ
NO
SÌ
La tabella dimostra che la riforma Renzi-Boschi avvicina lo Stato regionale italiano al modello federale tedesco (così potenziando l’autonomia complessiva delle Regioni, che finiscono coll’assomigliare di più ai Länder tedeschi) più di quanto avesse fatto la riforma del 2001 e, dunque, più del vigente dettato costituzionale. Peraltro, molti degli ex giudici della Corte costituzionale che, aderendo al manifesto del “no”, lamentano una vulnerazione dell’autonomia regionale, erano membri del collegio che introdusse, nel 2003, la “attrazione (o chiamata) in sussidiarietà”: un istituto, non previsto espressamente dalla Costituzione, che ha inferto un duro colpo alle istituzioni regionali. 16) La potestà legislativa concorrente fu una soluzione intelligente che o Costituenti concepirono per realizzare un modello di normazione adeguato a quelle materie nelle quali non era possibile considerare dominanti gli interessi nazionali oppure gli interessi regionali. Di fronte a questo tendenziale equilibrio, apparve congeniale pensare ad un sistema condiviso o ripartito di legislazione caratterizzato da due ruoli diversi da assegnare al legislatore statale e, rispettivamente, ai legislatori regionali: al primo le norme di principio, ai secondi le norme di dettaglio. Tuttavia, questo modello non ha funzionato come sperato dai Costituenti. Lo Stato ha approvato pochissime “leggi-cornice”. Per consentire, nonostante tale omissione, l’intervento dei legislatori regionali, i princìpi fondamentali sono stati ricavati, in via induttiva, dalle tante norme statali vigenti nelle diverse materie. Con l’effetto, però, che la ricognizione e, quindi, la costruzione di tali princìpi è stata affidata non allo Stato (secondo quanto stabilito dall’art. 117), ma alla Corte costituzionale. Inoltre, per scongiurare il rischio di vuoti normativi imputabili a omissioni dei legislatori regionali, nell’intervenire a regolare le materie sviluppando i princìpi fondamentali, si è affermata la soluzione delle “norme (statali) cedevoli”, vale a 31
Q. Camerlengo – Verso il referendum costituzionale
dire norme di dettaglio (applicabili dalla p.a. e dai giudici) destinate a lasciare il posto alle norme regionali una volta approvate dai rispettivi Consigli. Pur mossa da una lodevole ragione di certezza del diritto, questa soluzione ha però prodotto l’effetto di “deresponsabilizzare” molte Regioni: perché legiferare se ci sono già norme applicabili, ossia quelle statali (seppur cedevoli) ? In fondo, legiferare significa assumersi la responsabilità politica delle diverse decisioni, cioè significa rispondere agli elettori, col rischio di deluderli (e, dunque, di perdere voti). La riforma costituzionale del 2001 e la successiva giurisprudenza costituzionale non hanno mutato questo modello, che ha continuato ad alimentare un intenso contenzioso dinanzi al giudice delle leggi. 17) I poteri normativi del governo sono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d’urgenza introdotti direttamente nell’articolo 77, per evitare l’impiego elevato che si è registrato nel corso degli ultimi anni. 18) Con l’introduzione del “voto a data certa” viene instaurata una corsia preferenziale per gli atti che impegnano la responsabilità politica del Governo e che, peraltro, rappresenta l’unica alternativa all’abuso della decretazione di urgenza, non a caso assoggettata a nuove e significative delimitazioni. Ad ogni modo, è fuori discussione la necessità di un Governo parlamentare di disporre di strumenti per la realizzazione del programma sulla base del quale ha ottenuto la fiducia ovvero per presentarsi in modo costruttivo agli appuntamenti internazionali e, soprattutto, europei in cui si determinano le sorti del paese. 19) Il sistema delle garanzie è potenziato: il rilancio degli istituti di democrazia diretta, con l’iniziativa popolare delle leggi e il referendum abrogativo rafforzati, con l’introduzione di quello propositivo e d’indirizzo per la prima volta in Costituzione; il ricorso diretto alla Corte sulla legge elettorale, strumento che potrà essere utilizzato anche sulla nuova legge elettorale appena approvata; un quorum più alto per eleggere il Presidente della Repubblica. Non sono state modificate le funzioni del Capo dello Stato, della Corte costituzionale, della magistratura. La riforma non tocca in alcun modo la parte prima della Costituzione dedicata ai diritti e ai doveri. 20) È significativa la rimodulazione di alcuni profili del referendum abrogativo, con la previsione del calcolo del quorum sulla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera nel caso di richiesta avanzata da ottocentomila elettori: si tratta di un passaggio importante, giacché molti referendum degli ultimi vent’anni sarebbero stati approvati se il quorum fosse stato calcolato sull’ultima percentuale dei votanti. 21) È operata una decisa semplificazione istituzionale, attraverso l’abolizione del C.n.e.l. e la soppressione di qualsiasi riferimento alle province quali enti costitutivi della Repubblica.
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