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Supplemento al Vol. 19 N. 2 - 1999 - Spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/B - legge 662/96 - Filiale di Milano
IABETOLOGIA
L’educazione terapeutica del paziente diabetico: attualità e prospettive
Villa Erba (Como) 19-21 Novembre 1998
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GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
1° Congresso Roche Patient Care
L’educazione terapeutica del paziente diabetico: attualità e prospettive
Villa Erba (Como) 19-21 Novembre 1999
Redattore Capo Gian Michele Molinatti - Torino Comitato di Redazione Francesco Belfiore - Catania Emanuele Bosi - Milano Angelo Gnudi - Parma Gabriele Riccardi - Napoli Fausto Santeusanio - Perugia Antonio Tiengo - Padova Comitato Editoriale Paolo Brunetti - Perugia Franco Camanni - Torino Fabio Capani - Chieti Paolo Cavallo Perin - Torino Francesco Caviezel - Milano Umberto di Mario - Roma Domenico Fedele - Padova Riccardo Giorgino - Bari Dario Giugliano - Napoli Aldo Maldonato - Roma Guido Menzinger - Roma Piero Micossi - Milano Luciano Motta - Catania Michele Muggeo - Verona Sergio Muntoni - Cagliari Renzo Navalesi - Pisa Massimo Porta - Torino Renato Zandomeneghi - Modena Ivana Zavaroni - Parma Redattori Associati Gian Domenico Bompiani - Palermo Gaetano Crepaldi - Padova Mario Mancini - Napoli Guido Pozza - Milano Proprietà della Testata © Roche S.p.A. Direzione Giornale Italiano di Diabetologia - Viale G.B. Stucchi, 110 - 20052 Monza (MI) Direttore Responsabile Luigi F. Sirito - Monza (MI) Manager Editoriale Luisa Villa Tel.: (039) 2474076 - Fax: (039) 2474090 Segreteria di Redazione Emiliana Brambilla Tel.: (02) 62411725 - Fax: (02) 62411748 Editing SEA - Novara Testata aderente al CSST non soggetta a certificazione obbligatoria in quanto di tiratura non superiore alle 5000 copie Autorizzazione Tribunale di Milano n. 298 del 26.7.1980 Supplemento al Giornale Italiano di Diabetologia Vol. 19 N. 2 - 1999 Stampa: Lineadue - Marnate (VA) Editore: Utet Periodici Scientifici S.r.l. - Viale Tunisia 37, Milano
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SOMMARIO INTRODUZIONE
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LETTURA MAGISTRALE • Education in UKPDS - John Day
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OBIETTIVI DELLA TERAPIA DEL DIABETE ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETE TIPO 1
13
• I parametri del buon controllo - D. Giugliano (Napoli)
15
• Buon controllo metabolico e diabete di tipo 1 G. Pagano (Torino)
19
• Attualità e prospettive nel diabete tipo 1: prevenzione primaria - P. Pozzilli (Roma)
23
• Il trapianto di pancreas e di isole del Langerhans nel paziente diabetico - A. Secchi (Milano)
27
• La moderna terapia insulinica del diabete mellito di tipo 1 G.B. Bolli (Perugia)
35
OBIETTIVI DELLA TERAPIA DEL DIABETE ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETE TIPO 2
43
• Prevenzione primaria - M. Muggeo (Verona)
45
• Nutrizione e prevenzione del diabete - G. Riccardi (Napoli)
53
• La terapia farmacologica del diabete di tipo 2 S. Del Prato (Padova)
59
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AUTOGESTIONE DEL DIABETE
67
• La gestione della malattia diabetica: il punto di vista del paziente e del medico - U. Valentini (Brescia)
69
• L’educazione come momento fondamentale per la cura e l’autogestione del diabete - N. Musacchio (Milano)
73
• Tecniche e strategie pedagogiche nell’educazione del paziente diabetico - A. Maldonato (Roma)
79
• Le competenze professionali nel processo educativo V. Miselli (Reggio Emilia)
83
• Fattibilità dell’intervento educativo. Costi e benefici C. Noacco (Udine)
89
OBIETTIVI SPECIFICI IN CAMPO EDUCATIVO: ESPERIENZE PRATICHE
95
• Educazione alimentare per diabetici insulino-dipendenti D. Bruttomesso (Padova)
97
• Ipoglicemia - C.G. Fanelli (Perugia)
101
• Attività fisica - G. Corigliano (Napoli)
107
• Diabete e gravidanza - A. Lapolla (Padova)
111
• Il peso delle tecnologie informatiche in ambito educativo G. Vespasiani (San Benedetto del Tronto)
115
• Formazione degli operatori in diabetologia: esperienza pratica in un istituto di riabilitazione geriatrica - E. Orsi (Milano)
119
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VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI TAVOLA ROTONDA
121
• La valutazione dei processi educativi - S. Squatrito (Catania)
123
• L’ambiente educativo - G. Monesi (Rovigo)
127
• Influenza dei corsi di educazione sanitaria su alcuni aspetti psicologici (ansia e depressione) di pazienti diabetici E. Guastamacchia (Bari)
131
• La valutazione degli educatori - A. Piaggesi (Pisa)
133
• Valutazione della metodologia degli interventi educativi H. Corradin (Vicenza)
137
• La valutazione degli interventi educativi intensivi A. Corsi (Genova)
141
• Valutazione degli interventi educativi. Le condotte di riferimento - M. Trento (Torino)
145
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INTRODUZIONE L’incontro di Villa Erba del novembre 1998 organizzato dalla «Roche Diagnostics» ha avuto il merito di mettere a confronto e di integrare le conoscenze attuali in tema di fisiopatologia e di terapia della malattia diabetica con le esperienze di autogestione e di educazione terapeutica del paziente diabetico. Gli obiettivi sempre più ambiziosi della terapia del diabete perseguiti da un corretto stile di vita, da un moderno trattamento farmacologico orale o insulinico e in alcuni casi da un trapianto di pancreas, non sono raggiungibili se non sono inseriti in un percorso educativo che coinvolga strettamente il paziente diabetico e il diabetologo. Il paziente, in altri termini, deve essere consapevole del significato degli obiettivi terapeutici da raggiungere e deve essere motivato ad accettare un trattamento a lungo termine, ad autogestire la propria cura e ad assumersi la responsabilità del proprio stato di salute. L’educazione terapeutica deve permettere al paziente diabetico di acquisire e mantenere le capacità che gli consentano di realizzare una gestione ottimale della propria vita seppur in presenza della malattia diabetica. Le esperienze educative nel nostro Paese sono state fino a non molti anni fa patrimonio di singoli diabetologi-educatori e di alcuni Servizi di Diabetologia che hanno avuto il merito di costituire il «Gruppo di Studio per l’Educazione del Paziente Diabetico» (GISED) che è divenuto la palestra e il punto di riferimento per tutta la diabetologia italiana. Negli ultimi anni ci si è resi conto che l’impegno del diabetologo sul piano educativo non può essere limitato a una ristretta «élite» ma è indispensabile per giustificare e per rendere efficace il suo intervento terapeutico nei confronti del paziente diabetico. L’incontro di Villa Erba ha avuto come obiettivo primario la sensibilizzazione di tanti giovani diabetologi nei confronti di questo fondamentale aspetto della terapia del diabete che troppo spesso è ritenuta ancor oggi ovvia o è in gran parte trascurata per mancanza di tempo o di mezzi a disposizione, ma anche per ignoranza e impreparazione del medico-diabetologo. Si è voluto riaffermare l’importanza dell’educazione come momento fondamentale per la cura e l’autogestione del diabete prospettando le principali tecniche e strategie pedagogiche, la necessità di avere a disposizione competenze professionali adeguate e i costi/benefici di tale intervento educativo. Si sono approfonditi alcuni temi specifici come l’alimentazione, l’ipoglicemia, l’attività fisica, la gravidanza, la prevenzione del piede diabetico, le tecnologie informatiche e la formazione degli operatori. Infine, in una visione moderna e concreta dell’intervento educativo, si è sottolineata la necessità di valutazione e di verifica del processo educativo, della metodologia applicata, degli educatori e degli indicativi. I testi degli interventi, rielaborati o tratti direttamente dall’esposizione degli oratori, rappresentano la testimonianza della validità e dell’attualità dei temi trattati. L’incontro di Villa Erba 1998 ha sicuramente contribuito, al di là delle iniziative istituzionali programmate dalle Società Scientifiche, a diffondere e a promuovere il linguaggio e l’esperienza educativa che deve rappresentare oggi e ancor più domani un patrimonio culturale indispensabile per il diabetologo di fine millennio. Antonio Tiengo Cattedra di Malattie del Metabolismo - Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale - Università di Padova
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Lettura magistrale
Education in UKPDS John Day
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THE UKPDS STUDY IMPLICATIONS FOR PATIENT EDUCATION John Day The Diabetes Centre, Department of Medicine, The Ipswich Hospital NHS Trust
Introduction For many years there has been uncertainty about the efficacy of treatment in Type 2 diabetes. The University Group Diabetes Program study provided some conflicting results and in particular uncertainty as to whether indeed Sulphonylurea treatment might not have adverse effects (1). Furthermore, the role of insulin treatment in Type 2 diabetes has remained uncertain councurrent with the examination of metabolic abnormalities in «the metabolic syndrome». Questions have been raised about the possibility that high plasma insulin concentrations might contribute to the very high risk of macrovascular disease. Some invitro and animal work has suggested a possible relationship between hyperinsulinaemia and atherogenesis. The UKPDS study was set up in the late 70’s to determine the most effective treatment in non-insulin dependent diabetes. The initial protocol was written to examine various aspects of glucose contorl but subsequently a second protocol was included to include study of the efficacy of blood pressure control. These studies were terminated in 1997 and the results reported at the Autumn meeting of the EASD in 1998 (2-5).
Glucose control study The aims of this study were to determine whether (a) improved glucose control of Type 2 diabetes would prevent clinical complications (b) therapy with: Sulphonylurea - (first or second generation) Insulin or Metformin had any specific advantage or disadvantage. The study was a multi-centre study carried out in twenty-three centres in the United Kingdom. Initially 5102 patients were recruited and on termination of the study involved 53000 patient years follow up. The patient Figure 1 characteristics are summarised in Table 1. The randomisation to intensive or conventional treatment is indicated in fig. 1. Prior to randomisation all patients Randomisation of Treatment Policies had a three month run in period with dietary treatment alone. Subsequently Main Randomisation 342 allocated to those randomised to conventional policy n=4209 (82%) metformin were encouraged to aim for near normal weight and a fasting plasma glucose of <15 mmol/l and to remain asymptomatic. 3867 When marked hyperglycaemia developed they were allocated to non-intensive Conventional Policy Intensive Policy pharmacological therapy. For those 30% (n=1138) 70% (n=2729) randomised to intensive policy with Sulphonylurea insulin the aim was to achieve a fasting plasma glucose Sulphonylurea Insulin n=1573 n=1156 <6 mmol/l and remain asymptomatic. When these patients became markedly
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age 25-65 years gender ethnic group
body mass index fasting plasma glucose (fpg) HbA1c hypertensive Table 1 5102 newly diagnosed type 2 diabetic patients
mean male:female Caucasian Asian Afro-caribbean mean median median
53 years 59.41% 82% 10% 8% 28 kg/m 11.5 mmol/L 9.1% 39%
hyperglycaemic on Sulphonylurea Metformin was added or changed to insulin therapy. If allocated to insulin already they were transferred to more complex regimens.
FINDINGS Follow yp of patients included assessment of fatal and non-fatal clinical end points, record of surrogate end points including clinical and biochemical markers, eg urine albumin, retinal photography, visual acuity. Analysis was performed on an intention to treat basis. Overall summary of the glucose control study reveals that intensive glucose control policy maintained a lower HbA1c by a mean of 0.9% over a follow up of ten years with a reduction in the risk of: • 12% for any diabetes related end point p 0.29; • 25% for microvascular end point p 0.0099; • 16% for myocardial infarction p 0.52; • 24% for cataract extraction p<0.46; • 21% for retinopathy at 12 years p<0.015; • 33% for albuminuria at 12 years p<0.00005 DID INSULIN OR SULPHONYLUREA THERAPY HAVE SPECIFIC ADVANTAGES OR DISADVANTAGES Examination of those randomised to Insulin, Chlorpropamide or Glibenclamide indicated similar reductions in HbA1c compares with conventional treatment regardless of which agent was used. All there therapies had equivalent risk reduction for major clinical outcomes compared with conventional policy. In those allocated to Chlorpropamide there was equivalent reduction of risk of microalbuminuria but no reduction of risk of progression of retinopathy. DID METFORMIN IN OVERWEIGHT DIABETIC PATIENTS HAVE ANY ADVANTAGES OR DISADVANTAGES Overweight patients (>120% ideal body weight) could be randomised to an intensive glucose control policy with Metformin instead of diet, Sulphonylurea or insulin. Results revealed similar reduction in HbA1c with Metformin as compared with the other agents but in contrast to the other agents in whom a significant weight increase was observed, the weight change in the Metformin treated patients was similar to those maintained on diet alone. In those allocated to Metformin there was a highly significant reduction in any diabetes related and points (p 0.0023) diabetes related deaths (p 0.0017) all cause mortally (p 0.0011) and myocardial infarction (p 0.001) Metformin provided a 30% risk reduction in any diabetes related end point, 42% risk reduction in diabetes related death, 30% risk reduction normal cause mortality and 39% risk reduction in myocardial infarction. USE OF SULPHONYLUREA IN CONJUNCTION WITH METFORMIN Patients primarily randomised to intensive therapy with Sulphonylurea were not given additional Metformin until their fasting plasma glucose was >15 mmol or they developed hypoglycaemic symptoms. However, in view of the progressive hyperglycaemia in these patients a protocol modification was made to secondary randomise those on maximum Sulphonylurea therapy and a fasting plasma glucose >6 mmol to early addition of Metformin. The results were equivocal in that there was no significant reduction in any diabetes related end point but there did appear to be
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a reduction in diabetes related deaths in those who remained on Sulphonylurea alone as compared to those in which Metformin was added. However, when all the Metformin data was combined there was no significant difference. In conclusion it would appear that the combination of Sulphonylurea and Metformin needs further study. However, it should be commented that the actual myocardial infarct rates in those taking Sulphonylurea or Sulphonyl plus Metformin were identical but the death rate was significantly lower in the Sulphonylurea only group, not only in comparison with those taking Metformin as well, but also with all other groups. Numbers were small. The conclusion was reached that this did not indicate a significant adverse effect of Metformin when combined with Sulphonylurea.
Blood pressure control study This secondary study was taken to examine whether (a) intensive blood pressure control improved clinical outcome and (b) whether treatment with a Beta Blocker or ACE inhibitor revealed significant differences. Previously untreated patients were included who had a systolic ≥160 or diastolic ≥90 mmHg. Patients on hypertensive therapy were included it the systolic was ≥150 and/or diastolic ≥85 mmHg. For those randomised to conventional policy the target was to achieve a blood pressure <180/108 mm/l avoiding ACE inhibitor or beta blocker therapy. Those randomised to more intensive treatment were allocated either to an ACE inhibitor or a beta blocker with a target of a blood pressure <150/85 mm/l. Additional agents could be used to achieve the targets if the ACE or Atenolol treatment alone was ineffective. FINDINGS These reveal highly significant reductions in risk of any diabetes end point 24% p 0.0040, and diabetes related death 32% p=0.019, stroke 44% p=0.013, microvascular disease 37% p=0.0092, heart failure 56% p=0.0043, retinopathy progression 34% p=0.0038 and deterioration of vision 47% p=0.0036) in those in the intensively treated group. There were no significant differences between the outcomes in the ACE or Atenolol treated group. Examination of blood pressure control in patiens allocated to different glucose control regimen showed that similar levels were achieved in those treated with conventional glucose control insulin and Glibenclamide but slightly higher levels noted in the Chlorpropamide treated group. SUMMARY OF THE GLYCAEMIC AND BLOOD PRESSURE CONTROL STUDIES • It can be conclude that an intensive glucose control policy (HbA1c of 7 versus 7.9) reduces the risk of any diabetes related end points and microvascular endpoints with the borderline reduction in myocardial infarction. • A tight blood pressure control policy to achieve a level of 144/82 versus 154/87 mmHg reduces the risk of any diabetes related end point, microvascular end point and stroke. • The benefits of tight blood pressure control and tight blood sugar control are summative.
Potential implications for the clinical care of diabetes GOALS OF THERAPY The results of the UKPDS suggest that we should be aiming for HbA1c of <7%. This HbA1c level is in accord with current guidelines but is difficult to accomplish.
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Concurrent epidemiological analysis suggests that any reduction of hyperglycaemia would be advantageous. Sulphonylureas, Insulin and Meformin are each effective in reducing the risk of diabetes related end points and microvascular damage. There is no evidence of increased risk of complications of any single therapy. The UKPDS study suggests blood pressure below 140/85 mmHg would reduce the risk of diabetic complications and this again is in accord with current guidelines. ACE inhibitors and beta blockers are each effective in reducing the risk of macrovascular and microvascular process and there is no evidence the ACE inhibitors are significantly advantageous. Polypharmacy both for glycaemic control and blood pressure control may be necessary. There are two, however, very important which need to be emphasised. Firstly, that all patients prior to randomisation to the glucose control study underwent three months run in period with diet. At diagnosis the mean HbA1c was around 9% and at randomisation 7%. Thus the greatest reduction in HbA1c took place during the diet alone pre-randomisation therapy. It was notable that this reduction was greatest in patients attending those centres with the greater availability of dietetic advice. Secondly, both in the conventional and intensified treatment groups there was a steady and inexeorable rise in HbA1c throughout the course of the study and although the 0.9% difference was maintained between the conventional and intensive groups the slope of this rise was in both groups identified exactly the same indicating the progressive nature of this disease.
Educational implications Given that the UKPDS has clearly established the benefits of as tight blood sugar and blood pressure control as possible there are very major implications for our organisation of care and education for those with diabetes. It is quite clear that DIAGNOSIS many if not the majority of patients fail to achieve the targets that are set for them. Indeed in the DCCT study for insulin THERAPY DECISION treated patients <10% achieve the targets intended and this despite a most intensive regimen with enormous professional staff EDUCATION support (6) Studies in education have, over NEW KNOWLEDGE the last decade or so, revealed that success SKILLS PERCEPTIONS in achieving medical targets is very dependent on effective self-management or patient empowerment. The behaviours required of subjects to achieve the necessary targets are complex.They include MAINTENANCE MAINTENANCE SELF MANAGEMENT of course strict adherence to modified diet NEW NEW LIFE LIFE EVENTS EVENTS EDUCATION and therapy presented regular self testing COMPLICATIONS COMPLICATIONS PERCEPTIONS adherence to the therapy prescribed and ATTITUDES attendance at follow up clinics for supervision. Major behavioural modification therefore is required. Referring back to the UKPDS data it is notable that the greatest benefit was Figure 2 achieved from the dietary advice in the run in period and this was an educational Diabetes care process. A care cycle can be described whether for insulin or non-insulin treated cycle
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patients summarised in figure 2, in which it can be seen that education or behavioural change is required on a life-time basis. Many studies have been performed into the psychosocial aspects of diabetes self-care and have revealed that these may be as, if not more, important in erms of outcome than the therapies prescribed. Factors contributing to effective self-management are summarised in Table 2. BASIC INFORMATION There can be no doubt that for the patients to adopt the prescribed regimens Table 2 Factors responsible effectively they must have basic information about the illness. Studies have revealed for effective however that gnerally it is not difficult for people to acquire this information, but self-management there is considerable gap between those who know what to do and those who actually put it into practice. However, unfortunately many people may have Knowledge Feelings of personal control inappropriate information about the Self-management skills Emotional adjustment illness based on the experience of others Perception of goals Effect of other people or media communications and may have Benefits/barriers Lifestyle developed myths that must be identified and dispelled. TARGETS TO BE SET Although the UKPDS recommends a target HbA1c of 7% this must be regarded as the ideal. Many investigations reveal that the targets may be perceived by the patient as unobtainable, whether these are glycaemic or weight end points. There is little purpose in advising patients of a target which they perceive as quite unobtainable. The evidence form the UKPDS suggest that any reduction in HbA1c is an advantage. The steps required to achieve this therefore need to be negotiated with the patient and agreed. Frost et al have elegantly demonstrated the importance of setting weight targets which are obtainable. Realistic and achievable goals are essential therefore (7). HEALTH BELIEFS In the list of factors responsible for self-management itemised above the importance of the perception of the patient about the benefits and barriers to treatment cannot be overemphasised. In deciding to undertake behavioural change patients make value judgements about the steps required to achieve such a change. Many might acknowledge the «risk» of failure but not their personal risk. Denial is common in perhaps up to 20% of subjects. It is necessary, therefore, to identify patients perceptions in this regard. Secondly, it is important to determine whether patients actually perceive their responsability for their own management. Subjects fall into three groups, those who acknowledge that there is an internal responsibility, those who feel that it is the responsibility of the medical team to «put things right» and thirdly those who perceive outcome as a matter of chance. Fortunately, these perceptions can be incluenced and evidene is now strong that if people can be encouraged to adopt an internal so called «locus of control» that their satisfaction with treatment is greatly improved. It should be emphasised that this not only applies equally to self control of blood pressure as blood sugar control. Professional carers may have a positive or negative influence on this. Adoption of paternalistic prescriptive approaches are likely to inhibit rather than encourage. EMOTIONAL ADJUSTMENT The emotional adjustment of a patient may be critical in determining their ability to adopt and maintain new behaviours which will depend on their coping abilities, and levels of anxiety and depression. Unfortunately complete lack of concern about their
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medical state is not compatible with successful outcome and some degree of anxiety is essential. Excessive anxity, however, may induce critical inhibition. SOCIAL ENVIRONMENT For all those with diabetes the social environment in which they manage their illness may be more important than the therapy prescribed. This is particularly so in dietary management. Family members, friends, work colleagues, may have more important influences on behaviours than the professional advisers. unless such barriers are clearly identified both by patient and carer successful otucome is unlikely to be achieved. IDENTIFICATION OF FACTORS RESPONSIBLE FOR EFFECTIVE SELF-MANAGEMENT The elements described above can be identified. Studies in both insulin and noninsulin dependent diabetes have not only validated the contribution of these factors but also can be identified both by questionnaire and/or interview. The processes of behaviourla change and the relation of these factors to such change are well summarised by the model of Fishbein Azjen, see figure 3. This can be amplified by the methods of Prochaska et al which should be used to determine if the patients are precontemplative, ie have not thought about making changes, contemplative – are thinking about making changes but have not adopted them, active – undertaking new behaviours and/or EXTERNAL VARIABLES subsequently maintaining the changes KNOWLEDGE and then finally unfortunately those ANXIETY relapsing (8,9.) The many specific LOCUS OF CONTROL questionnaires which have been developed DEMOGRAPHIC VARIABLES to identify the factors outlined above are difficult to apply in clinical practice due to their specificity and number (10). However more practical clinical instruments developed by the Ipswich Group have been SOCIAL both tested and shown not only to provide ATTITUDES ENVIRONMENT valid scoring of the factors and indeed that these factors can be modified by educational intervention (11). EDUCATIONAL IMPLICATIONS Educational review and intervention in a lifelong process. The most common professional contact is in the consulting room. This opportunity must be used to identify those factors operative in any one BEHAVIOUR individual and attempt to change to change those that are deleterious. Studies of professional patient communication reveal that these are largely based on the acute model of care with a prescriptive approach from the professional with the locus of control held too closely by the medical team. This process is largely inhibitory on effective patient empowerment. The studies by Kaplan et al have shown that when the patient themselves takes more control of the interview or educational interview not only their learning but also their outcomes are improved (12). The process should ensure that the patients learning agenda/needs are identified and met, that the learner is allowed choice in their learning methods, strategy and material. Patients very often learn best from others with the same INTENTIONS
Figure 3 Model of factors determining change in behaviour. Adapted from Ajzen I, Fishbein M
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illness, hence the value of group interactive processes. To achieve these ends the professionals’ behaviour also has to change. This is dependent on the same influences as of the patient, ie their attitudes and beliefs about the efficacy of the treatment prescribed. Will all those involved in providing care for non-insulin dependent diabetes agree the targets that are recommended by the UKPDS? If so, will they be able to provide a system of care which can deliver this. To what extent will be inhibited by pressures from other colleagues or their own feelings?
Conclusion The UKPDS has clearly demonstrated that improved glycaemic and blood pressure control can be effective in reducing the late complications. To achieve these ends, however, there will not only need to be greater investment in professional time and facilities but also much closer attention to the behavioural aspects of those with type 2 Diabetes, identifying factors which are facilitating or inhibiting successful change and persuading patients through negotiation and counselling to attempt to achieve them.
REFERENCES 1. University Group Diabetes Program: A study of the effects of hypoglycemic agents on vascular complications in patients with adult-onset diabetes. 2. Mortality results. Diabetes 19 (suppl. 2), 785-830, 1970 2. UK Prospective Diabetes Study Group: Efficacy of atenolol and captopril in reducing risk of macrovascular and microvascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 39, BMJ 12, 317 (7160), 713-720, 1998 3. UK Prospective Diabetes Study Group: Tight blood pressure control and risk of macrovascular complications in type 2 diabetes: UKPDS 38. BMJ 12, 317, (7160), 703713, 1998 4. UK Prospective Diabetes Study Group: Intensive blood-glucose control with sulphonylureas or insulin compared with conventional treatment and risk of complications in patients with type 2 diabetes (UKPDS 33). Lancet 12, 352 (9131), 837853, 1998 5. UK Prospective Diabetes Study Group: Effect of intensive blood-glucose control with metformin on complications in overweight patients with type 2 diabetes (UKPDS 34). Lancet 12, 352 (9131), 854-865, 1998 6. DCCT Research Group: The effect of intensive treatment of diabetes on development and progression of long term complications in insulin dependent diabetes. New Engl J Med 329, 977-986, 1993 7. Frost G: Comparison of two methods of energy prescription for obese non-insulin dependent diebetics. Pract Diabetes 6, 273-275, 1989 8. Ajzen I, Fishbein M: Understanding attitudes and predicting social behaviour. Englewood Cliffs NJ: Prentice Hall, 1980 9. Prochaska Jo, DiClemente CC: Toward a comprehensive model of change. Treating addictive behaviours. New York: Plenum Press, 1986 10. Bradley C: Handbook of Psychology and Diabetes. Switzerland: Chur, Harwood Academic Publishers, 1994 11. Day JL, Bodmer CW, Dunn OM: Development of a questionnaire identifying factors responsible for successful self-management of insulin-treated diabetes. Diabetic Med 13, 564-573, 1996 12. Kaplan RM, Chadwick MW, Schimmel LE: Social learning intervention to promote metabolic control in type 1 diabetes mellitus: pilot experiment results. Diabetes Care 8, 152-155, 1985
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Obiettivi della terapia del diabete Attualità e prospettive nel diabete tipo 1
I parametri del buon controllo D. Giugliano (Napoli) Buon controllo metabolico e diabete tipo 1 G. Pagano (Torino) Prevenzione primaria P. Pozzilli (Roma) Trapianto A. Secchi (Milano) Terapia insulinica G. Bolli (Perugia)
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I PARAMETRI DEL BUON CONTROLLO Dario Giugliano Dipartimento di Geriatria e Malattie del Metabolismo, Seconda Università di Napoli
Le malattie cardiovascolari rappresentano un problema di sanità pubblica a livello planetario. Previsioni elaborate dagli esperti dell’OMS appena due anni or sono (1997) non inducono all’ottimismo: tra appena 20 anni, l’epidemia di patologie cardiovascolari avrà toccato vette impressionanti e la cardiopatia ischemica deterrà il triste primato di prima causa delle maggiori condizioni invalidanti che affliggono l’umanità. La malattia cerebrovascolare sarà quarta in questa classifica. Indipendentemente dalla veridicità di queste previsioni, resta il dato che anche per il diabete mellito, la più comune tra le malattie metaboliche e uno dei più potenti fattori di rischio per malattie cardiovascolari, è previsto un trend in ascesa, con un’aspettativa di circa 300 milioni di soggetti affetti nel prossimo ventennio, dagli attuali 100-120 milioni stimati. Questa crescita parallela potrebbe non essere casuale: le modificazioni peggiorative dello stile di vita (sedentarietà, netto incremento della prevalenza di obesità, diete squilibrate) di intere popolazioni, in special modo di quelle che con un eufemismo forse fuori luogo chiamiamo in via di sviluppo, e l’aumento dell’aspettativa di vita sono state indicate come le cause principali di questo disastro annunciato. La sfida che ci aspetta già nei prossimi anni è ardua e ci obbliga a mettere in atto tutte le strategie disponibili per arginare l’espansione di queste patologie strettamente legate all’invecchiamento della popolazione e alla filosofia del troppo facile. La partita potrebbe essere giocata con buoni risultati affidandosi alla prevenzione: il controllo del sovrappeso e l’abitudine all’esercizio fisico rappresentano strumenti formidabili che potrebbero abbattere significativamente lo sviluppo sia delle malattie cardiovascolari che del diabete. Considerato che la malattia coronaria è la prima causa di morte nel paziente con diabete tipo 2, è paradossale la constatazione che proprio tale tipo di paziente sia stato sistematicamente escluso dai grandi (per dimensione del campione) studi clinici di intervento. Sebbene questo paradosso avrà avuto le sue ragioni (mi domando quali) e sembra comunque essere in via di esaurimento, resta comunque il fatto che i pochi dati in nostro possesso sui pazienti diabetici costituiscono una fonte non primaria di informazioni. Questo perché l’analisi del sottogruppo «diabetici» è stata effettuata dopo la valutazione generale dello studio e quindi non rappresentava l’obiettivo primario dell’intervento. I due grandi studi che sfuggono a questa regola per aver valutato delle strategie terapeutiche solo in pazienti diabetici sono ormai famosi in ambito diabetologico. Tanto il DCCT che l’UKPDS hanno valutato l’effetto del controllo glicemico più o meno intensivo sulla progressione delle complicanze nel soggetto diabetico con risultati abbastanza sovrapponibili: il miglior controllo glicemico possibile ottenuto negli studi in oggetto è in grado di prevenire o arginare la progressione delle complicanze microvascolari, ma non influenza in modo significativo quelle macrovascolari. Fatto è che la patogenesi della macroangiopatia diabetica, e dell’aterosclerosi in genere, è multifattoriale e l’iperglicemia rappresenta uno dei fattori in gioco, forse neppure il più importante dal punto di vista quantitativo. Se i nostri margini di intervento sono limitati, a causa dell’inadeguatezza del
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trattamento antiperglicemico attuale, della scarsa incisività dei diabetologi, o perché i pazienti non aderiscono puntualmente al trattamento (ma potrebbero esserci altri motivi), allora è fondamentale focalizzare l’attenzione anche su altri obiettivi perseguibili che hanno mostrato nel recente passato di abbattere l’elevata mortalità cardiovascolare associata al diabete. Oggi sappiamo che il controllo della pressione arteriosa è in grado di ridurre il rischio cardiovascolare nel paziente diabetico. Cosa non da poco, visto che circa la metà dei pazienti con diabete 2 è ipertesa. Al di là delle sterili polemiche che hanno accompagnato il problema della scelta del farmaco anti-ipertensivo ideale nel soggetto diabetico, i risultati di alcuni studi d’intervento con un numero sufficientemente ampio di soggetti diabetici (SHEP, HOT, UKPDS, SYST-EUR, CAPPP) permettono di trarre alcune conclusioni di carattere generale. • Al pari del soggetto non diabetico, la riduzione della pressione arteriosa riduce il rischio cardiovascolare del paziente diabetico. • I livelli ottimali cui bisogna tendere sono un poco più bassi nel diabetico (130/70 mmHg) rispetto alla popolazione generale (140/80 mmHg). • La riduzione del rischio cardiovascolare dipende più dal valore di pressione arteriosa raggiunto in corso di trattamento che dal farmaco utilizzato. • È spesso necessario associare più farmaci (in media 2-3 farmaci) per raggiungere l’obiettivo. È difficile immaginare che queste conclusioni passano subire modifiche significative nel prossimo futuro; in tal senso, esse potrebbero rappresentare una base di partenza per quegli studi futuri di rifinimento della terapia anti-ipertensiva ideale nel paziente diabetico. Un altro entusiasmante aspetto che ha caratterizzato la storia recente dell’intervento farmacologico nel diabete riguarda i lipidi. I mass media scientifici hanno a ragione richiamato l’attenzione del mondo medico sull’abbattimento del rischio cardiovascolare associato alla riduzione dei livelli di colesterolo. Anche in questo caso, i vari studi di intervento effettuati con statine (4 S, CARE, LIPID) hanno fatto emergere il convincimento che nei pazienti con malattia coronarica nota la riduzione dei livelli di colesterolo LDL rappresenta una strategia efficace nel ridurre la mortalità cardiovascolare e quella totale (in media del 25-35%). Al pari di quanto già fatto per l’ipertensione, potrebbe essere utile tracciare dei punti di riferimento per la riduzione del rischio lipidico nella popolazione diabetica. • Le concentrazioni di colesterolo LDL nei soggetti diabetici con storia di eventi cardiovascolari debbono essere mantenute a livelli più bassi possibili, verosimilmente a 100 mg/dL. • La riduzione del livello di rischio cardiovascolare è strettamente legata alla riduzione dei livelli di colesterolo LDL e marginalmente al tipo di statina utilizzata. • Benché esistano dati epidemiologici che il soggetto diabetico potrebbe avvantaggiarsi dalla riduzione del colesterolo LDL più del soggetto non diabetico in prevenzione primaria, non esistono attualmente dati a favore di tale possibilità. • Il colesterolo LDL è uno dei fattori che connotano il rischio lipidico: interventi sul colesterolo HDL e sui trigliceridi appaiono altresì importanti nel soggetto diabetico. Qualcuno ha asserito che il controllo dei fattori di rischio (principalmente ipertensione arteriosa e dislipidemia) potrebbe abbattere la mortalità cardiovascolare in una quota forse superiore al 50% dei pazienti diabetici. Considerata l’attuale insoddisfacente capacità a controllare in modo rigido l’iperglicemia diabetica, questa stimolante prospettiva sembra particolarmente indicata per il paziente diabetico che ancora paga un pesante tributo alle malattie cardiovascolari. L’auspicio resta quello di sempre: controllo per quanto possibile della glicemia a digiuno e delle escursioni glicemiche giornaliere, e controllo stretto,
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certamente più aggressivo di quello che dedichiamo al soggetto non diabetico, per quei fattori di rischio identificabili e trattabili. Un tale pragmatismo appare giustificato dall’evidenza che l’intervento terapeutico sui fattori di rischio nel paziente diabetico riesce a sortire risultati più eclatanti rispetto al paziente non diabetico, probabilmente da ricondurre al più elevato rischio cardiovascolare di base che caratterizza il diabete. È tempo di curare il diabete.
BIBLIOGRAFIA Curb JD, et al: JAMA 276, 1886, 1996 Hansson L, et al: Lancet 351, 1755, 1998 UKPDS 38: Br Med J 317, 703, 1998 Tuomilehto J: NEJM 340, 677, 1999 Hansson L, et al: Lancet 353, 611, 1999 Pyorälä K, et al: Diabetes Care 20, 614, 1997 Goldberg RB, et al: Circulation 98, 2513, 1998 The Lipid Study Group: NEJM 339, 1349, 1998
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BUON CONTROLLO METABOLICO E DIABETE DI TIPO 1 Gianfranco Pagano Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Torino
Le ragioni per perseguire un buon controllo metabolico, soprattutto nel diabete di tipo 1, malattia che per lo più insorge in giovane età, sono molteplici e ormai chiaramente dimostrate. La prima è che la durata della malattia è molto lunga, per lo più di decenni e quindi la terapia deve mirare non solo a conseguire e mantenere un buon stato di salute, ma anche a prevenire le complicanze a lungo termine, tipiche del diabete non compensato. Il prof. Giuliano nella sua precedente relazione ha puntualizzato le conseguenze biochimiche della iperglicemia cronica e ha dato un razionale all’obiettivo di mantenere le glicemie nel diabetico il più vicino possibile a quelle del non diabetico. Io vi ricorderò qui in rapida successione gli studi controllati che di recente hanno permesso di dimostrare l’efficacia, e tutto sommato la buona accettabilità da parte dei pazienti, della terapia ottimizzata del diabete di tipo 1. Una serie di approcci di terapia ottimizzata nel diabete di tipo 1 con complicanze in atto era stato avviato in Europa e in USA negli anni ’70-80 con risultati per lo più incerti e talora contraddittori. Comunque lavori come il Kroc Study e lo Steno Study 1 e 2 rimangono dei riferimenti importanti per le successive ulteriori acquisizioni. In questi studi veniva per lo più riportato un peggioramento quando veniva iniziato il trattamento insulinico più stretto, cui però seguiva un miglioramento quando il trattamento ottimizzato veniva protratto per un anno e mezzo o due anni. Una accurata metanalisi di 16 studi randomizzati è stata pubblicata nel dicembre 1993 da Wang e coll. (1), dimostrando che: il rischio di progressione della retinopatia dopo 2-5 anni di terapia intensiva risultava significativamente ridotto (OR 0,49, p=0,011) così come quello della nefropatia (OR 0,34, p<0,001). In questi studi però l’ottimizzazione della terapia insulinica veniva ottenuto con infusione sottocutanea continua di insulina, con frequenti e gravi episodi ipoglicemici e talora episodi di chetoacidosi. Un deciso passo avanti nella dimostrazione che il compenso glicemico più stretto poteva sortire risultati positivi a distanza è stato fatto dallo studio di Stoccolma, pubblicato nel 1993 pochi mesi prima dello studio DCCT (2). Lo studio svedese valutava la progressione della retinopatia e della nefropatia in circa 100 diabetici di tipo 1 avviati per la metà a un trattamento convenzionale (1-2 somministrazioni di insulina al giorno e controlli ambulatoriali quadrimestrali) e per l’altra metà a trattamento intensivo (adeguata istruzione, 3 o più iniezioni sottocute di insulina al dì nell’82% dei casi, controllo assiduo in ambulatorio e frequenti contatti telefonici). Dopo 7,5 anni di studio l’analisi dei due gruppi permetteva di dimostrare un miglioramento del compenso glicemico nel gruppo a trattamento intensivo (emoglobina glicosilata 7,1±0,7% contro 8,5±0,7% a fine trattamento) e una meno grave evoluzione delle diverse complicanze: sviluppo di retinopatia grave, necessitante di fotocoagulazione, in 12 pazienti in trattamento intensivo rispetto a 27 nel trattamento standard; albuminuria sviluppata in un solo paziente del gruppo intensivo contro 9 del gruppo standard; minore evoluzione della neuropatia
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diabetica. Gli autori concludevano che il trattamento insulinico intensivo è in grado di ritardare lo sviluppo delle complicanze microvascolari nei diabetici di tipo 1. La dimostrazione più convincente dell’utilità del più stretto controllo glicemico è però stata data qualche mese dopo dalla pubblicazione dello studio DCCT, troppo noto per essere oggi riportato in dettaglio a dei diabetologi (3). La validità dello studio sta innanzi tutto nel disegno accurato, che ha previsto 4 gruppi di osservazione nel tempo: due a trattamento intensivo (rispettivamente senza segni di retinopatia o con iniziale retinopatia) e due a trattamento convenzionale (con o • personalizzazione del trattamento medico senza retinopatia). La numerosità della • frequenti controlli domiciliari della glicemia (possibilmente prima casistica è stata più che adeguata per di ogni somministrazione di insulina) dimostrare gli obiettivi (1.441 pazienti in • variazione della dose di insulina a seconda dei fabbisogni presunti totale) così come la durata dello studio (6,5 anni). Nella coorte di prevenzione del paziente (variazione del pasto, attività fisica extra, ecc.) primaria la terapia intensiva ha ridotto del • frequenti contatti del pazienti con il tema diabetologico 76% la comparsa di retinopatia rispetto • programma articolato di istruzione del paziente alla coorte a trattamento convenzionale, • periodici controlli della validità dei rilievi glicemici (dosaggio mentre nella coorte di prevenzione dell’HbA1c) secondaria la terapia intensiva ha ridotto la progressione della retinopatia del 54% (e del 47% lo sviluppo di grave retinopatia) rispetto alla coorte a trattamento Tabella I Componenti del convenzionale. Nelle due coorti combinate, la terapia intensiva ha ridotto del 39% la trattamento intensivo comparsa di microalbuminuria, del 54% di macroalbuminuria e del 60% la neuropatia clinica in paragone alla coorte a trattamento convenzionale. Il lavoro, e i molti interventi successivi, hanno enfatizzato che questi vantaggi sono stati TRATTAMENTO INTENSIVO DEL DIABETE pagati con una elevata frequenza di È un modo di trattamento dei diabetici che ha come obiettivo il episodi ipoglicemici gravi, da 2 a 3 volte raggiungimento e il mantenimento di una glicemia il più vicino più frequenti nella coorte a trattamento possibile a quella normale, impiegando tutti i mezzi disponibili per intensivo. Il questionario sulla qualità della ottenere questo risultato. vita, applicato nel corso dello studio, ha però smentito che questi rischio e gli CONTROLLO GLICEMICO VICINO A QUELLO NORMALE altri condizionamenti che il protocollo Glicemia giornaliera media 150 mg/dl, corrispondente a livelli di imponeva ai pazienti (rilievo glicemico emoglobina glicata 1% al di sopra del limite superiore di normalità prima di ogni iniezione di insulina e di quel laboratorio. durante la notte, frequenti visite ambulatoriali) abbiano peggiorato la qualità TEAM DIABETOLOGICO di vita dei pazienti in trattamento inGruppo di operatori sanitari che lavorano assieme al paziente per tensivo. raggiungere e mantenere il controllo glicemico vicino a quello normale. Comprende, oltre al paziente, il diabetologo, l’infermiere Dallo studio DCCT e dai suoi commenti specializzato, il dietista, un esperto di problemi psicologici e gli presentati in varie sedi, anche nazionali, specialisti di volta in volta richiesti dal singolo caso. sono emerse delle nuove linee guida che ricalcano quanto attuato dai ricercatori statunitensi, cercando di applicarlo alla Tabella II gestione quotidiana dei diabetici di tipo 1 (4). Possiamo brevemente riassumere nella tabella I queste componenti del trattamento intensivo che sono entrate nella pratica terapeutica del diabete insulino-dipendente. Gli ottimi risultati dimostrati dallo studio hanno permesso alle diverse Società scientifiche diabetologiche di proporre linee di comportamento per l’applicazione del trattamento intensivo del diabete di tipo 1. Se ne ricorda brevemente il razionale nella tabella II. I vantaggi che possono derivare al paziente dall’applicazione di un trattamento intensivo sono riassunti in tabella III.
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Sono stati anche evidenziati alcuni eventi avversi del trattamento intensivo, che si Tabella III possono ricondurre a una eccessiva insulinizzazione: rischio di più frequenti e più Vantaggi di un trattamento intensivo gravi episodi ipoglicemici, talora anche inavvertiti, e aumento del peso corporeo. In alcuni soggetti, emotivamente instabili, l’attenzione eccessiva al raggiungimento• sensazione fisica ed emotiva di sentirsi bene e in “buon controllo mantenimento degli obiettivi glicemici glicemico” può comportare uno stato di ansia, una • riduzione del rischio di sviluppo/progressione delle complicanze eccessiva preoccupazione per il proprio microvascolari stato fisico e il rischio di identificare ne• riduzione del rischio di morbilità e mortalità materna e fetale in gli eventuali fallimenti terapeutici il fagravidanza llimento della propria impostazione di • riduzione del rischio di malformazioni congenite fetali vita. Ne deriva che va sempre posta una • potenziale effetto di riduzione del rischio macroangiopatico particolare attenzione alla personalità del • accrescimento normale nell’infanzia soggetto diabetico prima di stabilire • sicurezza nell’affrontare i problemi del diabete e i cambi di stile di programmi terapeutici particolarmente vita impegnativi. Un supporto psicologico può essere utile in alcuni casi selezionati. Sono state riconosciute dall’American Diabetes Association alcune controidicazioni al trattamento insulinico intensivo, che vengono riassunte in tabella IV. La conclusione di questo breve intervento non può non prendere in considerazione due aspetti importanti del problema discusso: la globalità dell’approccio terapeutico e il ruolo delle strutture diabetologiche. Il primo punto è già implicito nel titolo della relazione: si parla dell’importanza del controllo metabolico e non soltanto di quello glicemico. Mentre il DCCT e altri studi hanno mirato l’attenzione sul problema glicemie e livelli di emoglobina glicata, si ricorda che a tempi lunghi sono importanti anche altre componenti del compenso, Tabella IV dai livelli di trigliceridi e di colesterolo nelle diverse frazioni, ai livelli di fibrinogeno Controindicazioni e altre componenti dell’emocoagulazione e alla pressione arteriosa. Quest’ultimo al trattamento dato, anche se ovviamente non riferibile direttamente al controllo metabolico, è insulinico intensivo di primaria importanza nella genesi e progressione delle complicanze sia • bassa aspettativa di vita retiniche, sia renali, sia macrovascolari e • disinteresse del paziente ad attuare un programma di terapia deve essere considerato con attenzione intensiva in tutti i diabetici a ogni incontro am• motivi sociali (incapacità di apprendere le tecniche di attuazione bulatoriale. indisponibilità ad attuare le tecniche previste - impossibilità a Infine, un recente Progetto per l’orseguire il programma degli incontri) ganizzazione dell’assistenza al diabete, • presenza di gravi complicanze microvascolari (cecità, preparato da sei Società scientifiche disautonomia grave, insufficienza renale cronica) congiunte [Società Italiana di Diabetologia • bambini (età prepubere) (SID), Associazione Medici Diabetologi • presenza di complicanze cardiovascolari o cerebrovascolari in (AMD), Società Italiana di Farmacologia fase attiva) (SIF), Società Italiana di Medicina • team diabetologico inesperto Generale (SIMG), Società Italiana di Medicina Interna (SIMI), Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG)], ha definito il ruolo integrato di 3 livelli di assistenza: i medici di medicina generale (1° livello), le unità operative di diabetologia e malattie metaboliche (2° livello) e le unità operative autonome di diabetologia e malattie metaboliche (3° livello). È solo dalla interazione delle tre componenti che potranno realizzarsi programmi di prevenzione, diagnosi precoce e terapia del diabete e delle sue complicanze, efficaci ed efficienti, organizzati su scala regionale seguendo linee guida comuni (5).
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BIBLIOGRAFIA 1. Wang PH, Lau J, Chalmers TC: Meta-analysis of effects of intensive blood-glucose control on late complications of type I diabetes. Lancet 341, 1306-1309, 1993 2. Reichard P, Nilsson B-Y, Rosenqvist U: The effect of long-term intensified insulin treatment on the development of microvascular complications of diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 304-309, 1993 3. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group: The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 977-986, 1993 4. Autori vari: Implications of the DCCT. Diabetes Reviews 2, 349-436, 1994 5. Progetto per l’organizzazione dell’assistenza al diabete dell’adulto. Ed. Health, Milano, 1998, p. 1-142
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ATTUALITÀ E PROSPETTIVE NEL DIABETE TIPO 1: PREVENZIONE PRIMARIA Paolo Pozzilli Università Tor Vergata, Libera Università Campus Bio-Medico, Roma
Il tema della prevenzione del diabete di tipo 1 è di grande attualità. L’argomento è estremamente affascinante e vi sono molti dati a disposizione che indicano che la strada intrapresa è promettente. In teoria vi sono tre approcci di prevenzione che includono la prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prima si definisce come rivolta ad identificare i soggetti a rischio per diabete di tipo 1 alla nascita ed entro i primi due anni di vita e a prevenire l’effetto diabetogeno dell’ambiente al fine di bloccare il processo che porterà alla distruzione delle β−cellule. Per prevenzione secondaria si intende invece l’identificazione di quei soggetti in cui il processo di malattia ha già avuto inizio, in altre parole soggetti con anticorpi anti-GAD, anti-tirosin-fosfatasi (anti-IA-2) e nei quali nel corso degli anni comparirà molto probabilmente una ridotta tolleranza al glucosio prima ed il diabte di tipo 1 poi. La prevenzione terziaria ha la finalità di ridurre lo sviluppo delle complicanze. In questa presentazione sottolineerò l’importanza della prevenzione primaria. Entriamo subito in argomento con l’esempio del Lazio che si può considerare una regione di media grandezza con 50 mila neonati l’anno. Grazie all’Eurodiab sappiamo che circa lo 0,3% di tale popolazione svilupperà il diabete di tipo 1. In realtà una percentuale più bassa, lo 0,1-0,2% sarà affetta dalla malattia entro l’età di 15 anni e la restante parte di tale percentuale entro i 30-40 anni di età. Sappiamo anche che il 10% dei soggetti con diabete di tipo 1 presenta una storia familiare di malattia, ma non mi soffermerò su questo gruppo in quanto tali soggetti sapendo di avere un familiare di primo grado con diabete di tipo 1 sono più facilmente identificabili; laddove dobbiamo concentrare la nostra attenzione è sul restante 90% della popolazione generale, senza storia familiare di diabete: la malattia quando compare lo fa in forma sporadica con grande sorpresa per tutti. La domanda che si pone è dunque come possono essere identificati tali soggetti. Grazie allo screening HLA è possibile valutare i soggetti portatori dell’HLA di rischo (sequenze aplotipiche HLA DQ 0602 e/o 0201) che nella popolazione generale rappresenta circa il 2,2%. Tuttavia in questa popolazione selezionata solo 1 caso su 15 svilupperà la malattia. Bisogna, però, tenere presente la restante parte della popolazione cioè il 97,8% che rappresenta il 55% dei casi futuri di diabete di tipo 1, una percentuale ancora molto alta, ma in termini assoluti significa che solo 1 su 455 tra quelli che non possiedono il genotipo a rischio HLA DQ 0302 e/o 0201 svilupperà la malattia. Cosa si concluderà dunque? Se vogliamo in qualche modo intervenire, dobbiamo prima identificare i soggetti con il genotipo a rischio per il diabete di tipo 1. A tale proposito il Ministero della Sanità ha finanziato a partire dal 1999 uno studio multicentrico, rivolto allo screening dei neonati portatori del marker genetico di rischio di malattia. Il programma verrà condotto su una popolazione di 10 mila neonati entro il primo anno di vita. Questo potrebbe essere veramente lo strumento fondamentale per
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poter iniziare un trial di prevenzione primaria del diabete di tipo 1 anche in Italia sulla scia di quanto in corso in Finlandia. I soggetti senza suscettibilità genetica potranno venire a contatto con i fattori ambientali, ma non svilupperanno la malattia; quelli invece con suscettibilità genetica, potranno andare incontro a diversi destini: diventare diabetici oppure continuare ad essere non diabetici nonostante il rischio genetico. In quest’ultimo caso, le possibilità sono due, o che il soggetto non sia entrato a contatto con i fattori ambientali oppure che, malgrado l’esposizione, abbiano operato meccanismi protettivi. Infatti, nonostante la formazione di autoanticorpi anti-β−cellule, alcuni soggetti rimangono per molti anni con una normale tolleranza al glucosio. Prevenzione primaria Avendo quindi a disposizione il marker Intervento alla nascita in soggetti normali, controllando l’effetto di genetico è possibile, attraverso lo possibili fattori eziologici: screening anticorpale, focalizzare meglio la – virus diabetogeni (enterovirus) popolazione da seguire nel tempo. – limitazioni/cambiamenti nella dieta (rimozione del latte vaccino In Italia la prevalenza del diabete di tipo 1 nel primo anno di vita e controllo della quantità consumata) è compresa tra lo 0,2 e lo 0,3%: impiegando uno screening della poPrevenzione secondaria Intervento durante la fase pre-diabetica in soggetti con marcatori polazione generale per due anticorpi (antipositivi di malattia immunologici/metabolici (anticorpi anti-GAD e IA-2 e anti-GAD) il rischio di malattia è anti-IA2) impiegando nicotinamide/insulina. del 40%. Con tre anticorpi, includendo quelli anti-insulari (ICA), la positività nella Prevenzione terziaria popolazione è dello 0,3%, una percentuale Intervento alla diagnosi della malattia per proteggere la massa e la sovrapponibile a quella della prevalenza funzione delle β-cellule residue. della malattia in Italia. La presenza di un solo anticorpo non è predittiva di diabete di tipo 1 in quanto è riscontrabile nel 7% Tabella I della popolazione. Quindi, la combinazione dei marker genetico e immunologico Prevenzione del (anticorpi anti-GAD e anti-IA-2) apre una nuova prospettiva all’inizio del millennio diabete di tipo 1: che è quella della predizione quindi della prevenzione primaria del diabete di tipo 1. definizione Una volta identificato un soggetto geneticamente a rischio di diabete di tipo 1 entro il primo anno di vita, poiché portatore dell’aplotipo HLA di suscettibilità, devono entrare in gioco uno o più fattori ambientali che mottono in moto il processo autoimmune che porta alla distruzione delle β-cellule, ipotesi questa che sembra assai verosimile nella patogenesi del diabete di tipo 1. Quali sono i fattori ambientali? Diversi virus sono stati implicati come fattori eziologici del diabete di tipo 1. Tra questi di particolare interesse risultano il virus della parotite, il citomegalovirus e gli enterovirus. Per quanto riguarda questi ultimi merita attenzione la famiglia dei Coxsackie B4 dato che è stata dimostrata un’omologia di sequenza tra la proteina P2-C del Coxsackie virus e la decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), noto antigene del diabete di tipo 1. Numerose ricerche epidemiologiche suggeriscono che l’introduzione precoce delle proteine contenute nel latte vaccino in un soggetto geneticamente suscettibile al diabete di tipo 1 possa dare inizio al processo autoimmune che porta alla distruzione delle β-cellule pancreatiche. L’ipotesi da cui si parte è molto semplice. Il neonato viene esposto al latte vaccino molto precocemente, quest’ultimo ha caratteristiche in grado di favorire l’induzione dell’autoimmunità. Dalle esperienze condotte in vitro si sa che quando si vogliono far crescere cloni di cellule nei confronti di un antigene, questi devono essere continuamente stimolati con lo stesso antigene. Quindi, se si induce la risposta immunitaria precocemente durante la vita e si continua a dare il latte nell’infanzia e nell’adolescenza è chiaro che si stimolano quei
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cloni cellulari rivolti verso antigeni del latte vaccino e che cross-reagiscono con antigeni presenti sulle β-cellule mantenendo la risposta immunitaria specifica. Sono ben note le differenze del latte vaccino rispetto al latte umano. Mediante elettroforesi su SDS, si può notare come fondamentale la β-caseina, la βlattoglobulina del latte vaccino (non presente nel latte umano) abbiano caratteristiche profondamente differenti. Ne consegue che se si induce una risposta immunitaria nei confronti della βlattoglobulina o della β-caseina, molti dei cloni linfocitari generatisi, possano crossreagire con antigeni espressi dalla β-cellula. Fra questi, basti pensare al trasportatore del glucosio, il GLUT-3, che presenta un’omologia di 5 aminoacidi con la β-caseina o alla proteina ABBOS (dell’albumina bovina) con omologia di sequenza con un antigene espresso sulla β-cellula. Il nostro gruppo pubblicò su Lancet nel 1996 che la β-caseina del latte vaccino viene riconosciuta come antigene dai linfociti dei diabetici di tipo 1. Più di recente è stato dimostrato come la risposta alla β-caseina è elevata anche nei parenti di primo grado dei diabetici insulino-dipedenti. Ciò è estremamente interessante, in quanto suggerisce che quando si ha la suscettibilità genetica a tale malattia si risponde nei confronti di queste proteine in maniera abnorme, tanto è vero che ciò non si verifica nei soggetti di controllo non suscettibili al diabete di tipo 1. A questo punto vorrei sottolineare e discutere quali sono gli argomenti a favore e contrari all’ipotesi «latte vaccino». I primi, ben noti dai dati che emergono Proteine virali Antigeni β-cellulari dalla letteratura, dimostrano che c’è un aumento del rischio di diabete tipo 1 nei Derivato dal Proteina di 38 KDa, citomegalovirus non caratterizzato soggetti che non sono stati allattati al seno biochimicamente soprattutto quando il latte vaccino viene introdotto entro i primi tre mesi di vita. Proteina del capside Proteina di 52 KDa, del virus della non caratterizzato Altri dati importanti riguardano i livelli rosolia biochimicamente elevati di anticorpi e, soprattutto da un punto di vista patogenetico, il fatto che Aminoacidi 32-47 Aminoacidi 254-270 della proteina P2-C del GAD65 alcune proteine del latte hanno omologia del Coxsackie B virus di sequenza con alcuni antigeni presenti nelle β-cellule. Proteina p73 Insulina retrovirale Per quanto riguarda gli argomenti contrari, alcuni studi epidemiologici non mostrano che tale rischio sia aumentato; in termini numerici su 46 studi condotti finora, 38 sono a favore e 8 contro. La mia posizione è certamente in parte influenzata dal fatto che lavoro su quest’argomento e che il latte vaccino sia uno dei fattori ambientali coinvolti nella patogenesi della malattia. Quest’ultimo, può non essere il più importante o il più antigenico, ma certamente è quello con cui più frequentemente si viene a contatto. Tant’è vero che se valutiamo il consumo di latte vaccino in Italia e l’incidenza di diabete di tipo 1 (dati publicati su Diabetes Care nel 1993) la regione dove si consuma più latte è la Sardegna (consumo medio di 90 litri di latte/persona/anno) con la più alta incidenza di malattia, mentre dove se ne consuma di meno è la Campania (consumo medio 40 litri di latte persona/anno) con la più bassa incidenza di diabete di tipo 1 sul territorio nazionale. Cosa possiamo fare, sul piano pratico, per quanto riguarda la prevenzione primaria? Un primo studio di prevenzione primaria? Un primo studio di prevenzione primaria è iniziato in Finlandia lo scorso anno e si basa sulla rimozione di alcune proteine del latte vaccino; ovviamente ci vorranno 10 anni per capire se l’incidenza di diabete di tipo 1 sia ridotta grazie a questo tipo di intervento fatto alla nascita. I criteri per essere
Tabella II Omologia molecolare tra proteine virali e autoantigeni β-cellulari
Evidenze Cross-reazione immunologica Cross-reazione immunologica Grado di identità 47% Grado di similitudine 71% Cross-reazione immunologica
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introdotti nello studio sono quelli di avere un parente diabetico di tipo 1. Si tratta di uno studio prospettivo randomizzato in doppio cieco, dove i neonati che non sono allattati, vengono randomizzati a due diversi tipi di latte formula, un idrolisato di proteine e un latte formula comune. È bene chiarire questo concetto, due sono le forme di idrolisi che vengono eseguite sul latte formula: un tipo che contiene proteine ad alto peso molecolare da 8 a 40 Kd che rimangono antigeniche; un altro tipo contenente proteine al di sotto di 8 Kd che ha un sapore estremamente spiacevole e rappresenta uno dei problemi pratici nel somministrare questo tipo di alimento a neonati. Già 5 anni fa quando ancora molti degli studi riguardo all’antigenicità di alcune 1. Diversità strutturale con la β-caseina umana; proteine del latte non erano stati 2. La β-caseina bovina è probabilmente la frazione del latte vaccino presentati, l’American Academy of che promuove il diabete di tipo 1 nel topo NOD, noto modello Pediatrics, suggeriva l’eliminazione di animale di malattia; prodotti di latte commerciale e di prodotti 3. Una risposta immunitaria specifica, sia cellulare che umorale nei che contenevano latte vaccino durante il confronti della β-caseina bovina è dimostrabile nel 50% dei primo anno di vita in famiglie con una forte pazienti con diabete di tipo 1 al momento della diagnosi; storia di diabete di tipo 1. La posizione da 4. Una reattività T-cellulare nei confronti della β-caseina bovina è me presa concorda con quella della riscontrabile nei parenti di primo grado di soggetti con diabete di Comunità Europea. Dopo un convegno a tipo 1; Barcellona dello scorso settembre, è 5. Omologia di sequenza tra la β-caseina bovina e il trasportatore emerso che la formula ordinaria del latte del glucosio (GLUT-2) non è raccomandabile per i neonati nati da mamme con storia familiare per il diabete di tipo 1. Tabella III Ecco perché il tipo di alimentazione deve essere valutato seriamente in un soggetto a β-caseina e rischio di malattia. latte vaccino Il valore nutrizionale degli idrolisati confrontato con il latte formula, necessita ovviamente di ulteriori studi: gli idrolisati infatti non hanno un alto potere nutrizionale e inoltre il sapore non è gradevole. L’alternativa è quella del latte di soia, ma questo pone dei problemi soprattutto se dato a bambini di sesso maschile a causa dell’alto contenuto di fitoestrogeni. Per di più gli studi condotti hanno messo in evidenza come una serie di fattori quali la maturazione dell’epitelio intestinale e dell’intestino dipenda fondamentalmente dall’uso di proteine ad alto peso molecolare che possono essere antigeniche. Quindi bisognerà cercare di identificare un modo per eliminare alcune delle proteine potenzialmente diabetogene. In conclusione, quali sono le possibilità che abbiamo oggi per prevenire il diabete di tipo 1? Il latte con caratteristiche non diabetologiche, o deprivato di alcune componenti diabetogeniche certamente può essere una possibilità di grande interesse. Con questo non voglio dire che bisogna privarsi di un tale alimento, ma certamente il dato emergente è che anche la quantità di latte consumata possa essere un fattore promuovente laddove sia già stato innescato il meccanismo autoimmune. Dunque, se identifichiamo il soggetto a rischio di diabete di tipo 1 attraverso il marker genetico, è probabile in futuro riuscire a bloccare questo processo di malattia e credo che la ricerca ormai estremamente avanzata sia in Europa che negli Stati Uniti miri a questo e possa fornirci a breve termine delle risposte precise.
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IL TRAPIANTO DI PANCREAS E DI ISOLE DEL LANGERHANS NEL PAZIENTE DIABETICO Rossana Caldara, Antonio Secchi Istituto Scientifico San Raffaele - Università degli Studi di Milano
Introduzione Il trapianto di tessuto pancreatico rappresenta una modalità ottimale di trattamento del diabete mellito insulino-dipendente permettendo di ripristinare un sistema autoregolato di secrezione insulinica in funzione delle concentrazioni ematiche di glucosio. I primi tentativi di sostituzione della secrezione endocrina pancreatica risalgono al 1892 ad opera di Minkowski (1) che innestò frammenti di tessuto pancreatico nel sottocute di cani resi diabetici prevenendo la comparsa della glicosuria. Nell’uomo il primo tentativo descritto è quello effettuato da Williams (2) che trapiantò tessuto pancreatico ovino in un soggetto diabetico chetoacidosico. Questo primo approccio risultò essere fallimentare ma rappresentò il primo passo che poi permise a Lillehei (3), nel 1966, di eseguire il primo trapianto combinato di rene e pancreas in un paziente diabetico-uremico in cui venne così ristabilita l’insulino-indipendenza. Un’altra opzione terapeutica che nel corso degli ultimi anni è stata sperimentata è il trapianto di insule del Langerhans; i risultati ottenuti sino ad ora sono incoraggianti anche se non ancora paragonabili con quanto già accertato per il trapianto di pancreas in toto (4).
Indicazioni L’affinamento delle tecniche chirurgiche e dei protocolli immunosoppressivi ha determinato un aumento progressivo, nel tempo, del numero di trapianti eseguiti e attualmente si possono identificare tre diverse popolazioni di pazienti che possono giovare di tale approccio terapeutico: pazienti diabetici uremici candidabili al trapianto simultaneo di rene e pancreas, pazienti diabetici uremici già sottoposti al solo trapianto di rene e pazienti diabetici, non uremici, che possono beneficiare del solo trapianto di pancreas. Per quanto concerne quest’ultima popolazione di pazienti è ancora oggi in discussione se i benefici ottenuti dall’esecuzione del trapianto siano sufficienti a giustificare i rischi secondari all’intervento chirurgico e alla terapia immunosoppressiva. La risposta a tale quesito è difficile, ma non dobbiamo dimenticare che in alcune situazioni la «malattia diabetica» di per sé è già una condizione che pone la persona «a rischio» come nel caso delle ipoglicemie asintomatiche o in quelle condizioni di «non accettazione» della malattia dove il rifiuto della terapia insulinica può essere considerato come una lenta forma di suicidio. I pazienti che attualmente vengono considerati idonei all’inserimento in lista di trapianto sono soggetti affetti da diabete mellito insulino-dipendente di età compresa tra i 18 e i 60 anni. L’idoneità a tale procedura terapeutica viene confermata sulla base di accertamenti clinici e strumentali (bilancio pre-trapianto)
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svolti a definire le condizioni cardiovascolari del soggetto e il grado raggiunto dalle complicanze secondarie alla malattia diabetica. I criteri di esclusione sono rappresentati da una condizione di grave cardiomiopatia dilatativa, di grave cardiopatia ischemica e vasculopatia cerebrale con pregressi accidenti neurologici. La sopravvivenza dei pazienti delle 3 popolazioni citate è sovrapponibile a 5 anni dal trapianto mentre, per quanto riguarda la sopravvivenza dei pancreas, si osserva una percentuale più elevata in caso di trapianto simultaneo con il rene rispetto al trapianto dissincrono (dopo rene) o trapianto isolato (5). Per quanto concerne il trapianto di insule del Langerhans i criteri di selezione dei riceventi sono sostanzialmente sovrapponibili a quanto esposto per il trapianto di pancreas in toto.
Tecniche chirurgiche Il problema più importante dal punto di vista chirurgico per quanto concerne il trapianto di pancreas è la diversione delle secrezioni esocrine. Tre sono le tecniche attualmente più utilizzate: la diversione vescicale, la diversione enterica e l’occlusione dei dotti. Nel primo caso il pancreas viene prelevato unitamente a un patch duodenale appartenente allo stesso donatore (6). Tramite tale patch è possibile eseguire una anastomosi tra duodeno del donatore e vescica del ricevente permettendo l’eliminazione dei succhi pancreatici in vescica. Tale tecnica presenta un vantaggio che è quello di poter monitorare la funzione pancreatica, ed eventualmente porre diagnosi di rigetto, mediante dosaggio delle amilasi urinarie. Le complicanze della diversione vescicale sono quelle relative alla perdita dei bicarbonati pancreatici con le urine e l’insorgenza di cistiti chimiche determinate dall’attivazione degli enzimi pancreatici in vescica. La perdita dei bicarbonati in vescica viene tamponata mediante l’avvio di una terapia supplementare di bicarbonato di sodio per via orale allo scopo di prevenire l’insorgenza di un quadro di acidosi. Per quanto concerne le cistiti chimiche, quando queste si ripetono nel tempo comportando macroematuria, inducono a porre l’indicazione di modificazione chirurgica della diversione passando dalla derivazione vescicale alla enterica. La diversione enterica prevede il confezionamento di una anastomosi tra un’ansa intestinale e un patch di duodeno prelevato insieme al pancreas (7). Tale tecnica è spesso gravata da complicanze relative alla anastomosi enterica pur permettendo di conseguire una condizione più simile a quella fisiologica di secrezione pancreatica nel lume intestinale. Tra le complicanze citiamo episodi di subocclusione o di occlusione intestinale e il sanguinamento dalla sede di anastomosi. L’occlusione dei dotti, mediante l’iniezione intracanalicolare di polimeri sintetici (neoprene, prolamina, poli-isoprene) (8) consente di ottenere una fibrosi della componente esocrina pancreatica con preservazione delle isole del Langerhans. Tale tecnica, oggi non più molto utilizzata, risulta essere metodologicamente più semplice delle precedenti non prevedendo anastomosi vescicali o enteriche, ma è penalizzata da un’alta incidenza di fistole pancreatiche. Inoltre la preparazione dell’organo prevede l’eliminazione della testa del pancreas con la preservenzione del solo corpo e coda con conseguente riduzione del numero di isole trapiantate. Nel caso di trapianto simultaneo di rene e pancreas, il rene viene anastomizzato ai vasi iliaci controlateralmente al pancreas. Un discorso a parte merita il trapianto di isole del Langerhans che prevede una fase iniziale, eseguita in laboratorio, di separazione della maggior parte delle isole dalla componente esocrina del pancreas rispettandone l’integrità anatomica e funzionale. Il metodo di separazione prevede l’uso di un enzima litico per il connettivo
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perinsulare, la collagenasi, abbinato a una blanda dissociazione meccanica (9). Una volta ottenuto un preparato di isole soddisfacente (per numero e caratteristiche morfofunzionali), questi viene iniettato, dopo cateterizzazione di un vaso di pertinenza del circolo portale, nel fegato. I vantaggi relativi a tale tecnica sono quelli relativi a una bassissima incidenza di complicanze indotte dalla manovra di cateterizzazione di vasi soprattutto se confrontata con l’incidenza delle complicanze chirurgiche del trapianto di pancreas in toto. Un aspetto peculiare del trapianto di insule è che, in alcuni casi, per ottenere un preparato adeguato è necessario processare più pancreas provenienti da donatori diversi. Il trapianto di insule del Langerhans viene attualmente effettuato nel paziente diabetico uremico o contemporaneamente al trapianto di rene o successivamente a quest’ultimo.
Immunosoppressione Figura 1 Prima di prendere in considerazione i risultati ottenuti nei soggetti sottoposti a Sopravvivenza dei trapianto di pancreas accenniamo brevemente alla terapia immunosoppressiva. pazienti diabetici In letteratura sono citati protocolli immunosoppressivi diversi nei diversi Centri che uremici in attesa di trapianto di rene e si occupano di trapianto anche se i farmaci cardine, per un lungo periodo di tempo, pancreas o già sono stati il siero antilinfocitario, gli steroidi, l’azatioprina e la ciclosporina. Da pochi sottoposti a trapianto anni sono disponibili anche altri preparati, tra cui citiamo il micomofetilfenolato e il (KPW: trapianto di tacrolimus, che permetterebbero di ridurre sensibilmente l’incidenza del rigetto a rene e pancreas in toto; KPS: trapianto fronte di minori effetti collaterali. di rene e pancreas Nel caso di trapianto di insule del Langerhans viene applicato lo stesso protocollo segmentario con immunosoppressivo del trapianto di pancreas in toto. ostruzione dei dotti; Per quanto concerne la terapia immunosoppressiva rimangono insoluti due K: trapianto di solo rene; WL: lista problemi fondamentali quali il rischio di infezioni, sia batteriche che virali (per d’attesa) esempio il citomegalovirus) e il rischio di neoplasie. Al momento del trapianto il paziente viene avviato a terapia profilattica con Istituto San Raffaele - Università degli Studi di Milano preparati quali il sulfametossazoloPazienti trimetoprim (profilassi contro il P. carinii), % la nistatina (profilassi contro la candida 100 orale) e il ganciclovir (profilassi contro il 90 citomegalovirus). Il paziente esegue poi, 74,6% 80 dopo il trapianto, accertamenti routinari 70 volti a diagnosticare e quindi trattare 60 68,1% precocemente eventuali infezioni (per 50 esempio urinocolture, sierologia per 63,5% KPW (82) Epstein Barr virus o Herpes virus, 40 KPS (25) antigenemia del citomegalovirus). 30 37,4% K (34) Nei soggetti sottoposti a terapia 20 WL (334) immunosoppressiva è globalmente 10 aumentato il rischio di sviluppare 0 neoplasia. London (10) riferisce un Anni 1 2 3 4 5 6 7 8 aumento del rischio di sviluppare un tumore del 14% rispetto alla popolazione generale dopo 10 anni di trapianto. Tale percentuale giunge al 40% dopo 20 anni. Le forme neoplastiche più frequenti in questi pazienti sono i linfomi e le sindromi linfoproliferative, i carcinomi cutanei, il sarcoma di Kaposi, neoplasie epatobiliari e i carcinomi vulvari.
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Risultati Dal 1985 sono stati eseguiti, presso l’Istituto scientifico san Raffaele 124, trapianti di rene e pancreas e 3 trapianti di pancreas successivi a trapianto di rene. Sono stati inoltre effettuati 31 trapianti di isole del Langerhans.
Figura 2 Peggioramento degli indici relativi alla velocità di conduzione nervosa sensitiva e motoria (NCV Index) nei pazienti (24) sottoposti a trapianto simultaneo di rene e pancreas dopo perdita della funzione del pancreas trapiantato. Vengono riportati anche i valori relativi all’emoglobina glicata (HbA1c).
RISULTATI CLINICI Se consideriamo la popolazione dei pazienti diabetici uremici, inseriti in lista d’attesa di trapianto di rene o di rene e pancreas, osserviamo che coloro che rimangono in dialisi, per difficoltà a reperire donatori compatibili o per ragioni immunologiche, presentano una sopravvivenza inferiore rispetto a chi viene trapiantato (fig. 1). La sopravvivenza è inoltre maggiore in chi riceve il doppio trapianto rispetto a chi riceve il solo rene. Queste osservazioni hanno permesso di affermare che oggi il trapianto simultaneo di rene e pancreas rappresenta una procedura salvavita nel paziente diabetico-uremico (11). La sopravvivenza dei reni è sostanzialmente simile sia in caso di trapianto simultaneo di rene e pancreas che di trapianto di solo rene. La sopravvivenza dei pancreas con derivazione vescicale, che è la tecnica in cui abbiamo maggior esperienza, è soddisfacente (80% a quattro anni e 68% a 7 anni) e ciò ci permette di confermare di essere di fronte a una tecnica non solo efficace ma duratura nel tempo (11).
NCV INDEX
IMMUNOSOPPRESSIONE Il nostro gruppo ha eseguito studi per valutare l’impatto della terapia immunosoppressiva sui risultati clinici relativi al trapianto di rene o di rene e pancreas. Il primo lavoro che citiamo è quello relativo all’incidenza delle neoplasie nei riceventi di doppio trapianto di rene e pancreas che risulta essere sovrapponibile a quanto descritto in letteratura (neoplasie de novo 12%) (11). Un altro aspetto che abbiamo approfondito è quello relativo alla selezione di componenti monoclonali che inizialmente si pensava rappresentasse una condizione pre-neoplastica (mieloma, linfoma). In realtà si osserva che tale Istituto San Raffaele-Università degli Studi di Milano selezione si determina, nella maggior Trapianto di Pancreas effetti sulle complicazioni a lungo termine parte dei casi, entro il primo anno POLINEUROPATIA dall’intervento e che tende ad autop=0,04 limitarsi nel tempo con una completa 4 remissione. Probabilmente tale fenomeno è più da ascriversi a una «efficacia» della 3 terapia immunosoppressiva più che all’instaurarsi di una pre-cancerosi (12). 2 1 0 HbA1C%
RISULTATI METABOLICI Il trapianto di pancreas permette di ottenere un adeguato compenso glicometabolico in condizioni di insulinoAnni 0 1 2 indipendenza. I valori di emoglobina glicosilata sono sostanzialmente nella 6,8±0,3 7,3±0,4 7,9±0,4 norma e i profili glicemici circadiani dimostrano valori di circa 160 mg/dL postprandiali con un conseguente recupero «over night» tale che a digiuno i valori si aggirano intorno a 100 mg/dL. I livelli di insulina sono più elevati rispetto a quanto si osserva in fisiologia ma comunque autoregolati sui livelli glicemici (4).
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NEUROPATIA Gli studi che abbiamo effettuato per quanto concerne la velocità di conduzione motoria ci hanno permesso di osservare un miglioramento di tale parametro dopo trapianto di rene che diviene ancora più evidente dopo trapianto simultaneo di rene e pancreas. Tale risultato viene ottenuto grazie alla correzione dell’uremia unitamente al conseguimento di un normale compenso glicometabolico. Il ruolo del trapianto di pancreas è inoltre confermato dall’osservazione che nei soggetti che perdono nel tempo la funzione del pancreas trapiantato, quella quota di miglioramento della velocità di conduzione motoria, che era stato raggiunto grazie all’euglicemia, viene persa nei due anni successivi (13, 14) (fig. 2). NEFROPATIA Gli studi a cui si fa riferimento, per quanto riguarda il ruolo del trapianto di pancreas nel prevenire l’evoluzione della nefropatia diabetica, sono quelli della Dott.ssa Fioretto. Tali studi, eseguiti a Minneapolis nei riceventi diabetici di trapianto di pancreas isolato, hanno concluso che è necessario un lungo periodo di «normoglicemia», 10 anni, prima di poter osservare una regressione delle lesioni glomerulari secondarie al diabete (15). IPERTENSIONE Se confrontiamo pazienti diabetici trapiantati di solo rene con trapiantati di rene e pancreas, tutti ipertesi prima del trapianto, si osserva che a un anno dal trapianto l’85% di chi riceve il solo rene rimane iperteso contro il 44% di chi riceve il doppio trapianto (11) (tab. I). RETINOPATIA Il grado di avanzamento della retinopatia, al momento del trapianto di rene e pancreas, è tale che il conseguimento dell’euglicemia non permette di migliorare danni ormai irreversibili (16) (tab. II).
Tabella I Riduzione dell’incidenza dell’ipertensione nei pazienti diabetici sottoposti a trapianto di rene e pancreas o solo rene. Vengono riportati anche i valori relativi all’emoglobina glicata (HbA1c) e all’insulinemia (IRI) dei due gruppi di pazienti
Istituto San Raffaele - Università degli Studi di Milano TRAPIANTO DI PANCREAS Effetti sulle complicazioni a lungo termine IPERTENSIONE Pre trapianto
TRAPIANTO DI INSULE DEL LANGERHANS Rene 100% 85%* Mentre nel caso del trapianto di pancreas è possibile raggiungere l’insulino-indipendenza immediatamente dopo l’inRene e pancreas 100% 49% tervento chirurgico, questo non è altrettanto vero per il trapianto di insule. Una *p 0,007 vs KP volta iniettate nel fegato, le insule necessitano di un periodo di tempo in cui si viene a ricreare una sorta di microambiente ideale che favorisce la secrezione insulinica (per es. ricostituzione di una adeguata microcircolazione e innervazione). Quando questi processi, non ancora tutti completamente noti, sono avvenuti, il paziente presenta una graduale riduzione del fabbisogno insulinico fino al raggiungimento, almeno in alcuni pazienti, dell’insulino-dipendenza. Un caso che è stato seguito presso il nostro Centro è stato quello di una donna diabetica, già portatrice di trapianto di rene, in cui l’insulino-indipendenza è stata raggiunta dopo 6 mesi dal trapianto e mantenuta per oltre 4 anni sino al decesso della paziente per infarto miocardico. Il riscontro autoptico ha permesso di identificare la presenza delle insule del Langerhans a livello epatico, libere da infiltrati linfomonocitari e con una normale distribuzione di
1 anno IRI 26,0 uU/ml HbA1c 7,4% IRI 15,5 uU/ml HbA1c 5,7%
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Istituto San Raffaele - Università degli Studi di Milano TRAPIANTO DI PANCREAS Effetti sulle complicazioni a lungo termine RETINOPATIA KPTX
KTX
54
31
Fluorangiografia invariati migliorati peggiorati
51 (94%) 2 (4%) 1 (2%)
29 (94%) 2 (6%) –
Acuità visiva invariati
54 (100%)
31 (100%)
Occhi studiati
Tabella II Andamento della retinopatia diabetica nei pazienti diabetici sottoposti a trapianto di rene e pancreas (KPTX) o solo rene (KTX)
cellule β. Alcuni pazienti, pur non arrivando alla insulino-indipendenza, raggiungono un compenso glicometabolico ottimale con la somministrazione di poche unità di insulina ai pasti principali mentre, in altri, non si dimostra alcun risultato. Restano aperti ancora molti quesiti sui meccanismi che guidano l’impianto delle isole e sui fattori che possono interferire in tale processo (tossicità del glucosio, ruolo dei radicali liberi, la sede stessa dell’impianto) che rendono questa procedura ancora una pratica di tipo sperimentale (4).
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LA MODERNA TERAPIA INSULINICA DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 1 Geremia B. Bolli Dipartimento di Medicina Interna e Scienze Endocrine e Metaboliche, Università di Perugia
Introduzione
mg/dl
mmol/l
Lo scopo moderno della terapia insulinica nel diabete mellito di tipo 1 è sia quello di prevenire la catastrofe metabolica della deficienza insulinica (chetoacidosi), che di prevenire le complicanze micro- e macro-angiopatiche a lungo termine (1). Il primo obiettivo è facile da raggiungere con un rimpiazzo dell’insulina che prescinde dalle sue modalità di somministrazione (orario, numero di iniezioni al giorno, ecc.). È ciò che avvenne all’indomani della commercializzazione dell’insulina da parte del gruppo di Toronto nel 1922, quando un’iniezione di insulina regolare Figura 1 una o due volte al dì, portò rapidamente a una notevole diminuzione della Omeostasi glicemica chetoacidosi. Questo approccio rimane ancora oggi usuale in endocrinologia per il in soggetti normali rimpiazzo di alcune deficienze ormonali, basti pensare alle attuali modalità di (dalla voce sostituzione dell’ormone tiroideo e del cortisolo. bibliografica 2) Il secondo obiettivo è più ambizioso, e richiede la cultura della fisiologia B L D dell’omeostasi glicemica, della far9.0 160 macocinetica delle varie preparazioni di insulina (compresi i suoi analoghi) e, 140 8.0 Plasma soprattutto, tenacia nell’insegnare al Glucose paziente le modalità della terapia 120 7.0 intensiva con la speranza di suscitare in lui o in lei l’interesse, la determinazione e 100 6.0 la perseveranza a mantenere la quasinormoglicemia a lungo termine. 80
5.0 Mean ±2 SD
N=8 non-diabetics
480
Nei soggetti normali la glicemia delle 24 ore oscilla entro un banda molto stretta a prescindere dallo stato prandiale o di digiuno (fig. 1). Ciò avviene grazie alla squisita sensibilità della cellula beta delle insulae pancreatiche a rispondere prontamente con un picco di secrezione di insulina in risposta a un modesto incremento della glicemia (che previene
320
80 70
pmol/l
400
Plasma Insulin
60 50
240
40
160
30 20
80
10
0
0 07:00
12:00
18:00
Time of Day
24:00
06:00 h
mU/l
Fisiologia dell’omeostasi glicemica
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un incremento post-prandiale eccessivo della glicemia), ma grazie anche alla capacità della beta-cellula di ridurre prontamente la secrezione insulinica per un’iniziale, modesta diminuzione della glicemia (che previene l’ipoglicemia).
Farmacocinetica insulinica nel diabete mellito di tipo 1
80
Plasma Free Insulin (µU/ml)
40
0
La scommessa della moderna terapia insulinica del diabete mellito di tipo 1, è quella di mimare la fisiologia della cinetica insulinica e della glicemia dei soggetti normali di figura 1. Questo scopo è stato perseguito fino a pochi mesi fa con l’uso di insulina umana regolare iniettata sottocute (s.c.) prima di ognuno dei tre pasti principali, e di insulina ritardo (Neutral Protamine Hagedorn, NPH) alle ore 23-24 (fig. 2). Questo modello, che ha una valenza universale, necessita tuttavia di una variante nei Paesi mediterranei come il nostro, nei quali l’intervallo fra pranzo e cena è superiore a 5 ore, e cioè l’aggiunta di una piccola dose di NPH alla dose di insulina regolare del R R R R pranzo (1/3 della dose totale). In media, con questo modello di terapia, un Lunch Dinner Breakfast paziente adulto con diabete di tipo 1 che pesi 65-70 kg, usa 0,10 U/kg di insulina regolare alla prima colazione, 0,15 U/kg a pranzo e cena, e 0,2 U/kg di NPH alle ore 23-24. Nel caso la glicemia prima di cena risalga oltre 170-200 mg/dL nonostante un valore <150 mg/dL alle ore 16, allora la dose prandiale diventa di 0,10-0,12 U/kg di regolare e 0,05-0,07 U/kg di NPH. 0700 1300 1830 2300 0700 h R
80
R+NPH
R
NPH
L’analogo dell’insulina ad azione rapida lispro
40
0 0700
Figura 2 Modello di terapia insulinica con insulina umana regolare ad ogni pasto e NPH alle ore 23/24 (pannello superiore). In molti pazienti è necessaria l’aggiunta di una dose di NPH anche a pranzo (1/3 della dose prandiale totale)
La necessità di introdurre una preparazione di insulina ad assorbimento rapido deriva dal fatto che, pur essendo l’insulina regolare uguale nella sua struttura primaria e secondaria a quella umana (in parole profane pur essendo 1330 2030 2400 0700 h l’insulina “giusta”), essa viene iniettata nel posto sbagliato, il tessuto sottocutaneo. In Time of Day questa sede gli esameri dell’insulina umana si devono scindere lentamente prima in dimeri e poi in monomeri, perché solo questi ultimi passano la parete capillare ed entrano nel circolo sistemico. Non potendo, almeno oggi, cambiare la via di somministrazione di insulina, cioè la sede s.c., si è quindi cambiata la molecola di insulina, conservandone intatte tutte le proprietà di interazione con il recettore, ma modificando la parte della molecola che regola le forze di aggrezione fra molecole. L’insulina lispro è l’insulina umana con un’inversione della sequenza naturale prolina-lisina nella posizione 28-29 della catena B. L’elegante idea è venuta a Richard Di Marchi (3) che aveva osservato che l’IGF-I, normalmente in forma monomerica, ha una sequenza lisina-prolina nella posizione 28-29 della catena B. Copiando l’esempio naturale dell’IGF-I, Di Marchi è riuscito a donare alla molecola dell’insulina umana la capacità di indebolire le forze di aggregazione fra molecole
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invertendo con la tecnica del DNA ricombinante la sequenza prolina-lisina nella posizione 28-29 della catena B. L’insulina lispro che ne è derivata, pur presente in forma esamerica nelle fiale per iniezione, al diminuire della concentrazione di molte volte nel tessuto s.c. dopo iniezione, si scinde in pochi minuti in forma dimerica e monomerica, dando luogo a un’assorbimento molto più rapido dell’insulina umana regolare. L’insulina lispro ha la stessa affinità dell’insulina umana regolare per il recettori dell’insulina e dell’IGF-I, non è carcinogenetica, non ha attività mitotica né mutagena, infine nell’uomo non è più antigenica rispetto all’insulina umana regolare (4).
Il progresso del controllo prandiale con l’analogo rapido di insulina
mg/dl
mmol/l
MEAL
Si può oramai affermare con sicurezza che l’introduzione dell’analogo rapido di insulina lispro ha rappresentato una tappa storica nel progresso della terapia Figura 3 insulinica. Le stesse considerazioni che verranno di seguito fatte per il lispro sono Controllo glicemico valide anche per altri “analoghi”dell’insulina in fase di prossima commercializzazione post-prandiale in (aspart, Novo Nordisk) o di avanzata sperimentazione (Hoechst Marion Roussel, pazienti con diabete HMR). Infatti, i dati di farmacocinetica e farmacodinamica dell’aspart e degli analoghi mellito di tipo 1 HMR ricalcano sostanzialmente i risultati già ottenuti con il lispro. dopo iniezione s.c. 0,15 U/kg di insulina L’iniezione s.c. di dosi equimolecolari di lispro migliora il controllo glicemico postumana regolare e prandiale rispetto all’insulina umana regolare nonostante quest’ultima sia lispro, da soli o in correttamente iniettata 30 minuti prima del pasto (fig. 3). Tuttavia, questo risultato combinazione con positivo è effimero, dura solo 3 ore circa, dopo di che la glicemia aumenta di più con 0,07 U/kg di NPH il lispro rispetto all’insulina umana regolare. Se questo modello viene applicato ad (dalla voce bibliografica 5) esempio al pomeriggio mediterraneo che dura circa 7 ore come nell’esempio di figura 3, si può concludere che l’uso di dosi equimolecolari di lispro al posto dell’insulina umana regolare offre come PLASMA GLUCOSE 270 15 unico vantaggio un miglior stile di vita (l’iniezione avviene al momento del pasto N=10 IDDM PATIENTS Mean±SEM e non 30 minuti prima). Infatti il lispro, di 240 Hum-R 13 per sé, non migliora il controllo glicemico Lispro del pomeriggio perché la somma algebrica Hum-R + NPH fra miglioramento delle prime 3 ore Lispro + NPH 210 dall’iniezione e peggioramento nelle 11 successive 4 ore è praticamente zero. Questo risultato non è sorprendente, ma 180 atteso in base alle caratteristiche della farmacocinetica dell’insulina lispro. Un 9 analogo specializzato per un assorbimento 150 rapido deve necessariamente esaurire più precocemente la sua azione. 7
Il problema del rimpiazzo dell’insulina basale con l’uso prandiale del lispro La sostituzione dell’insulina umana regolare con il lispro ha migliorato la glicemia a 1, 2 e 3 ore dal pasto, ma ci ha
120
5
90 -30 0
60
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240
Minutes
300 360
420
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posto un problema nuovo, o meglio ci ha riproposto in termini pressanti un problema vecchio, quello della sostituzione dell’insulina basale, o interprandiale. Questo problema era meno Hum-R Group II 180 impellente fino all’arrivo del lispro, perché le caratteristiche di farmacocinetica 170 dell’insulina umana regolare facevano sì 160 che essa contribuisse molto con la sua “coda” di azione fra la 4a e la 6-7a ora 150 dall’iniezione, al rimpiazzo del fabbisogno di insulina basale. In altre parole, oggi 140 possiamo capire come l’insulina umana 130 regolare ad azione rapida, facesse in realtà due lavori, prevalentemente quello 03:00 h before after before after prandiale, ma in parte anche quello SUPPER LUNCH BED-TIME interprandiale. Sostituendo l’insulina umana ad azione rapida con il lispro per un miglior controllo post-prandiale, come si può rimpiazzare il più grande bisogno di insulina basale? La prima possibilità è l’uso del miniinfusore per l’infusione continua s.c. di insulina (CSII). Gli studi finora condotti hanno mostrato come il lispro usato con la CSII migliora non solo il controllo glicemico post-prandiale, ma anche quello a lungo termine (HbA1c) (4). La seconda possibilità, la più importante, visto che i pazienti in terapia con CSII sono una ristretta minoranza, è quella di associare l’insulina NPH al lispro per creare una “coda” di azione che rimpiazzi il fabbisogno di insulina basale oltre la 3a ora. Intendiamoci: se in teoria un paziente facesse uno snack ogni 3 ore, allora potrebbe iniettarsi il lispro a ogni pasto, cioè 5-6 volte al dì e avere un ottimo controllo postprandiale. Sul piano pratico, un paziente che abbia 3 pasti, deve associare NPH alla prima colazione, a pranzo e a cena se quest’ultima precede l’iniezione notturna delle ore 23-24 di più di 3 ore, altrimenti se la cena viene consumata oltre le ore 20 sarà sufficiente il lispro da solo. Ciò significa un uso dell’NPH 3-4 volte al dì. L’NPH non può essere tutta data in una sola somministrazione perché la sua azione non è piatta, ma a picco, e quindi sarebbe causa di ipoglicemia notturna e diurna.
Blood glucose
Insulin Meal 10.0
mg/dl
mmol/l
9.0
8.0
Lispro 7.0 before after BREAKFAST
Figura 4 Controllo glicemico con la miscela lispro+NPH rispetto a insulina umana regolare e NPH (dalla voce bibliografica 6)
Lispro e NPH in un’esperienza acuta Quando la regola (empirica) di miscelare insulina umana regolare con NPH a pranzo (fig. 1) venga applicata al lispro, si notano due vantaggi (fig. 3) (5). Anzitutto, la glicemia a 1, 2 e 3 ore dal pasto rimane più bassa e, secondo, il buon risultato del miglior controllo post-prandiale rimane fino all’ora di cena. Un miglioramento si ha anche nello studio di controllo in cui viene miscelata insulina umana regolare e NPH, ma la miscela lispro+NPH riduce la glicemia media di più per tutta la durata dello studio (7 ore).
Lispro e NPH in un’esperienza cronica Quando l’idea di miscelare lispro e NPH a ogni pasto è stata realizzata in uno studio di lunga durata, è migliorato il controllo glicemico post-prandiale e l’HbA1c (6). L’HbA1c migliorava di circa 0,30%, una percentuale in assoluto modesta, è vero, ma
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comunque importante a ridurre il rischio di complicanze microangiopatiche del 1520% (4). È da sottolineare che questa riduzione dell’ HbA1c.si osservava rispetto all’insulina umana regolare iniettata 30 minuti prima del pasto, e che il miglioramento sarebbe stato più evidente rispetto all’insulina umana regolare iniettata al momento del pasto (abitudine che sembra piuttosto diffusa fra i pazienti diabetici) (6). È chiaro quindi che sono soprattutto i pazienti che abitualmente iniettano l’insulina umana regolare e mangiano subito, quelli che traggono maggior beneficio dal passaggio al lispro (6). L’aspetto interessante della terapia con lispro+NPH era poi il fatto che a fronte di un’HbA1c più bassa, non vi fosse un aumento, ma anzi una riduzione del numero delle ipoglicemie, con miglioramento della percezione dell’ipoglicemia e della secrezione di adrenalina in risposta all’ipoglicemia (4).
Regole per il trasferimento dall’insulina umana regolare a lispro
Tabella I
Il trasferimento di pazienti dall’insulina umana regolare a lispro è piuttosto Esempio di semplice. La dose totale di insulina nelle 24 ore rimane la stessa, ma cambia il trasferimento di un paziente con diabete rapporto fra insulina ad azione rapida e NPH con una maggiore percentuale di mellito di tipo 1 quest’ultima. Le dosi indicate in tabella I sono indicative di uno stile di vita standard, dall’insulina umana e ovviamente possono essere introdotte varianti. Ad esempio, in età scolare, un regolare al lispro adolescente che sia in grado di praticarsi l’iniezione di insulina, può iniettarsi un supplemento di lispro con la merenda di 1a colazione pranzo cena ore 23 metà mattina ed eventualmente anche con Insulina umana quella di metà pomeriggio. regolare (R) 6U R 10U R 10U R 15U NPH Questo schema consente il ragInsulina lispro (LP) 4U LP 7U LP 8U LP 15U NPH giungimento di un rapido equilibrio +2U NPH +4U NPH +2U NPH glicemico. La paura che lo schema sia “complicato” e “non conveniente” per i tanti pazienti, specie più giovani, che usano le penne per l’iniezione di insulina, è in realtà smentito da un’esperienza ormai triennale che insegna che non vi sono sorprendentemente difficoltà alcune a raddoppiare il numero di iniezioni giornaliere di insulina a fronte di un più libero stile di vita, di una maggiore flessibilità, di un miglior controllo glicemico con HbA1c più bassa e minori ipoglicemie.
I vantaggi del lispro L’introduzione del lispro (e degli analoghi rapidi dell’insulina che presto verranno) va nella direzione di una sostituzione fisiologica dell’insulina. L’analogo ad azione rapida rappresenta la soluzione finale per il fabbisogno prandiale di insulina, almeno fintanto che la via di somministrazione dell’insulina sarà quella s.c. Non sono pensabili, infatti, preparazioni insuliniche ad azione ancora più rapida del lispro, che non avrebbero utilità per il paziente. L’uso del lispro ha molto migliorato il controllo glicemico post-prandiale. Al tempo stesso, ha costretto a ripensare a come ottimizzare l’insulina basale. In attesa di soluzioni future (vedi avanti), per il momento la soluzione (provvisoria) di miscele estemporanee con siringa, o iniezioni separate di lispro e NPH con la penna, va adottata e adattata nei singoli pazienti per sfruttare i vantaggi del lispro nel periodo post-prandiale senza incorrere negli svantaggi di una “scopertura” di insulina basale.
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Analoghi dell’insulina candidati futuri al rimpiazzo di insulina basale: l’insulina glargine Da quando, nel 1946, Hagedorn inventò l’insulina ad azione ritardo che porta il suo nome, sono passati più di 50 anni senza che nell’armamentario terapeutico delle preparazioni insuliniche da iniettare s.c. per rimpiazzare il fabbisogno di insulina nello stato di digiuno interprandiale si affacciassero novità. Oggi è doveroso parlarne perché fra pochi mesi (primavera del 2000) arriverà in commercio, almeno negli USA, l’insulina glargine (HOE 901 della HMR). Non è un desiderio a tutti i costi di novità, che spinge a guardare con molto interesse all’arrivo dell’insulina glargine, ma la considerazione del progresso che essa 1a colazione pranzo cena ore 23 rappresenta rispetto ai “difetti” dell’insulina NPH. L’insulina NPH ha un’azione Modello attuale a picco, che si manifesta fra la 4a e la 6a ora Insulina lispro (LP) 4U LP 7U LP 8U LP 15U NPH dall’iniezione. Se praticata alla sera, un +2U NPH +4U NPH +2U NPH eccesso di picco d’azione si può Modello del 2000 4U LP 7U LP 8U LP 15U glargine manifestare la notte. Ecco un importante +8 glargine motivo di alto rischio di ipoglicemia notturna. In secondo luogo, l’insulina Tabella II NPH ha una durata modesta, non superiore alle 8-10 ore. Riesce difficile, con l’NPH, Modello di terapia assicurare una copertura del fenomeno alba, e i clinici (ma soprattutto i pazienti!) del diabete mellito di sanno bene che è preferibile accontentarsi di una glicemia a digiuno 40-60 mg/dL tipo 1 con insulina superiore alla norma, piuttosto che mirare alla normoglicemia, per evitare lispro ai pasti e l’ipoglicemia notturna. Si ricordi sempre che l’effetto ottenuto dall’NPH a 10-12 ore glargine come insulina basale. Con dalla sua iniezione è sempre a spese di un precedente picco di azione alla 4a-6a ora, l’uso dell’insulina e occorre chiedersi che cosa sia succeso durante il sonno di un paziente che si sia glargine, la dose iniettato una rilevante quantità di NPH e che si risvegli normoglicemico. È possibile, totale in 24 ore di anzi probabile, che egli/ella sia rimasto(a) in uno stato di ipoglicemia prolungata. insulina basale L’insulina glargine è un analogo dell’insulina ottenuto con la tecnica del DNA rimane la stessa dell’NPH, ma la ricombinante e che si differenzia dall’insulina umana regolare in due punti. Due somministrazione arginine sono aggiunte all’estremità C-terminale della catena B, e una molecola di avviene ogni 12 ore. glicina sostituisce l’asparagina a livello della posizione 21 della catena A. Le iniezioni di lispro La prima modificazione (2 arginine) conferisce alla molecola di insulina la proprietà e glargine devono del cambio del punto isoelettrico (pH al quale l’insulina è meno solubile e precipita). essere separate Il punto isoelettrico dell’insulina glargine è stato così aumentato da quello di pH 5,4 dell’insulina umana, a 6,7. Siccome nel flacone l’insulina glargine è tenuta a pH circa 4,0, essa è solubile e quindi è trasparente nel flacone, al contrario dell’NPH (“cloudy” per gli autori anglosassoni, insolubile). Una volta iniettata sottocute, il passaggio da pH acido a neutro fa sì che l’insulina glargine cristallizzi in loco. La successiva dismissione di insulina dai microcristalli ne spiega l’assorbimento lento e costante. Come la lispro, l’insulina glargine si è dimostrata non diversa dall’insulina umana regolare nei suoi rapporti con il recettore di insulina, IGF-I, proprietà mitotiche, mutagene e antigeniche (4). La seconda modificazione della molecola di insulina glargine dà stabilità all’insulina stessa e ne prolunga la durata di conservazione nella fiala. I primi studi effettuati con l’insulina glargine hanno dimostrato che si tratta di un’insulina ad azione piatta, senza picco, della durata compresa fra 20 e 24 ore. È pertanto presumibile che essa vada iniettata in molti pazienti una sola volta al dì assicurando una copertura completa del fabbisogno basale (4). Tuttavia, è anche ipotizzabile un suo impiego due volte al dì per meglio realizzare l’aspetto a “onda quadra”che dovrebbe avere l’insulina basale erogata ad esempio dalla CSII (4). È stata studiata anche la riproducibilità dell’assorbimento s.c. dell’insulina
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glargine che è migliore di quello dell’insulina ultralenta e simile a quello dell’NPH (4).
Lo scenario terapeutico dell’anno 2000 Il 2000 coinciderà con la terapia del diabete di tipo 1 con analoghi, e cioè un’iniezione (o 2) al dì di insulina glargine e iniezioni di lispro (o altri analoghi ad azione rapida) a ogni pasto. I vantaggi attesi sono un’HbA1c più bassa, un minor rischio di ipoglicemia, una maggiore flessibilità e libertà nello stile di vita, e maggior numero di pazienti adereti a un programma di terapia intensiva perché più semplice dell’attuale mostrato in tabella I e soprattutto perché più sicuro. Già numerosi studi preliminari hanno mostrato che con l’insulina glargine si ha un minor rischio di ipoglicemia che sembra dimezzato rispetto all’insulina NPH (4). In tabella II è proposto un modello di terapia futuribile che prevede l’uso di insulina glargine e lispro. Da ricordare che l’insulina glargine non può essere miscelata in siringa con nessun’altra insulina per il diverso punto isolettrico e quindi sono rischieste iniezioni separate di insulina glargine e lispro.
Conclusioni Viviamo un momento di novità di offerta di preparazioni insuliniche che tutte insieme si affacciano alla ribalta dopo decenni di stasi in questo settore. È prevedibile che arriveremo presto a trattare il diabete mellito di tipo 1 solo con analoghi di insulina. Quindi è bene conoscerli e prepararsi culturalmente al loro uso perché i pazienti ne traggano il massimo beneficio.
Ringraziamenti Un grazie sincero alle comunità di Capo Sandalo, Becco, La Bobba, e Carloforte tutta, dell’Isola di San Pietro nel maggio 1999.
BIBLIOGRAFIA 1. The Diabetes Control and Complications Trial Research Group: The effect of intensive treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications in insulin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 977-986, 1993 2. Ciofetta M, Lalli C, Del Sindaco P et al: Contribution of postprandial versus interprandial blood glucose to HbA1c in type 1 diabetes on physiologic intensive therapy with lispro insulin at mealtime. Diabetes Care 22, 795-800, 1999 3. Di Marchi RD, Chance RE, Long HB, Shields JE, Slieker LJ: Preparation of an insulin with improved pharmacokinetics relative to human insulin through consideration of structural homology with insulin-like growth factor I. Horm Res 41 (suppl 2), 93-96, 1994 4. Bolli GB, Di Marchi RD, Park G et al: Insulin analogues and their potential in the management of diabetes mellitus. Diabetologia (submitted), 1999 5. Torlone E, Pampanelli S, Lalli C et al: Effects of short-acting insulin analog [Lys(B28),Pro(B29)] on postprandial blood glucose control in IDDM. Diabetes Care 19, 945-952, 1996 6. Del Sindaco P, Ciofetta M, Lalli C et al: Use of the short-acting insulin analogue lispro in intensive treatment of type 1 diabetes mellitus: importance of appropriate replacement of basal insulin and time-interval injection-meal. Diabet Med 15, 592-600, 1998
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GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Obiettivi della terapia del diabete Attualità e prospettive nel diabete tipo 2
Prevenzione primaria M. Muggeo (Verona) Nutrizione e prevenzione del diabete G. Riccardi (Napoli) La terapia farmacologica del diabete di tipo 2 S. Del Prato (Padova)
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PREVENZIONE PRIMARIA Michele Muggeo Malattie del Metabolismo, Università di Verona, Ospedale Civile Maggiore
Innanzitutto, bisogna premettere che buon controllo metabolico non vuol dire soltanto controllo glicemico, ma controllo di tutti i parametri metabolici che abitualmente si misurano in questi pazienti. Quindi, anche se oggi dobbiamo concentrare l’attenzione sul problema glicemia, non ci deve sfuggire che negli obiettivi del controllo del diabete c’è sì il buon compenso glicemico, ma anche la correzione del sovrappeso e dei vari fattori di rischio associati, quali la dislipidemia, l’ipertensione e il tabagismo (anche se a questo riguardo mancano ancora le evidenze di trial d’intervento), oltre all’identificazione precoce delle complicanze. Sugli obiettivi da raggiungere nel controllo dei parametri metabolici credo non sia necessario dilungarsi, perché quelli condivisi dalla Società Italiana di Diabetologia e da tutte le società scientifiche e su cui si impronta la nostra pratica quotidiana di diabetologi. Brevemente, ricordo come ottimali una glicemia a digiuno tra 100 e 140 mg/dL e una glicemia post-prandiale che non superi i 180 mg/dL, un’emoglobina glicata tra 6 e 7%, una colesterolemia inferiore a 200 mg/dL, con una variabilità d’obiettivo a seconda che il paziente abbia o no una patologia cardiovascolare già in atto, trigliceridemia inferiore a 200 mg/dL, colesterolo HDL superiore a 35 mg/dL nel maschio e a 40 mg/dL nella femmina. Lo studio 4S, fatto in Scandinavia su oltre 4400 persone con pregresso infarto, mostrava un significativo aumento della sopravvivenza con l’intervento ipolipemizzante e in particolare ipocolesterolemizzante (1). Quello studio, che raggruppava anche un modesto numero di pazienti diabetici, ha dimostrato chiaramente che la riduzione del colesterolo sortiva degli effetti più vistosi nei diabetici rispetto ai non diabetici, evidenziando un aspetto importante: quanto più alto è il profilo di rischio di una persona, tanto maggiori sono i risultati che dobbiamo aspettarci da un intervento di correzione dei fattori di rischio. E questa è la premessa culturale per realizzare quell’intervento multifattoriale nel trattamento del diabete mellito tipo 2, così come in altre patologie cronico-degenerative. Del resto, oltre allo studio 4S, altri studi hanno documentato come nei pazienti diabetici, sia in prevenzione primaria che secondaria, i risultati siano più vistosi di quelli che si osservano nella popolazione non diabetica. Venendo al tema più specifico di questa giornata, prima dell’UKPDS ci si domandava fino a che punto la normalizzazione della glicemia fosse vantaggiosa nel diabete. Per parecchi anni c’è stata una diatriba tra due diverse correnti di pensiero. Da una parte, alcuni sostenevano che l’aumento della mortalità cardiovascolare nel diabete tipo 2 fosse legato essenzialmente al fatto che in questi pazienti i classici fattori di rischio, quali ipertensione, dislipidemia, sovrappeso, tabagismo, si concentrano e si esprimono più intensamente e con effetti più deleteri. Al contrario, l’altra corrente di pensiero sosteneva che l’iperglicemia aggiungesse qualcosa come fattore di moltiplicazione agli altri fattori di rischio, sostenendo l’utilità di programmi di intervento per abbassare a lungo termine la glicemia. Oggi cercherò di affrontare questo problema, riportando risultati che dimostrano,
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attraverso studi di mortalità, l’utilità dell’abbassamento della glicemia nel diabete tipo 2. Numerosi studi europei, fatti in epoca pre-UKPDS, hanno dimostrato in modo consistente che nei pazienti diabetici di tipo 2 la mortalità per tutte le cause, e in particolare per cause cardiovascolari, è direttamente proporzionale al livello della glicemia. Nel lavoro di Uusitupa del ’93, correlando la glicemia all’esordio di 130 pazienti diabetici tipo 2 alla mortalità per cause cardiovascolari nei dieci anni successivi – ripeto correlando la mortalità ad un singolo valore glicemico iniziale –, si osservava che, sia nei pazienti trattati con sola dieta che in quelli trattati farmacologicamente, i tassi di mortalità correlavano in maniera lineare con il livello glicemico di partenza (2). Nello studio pubblicato su Diabetes nel ’94, la Kuusisto dimostrava la stessa cosa, correlando in questo caso la mortalità al valore di emoglobina glicata all’esordio (3). Il messaggio è sempre lo stesso: la mortalità, in particolare quella per cardiopatia ischemica, è tanto maggiore quanto più alta è l’emoglobina glicata al baseline. Anche in questo caso lo studio di mortalità si basava su una singola misurazione all’inizio. Un altro concetto che emerge sempre dal lavoro della Kuusisto si basa sulla considerazione di un altro fattore di rischio predittore di mortalità cardiovascolare, cioè la durata del diabete. Se prendiamo due gruppi di soggetti con una durata della malattia rispettivamente maggiore o minore di sei anni, vediamo che quelli che hanno una durata più lunga, in questo studio, hanno una mortalità cardiovascolare maggiore. In ciascun gruppo, però, la qualità del controllo metabolico, espressa come valore di emoglobina glicata al baseline, faceva una grossa differenza; in altre parole, la mortalità cardiovascolare risultava strettamente correlata ancora una volta a una singola determinazione al baseline. Il messaggio contenuto in queste osservazioni è allarmante; è come se ci venisse preclusa la possibilità di intervenire, come se tutto fosse già prestabilito dal punto di vista statistico nel momento in cui inizia l’osservazione. Lo stesso concetto si può cogliere da un altro studio in cui si prende in considerazione non la durata del diabete ma la microalbuminuria. Ebbene, anche prendendo questo parametro come predittore di mortalità cardiovascolare, si vede che il valore della HbA1c alla base è in grado di incidere sulla sopravvivenza di questi pazienti (4). Ancora una volta, quindi, si fa correlare una singola determinazione al baseline con l’outcome dei pazienti, nel nostro caso con la mortalità per tutte le cause o per cause cardiovascolari, in un tempo variabile da 4 anni, in alcuni studi, fino ad un massimo di 8-10 anni in altri. Anderson, in uno studio del ’95, fu il primo a mettere in correlazione la mortalità con le medie glicemiche nel corso di un periodo di tempo, introducendo un qualcosa che è sì osservazionale, ma che fa vedere anche come il variare della glicemia in un intervallo di tempo influenza la sopravvivenza dei pazienti (5). In questo studio infatti l’autore mostra che l’avere delle glicemie medie, in un periodo di 7,4 anni, minori di 120 mg/dL è significativamente più vantaggioso dell’avere delle glicemie medie superiori a 180 mg/dL. Nel diabete di tipo 2, quindi, l’iperglicemia, sia misurata come singolo valore, sia come media delle glicemie per un certo periodo, predice la mortalità per tutte le cause e, in particolare, per quelle cardiovascolari. Ne consegue che la riduzione della glicemia dovrebbe avere un effetto benefico sulla sopravvivenza di questi pazienti. Veniamo allo studio dell’UKPDS (6). I quesiti di fondo erano: «Il controllo glicemico intensivo riduce il rischio di complicanze nel diabete tipo 2? La terapia con insulina o con sulfaniluree ha uno specifico vantaggio o svantaggio? La metformina nei diabetici in sovrappeso è utile e in quale misura?». Come è noto, lo studio è stato effettuato su 4209 pazienti; di questi, 1138 sono stati posti in terapia convenzionale,
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che mirava a correggere i sintomi o a mantenere la glicemia a digiuno inferiore a 270 mg/dL. I rimanenti 3071 pazienti sono stati sottoposti a terapia intensiva, con l’intento di portare la glicemia a digiuno a un valore inferiore a 108 mg/dL; gli obesi sono stati trattati con metformina, gli altri sono stati randomizzati a essere trattati con sulfaniluree o insulina. Nel valutare i risultati dello studio, gli inglesi hanno considerato gli outcome in due modi diversi. Negli any diabetes related end-points hanno messo insieme la morte improvvisa, gli episodi di iper- e ipoglicemia, l’infarto fatale o non fatale, l’angina, lo scompenso di cuore, l’insufficienza renale, le amputazioni, le emorragie vitreali, la fotocoagulazione, la retinopatia, la cecità almeno a un occhio e l’estrazione di cataratta. Come vediamo, quindi, hanno considerato alla stessa stregua eventi diversi che, pur avendo tutti qualcosa a che fare con il diabete, hanno probabilmente vie patogenetiche diverse. Hanno poi preso in considerazione i singoli eventi e quindi la mortalità che in qualche modo è correlata al diabete, l’infarto miocardico, lo stroke, la morte per gangrena, la morte per insufficienza renale, gli episodi di coma o di iper- e ipoglicemia e la morte improvvisa. In ultimo hanno preso in esame la mortalità per tutte le cause. Se misuriamo il risultato in base a tutti gli eventi correlati al diabete, cioè agli any related end-points, vediamo che il risultato della terapia intensiva è significativamente migliore rispetto alla terapia convenzionale. Cioè, è indicato trattare in modo intensivo i pazienti affetti da diabete mellito tipo 2, perché questo si traduce in una riduzione di tutti gli eventi correlati al diabete. Se andiamo a vedere il numero delle morti associate al diabete, però, vediamo che tra il gruppo in terapia intensiva e quello in terapia convenzionale non esiste alcuna differenza, così come non è significativamente diversa la mortalità per tutte le cause, né per infarto miocardico né per stroke. Una fortissima significatività statistica si evidenzia solo per le complicanze microvascolari e, con buona probabilità, è proprio questa a determinare la significatività statistica della categoria degli any diabetes related end-points. Questo deve essere chiaro per poter giudicare poi le aspettative in termini di mortalità per eventi cardiovascolari in seguito al trattamento ipoglicemizzante. La tabella I riassume i risultati. La terapia intensiva dell’iperglicemia ha portato, nel periodo di osservazione durato 15 anni, a una differenza dell’11% per l’HbA1c tra il gruppo in terapia convenzionale e il gruppo in terapia intensiva (7,9 vs 7%). Questa riduzione, Tabella I che potrebbe sembrare modesta, si traduce in una riduzione significativa degli any UKPDS - Risultati diabetes related end-points e delle complicanze microvascolari e in un minor Terapia Terapia p numero di infarti (quest’ultimo dato si convenzionale intensiva colloca al limite della significatività (insul. o sulfon.) statistica). Un altro dato che deriva HbA (%) 7,9 7,0 0,0001 1c dall’UKPDS è quello riguardante la Tutti gli endpoints correzione dell’ipertensione arteriosa. Nel diabete-correlati* 46,0 40,9 0,029 gruppo sottoposto a uno stretto controllo dei valori pressori, si è riusciti a ottenere Infarto* 17,4 14,7 0,052 una pressione media di 144/82 mmHg, Microvascolari* 11,4 8,6 0,009 mentre nell’altro gruppo la media era di Ictus* 5,0 5,6 0,52 154/87 mmHg. Questa differenza si *Eventi/1000 pazienti⋅anno traduceva in una forte riduzione di quegli stessi end-points visti in precedenza (fig. 1). Questo messaggio è importante, perché dice che, agli effetti della sopravvivenza in un diabete tipo 2, è molto importante controllare bene la pressione e che sicuramente i risultati più brillanti si ottengono quando viene fatta una terapia multifattoriale improntata alla correzione di più fattori di rischio. Come si può vedere dalla figura 1 la situazione di rischio peggiore
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Hazard ratio
consiste nell’avere una grave iperglicemia ed essere iperteso, cioè avere un’emoglobina glicata superiore a 8% e una pressione sistolica superiore a 150 mmHg. L’intervento terapeutico che si limiti a ridurre soltanto la pressione arteriosa comporta una riduzione del rischio relativo per any diabetes related end-points da 5 a 3. Quando si opera su due fronti e oltre ad abbassare la pressione si riduce l’HbA1c, il rischio relativo passa da 5 a 1. In termini pratici, sulla base dei dati dell’UKPDS, noi dobbiamo cercare di conseguire un’emoglobina glicata che sia intorno al 7%; quindi l’informazione che avevamo ricavato dagli studi osservazionali era tutto sommato corretta ed è stata confermata dall’UKPDS. Ma anche in termini di pressione arteriosa abbiamo messaggi precisi: dobbiamo cercare di ottenere dei valori inferiori a 130/85 mmHg. Le conclusioni dello studio dicono che il trattamento intensivo riduce la frequenza degli end-point microvascolari ma non la mortalità correlata al diabete e all’infarto 6 miocardico, senza nessuna differenza tra i 5 vari farmaci impiegati. Ma allora come la mettiamo se gli studi 4 osservazionali avevano chiaramente detto 3 che la mortalità per tutte le cause e per 2 cause cardiovascolari era correlata al > 150 1 grado di iperglicemia? Si può fare un 1 tentativo di interpretazione. Quando si fa 140-150 140 0 la correlazione tra end-points, in questo >8 130-140 13 caso mortalità dopo 15 anni, e compenso 7-8 glicemico, si utilizza il valore dell’e6-7 HbA1c < 130 1 (%) moglobina glicata media in un periodo di <6 15 anni. È possibile che questo solo dato non sia sufficiente a esprimere l’andamento del diabete in un periodo Figura 1 abbastanza lungo e che un valore più basso di HbA1c media possa derivare da un UKPDS succedersi di eventi ipoglicemici che in qualche modo inficiano, o perlomeno Any diabetes-related diminuiscono il beneficio che si ha dall’abbassamento della glicemia, anche in endpoints termini di mortalità. Per cui si introduce una variabile che non viene colta dal valore medio dell’emoglobina glicata in un periodo di 15 anni, ma che è dietro, o almeno non è misurabile con quel parametro. Allora, io mi domando, come dobbiamo cogliere l’iperglicemia nella nostra pratica clinica? E la valutazione della media delle glicemie è sufficiente per dire la gravità della“disglicemia”di quel paziente diabetico? In quale misura l’iperglicemia influisce sulla sopravvivenza dei pazienti diabetici? La media glicemica o la media di emoglobina glicata in un periodo più o meno lungo può spiegare tutta la mortalità correlata al diabete? Provo a esemplificare il concetto attraverso un esempio. Supponiamo di avere un paziente che nel corso di 3 anni ha una serie di glicemie. Volendo esprimere in un numero questo andamento glicemico, la cosa più semplice da fare è la media. Quindi si teorizza che questa persona durante un periodo di 3 anni sia sempre stata esposta allo stesso livello glicemico medio. Un’altra cosa che si può fare, e questo forse è più corretto, è la cosiddetta slope, vedere cioè la tendenza della glicemia nel tempo (nell’UKPDS si è visto che tendono ad aumentare).
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Survival probability
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Figura 2 Un’altra cosa che potrebbe essere utile fare è quella di calcolare il coefficiente di Kaplan-Meyer variazione delle glicemie a digiuno nel tempo; quindi avere, oltre alla media, un estimates of survival parametro aggiuntivo che dice quanto labile è la situazione metabolica di quella probability in type 2 persona. diabetic patients Ora provocatoriamente chiedo: tra un paziente che ha una media glicemica, negli from Verona, grouped in tertiles ultimi 3 anni, di 200 mg/dL, con un coefficiente di variazione di 8%, e un paziente according to mean che ha 160 mg/dL di valore medio con un coefficiente di variazione di 30%, in fasting glucose termini statistici, qual è messo meglio? Alla luce dell’UKPDS si dovrebbe dire che (panel A) and quello che ha la media più bassa vive più a lungo. coefficient of variation of fasting Andiamo a vedere cosa dicono i nostri dati di Verona. Ricordo che a Verona abbiamo plasma glucose iniziato nell’86 uno studio che ha portato all’identificazione di 7488 pazienti (panel B) during diabetici, grazie all’utilizzo di tre fonti: collaborazione tra i medici di base, il Servizio three years (1.1.1984 di Diabetologia e il consumo dei farmaci (7). Dei pazienti individuati, circa il 50% through 31.12.1986) afferiva al Servizio di Diabetologia ed è stato seguito nel tempo, con una valutazione preceding the mortality follow-up. del compenso glicemico ogni 3-4 mesi. Abbiamo fatto un controllo dello stato di The log-rank test sopravvivenza dopo 5 e 10 anni. Al 31.12.96 erano morti 2980 soggetti. Di ciascun revealed significant paziente, che avesse un numero adeguato di glicemie a digiuno nel periodo di differences in tempo compreso tra l’84 e l’86, abbiamo ricavato la media e il coefficiente di survival among variazione. I pazienti sono stati raggruppati in terzili di media e di coefficiente di tertiles of M-FPG (p=0,005) and of CVvariazione delle glicemie a digiuno. La figura 2 mostra le curve di sopravvivenza di FPG (p<0,001) Kaplan-Meyer; le persone che sono nel terzile di media glicemica più alta (pannello A) morivano circa il 20% in più rispetto ai pazienti che avevano una glicemia media Tertiles of mean fasting plasma glucose più bassa. E questo conferma che quanto 1.0 più alta è la glicemia, tanto peggiore è la p=0.005 sopravvivenza. Ma, se queste stesse persone le analizziamo sotto un altro 0.9 punto di vista, cioè in base al coefficiente di variazione, vediamo che i soggetti che mmol/l 0.8 hanno una maggiore stabilità glicemica (1° 7.61-9.36 terzile) tendono a vivere più a lungo di quelli appartenenti al secondo e terzo 0.7 terzile (pannello B). Questo è importante, <7.61 perché dei due modi di misurare >9.36 l’iperglicemia cronica, il coefficiente di 0.6 0 2 4 6 8 10 variazione è sicuramente quello più Years of follow-up corretto. La figura 3 mostra i risultati di un’analisi multivariata in 1780 pazienti del Verona Diabetes Study in età compresa tra Tertiles of Coefficient of Variation of fasting plasma glucose 1.0 40 e 86 anni che avevano almeno tre p=0.001 glicemie all’anno nel periodo ’84-’86 e nei quali il parametro glicemia è stato 0.9 espresso sia come media che come coefficiente di variazione. Ebbene, tra i due parametri di controllo metabolico cronico, 0.8 <11.7% la media, che risultava predittore di mortalità nell’analisi univariata, non è più 11.7-18.7% 0.7 un predittore indipendente quando nell’analisi si introduce il coefficiente di variazione, il quale conserva, invece, una >18.7% 0.6 forte predittività. Quindi, una più alta 0 2 4 6 8 10 Years of follow-up variabilità della glicemia, un’età maggiore,
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il sesso maschile e il trattamento insulinico a parità di glicemia sono i predittori M-FPG (II vs I tertile) indipendenti di mortalità e in particolare di mortalità cardiovascolare. Vediamo quindi (III vs I tertile) che, alla luce di questi dati, non basta fare la media di tutte le glicemie di 15 anni per CV-FPG (II vs I tertile) poter avere l’informazione integrata di tutto l’andamento del controllo meta(III vs I tertile) bolico, ma ci vuole qualcos’altro. In conclusione si può dire che, senza negare Age l’importanza della misurazione dell’emoglobina glicata, nei pazienti con diabete Sex (women vs men) tipo 2, la determinazione della glicemia a digiuno, parametro che potrebbe essere Diabetes duration (1 year) considerato obsoleto, ha in realtà ancora molto da indicarci. La variabilità della Insulin treatment (es vs no) glicemia a digiuno è un predittore indipendente degli outcome di questi pazienti Smoking (yes vs no) e in particolare della mortalità per cause cardiovascolari. Nella pratica clinica, quindi, oltre a conseguire l’abbassamento Hypertension (yes vs no) della glicemia, dobbiamo stare attenti a RR 0.5 1 1,5 2 VDS - 1998 conseguire una stabilità di questi più bassi valori glicemici, proprio per ottenere l’ottimizzazione del controllo. Questo è vero soprattutto per i più anziani, per i quali, sopravvissuti all’effetto grave di Figura 3 Relative risk (95% iperglicemia negli anni precedenti, probabilmente è più importante mantenere la CI) of all-cause 10stabilità dei valori glicemici che non conseguire la normoglicemia, magari a costo di YR mortality (1987episodi ipoglicemici (8). Tutto ciò è pertinente col tema generale della giornata, 1996) in 1780 type 2 perché credo che l’unico modo per poter conseguire, oltre che normoglicemia, anche diabetic patients, aged 40-86 yrs. una stabilità glicemica, è quello di fare automonitoraggio e di imparare a Effect of long term comportarsi di fronte al succedersi degli eventi. Mentre finora abbiamo pensato che glucose control (3 la principale indicazione dell’automonitoraggio glicemico fosse costituita dal diabete yrs: 1984-1986) and di tipo 1, alla luce di questi dati si può dire che anche il diabetico tipo 2 ha bisogno of other baseline di eseguire un automonitoraggio, perché questo può diventare uno strumento predictors prezioso per la ricerca della stabilità dei valori glicemici e in ultima analisi per la sopravvivenza e per la prevenzione delle complicanze.
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NUTRIZIONE E PREVENZIONE DEL DIABETE Gabriele Riccardi Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi “Federico II”, Napoli
Il processo di identificazione di una strategia per la prevenzione primaria di una malattia è lungo e complesso. Si è cominciato a parlare di prevenzione primaria della cardiopatia ischemica negli anni ’50, ma soltanto agli inizi degli anni ’90 è stata identificata una strategia di prevenzione basata sull’evidenza. Lo studio dell’epidemiologia del diabete è iniziato più tardi rispetto a quello dell’epidemiologia delle malattie cardiovascolari e purtroppo non è ancora disponibile una strategia di prevenzione del diabete per la quale esista l’evidenza piena e irrefutabile della sua efficacia. Perché questo processo è così lungo e difficile? Prevenzione primaria significa attuare un intervento in una popolazione di individui sani, per i quali la probabilità di sviluppare la malattia è comunque una frazione dell’unità - infatti per nessuno di essi esiste la certezza di ammalarsi - l’intervento, pertanto, deve avere necessariamente un rapporto benefici/rischi molto elevato. Ad esempio anche soltanto convincere una persona a smettere di fumare può essere giustificato se ci sono le prove (e ci sono) che questo comporta dei benefici per la salute, altrimenti questo tipo di intervento - un intervento che modifica soltanto un’abitudine voluttuaria - non sarebbe, in teoria, giustificato dal momento che andrebbe a incidere sulla qualità della vita senza avere la certezza di comportare vantaggi per la salute. Questo esempio paradossale può aiutare a capire come sia importante arrivare a identificare una strategia preventiva attraverso tutti i diversi stadi della ricerca epidemiologica, a partire dagli studi di osservazione trasversali, poi quelli longitudinali e infine gli studi di intervento; solamente a questo punto siamo in grado di identificare veri fattori di rischio e non semplici marker di malattia. Un ulteriore importante requisito per un fattore di rischio è rappresentato dalla sua plausibilità biologica. Ci sono molti marker di malattia per i quali non esiste una plausibilità biologica e quindi non possono essere considerati a pieno titolo fattori di rischio; sappiamo, ad esempio, che la microalbuminuria è un marker per lo sviluppo di malattie cardiovascolari; tuttavia, non sembra probabile che, correggendo la microalbuminuria senza incidere sulla pressione arteriosa, sui lipidi o sulla disfunzione endoteliale, si possano prevenire le complicanze cardiovascolari. Infatti, non è stato finora identificato alcun nesso patogenetico diretto tra la microalbuminuria e la cardiopatia ischemica. Soltanto quando un marker di malattia sia stato identificato e confermato dagli studi di osservazione trasversale e longitudinale e sia ben chiaro il nesso patogenico tra il marker e la malattia si può procedere a uno studio di intervento mirato a valutare sia l’efficacia sia la accettabilità della strategia preventiva. È possibile, infatti, che l’intervento, pur essendo efficace, comporti effetti collaterali indesiderati eccedenti i benefici ottenuti. Per quanto riguarda la identificazione di una strategia di prevenzione del diabete siamo a tre quarti del percorso; mancano ancora i risultati degli studi di intervento che sono tuttora in corso e soltanto tra qualche anno ci daranno una risposta
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definitiva. Nel frattempo, però, i risultati degli studi di osservazione trasversale e longitudinale ci consentono, almeno dal punto di vista di pratica clinica quotidiana, di dare dei suggerimenti, di implementare interventi mirati agli stili di vita che molto probabilmente si dimostreranno, negli anni futuri, utili per la prevenzione primaria del diabete. Il primo fattore di rischio per il diabete, individuato dalla ricerca clinicoepidemiologica e su cui c’è la maggiore documentazione, è il sovrappeso. Non solo in studi trasversali, ma anche in quelli di tipo longitudinale, si dimostra univocamente un contributo indipendente sia del sovrappeso che della localizzazione di tipo viscerale del tessuto adiposo al rischio di sviluppare diabete. Infatti, sia gli individui che hanno l’indice di massa corporea più elevato, sia quelli che hanno il rapporto vita/fianchi più alto - quindi una adiposità di tipo prevalentemente viscerale - hanno un rischio di sviluppare diabete che risulta significativamente incrementato; questo rischio raggiunge i livelli più alti - 15, 20 e più volte maggiore - negli individui che presentano entrambe queste caratteristiche. Ci sono studi abbastanza numerosi e concordi che dimostrano che c’è un effetto protettivo indipendente dell’attività fisica sul rischio di sviluppare il diabete. Questo effetto protettivo deriva non soltanto dalla capacità di indurre una riduzione ponderale: infatti, indipendentemente dall’effetto dell’attività fisica sul peso corporeo, chi pratica esercizio fisico presenta una relativa protezione allo sviluppo di diabete. Esiste, quindi, un effetto protettivo dell’attività fisica nei riguardi del diabete che ha un duplice meccanismo legato, in parte, alla riduzione ponderale e, in parte, indipendente da questa. Ma, come si è detto, oltre agli studi di osservazione, per poter identificare misure utili per la prevenzione primaria, abbiamo bisogno di studi che forniscano un supporto a un possibile legame patogenetico tra fattore di rischio e malattia. Si sa che un elemento patogenetico importante per lo sviluppo di diabete non insulinodipendente è rappresentato dalla resistenza insulinica; infatti quasi tutti i diabetici non insulino-dipendenti hanno, accanto a un deficit della secrezione dell’insulina, insulino-resistenza a livello epatico e muscolare. Finora sono stati identificati diversi fattori che contribuiscono a determinare insulino-resistenza. Di questi alcuni sono sicuramente di tipo genetico, altri, invece, sono di tipo ambientale e comportamentale e tra questi ultimi è in primo piano il sovrappeso. Infatti, in presenza di sovrappeso la concentrazione di acidi grassi liberi aumenta, interferendo negativamente sia a livello muscolare che a livello epatico sulla utilizzazione del glucosio, stimolando la produzione epatica del glucosio e inibendo l’attività secretoria delle beta cellule. Esiste, quindi, un meccanismo biologico plausibile che spiega perché il sovrappeso si associa ad aumentato rischio di sviluppare diabete. In conclusione, ci sono tutti i presupposti per ritenere possibile, mediante un intervento nutrizionale, una migliorata riduzione dell’incidenza di diabete nei pazienti obesi. Tale intervento certamente non avrà una efficacia completa giacché non è in grado di eliminare l’influenza sulla insulino-resistenza di eventuali fattori genetici; è tuttavia possibile ipotizzare per questo intervento una efficacia rilevante da un punto di vista quantitativo. In effetti, diversi studi dimostrano che la riduzione ponderale, da sola, è in grado di influenzare la sensibilità insulinica e di migliorarla anche se non di correggerla completamente. A confronto, l’incremento della sensibilità insulinica indotto dalla terapia insulinica o con ipoglicemizzanti orali (anche con la metformina) è estremamente meno importante. Infatti, la riduzione ponderale è in grado di agire sui meccanismi patogenetici dell’insulino-resistenza e questo spiega perché essa sia estremamente più efficace di qualsiasi altra misura, anche farmacologica, che invece agisca primitivamente correggendo la iperglicemia.
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In linea con questi risultati sono quelli, ancora preliminari, di qualche studio di intervento teso a valutare l’impatto di modifiche degli stili di vita sulla prevenzione del diabete. Il primo di essi è stato condotto in primati non umani giacché è più facile riuscire a modificare la dieta di animali in cattività, piuttosto che modificare in maniera stabile le abitudini di vita dei pazienti. Quando a un gruppo di scimmie adulte veniva somministrata una dieta che consentiva di mantenere il peso corporeo stabile, senza ingrassare, a distanza di anni non veniva osservato nessun caso di diabete. Quando invece alle scimmie veniva data una dieta libera, il peso corporeo diventava quasi doppio rispetto alle scimmie trattate con una dieta stabilizzante il peso corporeo e, in conseguenza, circa la metà di queste scimmie sviluppavano il diabete. Non dissimili sono i risultati dei pochi studi preliminari condotti sull’uomo. Uno di questi è stato eseguito in soggetti con ridotta tolleranza al glucosio nei quali la correzione del sovrappeso è stata ottenuta con una procedura chirurgica: il bendaggio gastrico. In questo studio l’incidenza di diabete osservata è stata dello 0,15% per anno. Purtroppo non era disponibile un gruppo di controllo, tuttavia se si confronta l’incidenza di diabete ottenuta in questo studio con quella riportata in letteratura per individui con grosso sovrappeso si vede che il rapporto è di circa 1 a 10. Questi studi forniscono chiare indicazioni che la riduzione ponderale è in grado di incidere sul rischio di sviluppare diabete. Tuttavia, c’è un generale scetticismo sulla possibilità di modificare le abitudini di vita degli individui e di insegnare loro a cambiare il loro modo di nutrirsi, di fare attività fisica e quindi di perdere peso. Forse questo scetticismo nasceva dalla presunzione che per poter ottenere la prevenzione del diabete si dovesse portare chi era in sovrappeso al peso ideale. Oggi anche il termine “peso ideale”è stato abbandonato perché era un concetto falsificante, in quanto si riferiva a una condizione ideale e quindi non realizzabile nella pratica. È preferibile utilizzare, invece, il termine di peso minimo accettabile, che individua un obiettivo clinico certamente più realistico. Forse questo approccio minimalista è più efficace di quello massimalista del passato, come dimostrano alcuni studi recentemente apparsi in letteratura. Questi studi indicano che una riduzione dell’introito energetico di 300-500 Kcal al giorno e/o un incremento del dispendio energetico (attività fisica) di 200-300 Kcal al giorno è ottenibile in una considerevole proporzione della popolazione in sovrappeso per periodi superiori ai due anni. Questo tipo di intervento è in grado solitamente di realizzare una riduzione ponderale intorno ai 4 o 5 kg. In quelli che hanno perso almeno 4-5 chili, l’incidenza di diabete si riduce del 30% rispetto al resto della popolazione. Quindi delle misure anche abbastanza modeste, a prima vista poco significative, riescono ad avere un impatto sul rischio di diabete che è clinicamente abbastanza rilevante. Una nuova generazione di studi di intervento dovrà porsi proprio obiettivi di questo tipo, meno ambiziosi ma più facilmente realizzabili nella pratica, per dimostrare definitivamente che la riduzione ponderale è realizzabile ed è efficace. I fattori che possono influenzare il rischio di diabete non sono soltanto legati all’obesità, quindi alla quantità di calorie introdotte con la dieta, ma sono legati anche alla composizione della dieta. Su questo aspetto i dati in nostro possesso sono più scarsi e inoltre occorre prestare particolare attenzione alla loro interpretazione giacché l’introito calorico rappresenta un fattore confondente di cui bisogna comunque tener conto. Ad esempio molti studi hanno dimostrato che un aumento dei grassi nella dieta (indipendentemente dal tipo di grassi) predispone al diabete; tuttavia questa relazione si spiega perché un aumento dei grassi nella dieta (più calorie) predispone all’obesità e quindi l’effetto non è diretto, ma mediato dall’introito calorico. Tuttavia, se si tiene conto dell’effetto confondente dell’introito
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calorico e si esprime ciascun tipo di grassi come percentuale dei grassi totali, il quadro, inizialmente confuso, inizia a chiarirsi e si può evidenziare che l’uso di grassi monoinsaturi si associa a minore rischio di diabete rispetto all’uso di grassi saturi. Occorre quindi tener conto della dieta nel suo complesso imparando a separare gli effetti di alimenti che a prima vista sembrano simili perché contengono prevalentemente grassi o prevalentemente carboidrati o proteine. Ciò è vero anche per gli alimenti ricchi in carboidrati. Infatti diversi studi che hanno messo in relazione la quantità di carboidrati nella dieta con il rischio di diabete hanno avuto risultati contrastanti. Tuttavia, se si tiene conto del contenuto in fibre e dell’indice glicemico, si vede che il rischio di diabete è direttamente proporzionale al carico glicemico della dieta (quantità di carboidrati × indice glicemico di ciascun alimento) ed è inversamente proporzionale al contenuto in fibre vegetali della dieta. Quindi aumentando la quantità di carboidrati a elevato indice glicemico nella dieta aumenta il rischio di diabete, mentre aumentando il consumo di alimenti ricchi sia in carboidrati che in fibre vegetali il rischio di diabete si riduce. Pertanto gli individui che hanno maggior rischio di diabete sono quelli con una dieta ricca in carboidrati e povera in fibre, mentre quelli a minor rischio sono quelli che utilizzano una dieta povera in carboidrati ad alto indice glicemico e ricca, invece, di alimenti che contengono sì carboidrati, ma a basso indice glicemico e/o ricchi in fibre. Sono, questi, studi di osservazione e quindi non conclusivi. Abbiamo bisogno di studi di intervento per poter trarre conclusioni definitive; questa osservazione, tuttavia, richiama l’attenzione su alimenti che sono già consigliati al paziente diabetico per i loro benefici effetti metabolici (legumi, frutta e ortaggi) e sui quali si apre adesso una nuova stagione di studi per valutare anche il loro impatto positivo sulla prevenzione del diabete. In attesa dei risultati di questi studi l’approccio più ragionevole alla prevenzione del diabete è quello di consigliare un migliore equilibrio tra calorie ingerite e energia consumata senza pretendere sacrifici eroici, ma limitandosi a suggerire semplici misure per essere più attivi (basta anche 1/2 ora di esercizio fisico al dì) e per limitare il consumo di alimenti ad alta densità energetica (grassi, bevande zuccherate, dolci). Per quanto attiene alla composizione della dieta è molto verosimile che le abitudini alimentari valide per una efficace prevenzione delle patologie cardiovascolari e dei tumori possano essere utili anche per la prevenzione del diabete. Questo consente un approccio preventivo unitario rivolto alle patologie più frequenti nel mondo occidentale, in grado di ottimizzare il rapporto benefici/rischi e utile per implementare da subito misure verosimilmente opportune anche per la prevenzione del diabete, in attesa di risultati definitivi degli studi di intervento.
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LA TERAPIA FARMACOLOGICA DEL DIABETE DI TIPO 2 Stefano Del Prato Cattedra di Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Padova
Il fine della terapia ipoglicemizzante del diabete mellito è garantire al paziente diabetico una vita libera da sintomi ma soprattutto libera da complicanze a lungo termine. Studi ormai divenuti pietre miliari della diabetologia costituiscono il razionale del controllo glicemico quale fondamentale tappa per la prevenzione della complicanza diabetica. Il DCCT ha chiaramente dimostrato come lo stretto controllo della glicemia sia in grado di ridurre l’incidenza e la velocità di progressione della microangiopatia (retinopatia e nefropatia) e della neuropatia (1). Per quanto non specificatamente disegnato allo scopo, il DCCT forniva anche indicazioni sul possibile impatto favorevole del buon controllo glicemico sull’evento cardiocircolatorio. Risultati molto simili sono stati riportati nello studio giapponese di Kumamoto (2), dove un effetto positivo sulla complicanza microangiopatica e neuropatica veniva confermata in diabetici di tipo 2 in trattamento insulinico intensivo. Anche in questo caso il dato relativo alla macroangiopatia rimaneva marginale, soprattutto per l’esiguo numero di eventi registrati (2). Nel diabete di tipo 1 il trattamento insulinico è un esempio classico di terapia endocrina sostitutiva. Al contrario, il diabete di tipo 2 include tutta una serie di mezzi farmacologici che riflettono e i diversi gradi di severità della malattia e la complessità della sua patogenesi. Il diabete di tipo 2 è infatti patologia subdola che inizia, nella vasta maggioranza dei casi, con iperglicemie isolate prevalentemente post-prandiali e che riconosce la compartecipazione di un difetto di secrezione insulinica e di azione dell’ormone (insulino-resistenza). Sfortunatamente, nessuno dei farmaci disponibili e correntemente impiegati è esente da potenziali effetti indesiderati. La stessa iperinsulinemia cronica quale si ottiene con un trattamento insulinico intensivo svolgerebbe, secondo alcuni Autori, un effetto aterogeno (3). Le sulfoniluree agiscono sui canali del potassio della betacellula così come su quelli delle pareti vasali potendo alterare la vasodilatazione post-ischemica e aumentare il rischio di accidenti cardiovascolari (4). La metformina può non essere completamente indicata in pazienti a rischio di ipossia a causa dell’aumentato rischio di acidosi lattica (5). Infine, non esiste un consenso universale sul momento e sulla specifica indicazione all’uso di un farmaco rispetto all’altro per il trattamento del diabete di tipo 2. Informazioni più appropriate possono venire solo da ampi studi randomizzati dai quali possa emergere il ruolo del controllo glicemico nella prevenzione della complicanza nel diabete di tipo 2 e l’eventuale vantaggio di un approccio terapeutico rispetto a un altro in funzione della tipologia della malattia. Già negli anni sessanta lo University Group Diabetes Program (UGDP) aveva confrontato gli effetti della terapia con tolbutamide, fenformina e insulina (6). Quello studio venne interrotto a causa della eccessiva frequenza di episodi di acidosi lattica nei pazienti trattati con fenformina e per un eccesso di eventi cardiovascolari in quelli che assumevano la
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Figura 1 Andamento della emoglobina glicata nei pazienti randomizzati a trattamento intensivo e convenzionale nel corso del follow-up mediano dello UKPDS (adattato da ref. 7)
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sulfonilurea. I risultati furono fonte di innumerevoli querelles, la critica maggiore relativa a un possibile pregiudizio di selezione dei pazienti. I risultati più solidi sin qui forniti derivano dallo United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) (7). Lo studio inglese, avviato nel 1977, ha seguito per un periodo medio di 10 anni 3867 pazienti con diabete mellito di tipo 2 di nuova diagnosi assegnati, in modo randomizzato, a trattamento intensivo con sulfonilurea o insulina o a trattamento convenzionale con dieta. Nel corso dei 10 anni di osservazione l’emoglobina glicata era pari al 7,0% nel gruppo in trattamento intensivo e 7,9% in quello a trattamento convenzionale. Questa divaricazione comportava una riduzione pari al 12% (p=0,029) degli eventi correlati al diabete con un particolare effetto sulle complicanze microangiopatiche (-25%; p=0,0099). Il confronto tra il trattamento con insulina o con sulfoniluree non evidenziava alcuno specifico vantaggio di un trattamento rispetto all’altro. Sulla scorta di questi risultati, si potrebbe ben concludere che, nella misura in cui il buon controllo glicemico venga assicurato, non vi sono peculiari indicazioni all’uso di insulina o sulfoniluree. È però importante analizzare in modo più accurato i risultati dello UKPDS. In particolare, si può Convenzionale apprezzare come dopo l’iniziale miglioramento della HbA1c ottenuto con il trattamento intensivo, il controllo glicemico peggiorasse con una velocità di proIntensiva gressione eguale a quella osservata nei pazienti in trattamento convenzionale (fig. 1). Il motivo di questo andamento può essere ascritto alla: 1. storia naturale del diabete mellito, o 2. parziale efficacia della 6,2% limite superiore dell’intervallo di normalità terapia farmacologica a nostra disposizione. Lo UKPDS venne disegnato nel 1975 e 6 9 12 15 avviato nel 1977. L’obiettivo terapeutico Anni dalla randomizzazione dichiarato dello UKPDS era la normalizzazione della glicemia a digiuno e nessun altro criterio metabolico veniva considerato nelle decisioni terapeutiche, in particolare nessun peso è stato attribuito alle glicemie nel corso della giornata. Questo tipo di scelta ha degli ovvi riflessi sull’impatto dei vari tipi di terapia posti in essere.
Terapia con sulfoniluree Le sulfoniluree esercitano il loro effetto stimolando e/o potenziando la secrezione di insulina. Nel diabete di tipo 2 è sempre presente un difetto di secrezione tale da giustificare il ricorso a un secretagogo. Il difetto di secrezione non è però sempre e solo un difetto quantitativo, bensì più frequentemente esso è qualitativo. Nelle fasi iniziali della malattia si può facilmente riconoscere una perdita della fase precoce, rapida della secrezione beta-cellulare. Nelle fasi più avanzate, mentre può persistere una fase secretiva tardiva più sostenuta, la prima fase è irrimediabilmente deficitaria. La prima fase di secrezione insulinica non è un semplice marcatore della disfunzione pancreatica, ma riveste un notevole ruolo fisiologico nella regolazione omeostatica del metabolismo glucidico. Il secreto beta-cellulare viene riversato nel torrente portale cosicché è il fegato a essere insulinizzato in prima battuta. La perdita della
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prima fase di secrezione insulinica si accompagna a una minore efficacia nella soppressione della produzione epatica di glucosio e a una peggiore tolleranza glucidica nelle fasi post-prandiali. I picchi iperglicemici, soprattutto post-prandiali, rivestono una grande importanza. Infatti, sono le glicemie nelle fasi che seguono l’assunzione di un pasto quelle che più marcatamente influenzano i livelli di HbA1c (8). Inoltre, sempre maggiori sono le evidenze che suggeriscono come il picco iperglicemico possa determinare un effetto negativo indipendente sulla comparsa ed evoluzione della complicanza micro- e macroangiopatica (9). È altrettanto vero che la produzione epatica di glucosio è un determinante della glicemia a digiuno ma le nostre abitudini alimentari fanno sì che sempre maggiore è il periodo delle fasi post-prandiali rispetto a quello di digiuno. Quindi, se la scelta di una sulfonilurea di lunga durata, quale glibenclamide e clorpropamide impiegate nello UKPDS, può rientrare nella logica del controllo della glicemia basale, più appropriato sembra il ricorso a farmaci in grado di ripristinare la dinamica di secrezione insulinica: in altre parole farmaci in grado di generare un rapido aumento della insulinemia in concomitanza con la loro assunzione e come tali capaci di contenere l’escursione glicemica post-prandiale, contribuire a migliorare il controllo glicemico generale e limitare il danno intrinseco alla escursione glicemica acuta. Questo punto è ritenuto così importante che i nuovi agenti ad attività secretoria beta-cellulare tendono ad avere come obiettivo proprio il ripristino della fase di rilascio rapido dell’insulina (10). La meglitinide è un derivativo dell’acido benzoico capace di stimolare il rilascio rapido dell’insulina. Questo composto e i suoi analoghi aumentano il rilascio glucosio-mediato di insulina riducendo la conduttanza del potassio nella beta-cellula e non stimolano la secrezione in assenza di nutrienti. La repaglinide è l’analogo recentemente introdotto nella farmacopea diabetologia. Di prossima immissione è anche la nateglinide, un derivativo della fenilalanina dotata di analoghe proprietà. Lo UKPDS ha confermato che il trattamento con sulfoniluree, così come la terapia insulinica, comportano un aumento del rischio ipoglicemico. Oltre ai rischi acuti della riduzione dei tassi ematici di glucosio, l’ipoglicemia è causa di fluttuazioni glicemiche. Tanto maggiore l’instabilità glicemica tanto più elevato il rischio di mortalità nella popolazione diabetica anziana (11). Quindi, il trattamento ideale dovrebbe essere quello che comporta una significativa riduzione delle glicemie nell’intero arco della giornata con il più basso grado di fluttuazioni. In quest’ottica nuove molecole tentano di fornire nuove armi al diabetologo nella gestione del paziente con diabete di tipo 2. Ad esempio, una sulfonilurea della terza generazione come la glimepiride, per sue specifiche caratteristiche di legame al recettore della beta-cellula, indurrebbe una secrezione più modulata rispetto delle variazioni glicemiche, cosicché, a parità di livello di HbA1c rispetto a sulfoniluree della seconda generazione, la frequenza delle ipoglicemie è ridotta (12). In conclusione, un trattamento moderno con sulfoniluree dovrebbe produrre: 1. una secrezione insulinica più fisiologica; 2. un controllo glicemico più stabile con una minore escursione glicemica soprattutto nelle fasi post-prandiali.
La terapia insulinica Lo UKPDS ha confrontato non solo gli effetti del trattamento intensivo verso quello convenzionale, ma ha anche ricercato eventuali vantaggi intrinseci alla terapia insulinica verso quella con sulfoniluree. Il trattamento insulinico ha dei vantaggi teorici in quanto, se opportunamente impiegato, dovrebbe essere in grado di controllare anche gli squilibri glicemici più severi. Di certo, la terapia insulinica può essere, prima o poi, essenziale in molti diabetici di tipo 2. Gli svantaggi sono
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Incremental Plasma Glucose AUC (mmol/L/300min)
1000
750
500
250
0
Incremental Plasma Insulin AUC (nmol/L/300min)
42 36 30 24 18 12 6 0
Incremental Plasma C-Peptide AUC (µmol/L/300min)
0,2
0,15
0,1
0,05
0
Figura 2 Aree incrementali di glicemia (in alto) insulinemia (al centro) e C-peptide (in basso) in pazienti diabetici di tipo 2 dopo assunzione di 50 g di glucosio per os preceduta dalla somministrazione sottocutanea di 0,075 U/kg di massa corporea magra di insulina umana pronta (colonne vuote) o analogo lispro (colonne piene) (ref. 14)
ovviamente quelli della “scomodità” dell’iniezione sottocutanea, dell’aumento del peso corporeo, del rischio dell’ipoglicemia. Lo UKPDS avrebbe invece smentito un effetto aterogeno del trattamento cronico con insulina. * Lo studio inglese ha, comunque, adottato un criterio restrittivo nel disegnare la strategia terapeutica con insulina, consistendo questa prevalentemente in una iniezione serale di insulina-NPH. Questo approccio ben rispondeva agli obiettivi terapeutici predefiniti, cioè un valore glicemico a digiuno £ 110 mg/dL. Dato che la glicemia a digiuno è sostanzialmente funzione del rilascio epatico di glucosio (13) la somministrazione di una insulina ritardo serale con l’obiettivo di contenere la produzione epatica notturna appare indicata e razionale. Ciò facendo però si è completamente dimenticato qual è il tipico disturbo secretivo beta-cellulare. I dati della letteratura indicano che la secrezione basale di insulina è frequentemente conservata nel diabetico di tipo 2 mentre costantemente deficitaria è la risposta rapida in corrispondenza dell’assunzione di alimenti. L’effetto di un analogo dell’insulina ad azione rapida come l’insulina lispro rispetto all’insulina umana pronta è stato oggetto di una * recente esperienza del nostro gruppo di ricerca (14). L’insulina lispro, rispetto all’insulina pronta, si caratterizza per una più rapida comparsa in circolo, un picco più elevato e una emivita più breve, proponendosi, quindi, come un possibile mezzo per ripristinare il rapido incremento di insulinemia in corrispondenza dei pasti. Sono stati studiati pazienti con diabete di tipo 2 cui venivano somministrati 50 g di glucosio per os preceduti da equivalenti dosi (0,075 U/kg di massa magra corporea) di insulina lispro o pronta. La figura 2 riassume i risultati dello studio che ha evidenziato come, a parità di quantità totale di insulina resa disponibile all’organismo, la ricostruzione di una comparsa rapida di insulina in circolo ottenuta con l’insulina lispro comportasse una riduzione del 40% dell’area incrementale del glucosio e, dato interessante, una riduzione dell’area incrementale del C-peptide, a suggerire un effetto risparmio sulla beta-cellula. Il ricorso a tecniche isotopiche ha inoltre permesso di definire come il meccanismo responsabile del miglioramento della tolleranza glucidica fosse interamente dovuto a una più efficace inibizione della produzione endogena di glucosio. Un altro dato positivo era che, con il ripristino di una fase rapida di innalzamento dell’insulinemia, i livelli dell’ormone nelle fasi tardive erano ridotti, a indicare la possibilità che la tolleranza glucidica può essere migliorata senza incorrere nella iperinsulinemia.
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Livelli elevati di insulina persistenti nelle fasi post-prandiali contribuiscono tra l’altro a elevare il rischio di ipoglicemia e di aumento del peso corporeo. E in effetti, nello UKPDS, il ricorso a sulfoniluree e preparazioni di insulina a lunga durata hanno comportato un significativo aumento del peso corporeo.
La terapia con farmaci insulino-sensibilizzanti Se l’aumento dei livelli di insulina circolante, comunque indotto, determina un aumento del peso corporeo, questo tipo di approccio potrebbe divenire problematico in pazienti diabetici obesi. Lo UKPDS ha randomizzato un gruppo di siffatti pazienti a trattamento con metformina (15), ottenendo un grado di controllo glicemico analogo a quello ottenuto con insulina e sulfoniluree senza incorrere nell’aumento cronico dei livelli di insulinemia né di peso corporeo. Ancor più sorprendente è stato il risultato in termini di riduzione del rischio di complicanze. A differenza di insulina e sulfoniluree, il vantaggio conferito dal controllo glicemico con metformina non si limitava alla microangiopatia, ma diveniva statisticamente significativo anche per la macroangiopatia, con una riduzione del 39% dell’infarto del miocardio (p=0,01). Quale sia il motivo di questo risultato non è completamente chiaro. L’evitare un ulteriore incremento ponderale potrebbe avere favorevolmente influito sulla comparsa ed evoluzione della macroagiopatia. Se i nuovi farmaci per il trattamento dell’obesità risulteranno realmente efficaci, sarà possibile valutare il contributo dell’eccesso di peso corporeo al rischio connesso al diabete. Dati iniziali suggeriscono che l’uso di orlistat, un inibitore delle lipasi intestinali, in diabetici di tipo 2 comporta un miglioramento del controllo glicemico e del profilo lipidico (16). Di fatto, la stessa metformina potrebbe esercitare effetti favorevoli in modo diretto. È noto da tempo che la metformina esercita un effetto favorevole sul profilo lipidico, sul profilo coagulativo, sui valori pressori oltre a ridurre i livelli medi di insulinemia. La metformina agisce sulla resistenza all’insulina e l’insulino-resistenza potrebbe essere collegata al rischio cardiovascolare. Anche in questo caso, la ricerca farmaceutica sta per mettere nelle mani del diabetologo nuove armi: i tiazolidinedioni. Il primo rappresentante di questa famiglia di farmaci che grazie alla loro interazione con i recettori PPAR-γ migliorano la sensibilità all’insulina (17) è il troglitazone. L’uso del farmaco è limitato agli Stati Uniti essendo esso stato ritirato negli altri Paesi a causa di un certo grado di epato-tossicità. Farmaci più maneggevoli e sicuri sono comunque prossimi: rosiglitazone e pioglitazone permetteranno di definire il reale impatto dell’intervento sulla insulino-sensibilità del paziente diabetico di tipo 2.
Terapie associate Le analisi dello UKPDS sono tutte “intention to treat”. In altre parole, la valutazione comparativa avveniva in funzione della randomizzazione iniziale indipendentemente dal fatto che il singolo paziente venisse mantenuto per l’intero periodo di osservazione con il farmaco iniziale. Uno dei risultati chiave dello studio inglese è proprio quello di avere dimostrato come, nell’evolvere della patologia, sempre maggiore è il numero di soggetti che richiede un trattamento combinato con due e più farmaci. Il trattamento combinato è, di fatto, una realtà e le linee guida di vari organismi internazionali hanno tentato di razionalizzarne l’indicazione. Lo UKPDS ha, peraltro, riportato un risultato che ha suscitato iniziale preoccupazione dato che l’associazione di metformina e sulfonilurea avrebbe comportato un più elevato grado di eventi cardiovascolari. Un’analisi più accurata dei dati sembra però indicare
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che questo risultato sia imputabile non tanto a un reale incremento degli eventi nel gruppo di pazienti in trattamento combinato, quanto in un anomalo numero limitato di accidenti cardiovascolari nel gruppo di controllo in monoterapia. In modo più realistico i risultati dello UKPDS indicano che il trattamento combinato è una tappa quasi obbligata nella storia naturale del diabete di tipo 2. L’importante è che questo intervento non venga dilazionato, ma piuttosto venga avviato non appena i limiti di guardia relativi al controllo glicemico vengano superati. Le varie associazioni possono essere impiegate in modo successivo o alternato e comunque in modo tale da garantirsi quanto più possibili mezzi per ricondurre entro i limiti di sicurezza (HbA1c ≤7,0) il controllo glicemico non appena esso tenda a deteriorarsi. È utile ricordare come lo UKPDS abbia, in quest’ottica, esplorato anche l’efficacia dell’associazioe alla terapia di base dell’acarbosio, dimostrando la possibilità di ottenere una riduzione media della HbA1c di 0,5 punti percentuali (18). Il concetto di trattamento combinato dovrebbe però essere allargato a includere quello di trattamento complesso o multiplo. Ancora una volta lo UKPDS ha fornito dati di estrema solidità a sostegno della importanza del trattamento di patologie frequentemente associate al diabete mellito di tipo 2 (19). La randomizzazione dei pazienti UKPDS a un trattamento aggressivo (PAO 144/82 mmHg) rispetto a uno meno aggressivo (PAO 154/87 mmHg) comporti una significativa riduzione del rischio di micro- e macroagiopatia. Lo studio 4S (20) ha egualmente dimostrato la potenza, in termini di riduzione della mortalità cardiovascolare, del trattamento con statine nel paziente diabetico. Nel loro insieme, questi studi indicano come associata alla terapia ipoglicemizzante debba essere prontamente instaurata una terapia antipertensiva e ipolipidemizzante.
Conclusioni La terapia ipoglicemizzante del diabete di tipo 2 continua a sfruttare principi identificati ormai da oltre mezzo secolo. Nuove conoscenze fisiopatologiche dovrebbero guidare una terapia moderna, terapia che dovrebbe risultare più aggressiva con l’introduzione di nuovi farmaci concepiti per correggere in modo più specifico i meccanismi patogenetici responsabili del disturbo metabolico. In particolare, la terapia del diabete di tipo 2 potrà correggere il difetto secretorio dinamico della beta-cellula (ripristino della fase rapida di secrezione), migliorare ulteriormente la sensibilità all’insulina, ridurre il peso corporeo. Gli sforzi terapeutici dovranno essere indirizzati verso obiettivi ben definiti (HbA1c ≤7,0) ma con particolare riguardo al controllo della glicemia in ogni fase della giornata provvedendo a ridurne quanto più possibile le oscillazioni nel corso della giornata e tra giorno e giorno. Nell’ottica del mantenimento di un controllo glicemico ottimale e costante, l’instaurazione di varie forme di terapia associata dovrà essere presa in considerazione ogni qualvolta i livelli soglia vengano superati, così come prontamente dovrebbe essere instaurata una terapia insulinica razionale. Ma se aggressivo dovrà essere l’atteggiamento nei confronti del metabolismo glucidico, altrettanto pronto ed efficace dovrà essere il trattamento delle patologie associate: in particolare, ipertensione e dislipidemia. Ma prima ancora di mettere in atto tutti presidi di cui sopra, fondamentale sarà, nel futuro, il pronto riconoscimento del disturbo metabolico così da permetterne una precoce correzione. La lezione viene ancora dallo UKPDS. Al momento dell’arruolamento, dei pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito oltre il 25% già presentava i segni di una o più complicanze d’organo. Il compito del diabetologo sarà quindi di diagnosticare precocemente, trattare efficacemente, correggere non la sola iperglicemia ma l’intera malattia metabolica, che il diabete di tipo 2 è malattia metabolica più che endocrinologica.
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GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Autogestione del diabete
La gestione della malattia diabetica: il punto di vista del paziente e del medico U. Valentini (Brescia) L’educazione come momento fondamentale per la cura e l’autogestione del diabete N. Musacchio (Milano) Tecniche e strategie pedagogiche nell’educazione del paziente diabetico A. Maldonato (Roma) Le competenze professionali nel processo educativo V. Miselli (Reggio Emilia) Fattibilità dell’intervento educativo. Costi e benefici C. Noacco (Udine)
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LA GESTIONE DELLA MALATTIA DIABETICA: IL PUNTO DI VISTA DEL PAZIENTE E DEL MEDICO Umberto Valentini Unità Operativa Diabetologica, Spedali Civili di Brescia
Ottenere risultati clinici che permettano al paziente diabetico di evitare le complicanze della malattia, e non andare incontro a una mortalità precoce, non è assolutamente facile e la maggior parte di questi risultati si possono raggiungere esclusivamente attraverso un impegno particolare del paziente. Cosa intendiamo per gestione? Gestione deriva dal latino“gerere”: vuol dire mettere insieme una serie di azioni, di operazioni che servono per raggiungere degli obiettivi. Dobbiamo quindi organizzare la gestione della malattia diabetica non solo per ottenere la prevenzione delle complicanze e la buona qualità della vita del nostro paziente, ma soprattutto per mantenere questi risultati negli anni.
Le caratteristiche della malattia cronica Per meglio comprendere le difficoltà della gestione del diabete, è opportuno riflettere sulle caratteristiche delle malattie croniche. Il diabete si può considerare il prototipo della malattia cronica: dà pochi segnali d’allarme, spesso nessun sintomo o pochi sintomi, ciò che nella credenza comune vuol dire “assenza di malattia “. La causa di una patologia cronica sovente non è chiara e di conseguenza i rimedi non sono molto incisivi. Spesso vi sono gravi danni d’organo con pochissimi segnali d’allarme; l’evoluzione è incerta e lo stile di vita influenza l’evoluzione della malattia. Il trattamento è diverso da quello che noi proponiamo per la malattia acuta (e cioè diagnosi, trattamento per un breve periodo, dopodiché il paziente, quando va tutto bene è guarito). Nel caso della malattia cronica il trattamento è importante perché il paziente stia bene e sopravviva, ma comporta una disciplina quotidiana e quindi il paziente tutti i giorni dedica del tempo alla terapia che così interferisce con la vita sociale; inoltre ha effetti non sempre facili da prevedere, e viene prescritta da molti medici. Il paziente, di fronte al peso della cronicità, rifiuta la malattia: si rende conto che fa errori e che deve imparare molte cose, spesso in qualche modo, deve curarsi da solo e deve trovare una mediazione tra la terapia e il suo stile di vita. E certamente, queste malattie creano problemi nella vita familiare, sociale e lavorativa; costano care, non solo in senso economico, ma anche dal punto di vista psicologico e sociale. Sono malattie che nella monotonia, tipica della cronicità, danno spesso crisi, crisi acute: basti pensare all’ipoglicemia, oppure alle crisi iperglicemiche del diabetico. I pazienti si rendono conto delle conseguenze che possono capitare nel tempo e questa spada di Damocle dà impatti diversi: alcuni rifiutano completamente la malattia, altri la vivono in una situazione di ansia continua. I medici sono preparati per la gestione dell’acuto, quindi formati per guarire: hanno la soddisfazione più grande di fronte a un paziente che se ne va più o meno rapidamente, guarito. Seguire una malattia cronica diventa un lavoro sfibrante, ripetitivo, monotono:
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• molto spesso, nel tempo, i sanitari dicono allo stesso paziente le stesse cose, magari in modo diverso, ma comunque sempre con gli stessi contenuti • gli interventi terapeutici sono abbastanza limitati • i sanitari si sentono soli nel proprio lavoro e non sempre riescono a fare quello che vorrebbero fare. Cosa comporta questa situazione? Cosa comporta la malattia cronica? Comporta che, per il paziente, è estremamente difficile mettere in atto la terapia prescritta. I dati della letteratura indicano che, dopo tre anni dall’inizio della malattia, solo il 34% dei pazienti riesce a seguire correttamente la terapia; solo il 33% dei genitori riesce a fare correttamente nel tempo la terapia per il reumatismo articolare acuto. I genitori sono sicuramente motivati, eppure l’aderenza alla terapia prescritta scende. Quindi ci sono grosse difficoltà tra ciò che viene prescritto dai medici e quello che il paziente riesce a mettere in atto. A questo punto è chiaro che qualsiasi tipo di intervento, anche bene organizzato, il farmaco più sofisticato e costoso, in realtà servono molto poco se il paziente non riesce poi a gestirsi la malattia. Gli obiettivi della cura del diabete sono: ottimizzare il controllo metabolico, prevenire le complicanze, evitare l’ospedalizzazione, mantenere un buon rapporto medico-paziente, migliorare la qualità della vita. Sono sicuramente obiettivi condivisi da tutti e misurabili attraverso: l’emoglobina glicata, la glicemia, la colesterolemia, i trigliceridi, il peso corporeo, la pressione arteriosa, l’astensione dal fumo. Nella maggior parte di questi risultati biologici, deve intervenire per forza il paziente: infatti si possono raggiungere, ma soprattutto mantenere nell’arco degli anni, soltanto se il paziente viene coinvolto nella autogestione consapevole della malattia. Il paziente di fronte a questi obiettivi clinici si sente spesso confuso: oculista, medici di famiglia, diabetologo, dietista, nefrologo, psicologo, dentro e fuori dall’ospedale danno una serie di informazioni, di suggerimenti, tecnici o di tipo comportamentale, che spesso creano confusione. Il paziente quindi si trova in difficoltà: “Cosa devo fare, ma quanto tempo devo perdere, ho problemi di lavoro, ho problemi di scuola, ma che cosa mi dicono, non capisco cosa mi stanno dicendo”.
Le difficoltà per il paziente Alcune tra le difficoltà maggiori nell’aderire alla terapia prescritta si ritrovano all’interno della famiglia: gli orari della terapia, la dieta, impongono al paziente un comportamento diverso (perlomeno dal punto di vista del paziente), rispetto a quello degli altri componenti della famiglia. Il paziente diabetico si sente di peso, in qualche modo isolato, incompreso e qualche volta ha l’impressione di dovere scegliere tra curarsi, e quindi isolarsi dal resto del nucleo familiare, oppure, non curarsi e rimanere all’interno del gruppo familiare. Per il diabetico è difficile rispettare continuamente il ritmo quotidiano della terapia, nella sua globalità (attività fisica, alimentazione, farmaci, autocontrollo) abituale. Quindi questo cosa vuol dire? Che, nonostante un giorno sia diverso dall’altro, il ritmo della terapia rimane uguale. Diventa difficile mangiare quando non si vuole, per esempio lo spuntino prima di coricarsi: in sostanza seguire regole che li differenziano dalle altre persone. Queste regole vengono intese in senso costrittivo, non come strumenti per gestire in modo equilibrato la malattia, ma come un macigno che li schiaccia, li vincola ad atteggiamenti e comportamenti non abituali. Inoltre l’impegno nella gestione della malattia, non li rassicura sul fatto che la malattia non evolva, per cui, sullo sfondo, rimane sempre questa preoccupazione:
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“Ma che cosa mi succederà? Io sono qui che faccio quattro iniezioni al giorno, controllo quattro volte al giorno la glicemia, sto attento a quello che mangio, mi muovo, correggo continuamente la dose, ma sono sicuro che poi tutto questo mi servirà? Sono sicuro che poi tutto questo eviterà che io vada incontro alle complicanze? Quanto tempo devo dedicare ai controlli? La giornata di lavoro o di scuola è tale che per me è difficile avere tempo. Gli operatori sanitari spesso hanno fretta, devono dedicare tempo a tutti e quindi non c’è l’opportunità di riuscire a spiegare ciò che si vorrebbe “. A questo punto il nostro paziente si sente solo, confuso, depresso, preoccupato per il futuro. Questi sono i sentimenti, le emozioni, le sensazioni che spesso i diabetici provano nel cercare di mantenere nel tempo una buona aderenza alla terapia prescritta. Un esempio classico è la messa a dieta di un paziente diabetico obeso: il nostro paziente non accetta, ignora la malattia, che interferisce profondamente con lo stile di vita, non ha informazioni per gestire correttamente la malattia, e soprattutto non ha sintomi e quindi, secondo le credenze comuni, se non c’è dolore non esiste la malattia. E il medico ha difficoltà ad ascoltare il paziente, è preparato a guarire ed è impreparato a educare il paziente. Quindi cosa succede quando noi vogliamo mettere a dieta un paziente diabetico di tipo 2 obeso? Sappiamo che una perdita del 10% del peso corporeo permette spesso di normalizzare le glicemie e anche gli altri fattori di rischio (colesterolo, pressione...), ma di fronte a tutti i medici che gli dicono “devi dimagrire” (il diabetologo, la dietista, il cardiologo, il nefrologo, l’oculista) il paziente si difende, resiste tant’è che la nostra osservazione più frequente è che questi pazienti non dimagriscano per niente, o se perdono un peso lo recuperano nel tempo. Ma questo perché? Perché il paziente ha delle proprie opinioni, non ha capito: “Eh, continuano a spiegarmi, a dirmi carboidrati, lipidi, proteine e questo e quello e quell’altro, ma io non riesco a capire cosa mi stanno dicendo e quindi se non capisco, non riesco a mettere in pratica quello che dovrei fare. Le mele verdi fanno bene al diabetico - è una cosa nota che “Una mela al giorno toglie il medico di torno”, quelle verdi poi guariscono il diabete. Per cui le mele verdi si possono mangiare in quantità anche se costano di più. Con il mio lavoro è impossibile, devo trovarmi con i clienti a mezzogiorno, non posso rinunciare ai pasti, oppure ai turni di lavoro”. ... “Sto bene, dicono che ho il colesterolo alto, la glicemia alta, la pressione alta, ma in realtà non ho nessun disturbo e quindi vuol dire che sto bene; quindi vuol dire che i medici si sbagliano, in realtà io non ho nessun problema, e poi soprattutto non mangio nulla, assimilo tutto, anche l’acqua, ci sono quelli che mangiano tantissimo eppure sono magri, io sono fatto in modo diverso, vuol dire che quel poco che mangio me lo metto tutto quanto addosso”. Come si comporta il medico? Quali sono le giustificazioni? E alla fine, come viene messo a dieta il paziente, dopo tutta questa opinione diversa del “È colpa della struttura, non riesco a far calare di peso quel paziente perché non ho tempo, mi fan fare un mucchio di altre cose, turni, guardie, problemi con l’amministrazione, quindi se potessi star lì il tempo necessario a quel paziente sono sicuro che riuscirei a farlo calare di peso e a mantenergli il peso basso e questo risultato nell’arco del tempo, nell’arco degli anni. E poi non ho la dietista, il nostro ospedale non assume le dietiste e quindi mi manca il tecnico, il professionista che possa costruirmi le diete personalizzate e con quelle sicuramente farei calare di peso il mio paziente. E poi mi mancano delle belle diete, non le ho. Nell’ospedale vicino hanno delle diete molto sofisticate, personalizzate, giornaliere, se avessi anch’io quelle, sicuramente riuscirei a ottenere questo risultato. Poi se non è colpa della
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struttura è colpa del paziente: non ha la volontà, questo qui viene, mi dice di sì, ma in realtà non vuol fare quello che gli chiedo di fare. Non è motivato, non si rende conto che corre il rischio di andare incontro a infarto, ictus e così via; glielo dico anche e glielo spiego ma questo qui è come se non sentisse niente, non è proprio motivato, è come se se ne fregasse del tutto. Poi ragiona con lo stomaco. Dalle nostre parti si dice che “davanti al cuore c’è lo stomaco”e quindi pur di mangiare è disposto a tutto. Non capisce assolutamente niente, gli parlo, gli spiego, sto lì delle ore, lo mando anche dalla dietista, lo mando dall’infermiere, lo rivedo io, ma questo qui non capisce proprio niente.”. Spesso il paziente diabetico obeso viene messo a dieta con semplici e generici consigli: mangi di meno, si muova di più e poi “prenda questa dieta, sa leggere, la segua, provi a pesarsi e vedrà che poi se sta attento davvero perde peso”. Ma nel momento in cui noi prescriviamo un regime dietetico in questo modo, ci rendiamo quasi istantaneamente conto che il tempo che abbiamo impiegato col paziente è tempo perso perché sappiamo quasi per certo che il nostro paziente non perderà peso o, comunque, se lo perde, lo recupererà rapidamente. Allora qual è la soluzione per trasferire la nostra prescrizione in comportamenti corretti del paziente? Noi agiamo a livello di un approccio biomedico, il medico è formato da conoscenze biomediche di fisiologia, fisiopatologia, farmacologia e in base a segni e sintomi che va a rilevare, e in base ai disturbi che il paziente lamenta si pone diagnosi e trattamento. Quindi in questo modo il medico cura la malattia: è il tipico approccio che va bene per l’acuto. Il paziente cronico non riesce così a mettere in atto la prescrizione che noi abbiamo consigliato. Questo perché, accanto ai disturbi oggettivi che noi possiamo rilevare, esistono una serie di disturbi soggettivi: i preconcetti, le esperienze che ha avuto il paziente, le attese, le ansie e i timori, che vanno sicuramente a interferire in modo importante sui comportamenti del nostro diabetico obeso, e più in generale del paziente cronico. Occorre quindi aggiungere alla professionalità biomedica una professionalità di tipo biopsicosociale: non rinunciare a “fare”il medico ma acquisire delle nuove capacità. Ci troviamo ancora a trattare la malattia e quindi fare un intervento di fondo, inefficace, un intervento che non permette di curare la patologia, patologia che evolve comunque pian piano nel tempo, quindi dando un danno al paziente ma anche determinando uno sperpero o comunque un impiego non corretto delle risorse disponibili. L’arma vincente della cura della malattia diabetica diventa così l’educazione terapeutica: che permette di ottenere una gestione corretta del paziente, non della malattia, e permette soprattutto di raggiungere quei risultati clinici, che in sintesi vogliono dire mantenere nel tempo una buona qualità della vita, in assenza di complicanze croniche della malattia. Quindi, che l’educazione può essere considerata come una successione di momenti che il paziente può percepire come una catena di eventi in cui viene informato ad apprendere, si addestra, e poi mette in pratica quello che ha appreso nella sua vita quotidiana. E una serie di occasioni anche per esplicitare i timori, le ansie, le paure, e anche gli errori, senza comunque la paura che i suoi insuccessi o le sue difficoltà possano in qualche modo incrinare il rapporto con chi lo cura. E quindi possiamo considerare l’educazione come lo strumento che davvero può permettere di ottenere una prescrizione efficace: è lo strumento che permette di abbattere le barriere, che impediscono al paziente di arrivare a un’autogestione cosciente della malattia.
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L’EDUCAZIONE COME MOMENTO FONDAMENTALE PER LA CURA E L’AUTOGESTIONE DEL DIABETE Nicoletta Musacchio Servizio di Diabetologia, Ospedale Bassini, Milano
In tutte le patologie croniche una prevenzione efficace è legata all’aderenza alla terapia. Questo vuol dire che il paziente deve arrivare ad accettare un trattamento a lungo termine e ad autogestire la propria cura, cioè assumersi la responsabilità del proprio stato di salute. Per ottenere ciò, il paziente deve arrivare a pensare che la malattia e le sue conseguenze possano essere gravi e reali; essere convinto che seguire il trattamento avrà degli effetti benefici; pensare che i benefici controbilancino gli svantaggi della terapia e, soprattutto, arrivare ad assumersi e condividere la responsabilità della terapia e del suo stato di salute. Tutto ciò sta a significare che il paziente deve affrontare un percorso che preveda una corretta e precisa informazione sulla malattia e il trattamento; la riformulazione di un nuovo concetto di integrità, in considerazione delle sue precedenti rappresentazioni di salute e malattia, e arrivare a una accettazione attiva della malattia. Solo in questo modo potrà convincersi a curarsi e ottenere i risultati da noi auspicati. Nella cronicità, quindi, il medico deve imparare a controllare la malattia attraverso il paziente arrivando a un’alleanza terapeutica che è uno degli obiettivi fondamentali della terapia educativa. Diventa a questo punto evidente che solo una corretta motivazione consentirà al paziente di fare propria una strategia di cura e gli permetterà di percorrere questo cammino, ma anche che ogni operatore sanitario che si occupa di cronicità dovrà imparare a motivare ogni paziente e diventare un tecnico della motivazione.
La motivazione La motivazione è la risultante di forze intrinseche ed estrinseche che determinano i comportamenti. Le forze intrinseche, legate al paziente, sono caratterizzate dalle modalità interne più intime, di reazione agli stimoli, agli eventi. Le forze estrinseche sono le risorse esterne all’individuo che in qualche modo possono incidere sulle sue scelte e che permettono il cambiamento, l’evoluzione. Nella relazione medico-paziente sono legate ai comportamenti e agli atteggiamenti del medico e quindi più semplicemente modificabili. LA MOTIVAZIONE INTRINSECA Tre sono le principali teorie che ne identificano le regole: • le fasi di accettazione della malattia • le rappresentazioni dei modelli di salute e di malattia • Il locus of control Ogni volta che una persona incontra un evento negativo va incontro a un lungo
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processo emotivo che riconosce diverse fasi di accettazione della malattia così standardizzate: • Lo shock iniziale è il momento dell’evento, della diagnosi. La paura e l’angoscia sono i sentimenti dominanti. • Il rifiuto è il momento dell’incredulità, il distacco e la banalizzazione sono le sole possibilità di fuga. • La rivolta è il momento della ricerca del colpevole, il paziente comincia a prendere coscienza della triste realtà. • La negoziazione è caratterizzata dalla contrattazione, in genere sul trattamento. • La depressione è il momento della meditazione. Il paziente si rende conto e prende coscienza che nulla sarà più come prima e che deve assestarsi su di un nuovo livello di salute e un nuovo concetto di integrità fisica e di benessere. Questa è una fase molto delicata che presuppone ogni volta una seria diagnosi differenziale con un’iniziale depressione psichiatrica concomitante. Il paziente appare triste, isolato, ripiegato su se stesso, ma comunque attento e più partecipe alle strategie terapeutiche che gli vengono proposte. • L’accettazione attiva è il momento dell’equilibrio, dell’azione e della consapevolezza. Il paziente è pronto ad assumersi e a condividere la responsabilità della terapia e della sua salute. Imparare a riconoscere e a gestire queste fasi ci permetterà di essere più incisivi con i nostri interventi e anche a facilitare e accelerare il percorso del malato. A volte, però, alcuni pazienti che sembrano collaboranti e motivati sono invece incappati in quelle forme di pseudo-accettazione di malattia che dobbiamo imparare a evitare: • La rassegnazione, il paziente appare totalmente dipendente dal medico e dal suo giudizio senza opporre la minima discussione. Il medico è convinto di avere la sua approvazione senza rendersi conto che il paziente è in realtà incapace di qualunque azione e/o decisione in relazione alla sua salute. • La negoziazione volontaria, il paziente viene preso da una sorta di delirio di onnipotenza, è quello che tutto ha capito, che ha soluzioni pronte per ogni tipo di problema, che ha bisogno non di cure, ma di “consulenze”, che si è costruito un mondo di tali certezze da non accorgersi di andare avanti senza obiettivi e senza mete cliniche. • Il modello ansioso, il paziente accetta qualunque richiesta, non sembra turbato dall’affrontare qualunque tipo di rinuncia o di cambiamento; in realtà vive uno stato di profonda sofferenza psichica e l’obiettivo prioritario della sua vita diventa il riuscire a sedare la propria ansia e la propria paura. Questo cammino che il paziente deve percorrere per arrivare a una corretta motivazione riconosce alcune leve o barriere nelle rappresentazioni dei modelli di salute e malattia. Queste sono le convinzioni legate alle esperienze che precedono un organico processo di apprendimento che, quando identificate, permettono una comunicazione più efficace attraverso un linguaggio comune. Identificare rapidamente questa sfera intima di convincimenti può facilitare il medico a inserirsi nel cammino di maturazione psicologica che permetterà al malato di integrare la malattia sino ad accettarla. Infine, sempre nell’ambito della motivazione intrinseca, dobbiamo tenere conto della teoria del “locus of control”. Secondo tale ipotesi ognuno di noi manifesta nei confronti delle difficoltà della vita degli atteggiamenti e delle reazioni sempre simili e riconducibili a due tipologie standardizzate: • Locus of control interno • Locus of control esterno
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Il primo tipo ha la tendenza a credere che non è mai in prima persona responsabile degli eventi, di qualunque natura siano, non è mai il “controllore“ della propria vita, ma al contrario, contro il “fato“ è vano accanirsi. Il secondo tipo è invece colui che tutto controlla, tutto può modificare, che è artefice e primo attore del proprio destino. Queste due diverse capacità di reazione sono la risultante delle nostre esperienze, delle nostre peculiarità del carattere e diventano modalità espressive della nostra parte più interiore della personalità e pertanto difficilmente modificabili. In ogni caso una rapida identificazione del tipo del locus of control dei nostri pazienti ci permette di sintonizzarci più velocemente, ma anche di formulare richieste che risultino accettabili e percorribili. Chiedere ad esempio a un paziente con un locus interno di assumersi completamente e fin dall’inizio l’assoluta responsabilità del controllo della propria malattia può risultare altrettanto dannoso che proporre a un paziente con un locus esterno di affidarsi completamente al giudizio di un medico o alla potenza di un farmaco. LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA I fattori che caratterizzano la motivazione estrinseca hanno la peculiarità di essere modificabili, quindi più facilmente utilizzabili, e sono rappresentati principalmente da: • La relazione medico/paziente • La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del paziente La relazione del medico con il paziente, quando correttamente gestita, diventa un atto terapeutico ed è importante averne la consapevolezza e anche conoscere le regole che ne permettono il salto di qualità: • L’empatia, cioè basare l’incontro sull’accettazione dell’altro, l’assenza di giudizio, l’assenza della ricerca del colpevole. • Il patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente. • La gestione positiva dell’errore che vuol dire identificare le possibili situazioni a rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio, proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operare per la risoluzione dei problemi. La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del paziente cioè imparare a proporre a ogni paziente un contratto terapeutico, un patto di alleanza che implichi l’identificazione di obiettivi realizzabili da negoziare con il paziente e tali da garantirgli un benessere fisico e un’accettabile qualità di vita. Accettare una malattia significa riorganizzare la propria vita tenendo conto di un handicap personale: questo processo è doloroso e richiede tempo. Impegnarsi a cercare una strategia di terapia che preveda diverse tappe di intervento garantisce al paziente la possibilità di adattarsi e al medico di personalizzare le sue richieste.
I problemi e le possibili soluzioni Abbiamo sinora identificato lo scenario all’interno del quale ci muoviamo; ora dobbiamo cercare delle soluzioni efficaci ai diversi problemi. LE FASI DI ACCETTAZIONE DI MALATTIA • Lo shock iniziale al momento della diagnosi è caratterizzato da confusione e paura, il paziente fatica a comprendere cosa realmente è accaduto e cosa potrà succedere.
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La relazione basata sull’empatia, l’accoglienza senza richieste gli permetterà di sentirsi preso in cura, accudito e servirà a sedare il panico. Questo è il momento di ascoltare, di lasciarlo esprimere liberamente in modo da cominciare a capire che tipo di individuo sia, che rappresentazioni di salute abbia, quale sia il suo progetto di vita. • La fase di rifiuto è caratterizzata da sentimenti di minaccia e di fuga. Il paziente è arrabbiato con tutti e con nessuno, può essere utile aiutarlo a identificare un solo nemico; canalizzare la rabbia verso un obiettivo, magari piccolo, ma modificabile, per iniziare a fargli prendere coscienza che in ogni caso qualcosa si può fare. • La fase di rivolta è l’aggressività, ma in realtà non esiste un colpevole. La malattia va inquadrata nella giusta dimensione, si inizia a ragionare in termini di autogestione. • La fase di negoziazione è il primo segnale di apertura e collaborazione da parte del paziente ed è importante a questo punto integrare la malattia in un suo possibile nuovo progetto di vita. È la dimostrazione che esiste un futuro e le richieste del medico si possono collocare nella sua vita quotidiana. • La fase di depressione è il momento della tristezza e dell’isolamento: l’unico aggancio possibile è la condivisione, riuscire a far capire che comunque lui si senta noi ci siamo e condividiamo il suo cammino anche aspettando che si senta pronto di agire. • La negoziazione volontaria è una sorta di delirio di onnipotenza, il paziente ha capito tutto, si sente autonomo e capace di tutto. L’unica soluzione è quella di ridimensionarlo, di riappropriarsi del “camice”prima che combini troppi pasticci e sparisca del tutto al controllo. • Il modello ansioso è rappresentato dal panico totale. Il paziente dice di accettare qualunque richiesta pur di contenere la sua ansia e la sola arma che abbiamo è la ripetitività dei messaggi. Inserire il paziente in un gruppo di lavoro, circondarlo con il team di cura, può essere utile come contenitore per permettergli di superare la criticità della situazione. IL LOCUS OF CONTROL INTERNO Infine dobbiamo analizzare la possibilità di avere un paziente totalmente rassegnato che diventa assolutamente dipendente dal medico che diventa il controllore, il gestore della scelte e della vita. Questo atteggiamento deve essere superato perché per arrivare ad autogestire un trattamento il paziente deve diventare autonomo. Per potenziare la sua autonomia bisogna imparare a gestire positivamente gli errori e quindi: • Identificare le situazioni a rischio • Lavorare sul sentimento di frustrazione • Proporre soluzioni alternative • Identificare obiettivi semplici e accessibili • Operare per la risoluzione dei problemi
Conclusioni Come abbiamo analizzato e dimostrato, riuscire a motivare il paziente deve diventare momento fondamentale nella gestione di una patologia cronica, infatti il medico può davvero controllare la malattia attraverso il paziente, ma solo con la sua complicità. Purtroppo, però, riuscire a ottenere un paziente motivato è solo l’inizio di un lungo cammino che lo porterà a fare propria una strategia di cura.
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Per raggiungere questo risultato il paziente dovrà andare incontro a un apprendimento attivo della propria malattia e quindi dovrà : • Conoscere • Imparare a fare • Modificarsi Per ottenere tutto ciò il suo medico dovrà imparare a : • Spiegare • Ascoltare • Riformulare • Verificare l’apprendimento • Formare Queste sono le tappe che caratterizzano la pedagogia clinica che questa nuova era della medicina ci richiede di apprendere e che, forse, ci permetteranno di rispondere alla domanda: “E’ possibile imparare ad essere malato? “ “E’ possibile imparare a curare un malato, piuttosto che imparare a guarire una malattia?”
BIBLIOGRAFIA 1. Ruffino G, Assal JP: Motivation: A reciprocal engagement between doctor and patient. In: Assal JP, Berger M, Gay N, Canivet J (Eds): Diabetes Education how to improve patient education. Excerpta Medica Amsterdam-Oxford-Princeton, 1983, p. 249 2. Assal JP, Muhlhauser I, Penat A, Gfeller R, Jorgens V, Berger M: Patient education as the basis for diabetic care in clinical practice. Diabetologia 28, 602, 1985 3. Bradley C, Brewin CR, Gamsun D, Moses GL: Development of scales to measure perceived control of diabetes mellitus and diabetes related health beliefs. DM John Wiley and Son Ltd, 1984 4. Day JL, Assal JP: Educazione al paziente diabetico. In: Il diabete mellito: trattato internazionale. Editrice Mediserve, 1994 5. H. Corradin Erle: Metodologia dell’educazione sanitaria e sociologia della salute. Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1990 6. Musacchio N: Education of diabetics, 14 Alps-Adria Workshop on Diabetes Mellitus, Rogaska Slatina, Ottobre 1994 7. Noacco C: L’educazione del paziente diabetico. Il Diabete 1, 4, 1989 8. Casula C: I porcospini di Schopenhauer. Francoangeli Editore, 1997 9. Davis H: Fallowfield. Counseling and communication in health care. John Wiley, New York, 1991 10. Sutter J: L’anticipation. Psycologie et psychopathologie. Paris, PUF, 1983 11. Assal JP: Traitment des maladies de longue durée: de la phase aigue au stade de la chronicité. Une autre gestion de la maladie, un autre processus de prise en charge. Encycl Méd Chir (Elsevier Paris), Therapeutique 25-005-A-10, 1996
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TECNICHE E STRATEGIE PEDAGOGICHE NELL’EDUCAZIONE DEL PAZIENTE DIABETICO Aldo Maldonato Medico Ricercatore, Dipartimento di Scienze Cliniche, Università La Sapienza, Roma
In base a una recente definizione (1), lo scopo dell’educazione terapeutica è di aiutare i pazienti ad acquisire o conservare le competenze necessarie a gestire al meglio la loro vita con una malattia cronica. È un percorso a tappe, integrato nella cura, che richiede attività organizzate, incluso un sostegno psico-sociale. I pazienti dovrebbero arrivare a capire la malattia e il trattamento, collaborare e assumere la responsabilità della cura per conservare o migliorare la loro qualità di vita. Trasferendo questa definizione, che è valida per tutte le malattie croniche, al diabete in particolare, possiamo individuare una sequenza di eventi che dall’educazione del paziente, attraverso l’acquisizione di conoscenze teoriche, di capacità pratiche e di motivazione, porta a stabili modifiche di comportamento, necessarie per ottenere quel perfetto equilibrio glicemico, che a sua volta è indispensabile per prevenire le conseguenze nocive del diabete (complicanze acute, complicanze croniche, e conseguenze di queste ultime a livello del piede). L’educazione terapeutica è il pilastro su cui poggia questa catena di eventi. Un suo scopo essenziale è migliorare la motivazione dei pazienti, senza la quale la conoscenza e la capacità pratica da sole, come è risaputo, non inducono cambiamenti di comportamento. Per gli operatori sanitari è importante acquisire le competenze che li mettano in grado di lavorare sulla motivazione dei pazienti, imparando a valutare i fattori individuali, familiari, sociali e culturali che la influenzano. Per un’educazione terapeutica efficace, è necessario migliorare tre aspetti della cura e cioè: i nostri atteggiamenti, l’organizzazione dell’assistenza e le nostre competenze. Per quanto riguarda gli atteggiamenti degli operatori sanitari, la constatazione dell’insuccesso diffuso nell’applicare i progressi della scienza medica alla cura delle malattie croniche in genere e del diabete in particolare, ha indotto a mettere sotto accusa il tradizionale atteggiamento prescrittivo, in base al quale il medico è colui il quale decide, consiglia, ordina, guida. Nel caso delle malattie croniche, in cui il buon esito della cura dipende dall’impegno quotidiano del paziente e dei suoi familiari, questo atteggiamento semplicemente non funziona. Grazie all’apporto delle cosiddette scienze umane: pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia e bioetica, si è capito in anni recenti che, nel campo delle malattie croniche, gli operatori sanitari devono affrontare a un tempo le dimensioni biomedica, psicologica e socio-culturale della persona, utilizzando atteggiamenti che corrispondono al modello della relazione adulto-adulto: i soli efficaci nella promozione di cambiamenti di comportamento duraturi. Il moderno operatore sanitario che vuole curare i suoi malati cronici - così come il moderno educatore - è dunque una persona che ascolta, risponde, partecipa, è pronto a dar ragione e, quando è il momento, a mettersi in disparte. L’obiettivo terapeutico di ogni paziente diabetico è, come sempre, dettato dalle conoscenze biomediche: l’arte della cura consiste nel far sì che il nostro obiettivo terapeutico diventi il suo obiettivo di vita.
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Il Diabetes Education Study Group della Società Europea di Diabetologia, fondato quasi venti anni fa dal prof. Jean-Philippe Assal di Ginevra, e che attualmente ho l’onore di presiedere, ha in larga parte contribuito alla nascita e all’accettazione di questa nuova idea di un rapporto medico/paziente, o più in generale operatore sanitario/paziente, non più verticale, ma paritetico. Il cambiamento di atteggiamenti però non basta.“Se io torno al mio centro e sono oberato di appuntamenti, e afflitto da limitazioni di spazio, di personale, ecc., come posso dedicare tutto il tempo necessario all’ascolto attivo dei pazienti, alla comprensione dei loro desideri, alla ricerca di obiettivi terapeutici condivisi, all’istruzione e addestramento dei pazienti e dei loro familiari?”. Esistono indubbiamente problemi organizzativi che vanno affrontati se si vuole che l’educazione terapeutica faccia parte del percorso obbligato di ogni paziente diabetico. Per prima cosa bisogna individuare nell’organizzazione del servizio gli spazi e i tempi per l’educazione individuale e poi anche per l’educazione in gruppo. Tutto il personale curante deve essere coinvolto, mettendo in atto un sistema premiante che favorisca il lavoro di squadra e l’educazione terapeutica. È poi importante che il personale acquisisca la necessaria preparazione. Tradizionalmente le competenze richieste per l’educazione terapeutica non fanno parte della formazione degli operatori sanitari. Eppure, per poter migliorare la conoscenza teorica e la capacità pratica dei pazienti, sono necessarie competenze specifiche. Bisogna che l’insegnamento sia più pratico e meno teorico, centrato sul discente – sulle sue necessità, capacità, esperienze precedenti – volto al raggiungimento di obiettivi a breve termine definiti in modo accurato, preciso e concreto. Per poter migliorare la motivazione dei pazienti, bisogna che gli operatori sanitari siano essi stessi motivati, che sappiano praticare l’ascolto attivo, che abbandonino il gergo professionale e facciano uso di un linguaggio semplice e chiaro, che siano in grado di individuare i fattori psicologici e socio-familiari che influenzano – in senso negativo o positivo – la motivazione dei pazienti a curarsi (per esempio: il grado di accettazione della malattia, le credenze sulla salute, il luogo di controllo che determina un maggiore o minore fatalismo, i bisogni legati alle diverse fasce di età, le condizioni lavorative, culturali ed economiche). Per consentire un’adeguata preparazione degli operatori sanitari nell’educazione terapeutica dei malati cronici, un gruppo di lavoro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - Europa ha prodotto un documento volto a definire percorsi educativi standard per la formazione di medici, infermieri, dietisti, psicologi, ecc. (1). Al fine di sviluppare modelli rilevanti ed efficaci per addestrare gli operatori sanitari a educare i loro malati cronici, il documento propone di definire i profili dei pazienti educati, per ogni malattia cronica (definendo a mo’ di esempio il profilo di pazienti educati per alcune malattie). Per profilo di un paziente educato si intende ciò che ci aspettiamo che il paziente faccia per gestire il trattamento, prevenire le complicanze evitabili, conservando e migliorando la qualità di vita. Una volta definito il profilo del paziente educato, su questa base viene definito il profilo degli operatori sanitari educatori; cioè cosa ci aspettiamo che facciano per aiutare i pazienti ad acquisire le competenze richieste. A titolo esemplificativo, sono illustrati alcuni corsi di vario livello: un livello di base, iniziale, della durata di due settimane. Il corso vero e proprio, di secondo livello, part-time della durata di due o tre anni, con alcuni seminari di tre o cinque giorni, ripetuti quattro o cinque volte per anno, per un totale di 800 ore. Infine è previsto un corso avanzato, per diventare organizzatori, coordinatori di questi corsi. I corsi formali basati sui principi che hanno ispirato il documento OMS sono oggi rarissimi. Quando saranno realizzati in numero sufficiente avremo fatto un deciso
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passo avanti per un’educazione terapeutica efficace e quindi per una cura efficace di tutte le malattie croniche e in particolare del diabete. In conclusione desidero ricordare le qualità principali dell’educazione terapeutica. Esse sono: la pertinenza, cioè la sua rispondenza ai reali bisogni del paziente; l’efficacia, cioè la sua capacità di ottenere i risultati che ci siamo prefissi; la correttezza, cioè la corrispondenza dei contenuti alle linee guida delle società scientifiche ufficiali; la centratura sul paziente, cioè sulle sue esperienze, sui bisogni espressi e noti. Di queste qualità, una è nettamente più importante delle altre: essa è la pertinenza.
BIBLIOGRAFIA 1. WHO Working Group: Therapeutic patient education, continuing education programmes for health care providers in the field of chronic diseases. WHO-Europe, Copenhagen, 1998
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LE COMPETENZE PROFESSIONALI NEL PROCESSO EDUCATIVO Valerio Miselli Servizio di Diabetologia, Ospedale “C. Magati” di Scandiano, Reggio Emilia
Non c’era nessun problema quando Etzwiler, con grande maestria, descriveva il problema della multiprofessionalità e della formazione, non c’era nessun problema negli anni ‘70. Negli anni ‘70 il sistema sanitario era un paziente che si consegnava passivamente al medico curante: poteva decidere di non curarsi, poteva decidere di cambiare medico, ma più o meno, anche in Italia fino agli anni ‘70 questa era la terapia perché si basava soltanto sul modello della malattia acuta. Poi sono arrivati i gruppi di studio europei - ed è già stata citata l’importanza della DESG, che ci ha fatto percorrere questa lunga strada - qualcheduno la chiama la strada piena di rocce e tranelli - siamo partiti da un’educazione che si basava sull’arte della conoscenza e, via via, siamo arrivati da insegnanti interattivi a tutori. Io non sono sicuro che in Italia noi abbiamo fatto tutto questo percorso. La terapia intensiva del diabete richiede la presenza di un team multiprofessionale. È molto più complicato perché le figure da integrare non sono solo professionalmente diverse, ma sono anche in ambiti diversi, diversa è la collocazione fisica, diversa la cultura, diverse sono le competenze storiche di ruolo, personali; le conflittualità sono dietro l’angolo; se non le sappiamo leggere, codificare, se non è chiaro chi coordina. se le competenze non sono ben definite, tutte queste persone non possono lavorare insieme. Ne abbiamo già discusso ed è anche oggetto del lavoro che è stato fatto presso il ministero della Sanità per la stesura delle “linee guida”. Abbiamo cercato di tenere conto delle indicazioni del gruppo europeo sulle ore di educazione necessaria per un paziente con diabete di tipo 1. All’inizio sono necessarie non meno di 10 ore, poi è necessario un richiamo dopo circa un anno e poi un altro richiamo per un totale di altre 6 ore. Anche il diabete tipo 2 richiede un congruo numero di ore di educazione terapeutica con ampie variazioni. Credo che anche il gruppo di studio sull’educazione (GISED) non possa prescindere da questi numeri, non possiamo accettare che nell’approccio al paziente l’educazione non sia considerata un atto terapeutico integrato con tutti gli altri atti terapeutici. Anche questa separazione fisica in questo Convegno tra il momento della mattina e quello del pomeriggio, è una separazione che richiama un vecchio modo di pensare: da una parte ci sono i farmaci e le metodologie e dall’altra ci sono le persone. Quando però andiamo a capire che cosa vuol dire in termini di persone un Centro che assiste circa tremila pazienti, che serve una città di centomila abitanti (una città media) e guardiamo secondo i bisogni che ho descritto prima, le ore di educazione necessarie, risulta che in un anno sono quasi seimila. Queste ore, che sembrano un’enormità, in realtà sono meno di due ore l’anno per ogni paziente, venti minuti se fa sei controlli all’anno e, come vedete, sono circa 40 minuti per medico, 60 l’infermiere e 20 il dietista: non è nemmeno tanto. Tutto ciò comporterebbe l’assunzione di quattro figure professionali dedicate interamente all’educazione: ciò vuol dire che noi non saremo mai in grado di affrontare, partendo da questi numeri, l’educazione in modo sistematico. Perciò qualsiasi proiezione su “funziona o non
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Coniuge Medico di base Infermiere
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Figura 1 Modello di assistenza integrata per il diabete
funziona l’educazione”, su chi la facciamo? C’è un handicap di fondo che è incolmabile per le limitazioni finanziarie a cui siamo sottoposti. È anche altrettanto vero che la cosa più chiara che ha espresso il DCCT è stato esattamente questo concetto: la terapia intensiva deve essere condotta da un team diabetologico esperto. La multiprofessionalità però vuol dire anche integrazione: deve cioè esistere una strategia pedagogica e un sentire comune che mette insieme questi professionisti, altrimenti tutto ricade solo sul paziente che deve trovare chi lo aiuta a fare le sintesi terapeutiche. A proposito dei modelli di lavoro, molto spesso si tende a privilegiare solo la figura del medico e tutta l’attività deve incrociarsi su questa figura; un modello più attuale, tipico del day hospital educativo invece prevede che il paziente compia un percorso attraverso le varie figure professionali, ognuna col suo ruolo ben organizzato. Questo è un modo per risparmiare tempo e fare degli interventi integrati. Quindi si pone molto forte il bisogno di verificare quali sono le professionalità in gioco quando si parla di terapia educativa. Noi sappiamo che sono molto diversi tra loro i pazienti in quanto a desiderio di farsi coinvolgere nella cura; tanto è vero questo che ci sono in realtà due teorie educative: quella che pensa di potere fare sempre, comunque da guida al paziente e quindi noi ci impegniamo e pensiamo di mantenere noi il controllo, e quella che invece che è un po’ più diffusa tra gli operatori anglosassoni, che pensa semplicemente di formare il paziente, di consegnargli tutti gli strumenti e di lasciare che sia il paziente a fare le proprie scelte. I provider, cioè tutti noi, hanno bisogno di una formazione molto particolareggiata e, quando noi parliamo di educazione, di figure professionali, di solito sosteniamo questo teorema che il medico che è più bravo a insegnare la teoria e gli infermieri sono più bravi a fare la pratica e quindi consegnamo a loro le metodologie tipo sul problema del piede, sulle tecniche di iniezione dell’insulina e così via. Questo tipo di divisione di competenza non è valido perché la cosa che accomuna tutti e due è una formazione pedagogica e un carattere di collegialità che va recuperato nell’approccio globale al problema. Per esempio, se noi dobbiamo fare delle scelte strategiche - parliamo di cose anche pratiche - se si ha la fortuna di avere a disposizione un day hospital medico, bisogna fare turnare il personale dedicato a fare delle consulenze di educazione associate alle visite mediche; viviamo in un sistema per cui l’educazione è una parte integrante SUPPORTO SUPPORTO solo in teoria, della visita; l’organizzazione Insegnanti dei momenti diversi più dedicati è motivo Medico di crescita collettiva molto importante così come mantenere sempre un dossier associato alla cartella clinica. Se noi TEAM andiamo a verificare le nostre cartelle, PAZIENTE Dietista quanti hanno una check-list educativa? DIABETOLOGO una cartella infermieristica dedicata? o una scheda dietologica dedicata agli atti Psicologo educativi? Dopodiché non chiediamoci Sociologo perché gli interventi non hanno funAss. sanitario zionato! Dobbiamo strutturare meglio Farmacista momenti di raccolta dati per favorire le ASSISTENZA ASSISTENZA appropriate verifiche. Dunque, possiamo descrivere il team come un universo in cui ci sono varie figure professionali (fig. 1). Per esempio il farmacista: noi tendiamo a trascurare questa figura mentre è dimostrato che il diabete, soprattutto tipo 2, trascorre sicuramente più ore in farmacia di quanto non ne passi nell’ambulatorio del proprio medico, men che meno nell’ambulatorio del
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servizio di diabetologia. Ecco, quindi l’importanza di parlare lo stesso linguaggio insieme ai farmacisti, fare sì che i pazienti non ricevano notizie fuorvianti sul controllo di alcuni parametri - il colesterolo, la pressione che sono legati intimamente alla buona cura del diabete di tipo 2. Per esempio, qualcuno di noi è riuscito a identificare un ruolo dell’infermiere nella prevenzione delle complicanze perché fa risparmiare tempo e questo è venuto prima del momento educativo; invece il ruolo dell’infermiere come membro del team è più difficile da perseguire perché, per esempio, far sì che l’infermiere prenda parte alla formulazione degli obiettivi, delle strategie del gruppo, entri nei processi decisionali è una cosa che non succede da tutte le parti. Avere la responsabilità anche progettuale diretta di entrare nell’educazione del paziente, delle proprie famiglie, non è una cosa semplice e molti non sono d’accordo perché non ritengono gli infermieri all’altezza di questo compito; a volte sono gli infermieri stessi che non sentono questo bisogno formativo. Questi pensieri sul ruolo dell’infermiere professionale in Italia vengono da un lavoro di gruppo che è stato condotto a livello europeo per quel primo, timido tentativo di mettere insieme le professionalità delle infermiere che lavorano nei Servizi di diabetologia in Europa. Le considerazioni da farsi su questo problema sono queste: sviluppare una funzione autonoma, favorire la creazione di un insegnamento specifico, favorire la ricerca infermieristica attraverso la letteratura, sviluppare standard di cura (devono essere coinvolti direttamente in questo), migliorare i progetti di assistenza e - questa è una cosa che ci deve vedere coinvolti tutti - ottenere il riconoscimento ufficiale della specializzazione come esiste in altri Paesi europei. John Day ha detto ieri una cosa importante: i dati migliori ottenuti nel RUN-IN dell’UKPDS, per quanto riguarda la perdita di peso, erano nei centri dove c’erano più dietisti e purtroppo il traduttore ha tradotto dietologi perché probabilmente non pensava che fossero due cose diverse. Anche i dati che nascono da un’estrapolazione del DCCT dicono che i migliori risultati, visto che pochissimi hanno raggiunto il target glicemico, erano raggiunti da coloro che hanno fatto un lavoro sui programmi alimentari, sulla rapida correzione dell’ipoglicemia e sull’evitare l’over-eating in caso di ipoglicemia: tutti questi progetti sono stati condotti da dietisti nel DCCT, non da medici. Peraltro anche Marion Franz, dimostra come le dietiste coinvolte direttamente nei progetti, nel decision making (cioè non è che si tratta di “fare delle diete”, si tratta di decidere che cosa fare sia in termini di conta dei carboidrati, sia in termini di modifiche terapeutiche), sono in grado di ottenere un notevole miglioramento dell’emoglobina glicosilata nel tempo. Noi abbiamo sempre pensato che questi risultati potessero ottenerli soltanto i medici. Abbiamo bisogno anche di un’altra figura professionale, poco importa che si chiami psicologo oppure che sia qualcuno di noi che si occupa del problema delle dinamiche psico-sociali. Questa è un’area di bisogno non solo del paziente, ma anche del team come supporto al lavoro di gruppo. I medici: un lavoro comparso su Diabetes Care, sulle attitudini professionali rivela molte carenze e dovrebbe far riflettere ancora di più in questa fase in cui stiamo facendo l’operazione di cedere parte dei pazienti - giustamente o non giustamente, non lo so - ai medici di medicina generale. Ci sono delle condizioni di fondo che impediscono, per come sono strutturati gli ambulatori dei medici di medicina generale, qualsiasi tipo di terapia corretta, moderna (lasciamo perdere la parola intensiva). Una cosa importante che è accaduta negli Stati Uniti e che sta accadendo adesso in
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Inghilterra, dopo l’UKPDS, è una campagna forte per la promozione della salute. Sfogliando una qualsiasi rivista statunitense, si può notare l’invito al buon controllo metabolico, l’invito a migliorare le performance glicemiche, l’invito a lavorare in team. Dovremmo lavorare anche noi a far sì che aumenti la coscienza collettiva di questo tipo di necessità e non lasciare passare messaggi banalizzanti sull’assoluta semplicità della cura del diabete. Se noi volessimo idealizzare la figura dell’educatore, prendendo trasversalmente medici, infermieri, dietisti e quant’altro così come avviene in altri Paesi, potremmo dire che l’educatore nel diabete ha un ruolo multidimensionale con i limiti imposti dai rapporti con altri membri del team che coinvolge il paziente, la famiglia, i sistemi di supporto e gli altri operatori non specializzati nella cura del diabete. Quindi è un mondo molto più globale di quello a cui pensiamo. I criteri di lavoro sono questi: è molto importante la scelta dello strumento, la documentazione del progetto e del processo educativo, e sempre una valutazione alla fine. Propongo tre campi di lavoro; potrebbero essere tre campi di lavoro che coinvolgono anche il gruppo italiano per l’educazione sul diabete: la qualità dell’assistenza, l’impegno per il cambiamento e anche l’accreditamento come strumento per andare verso un cambiamento. D’altronde qualità in educazione sanitaria è una parola difficile, però vuol dire fare delle valutazioni; non riusciamo a dare tutto a tutti, quindi non riusciamo a fare tanti interventi educativi sparsi, dobbiamo usare e privilegiare i metodi rapidi e il costbenefit, una parola che già ci tormenta anche troppo. Vorrei venisse studiato meglio anche quando fare l’intervento perché già ci è stato detto che nella vita di un paziente ci sono parecchi momenti in cui è più importante intervenire e i tempi dell’accettazione dell’intervento sono variegati. Esistono modelli per comprendere la capacità di accettazione del paziente: è inutile che tentiamo di fare un intervento educativo se può non servire assolutamente a niente. E allora abbiamo bisogno di trovare degli strumenti per capire chi è disponibile e chi è aperto al cambiamento; bisogna ricercare modelli rapidi e veloci che non sono facilmente identificabili dai soli medici. Per esempio è la tipologia di paziente su cui è urgente fare un intervento educativo: quelli che sanno già tutto, quelli che sono carenti nella cura dei piedi, quelli che non vengono agli appuntamenti e così via. Dobbiamo essere aiutati a trovare le categorie di pazienti che non si presentano più agli appuntamenti e scoprire perché non vengono più e che cosa si può fare per farli tornare, visto che Muggeo ci ha dimostrato che quelli che si presentano regolarmente alle visite sono quelli che presentano alla lunga meno complicanze, indipendentemente dal tipo di intervento che facciamo. Questa è una conclusione di una lettera sul numero di novembre ’98 di Diabetes Care: la terapia intensiva non vuol dire solo tre o quattro iniezioni al giorno, o il microinfusore, quattro glicemie e l’emoglobina ogni tre mesi, ma anche un approccio multidisciplinare, frequenti contatti tra paziente e membri del team, un sistema di supporto del quale spesso ci scordiamo. Ha funzionato bene solo in alcuni Centri, solo in quelli che avevano queste figure; se noi non abbiamo queste figure nel nostro team dobbiamo lavorare a fondo perché almeno la dietista sia presente, almeno l’infermiera professionale sia preparata per fare questo o altrimenti sinceramente è difficile pensare che quel Centro possa intensificare la terapia nel tipo 1 e nel tipo 2. In un articolo comparso sull’American Journal of Managed Care del 1996 si è dimostrato che un team approach porta l’emoglobina da 12 a 8%, se c’è buona compliance, da 12 a 9,1% se non c’è compliance indipendentemente dalla terapia
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utilizzata. A ulteriore dimostrazione di quello che si diceva. E quello che non diciamo mai è che dopo quattro anni dal DCCT c’è stato quasi il 70% di abbandoni (solo alcuni pazienti, che continuano con l’infusore, e sono fortemente supportati da alcuni lavori di gruppo, continuano); questo per riluttanza dei pazienti a continuare, quindi non è vero che la motivazione dura tutta la vita; per mancanza di consapevolezza, per alcuni atteggiamenti di medici, sono venuti a meno anche i finanziamenti e a volte anche per mancanza di un team multidisciplinare. Quali sono le qualità di una persona che entra a far parte di un team educativo? Possono essere “millanta”, però ho provato a specificarne qualcuna, non importa il ruolo professionale: la flessibilità, la disponibilità alla formazione in continuo, la capacità di apprendimento, un adattamento pre-attivo, le motivazioni, una capacità progettuale strategica, interpretativa, un orientamento al risultato, la qualità e conoscenze generali, non necessariamente la specializzazione, la disponibilità a transazioni utilitaristiche a breve termine (e questa è la qualità che è difficile da acquisire), la capacità di autopromozione - che questo a volte serve tantissimo, soprattutto quando è il team che va in depressione - e le capacità negoziali che abbiamo sentito citare da chi mi ha preceduto. Penso che il ruolo del GISED dovrebbe essere questo; già abbiamo tentato di lavorare a qualche progetto. Credo che questo Convegno sia utile per capire i suggerimenti che vengono dalla comunità diabetologica nazionale per il lavoro del prossimo anno. Vorrei concludere citando John Day che qualche anno fa ha detto: “Si deve pensare che ogni contatto umano e professionale ha una valenza educativa per cui tutti quelli coinvolti nella cura dovrebbero avere una formazione sui processi educativi perché, in caso contrario, si potrebbe creare un inconsapevole apprendimento scorretto per difetto”.
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FATTIBILITÀ DELL’INTERVENTO EDUCATIVO. COSTI E BENEFICI Claudio Noacco Unità di Diabetologia, Ospedale Civile di Udine, Udine
La definizione di educazione terapeutica non è facile e soprattutto può non essere univoca. Il vocabolario della lingua italiana, alla voce educare, riporta l’etimologia (dal latino e-ducere, condurre fuori, ad es. dalle tenebre dell’ignoranza) e il significato italiano di: “formare attraverso il processo della conoscenza”, “formare secondo certi fini”,“abituare”. Già la definizione letteraria ci pone alcuni spunti di riflessione; l’educazione è un processo continuo, si realizza attraverso la conoscenza e non è fine a sé stessa, ma consegue certi fini od obiettivi. La definizione di educazione terapeutica applicata alla diabetologia clinica potrebbe essere la seguente: processo educativo che si pone per obiettivo sia di insegnare al diabetico a vivere, e a vivere bene, con il diabete, sia a raggiungere gli obiettivi clinici della terapia del diabete e della prevenzione delle complicanze. Quindi due bracci: uno educativo, e indirizzato alla qualità della vita del diabetico, e uno clinico-biologico indirizzato al mantenimento dello stato di salute fisico. Di questa definizione è opportuno sottolineare alcuni elementi: innanzitutto l’educazione terapeutica deve avere un fine terapeutico e non deve essere fine a sé stessa o puramente conoscitiva. Inoltre deve essere un processo continuo che deve continuamente essere verificato e condiviso dal team educativo e dal diabetico, in modo che essi possano agire insieme: non è il diabetologo o il team di insegnamento che deve condurre il processo educativo. Diabetologo e diabetico devono interagire per una vita più lunga e che meriti di essere vissuta, cioè priva di complicanze acute e croniche, soddisfacente dal punto di vista sociale e psicologicamente ottimale. In questo senso educare e curare sono due atti assolutamente inscindibili: non è possibile curare un soggetto affetto da una malattia cronica senza educarlo né è possibile educare un soggetto senza assicurargli una cura ottimale. Ma in entrambi i casi il paziente deve essere soggetto attivo del processo. Quindi in ogni atto clinico che quotidianamente compiamo con i nostri pazienti sono insiti sia il concetto di curare sia quello di educare, anche se a diversi livelli di consapevolezza e di strutturazione. È difficile quindi disgiungere gli effetti e i costi dell’educazione da quelli della cura della persona diabetica e, dovendo trattare della fattibilità dell’intervento educativo, invertirei i termini del titolo di questo mio intervento: cioè la prima domanda che porrei è se l’educazione terapeutica è vantaggiosa, cioè se dà un beneficio anche in termini economici. Inoltre bisogna stabilire per chi è vantaggiosa, e solo se possiamo stabilire che è vantaggiosa possiamo valutare se è fattibile. Se non risultasse vantaggiosa per nessuno sarebbe anche inutile. Quando consideriamo il rapporto costo-beneficio di un determinato intervento terapeutico dobbiamo innanzitutto stabilire per chi è vantaggioso: per chi riceve le cure, cioè il diabetico, per chi le eroga, cioè l’amministrazione sanitaria che riceve un compenso in cambio di una prestazione, o per la Società o lo Stato, che ha interesse a risparmiare comunque e globalmente sulla spesa sanitaria. È evidente che a seconda del punto di vista la valutazione del rapporto costo-beneficio può cambiare. Inoltre è da tenere presente che il rapporto tra costo e/o spesa di un determinato intervento e i suoi risultati (o effetti) possono essere analizzati almeno in 3 differenti sistemi. 1) Rapporto costo-efficacia: esprime il primo termine in valore monetario, cioè quanto spendiamo per un intervento o quante risorse sottraiamo da altri interventi, e il secondo termine in valore biologico o clinico. Cioè esprime quanto riusciamo a
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ridurre una determinata complicanza, ad esempio amputazioni o nefropatia terminale, con un determinato investimento di risorse monetarie. Il calcolo di questo rapporto diventa tuttavia difficile quando si confrontano esiti clinici diversi. Cioè è preferibile o conveniente allocare risorse per prevenire la nefropatia terminale o per prevenire la cecità o le amputazioni? 2) Rapporto costo-beneficio: questo rapporto tenta di superare le difficoltà del precedente calcolo esprimendo sia il primo che il secondo termine in valore monetario. Cioè quanto beneficio economico ricaviamo da una determinata spesa e/o costo economico: ad esempio, per una spesa X in programmi di educazione e cura intensiva del diabete quanto risparmiamo sulle ospedalizzazioni, sulle amputazioni, sulle nefropatie terminali e sulle spese, dirette o indirette, per la cecità? È evidente che, noti i costi dei singoli esiti, il beneficio risulta dalla loro somma. 3) Rapporto costo-utilità: in questo caso il secondo termine tiene conto anche di alcuni valori o costi “impalpabili” o non monetizzabili ma di grande valore per il paziente. Cioè, se con un determinato intervento prolunghiamo la vita o solo dilazioniamo le complicanze a un diabetico quanto risparmiamo in termini di spesa sanitaria diretta (beneficio)? Nulla, in quanto vi saranno anni di terapia aggiuntivi o comunque le complicanze si presenteranno più tardi. Però è evidente che l’intervento è molto vantaggioso per il paziente. Per superare questa impasse, che rischia di creare un conflitto tra considerazioni economiche ed etiche, il secondo termine del rapporto viene espresso in QALY (Quality Adjusted Life Years), cioè anni di vita guadagnati e corretti per un fattore di correzione che è 1 nel caso di perfetta salute e 0 in caso di morte. Valori intermedi vengono assegnati per la presenza di complicanze: ad es. il DCCT assegna per la cecità un parametro 0,69, 0,61 per l’insufficienza renale terminale e 0,80 per l’amputazione (1). Vi sono sistemi per calcolare anche il “valore”di un QALY (ad es. il metodo willingness to pay), ma vi è un consenso generale sulla enunciazione della Canadian Medical Association che considera da adottare sicuramente i provvedimenti con un costo per QALY inferiore a 20.000 $, generalmente da adottare i provvedimenti con un costo tra 20.000 e 100.000 $, tra i quali sono comprese le procedure di rivascolarizzazione, e da valutare caso per caso i provvedimenti con costo superiore ai 100.000 $ (2). Non sono disponibili dati validati sul rapporto costo-beneficio dell’educazione terapeutica, in quanto non è possibile distinguere l’effetto della cura da quello dell’educazione. Tuttavia già negli anni si è tentato di valutare quanto era possibile ottenere in termini di ritorno economico, soprattutto come riduzione delle ospedalizzazioni, con un determinato investimento educativo. Neresian (3) ha calcolato che con un investimento di 150 $ per paziente era possibile ridurre del 33% le ospedalizzazioni con un beneficio di 442 $/paziente (rapporto costo beneficio 1:2,9). I nostri dati riferentesi al 1985 e a Corsi di educazione strutturati residenziali dimostravano su un gruppo di 154 diabetici tipo 1 una riduzione di 3,1 giorni/anno di degenza dopo i Corsi, con un rapporto costo-beneficio di 1:2,47.(4) Il DCCT è stato il primo trial a lungo termine che ha analizzato metodologicamente ed esaustivamente il rapporto costobeneficio, costo-efficacia e costo-utilità di un intervento terapeutico intensivo di cui l’educazione del paziente era presupposto e parte integrante (5). Considerando tutto il tempo di osservazione e i costi diretti, il programma di trattamento intensivo del DCCT è costato 5784 $/anno per i pazienti con CSII (microinfusori), 4014 $/anno per i pazienti con iniezioni multiple di insulina e 1666 $/anno per i pazienti in trattamento “convenzionale”. Il maggior costo dei pazienti in CSII era dovuto principalmente al costo dell’infusore e dei materiali d’uso, mentre la differenza tra i pazienti in trattamento intensivo e quelli in trattamento convenzionale era dovuta soprattutto al ricovero iniziale, alla maggiore frequenza di visite mediche e al
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Tabella I maggior consumo di materiali per l’autocontrollo. L’analisi costo-efficacia dimostra I costi che con un aumento dei costi di +2300/4100 $/anno, a seconda del tipo di dell’educazione trattamento intensivo, si “risparmiano” 7,7 anni di visione efficiente, 5,8 anni di strutturata (1997) dialisi, 5,6 anni senza amputazione e si aumenta la sopravvivenza di 5,1 anni. Tali dati di efficacia sono ricavati da proiezioni dei risultati del DCCT a tutta la Corso residenziale (7 gg) 1.510.000 L/paz. popolazione di diabetici americani con Corso DH educativo (3 gg) 1.536.000 L/paz. caratteristiche simili a quelle dei pazienti arruolati per lo studio. L’analisi costobeneficio, considerando quindi il minor costo delle complicanze, ma la maggiore sopravvivenza dei pazienti in trattamento intensivo, calcola in 99.822 $ il costo globale della terapia intensiva per tutta la vita del diabetico, contro un costo di 66.076 $ per il trattamento convenzionale, con un aumento di spesa quindi di 33.746 per paziente per tutto l’arco della vita. Il costo incrementale di un anno di vita guadagnato risulta di 28.661 $ mentre il costo incrementale per QALY guadagnato (sopravvivenza corretta per la qualità) risulta di 19.987 $. Entrambi questi valori monetari di beneficio e di utilità sono ampiamente compresi tra quelli che sono considerati vantaggiosi per il paziente e per il sistema sanitario. La nostra esperienza in questo campo si limita ad alcune analisi di fattibilità di interventi educativi che hanno tenuto conto anche di alcuni aspetti economici e delle risorse che dovevamo impegnare, e quindi recuperare da altri settori di intervento considerato che ormai operiamo in sistemi a risorse, sia di personale sia economiche, finite. Una prima valutazione ha riguardato l’effetto della educazione terapeutica nel diabetico tipo 1, insulino-dipendente, e in particolare il risultato in termini cognitivi e metabolici di un corso residenziale di 7 giorni vs dei corsi di 3 giorni in Day Hospital (6). I risultati in termini metabolici sono stati praticamente simili e non significativi a distanza di un anno dai corsi. È da notare tuttavia che si trattava di soggetti già in relativo buon controllo metabolico e che comunque venivano seguiti regolarmente ambulatoriamente. I risultati in termini cognitivi sono stati significativi dopo entrambi i corsi ma tale miglioramento non si è mantenuto a distanza di un anno. In particolare nel gruppo che aveva seguito il corso in Day Hospital decadevano le conoscenze e la pratica dell’autocontrollo e le conoscenze sulle emergenze. Da questo punto di vista il corso residenziale si è dimostrato superiore in quanto il paziente sperimenta o può sperimentare direttamente alcune situazioni reali, proprie o di altri membri del gruppo, e può verificare giorno per giorno i risultati di alcune attività (dieta, modifiche del trattamento, attività fisica) che nel breve corso in Day Hospital restavano teoriche o non verificate. In particolare le ipoglicemie sono sensibilmente diminuite dopo il corso residenziale: nel gruppo dei pazienti in DH queste erano molto rare per cui non è possibile un confronto tra i due gruppi. Per quanto riguarda i costi di questi due diversi interventi educativi e presupponendo che i risultati possano considerarsi sovrapponibili, un corso residenziale di 7 giorni veniva a costare 1.510.000 lire per soggetto (compreso il costo del Personale e dell’albergaggio) mentre il costo di un corso di 3 giorni in DH a tariffa di DRG più il costo indiretto della perdita di attività lavorativa del diabetico risultava di 1.536.000 lire per soggetto (tab. I) (7). Un problema ancora maggiore si pone nell’affrontare l’educazione terapeutica del diabetico tipo 2. Si è detto che è difficile far stare meglio un paziente asintomatico e questo assioma è particolarmente vero nel caso del diabetico tipo 2, con tutte le implicazioni di ordine motivazionale, di compliance, di aderenza a modelli concordati che ne derivano. Malgrado queste difficoltà e la scarsa letteratura in proposito abbiamo voluto valutare i risultati a breve e a medio termine (due anni) e la fattibilità di un programma educativo orientato a ridurre i fattori di rischio cardiovascolare in pazienti con sindrome plurimetabolica (8). Gli obiettivi erano quelli
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di valutare l’efficacia di un simile programma nel modiBase BMI (kg/m2) Glicemia dig. HbA1c (%) Colest. tot. Colest. HDL Trigliceridi ficare lo stile di vita (mg/dL) (mg/dL) (mg/dL) (mg/dL) e ridurre i fattori di 6 mesi 32±4,3 170±37 6,5±1,2 230±57 58±15 210±162 rischio modificabili 12 mesi 31,4±3,8* 166±46 5,5±1,4* 230±50 57±13 166±79* e la fattibilità di un 24 mesi 31,6±4,1 177±51 6,4±1,6 244±62 57±16 206±114 programma di pre31,3±4 189±66 6,6±1,8 218±40 51±12* 192±173 venzione primaria Casi (n=20) esteso a tutta la po6 mesi 32,7±2,8 177±42 7,6±1,3 240±47 52±18 249±132 polazione o a una 12 mesi 32,4±3,2 176±55 6,5±1,7* 240±45 51±15 213±87 popolazione più va24 mesi 32±3,3** 173±46 7,3±1,6 254±43 55±16 240±113 sta. Nel programma sono stati inseriti 20 32,1±3,3 184±64 6,7±1,6* 242±44 51±14 222±114 soggetti diabetici ti*p<0,001 vs base; **<0,05 vs base po 2 per braccio. Il primo braccio riceveva una educazione strutturata iniziale per un totale di 12 ore e successivamente Tabella II Parametri clinici e incontri di gruppo di 3 ore ogni 3-4 mesi; i diabetici di questo gruppo venivano metabolici. Soggetti avviati ad attività motorie con l’assistenza di una fisioterapista (corsi di 10 ore ogni diabetici tipo 2 (20 6 mesi) e veniva consigliata attività fisica individuale. Tra gli argomenti educativi ne casi vs 20 controlli) sono stati scelti quattro come obiettivi primari: la conoscenza generale dei fattori di prima e dopo un rischio cardiovascolare, la corretta alimentazione, l’automonitoraggio e la cura del corso di educazione intensivo piede. Il gruppo di controllo del secondo braccio seguiva il normale follow up ambulatoriale. Nella tabella II sono riportati i dati metabolici fino a 24 mesi dei due gruppi di diabetici. Si può notare come il valore della HbA1c tende a diminuire nei primi 6 mesi in entrambi i gruppi, (effetto trial), mentre a 24 mesi vi è la tendenza a risalire verso i valori di base, anche se nel Conoscenze (% risposte esatte) gruppo di intervento la differenza è Casi (n=20) - Controlli (n=20) ancora significativa. Base Fine corso Dopo 12 mesi Dopo 24 mesi Oltre ai dati bio57,7% 86,1 85,3% 80,9% logici nei due gruppi 58,6% ** 59,1% 60,9% sono state valutate Locus of control del diabete le conoscenze e il Casi - Controlli locus of control con Base Personal Medical Situational appositi questionari. 12 mesi 27,5 12,2 6,2 Per quanto riguarda 24 mesi 25,8 11,2 5,8 le conoscenze il 27,2 11,5 4,8 gruppo di interven22,0 10,5 10,9 to ha dimostrato un 22,4 9,6 10,2 aumento delle co19,1 14,0 10,5 noscenze che si è mantenuto relativaScore massimo: 30 punti mente stabile nel tempo grazie anche Tabella III ai ripetuti rinforzi. Il gruppo di controllo non ha dimostrato invece alcun Risultati cognitivi e miglioramento malgrado la valutazione sia stata condotta con lo stesso questionario. sul locus of control Interessante è stata la valutazione del locus of control della malattia per i due gruppi: di un corso nel gruppo di intervento vi è stata una progressiva e significativa internalizzazione educativo intensivo del locus of control mentre è diminuito l’affidamento di responsabilità al personale sanitario e la percepita responsabilità dell’ambiente sulla propria malattia (tab. III). Controlli (n=20)
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In altre parole è migliorata la capacità di autogestione ed è aumentata la consapevolezza del proprio ruolo. La nostra valutazione ha infine preso in considerazione i punti di forza e i punti critici dell’intervento educativo. I punti di forza per il paziente sono risultati, come già detto, l’internalizzazione del locus of control, l’acquisizione di corrette abitudini di vita, il miglioramento di alcuni indici metabolici e clinici. Per il team, elementi di non secondaria importanza, la multidisciplinarietà, il linguaggio comune, la motivazione e la condivisione degli obiettivi. I punti critici che abbiamo rilevato sono stati il tempo necessario, la difficoltà di assicurare una continuità all’intervento, il bisogno di rinnovare continuamente la motivazione del team e, soprattutto, dei diabetici. Per i diabetici i punti critici sono stati la frustrazione, la mancanza di risultati visibili o percepibili immediatamente, il bisogno di motivazione continua, la mancanza di un feed-back Fig. I immediato, la difficoltà a mantenere nel tempo le abitudini acquisite. Concludendo Elementi che quindi sulla fattibilità di un intervento educativo di questo tipo su un numero condizionano la elevato di diabetici potremmo affermare che esso è possibile se c’è un team fattibilità educativo formato, motivato e addestrato, se ci sono strutture idonee, se ci sono dell’educazione strutturata strumenti di verifica e valutazione continua, se è possibile assicurare la continuità dell’intervento e, soprattutto, se c’è tempo adeguato (fig. 1). Questi elementi tuttavia non possono rappresentare un • Team educativo formato pretesto per non attuare alcun intervento, rappresentano • Team educativo motivato soltanto i punti che devono essere considerati e organizzati • Tempo in modo da essere disponibili nella nostra pratica clinica. • Strutture idonee Tra tutti fondamentale è la continuità dell’intervento e del • Strumenti di verifica a valutazione rapporto tra diabetico e team educativo e di cura. Non si • Continuità dell’intervento educativo può curare bene senza educare ma non si può educare senza curare bene. E curare bene conviene e paga.
BIBLIOGRAFIA 1. Herman WH, Eastman RC: The effects of Treatement on the Direct Costs of Diabetes. Diabetes Care 11 (suppl 3), C19-24, 1998 2. Laupacis A, Feeny D, Detsky AS, Tugwell PX: How attractive a new technology has to be to warrant adoption and utilization? Tentative guidelines for using clinical and economical evaluation. Can Med Ass J 146, 473-481, 1992 3. Neresian W: Impact of diabetes auotpatient education in Maine. MMWR 31, 307-313, 1982 4. Noacco C, Taboga C, Simonutti M,Colucci F, Tonutti L, Grimaldi F: Educational Camps for diabetics in Italy: results of a fiva years experience. Medicographia 11 (suppl 1), 90, 1989 5. The Diabetes Control and Complication Trial Research Group: Lifetime Benefits and Costs of Intensive Therapy as Practiced in the Diabetes Control and Complication Trial. JAMA 276, 1409-1415, 1996 6. Tonutti L, Taboga C, Zamolo MG, Noacco C: L’educazione in profondità del diabetico insulino-dipendente: risultati cognitivi e metabolici. Atti X Congresso nazionale AMD. Ed Tecomproject, Ferrara, 1995, p. 285-286 7. Taboga C: Il Day Hospital dipartimentale. In: Miselli V: Day Hospital, il modello diabete. Utet Periodici Scientifici, Milano, 1998, p. 31-44 8. Tonutti L, Bortolotti N, Ceriello A, Crescentini A, et al: Programma educativo orientato a ridurre i fattori di rischio cardiovascolare nei pazienti con sindrome plurimetabolica. Risultati preliminari. XI Congresso Nazionale AMD. Ed Tecomproject, Ferrara, 1997,
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Obiettivi specifici in campo educativo: esperienze pratiche Alimentazione D. Bruttomesso (Padova) Ipoglicemia C. Fanelli (Perugia) Attività fisica G. Corigliano (Napoli) Prevenzione del piede diabetico D. Bloise (Roma) non pervenuto
Gravidanza A. Lapolla (Padova) Tecnologie informatiche G. Vespasiani (S. Benedetto del Tronto) Formazione degli operatori E. Orsi (Milano)
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EDUCAZIONE ALIMENTARE PER DIABETICI INSULINO-DIPENDENTI Daniela Bruttomesso Servizio di Diabetologia, Divisione di Malattie del Metabolismo, Università degli Studi di Padova
Nel trattamento del diabete la dieta è considerata fondamentale al conseguimento di glicemie quanto più possibile vicine alla norma. Tuttavia, proprio l’adozione di una dieta corretta costituisce per molti diabetici il problema più difficile, anche per quelli più motivati. La difficoltà è generata da molteplici fattori, sia di ordine psicologico che pratico, ma spesso è secondaria a una educazione inefficace. Medici e dietiste tendono frequentemente a fornire diete prestampate, anche se è stato dimostrato che meno del 50% dei pazienti le usa correttamente. Spesso vengono fornite informazioni teoriche senza presentarle in un contesto che abbia senso pratico per il paziente, altre volte concetti importanti vengono trattati in modo insufficiente. La difficoltà dei pazienti non sta nell’apprendere le varie informazioni, ma nell’interpretarle e nell’utilizzarle per risolvere i vari problemi che incontrano nella vita quotidiana. La dieta del diabetico è infatti complessa, e per certi aspetti richiede, oltre alle conoscenze, anche capacità di ragionamento e di decisione. È quindi necessario un approccio educativo che sia in grado di trasmettere sia un sapere teorico che un saper fare. Il corso di educazione che noi rivolgiamo al paziente diabetico insulino-dipendente ha proprio la finalità di fare apprendere ai pazienti le nozioni e le abilità necessarie per gestire in modo più consapevole e più flessibile la propria dieta. Data la complessità dell’argomento, il corso è stato suddiviso in 4 incontri della durata di circa due ore ciascuno, svolti con cadenza mensile. Ciascun incontro prevede la partecipazione attiva dei pazienti, che non possono quindi superare il numero di 8-12 per volta. Alla fine di ogni incontro, a ogni partecipante viene consegnata una sintesi finale scritta sui contenuti trattati durante l’incontro. Data la distanza temporale tra un incontro e l’altro, viene suggerito ai pazienti di esercitarsi a domicilio, compilando un giorno alla settimana un diario alimentare specificando di volta in volta i principi dietetici appresi durante l’incontro. Ciascun incontro ha degli obiettivi ben precisi. Il primo incontro prevede di fare in modo che i pazienti apprendano il ruolo dei carboidrati, lipidi e alcol, che sappiano identificare i carboidrati e i lipidi negli alimenti, che sappiano distribuire correttamente i nutrienti nella giornata. Nel secondo incontro il paziente dovrebbe apprendere l’uso corretto degli equivalenti glucidici, e dovrebbe imparare a comporre dei menu equilibrati. L’obiettivo del terzo incontro è di fare in modo che il paziente possa variare la propria dieta, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Infine, nel quarto incontro viene insegnato al paziente come adeguare la dieta in caso di ipoglicemia o di attività fisica. Ogni incontro prevede un insegnamento teorico, svolto generalmente in gruppo, e un’applicazione pratica delle nozioni teoriche, generalmente svolta in piccoli
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Stima Quantitativa Semiquantitativa Qualitativa *p<0,05 (test χ2)
Tabella I Stima da parte del paziente del contenuto in carboidrati degli alimenti
sottogruppi. In entrambi i casi viene favorita la partecipazione attiva dei pazienti ricorrendo a metodiche che favoriscono da una parte la discussione, lo scambio di informazioni e di esperienze tra i pazienti nel gruppo, e dall’altra la riflessione, la capacità di decisione e la risoluzione di problemi da parte dei singoli pazienti. Per lo svolgimento del corso, oltre a lavagne e materiale cartaceo, vengono utilizzati alimenti naturali e alimenti artificiali, del tutto sovrapponibili per forma e colore a quelli naturali, bilance per alimenti, misuratori per liquidi, tazze, bicchieri e così via. Per valutare l’effetto del corso sulle conoscenze dei pazienti, ricorriamo all’uso di un questionario, che viene somministrato prima del corso come pre-test e alla fine del corso come post-test. Questo ci permette di misurare, attraverso la differenza prepost, le nuove nozioni apprese. Il questionario, costituito da 23 domande, indaga le conoscenze circa il fabbisogno calorico, la distribuzione delle calorie nella giornata, il ruolo e l’apporto calorico dei vari nutrienti, il contenuto in carboidrati e in grassi degli alimenti, l’utilizzo dei carboidrati in caso di ipoglicemia e di attività fisica. Per verificare eventuali cambiamenti nelle abitudini alimentari, ricorriamo all’analisi dei diari alimentari, compilati dai pazienti per 7 giorni prima e per 7 giorni dopo il corso. La valutazione del diario si basa sul confronto, tra prima e dopo, della capacità del paziente di dare una stima quantitativa del contenuto in carboidrati degli alimenti, pre corso post corso sulla presenza o meno di carboidrati a tutti 16 (33%) 40 (83%)* i pasti e agli spuntini, sul numero di 21 (44%) 8 (17%) spuntini interprandiali, sul consumo di 11 (23%) – grassi animali, sulla distribuzione dei nutrienti ai pasti. Infine la valutazione prima e dopo il corso di alcuni parametri clinico-metabolici, quali il peso corporeo, il valore di emoglobina glicosilata, il fabbisogno insulinico, la frequenza di ipoglicemie o di iperglicemie, mostra l’effetto di questo corso di educazione alimentare sul controllo del peso corporeo e sul controllo metabolico. I primi 48 pazienti, educati secondo questo programma, hanno mostrato un significativo aumento del livello di conoscenza (dopo il corso sono migliorate le risposte a 15 domande su 23; p<0,05), e un significativo miglioramento nella capacità di stimare il contenuto in carboidrati degli alimenti. Infatti l’83% dei pazienti dopo il corso, rispetto al 33% prima, sapeva dare una stima quantitativa dei carboidrati assunti (tab. I). Nessun paziente, dopo il corso, si limitava a dare una semplice descrizione qualitativa dell’alimento. Dopo il corso, un maggior numero di pazienti è riuscito a distribuire in modo corretto i carboidrati durante tutta la giornata, e ad eseguire degli interscambi corretti. Il numero di spuntini interprandiali, già buono prima del corso, è migliorato dopo. Per quanto riguarda l’andamento metabolico, i pazienti valutati hanno mostrato una riduzione modesta ma significativa del peso corporeo. L’emoglobina glicosilata è migliorata anche se non significativamente. Il fabbisogno insulinico e la percentuale di glicemie inferiori a 65 mg/dL, sono rimaste invariate. Il numero di iperglicemie invece, anche se non in modo significativo, si è ridotto. A nostro avviso, il calo, seppur modesto, del peso corporeo e la minor frequenza di episodi iperglicemici potrebbero essere conseguenti a una più corretta gestione della dieta e dell’ipoglicemia.
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Il nostro corso di educazione alimentare sembra quindi in grado, almeno a breve termine, di migliorare sia le conoscenze che il comportamento alimentare nei pazienti diabetici insulino-dipendenti. L’efficacia del corso è probabilmente secondaria al fatto che il programma educativo è stato indirizzato verso i bisogni dei pazienti e ha previsto un loro coinvolgimento attivo e diretto in tutti gli aspetti del percorso educativo. Per mantenere nel tempo tali risultati, potrebbe tuttavia essere necessario integrare il corso di educazione in gruppo con incontri individuali con la dietista.
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IPOGLICEMIA Carmine G. Fanelli Dipartimento Medicina Interna Scienze Endocrine e Metaboliche, Università di Perugia
Introduzione L’ipoglicemia è la complicanza più frequente e grave nella vita dei pazienti diabetici in terapia insulinica. Di fatto, l’ipoglicemia rappresenta il maggiore ostacolo al raggiungimento della “quasi-normoglicemia”che, come dimostrato definitivamente dallo studio prospettico nordamericano DCCT (1), è essenziale per prevenire le complicanze microvascolari della malattia diabetica. Si stima che, nel corso della sua vita, un soggetto diabetico in terapia insulinica vada incontro a numerosi episodi di ipoglicemia lieve. Molti di questi sono riconosciuti e corretti dal paziente stesso. Purtroppo, altri possono esitare in ipoglicemia grave (condizione in cui il paziente non è in grado di provvedere da solo alla correzione dell’ipoglicemia e ha bisogno dell’aiuto di un’altra persona) o addirittura nel coma. Ad esempio, nello studio DCCT, i pazienti in terapia insulinica intensiva presentavano in media un episodio di ipoglicemia grave e/o coma ipoglicemico ogni 2-3 anni (1). L’ipoglicemia, quindi, non solo rappresenta una seria minaccia per la sopravvivenza del paziente, ma può anche influire negativamente sulla qualità della vita dei pazienti diabetici in relazione alle attività lavorative e sociali.
Fisiopatologia dell’ipoglicema e dell’ipoglicemia asintomatica (hypoglycemia unawareness) nel diabete mellito di tipo 1 in terapia insulinica L’ipoglicemia nei pazienti diabetici in terapia insulinica è causata, in primo luogo, dall’iperinsulinismo sistemico indotto dalla somministrazione sottocutanea di insulina; la durata e la gravità dell’episodio ipoglicemico dipendono soprattutto dal grado di efficienza del sistema di controregolazione glicidica. Si tratta di un sistema estremamente sofisticato e fine che viene attivato dal sistema nervoso centrale qualora ci sia una diminuzione della glicemia al di sotto dei valori normali (≈70 mg/dL). L’obiettivo è quello di correggere l’ipoglicemia o di prevenire una ulteriore diminuzione della glicemia. Il sistema della controregolazione glicidica è costituito dagli ormoni controregolatori, dalla risposta dei substrati (acidi grassi liberi e glicerolo) all’ipoglicemia e dall’autoregolazione epatica. Fra questi, sicuramente la risposta di glucagone e adrenalina (ma anche cortisolo e ormone della crescita), le cui concentrazioni plasmatiche aumentano durante l’ipoglicemia, svolgono un ruolo di primo piano. Grazie all’azione degli ormoni, la produzione endogena di glucosio (da parte del fegato e del rene) aumenta e la utilizzazione di glucosio nei tessuti periferici diminuisce. Il risultato finale è, quindi, quello di mantenere una concentrazione di glucosio nel sangue sufficiente per soddisfare le esigenze metaboliche del cervello che, come è noto, è un organo il cui metabolismo è in generale strettamente glucosio-dipendente (2, 3).
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Questo sistema è così efficiente che nel soggetto non-diabetico l’ipoglicemia non si verifica mai, nemmeno durante il digiuno prolungato. Purtroppo, nei pazienti diabetici di tipo 1 la risposta degli ormoni controregolatori all’ipoglicemia è spesso compromessa. Infatti, dopo circa 4-5 anni di malattia, la secrezione di glucagone è praticamente assente, mentre quella di adrenalina non scompare completamente come quella del glucagone, ma sembra diminuire più gradualmente nel corso degli anni. Per questo motivo, la ridotta risposta degli ormoni controregolatori rappresenta il secondo fattore responsabile dell’ipoglicemia nei pazienti diabetici. Un ulteriore meccanismo di difesa all’ipoglicemia è rappresentato dalla percezione dei sintomi dell’ipoglicemia. È grazie alla percezione dei sintomi dell’ipoglicemia che il paziente può correggere (per es. mangiando) l’ipoglicemia all’esordio prevenendo l’evoluzione verso una forma più severa. È importante, quindi, che i pazienti conservino una buona percezione dei sintomi dell’ipoglicemia nella sua fase iniziale, per correggerla tempestivamente e prevenire la neuroglicopenia e l’ipoglicemia grave. Normalmente sono i sintomi autonomici (cioè, la sudorazione, la fame, i tremori, il cardiopalmo, l’ansia e l’irritabilità) quelli che allarmano inizialmente i pazienti. Tuttavia, in certi pazienti, la percezione dei sintomi dell’ipoglicemia è ridotta o può essere addirittura assente. In molte occasioni, la sintomatologia compare a valori di glicemia molto bassi, è caratterizzata da neuroglicopenia, vario grado di disfunzione cerebrale e spesso coma ipoglicemico. Questa condizione è nota come “ipoglicemia asintomatica” o “hypoglycemia unawareness”. Si tratta di una condizione largamente diffusa fra i diabetici in terapia insulinica. Tuttavia, l’esatta frequenza del fenomeno non è nota. Da una minuziosa analisi della letteratura, la frequenza stimata è risultata pari al 25%, variando in rapporto all’eta’ del paziente, alla durata della malattia, alla presenza o meno della neuropatia autonomica diabetica e alla qualità del controllo glicemico. Da un punto di vista prettamente clinico, l’ipoglicemia asintomatica è una condizione estremamente pericolosa in quanto l’ipoglicemia può esordire bruscamente con i segni e sintomi di una grave disfunzione cerebrale. I pazienti hanno solitamente una lunga durata del diabete, una storia di episodi di ipoglicemia grave e bassi valori di HbA1c. Per quanto riguarda la eziologia, l’ipoglicemia asintomatica è indotta dalla esposizione a ripetuti episodi di ipoglicemia. Il fenomeno è riproducibile sperimentalmente. Infatti, l’esposizione a brevi episodi di ipoglicemia riduce la percezione dei sintomi (e la risposta degli ormoni controregolatori) durante una successiva ipoglicemia indotta il giorno dopo (4). Dal punto di vista clinico è interessante osservare come ipoglicemie lievi (70-60 mg/dL) siano efficaci quanto quelle più severe, ad esempio 50-40 mg/dL. La patogenesi non è completamente conosciuta. Negli animali è stato dimostrato che l’ipoglicemia cronica induce un aumento del numero dei trasportatori cerebrali del glucosio (GLUT-1 e GLUT-3). Questi trasportatori sono localizzati a livello endoteliale nella barriera ematoencefalica (GLUT-1) e neuronale (GLUT-3), non sono regolati dall’insulina, mediano il trasporto basale di glucosio e hanno una elevata affinità per il glucosio (ciò è particolarmente vantaggioso per un organo come il cervello estremamente vulnerabile all’ipoglicemia). La “up-regulation” dei trasportatori del glucosio consentirebbe al cervello di adattare il metabolismo all’ipoglicemia. In altre parole, il tessuto cerebrale utilizzerebbe una maggiore percentuale di glucosio disponibile mantenendo normale il metabolismo anche in presenza di valori subnormali di glicemia. In assenza di sintomi l’ipoglicemia non verrebbe percepita e corretta dal paziente. Il rischio di ipoglicemia grave risulterebbe realmente elevato. Recentemente è stato documentato che l’estrazione cerebrale di glucosio è aumentata nei pazienti diabetici con ipoglicemia asintomatica (5). Pertanto, è verosimile che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia, mediato dalla “up-
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regulation” dei trasportatori di glucosio, sia il meccanismo operativo nella patogenesi dell’ipoglicemia asintomatica nei pazienti diabetici. Inoltre, questa ipotesi patogenetica ha una notevole rilevanza da un punto di vista clinico e terapeutico perché suggerisce che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia è un fenomeno funzionale e, quindi, reversibile. Infatti, la prevenzione scrupolosa dell’ipoglicemia ripristina (già dopo due settimane) la fisiologica risposta dei sintomi all’ipoglicemia (6) (fig. 1). La reversibilità della sindrome è stata dimostrata nei pazienti diabetici con breve e lunga durata del diabete e, recentemente, anche nei pazienti con neuropatia autonomica (che non è la causa della sindrome come si è creduto fino a poco tempo fa). Sorprendentemente, anche la risposta degli ormoni controregolatori, in particolare adrenalina (fig. 2), migliora significativamente dopo prevenzione dell’ipoglicemia indicando che anche la sindrome della ridotta controregolazione glicemica è parzialmente reversibile.
Ipoglicemia asintomatica e soglie glicemiche per le risposte degli ormoni controregolatori, dei sintomi e funzioni cognitive
Figura 1 Risposta dei sintomi autonomici e neuroglicopenici durante ipoglicemia a gradini in soggetti non-diabetici, e in un gruppo di pazienti diabetici con ipoglicemia asintomatica prima, dopo due settimane e dopo tre mesi di prevenzione scrupolosa dell’ipoglicemia. Durante lo studio la glicemia veniva progressivamente ridotta da 85 mg/dL al tempo 0, fino a 45 mg/dL al tempo 360 minuti
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È possibile identificare in modo obiettivo i pazienti con ipoglicemia asintomatica mediante la tecnica del clamp iperinsulinemico-ipoglicemico a gradini (6). Utilizzando questa tecnica, in cui l’insulina è infusa a velocità costante mentre il glucosio viene infuso a velocità variabile per produrre livelli successivi di ipoglicemia, è possibile determinare le soglie glicemiche delle risposte fisiologiche all’ipoglicemia. Nei soggetti non-diabetici è stato documentato che la prima risposta all’ipoglicemia è rappresentata dalla soppressione della secrezione insulinica (a circa 79 mg/dL), segue l’aumento degli ormoni controregolatori adrenalina e glucagone (a circa 65 mg/dL), la comparsa dei sintomi dell’ipoglicemia (a circa 56 mg/dL) e l’inizio della 9 disfunzione cerebrale a 50-52 mg/dL. Nei soggetti AUTONOMIC diabetici, invece, le soglie glicemiche variano in rapporto al SYMPTOMS controllo glicemico precedente. Infatti, i pazienti diabetici 6 con ipoglicemia ricorrente hanno le soglie glicemiche per le risposte degli ormoni controregolatori, dei sintomi dell’ipoglicemia e per l’iniziale deterioramento delle 3 funzioni cognitive elevate (le risposte si manifestano a valori di glicemia più bassi rispetto a quelli di soggetti non basal diabetici). Pertanto, l’adattamento cerebrale indotto 0 n = 12 non-diabetic n = 8 IDDM 2 weeks dall’ipoglicemia ricorrente coinvolge tutte le risposte volunteers 3 months 14 fisiologiche all’ipoglicemia. Clinicamente, ciò significa che la soglia glicemica per la percezione dei sintomi 12 dell’ipoglicemia dipende dal grado di controllo glicemico NEUROGLYCOPENIC 10 conseguito durante le settimane precedenti. Per esempio, SYMPTOMS 8 pazienti con ipoglicemia ricorrente (= ipoglicemia asintomatica) possono apparentemente tollerare molto 6 bene valori glicemici bassi (per es. 45-50 mg/dL). Da 4 questa osservazione clinica si è sviluppato il concetto che 2 l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia ricorrente (mediante i meccanismi descritti sopra) rappresenti un 0 meccanismo protettivo. In realtà, dal punto di vista clinico 0 60 120 180 240 300 360 l’adattamento delle soglie glicemiche all’ipoglicemia MINUTES ricorrente non offre nessun sostanziale vantaggio, al
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contrario ritarda l’attivazione delle risposte ormonali della controregolazione e la percezione dei sintomi dell’ipoglicemia. Gold e Coll. (7) hanno trovato in uno studio prospettico su 60 pazienti che il rischio di coma ipoglicemico è circa 6 volte maggiore nei pazienti con ipoglicemia asintomatica rispetto ai pazienti in grado di percepire l’ipoglicemia al suo esordio.
5
nM
4
PLASMA ADRENALINE
3 2 1 0 n = 12 non-diabetic volunteers
pg/ml
190
n = 8 IDDM
PLASMA GLUCAGON
150
110
70 0
60
Figura 2 Concentrazioni plasmatiche di adrenalina e glucagone durante ipoglicemia a gradini in soggetti nondiabetici, e in un gruppo di pazienti diabetici con ipoglicemia asintomatica prima, dopo due settimane e dopo tre mesi di prevenzione scrupolosa dell’ipoglicemia. Durante lo studio la glicemia veniva progressivamente ridotta da 85 mg/dL al tempo 0, fino a 45 mg/dL al tempo 360 minuti
basal 2 weeks 3 months
Prevenzione dell’ipoglicemia durante terapia insulinica intensiva
La prevenzione dell’ipoglicemia asintomatica si basa essenzialmente sulla prevenzione dell’ipoglicemia nei pazienti in terapia insulinica intensiva. Da un punto di vista pratico, la difficoltà maggiore è quella di eliminare gli episodi di ipoglicemia lievi che hanno enorme importanza nello sviluppo dell’ipoglicemia asintomatica e dell’ipoglicemia grave. Certamente, con le preparazioni insuliniche attualmente disponibili e l’imperfezione della via 120 180 240 300 360 sottocutanea di somministrazione non è realisticamente MINUTES possibile prevenire completamente l’ipoglicemia nei pazienti in terapia insulinica intensiva nei quali gli obiettivi glicemici sono quelli di una “quasi-normoglicemia”. Tuttavia, ogni sforzo deve essere fatto per minimizzare la frequenza di ipoglicemia in questi pazienti. Per questo motivo è importante in primo luogo mirare a degli obiettivi glicemici di “quasi-normoglicemia” prima dei pasti. Praticamente ciò è possibile innalzando gli obiettivi di normoglicemia prima dei pasti di almeno 30-50 mg/dL. Ciò riduce il rischio di ipoglicemia nei periodi inter-prandiali ed è compatibile con un controllo glicemico globale ottimale sulla base di valori di HbA1c compresi fra 6,0 e 7,0%. Deve essere utilizzato un modello di terapia insulinica con iniezioni giornaliere multiple di insulina o con microinfusori a velocità programmabile. In generale, la terapia insulinica prevede la somministrazione di insulina ad azione rapida a ogni pasto e dell’insulina ad azione intermedia (NPH) prima di coricarsi. Le dosi di insulina da utilizzare dipendono dal contenuto di carboidrati dei pasti. Il fabbisogno di insulina è in genere modesto a colazione (≈0,05-0,10 IU/kg), mentre è più elevato a pranzo e cena (0,15-0,20 IU/kg). Nel caso in cui l’intervallo di tempo fra il pranzo e la cena sia abbastanza lungo (>6 ore) può essere utile aggiungere una piccola dose di insulina NPH (0,05-0,10 IU/kg) a pranzo per migliorare la glicemia prima di cena. In questo caso, la dose di insulina ad azione rapida della cena dovrebbe essere ridotta di 1-2 unità per ridurre il rischio di ipoglicemia dopo il pasto serale. Durante la notte non è sempre semplice ottenere un controllo glicemico ottimale. Infatti, a causa della sensibilità insulinica che cambia (maggiore nelle prime ore della notte rispetto alle prime ore del mattino) e della scarsa affidabilità dell’insulina NPH, il rischio di ipoglicemia è maggiore durante la notte, in particolare durante le prime ore della notte. Ciò si verifica più frequentemente quando l’insulina NPH viene iniettata insieme alla insulina ad azione rapida prima di cena. Per mimimizzare il rischio di ipoglicemia notturna è opportuno somministrare la dose di insulina NPH prima andare a letto (per es. alle ore 23). La dose di insulina NPH è di circa 0,15-0,25 UI/kg. Molti pazienti preferiscono sostiture l’insulina ad azione rapida con l’analogo lispro che è caratterizzato da un assorbimento cutaneo molto più veloce e da una più
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precoce biodisponibilità insulinica. Queste caratteristiche rendono l’impiego dell’analogo particolarmente utile per il controllo post-prandiale della glicemia rispetto all’insulina ad azione rapida. Per questi motivi, l’analogo viene somministrato solo pochi minuti prima del pasto (invece dei 20-30 minuti attesi dopo l’iniezione della insulina ad azione rapida) migliorando lo stile di vita dei pazienti. Tuttavia, poichè la durata d’azione dell’analogo è più breve di circa 2-3 ore, l’analogo deve essere miscelato con una dose di insulina NPH ad ogni pasto per prevenire l’iperglicemia prima del pasto successivo (8). Il rischio di ipoglicemia, in particolare di ipoglicemia notturna, è generalmente ridotto utilizzando l’analogo lispro rispetto all’insulina ad azione rapida (9). Infine, è estremamente importante istruire il paziente sull’utilità della determinazione della glicemia pre-prandiale quale guida per la scelta della dose di insulina. Nel caso in cui il paziente sia affetto da ipoglicemia asintomatica è opportuno deteriorare intenzionalmente il controllo glicemico (valori di glicemia prima dei pasti compresi fra 150 e 200 mg/dL) per un periodo di circa 2-3 settimane. Tale periodo è sufficiente perchè il cervello possa recuperare la fisiologica funzione di percepire l’ipoglicemia non appena si manifesti l’ipoglicemia sistemica, con conseguente generazione dei sintomi di allarme dell’ipoglicemia e secrezione degli ormoni controregolatori. Dopo questo periodo, si può ripristinare la terapia insulinica intensiva mirando agli obiettivi glicemici sopra ricordati e prevenendo scrupolosamente il ripetersi di episodi di ipoglicemia.
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ATTIVITÀ FISICA Gerardo Corigliano Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici (ANIAD)
Io non vi parlerò degli aspetti fisiopatologici che pur sono importanti per definire le conoscenze che sottendono i programmi educativi; dando per scontato che siano a tutti note possiamo parlarne in discussione. Non vi parlerò degli aspetti educativi del binomio attività fisica/diabete di tipo 2 per la brevità del tempo che mi compete e quindi entro subito in argomento per quanto riguarda diabete insulino-dipendente. Intanto sgombriamo il campo, chiariamo una cosa, il diabetico insulino-dipendente non determina una diminuzione quantitativa di attività fisica abituale; quindi l’idea che molti di noi hanno che il diabetico faccia meno attività fisica è un’idea che scientificamente è stata dimostrata falsa. Questo è un articolo apparso su Diabetes Care: soltanto i pazienti portatori di microinfusore, forse per l’ingombro della malattia, forse per l’instabilità stessa del diabete hanno una diminuzione quantitativa di attività fisica. Come la tazzina di caffè della nota pubblicità televisiva che allunga la vita, anche l’esercizio fisico regolare allunga la vita. Questo è un lavoro di Moy, fatto a Pittsburgh, è durato circa 20 anni e voi vedete come, in modo coerente, vi sia un rapporto inversamente proporzionale fra prevalenza di mortalità e quantità di attività fisica spesa settimanalmente: questi cinque quintili sono da meno di 500 calorie alla settimana a più di 2500 calorie alla settimana per attività motorie e sportive. Quindi anche salire le scale, andare al lavoro a piedi e così via, veniva calcolato in questo lavoro. Quando programmiamo un’attività fisica, dobbiamo porci sempre il problema del rapporto rischio-beneficio. In questa immagine noi vediamo una ipotetica safety-zone, una zona di sicurezza per un diabetico giovane senza complicanze. E vedete come a un aumento dell’intensità e della durata dell’attività fisica si accompagni solo tardivamente un aumento del rapporto rischio-beneficio, del rischio in qualche modo. Quindi vi è un’ampia zona di sicurezza. Ma se andiamo a un paziente più avanti negli anni, con delle complicanze microvascolari iniziali, vedete come si stringe la safety-zone e quanta maggiore prudenza noi dobbiamo avere nel consigliare, nello scegliere il tipo di attività fisica.Vedete come a un piccolo incremento della intensità si accompagni un notevole aumento del rapporto rischiobeneficio. Nella diapositiva ci sono le raccomandazioni dell’American Diabetes Association per iniziare un’attività fisica in pazienti affetti da diabete di tipo 1 e tipo 2; cerco di riassumervela. Per prima cosa: cerca le complicanze, fai un’attenta valutazione delle complicanze micro e macrovascolari e fai un elettrocardiogramma da sforzo se hai il diabete di tipo 1 da più di 15 anni, o se sei tipo 1 con più di 30 anni, o tipo 2 con un’età maggiore di 35 anni. E poi importanti informazioni sul tipo di attività fisica: deve essere aerobica (e ci ritorneremo), deve essere regolare (due o tre volte la settimana), la durata non deve essere mai troppo elevata (20-60 minuti), l’intensità 50-70% della VO2 massima. Come si fa, mi direte voi, così nei nostri ambulatori a trovare la VO2 massima? È semplice, calcolate 220 meno l’età del paziente in anni,
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se ha 20 anni c’è 200, il cento per cento della sua VO2 massima teorica. Se voi lavorate al 50-70% deve fare un esercizio fisico con una frequenza che vada da 100 a 140. E ancora valuta la spesa energetica e così via. Le raccomandazioni per evitare problemi sono quelle di effettuare sempre un corretto riscaldamento e di seguire poi tutte le norme educative sulla prevenzione delle ipoglicemie e sull’adeguamento dei carboidrati. Norme che non possono essere standardizzate ma che sono variabili da paziente a paziente, e quindi è fondamentale che il paziente abbia conoscenza del suo specifico atteggiamento metabolico in rapporto all’attività fisica, e si vada formando proprio una capacità di adattamento che sia assolutamente personalizzata. Allora cominciamo a vedere programmi di educazione per il tipo 1. Qui è ad Atene, congresso internazionale della International Diabetes Athletics Association, settembre del ‘98. Io ritengo, diciamo, basandomi sull’esperienza ultradecennale, che l’educazione per esercizio fisico non possa essere fatta nell’ambulatorio, nello scorrere continuo delle visite che noi facciamo, ma deve avere un posto privilegiato e da una decina d’anni noi organizziamo dei corsi di sport allo scopo di insegnare ai diabetici di tipo 1 ad adattare e personalizzare l’apporto alimentare in carboidrati in particolare e il fabbisogno insulinico in rapporto all’attività fisica ma non l’attività fisica in generale, al tipo, alla durata, all’intensità, all’ora del giorno in cui viene fatta. E, ancora, un obiettivo è quello di formare negli ultimi tempi diabetologi sugli aspetti fisiopatologici, clinici, psicologici, pratici ed educativi di questo binomio. Sono aspetti che non vengono spesso trattati nell’ambito degli studi di specializzazione, che vengono forse più facilmente imparati sul campo. 15-20 partecipanti, omogenei per tipo di diabete di entrambi i sessi, che abbiano capacità di autogestione, che abbiano un minimo di allenamento e il sito deve essere evidentemente una località che abbia nella stessa struttura alloggi, refettori e impianti sportivi. In genere viene fatto nei pressi di Napoli, al Monte Faito, ma abbiamo fatto delle riunioni anche nel Veneto e in Sicilia recentemente. Il corso dura 4 giorni e il team deve essere costituito da un diabetologo, una dietista, un infermiere, come sempre, ma vedete qui un preparatore atletico perché noi insegniamo non solo come si adatta e come si gestisce il diabete ma anche come si fa lo sport in rapporto all’essere diabetico. Un diabetico-guida sportivo può essere di grande ausilio e il diabetologo diventa in qualche modo discente e docente perché diventa il tutor di alcuni diabetici partecipanti e nello stesso tempo è discente perché viene lì per imparare. La didattica è quella dell’insegnamento sul campo, quindi noi facciamo un’attività fisica che è prevalentemente ludica e per qualche tratto anche agonistica a moderato livello, mattina e pomeriggio per quattro giorni e nel tardo pomeriggio, in serata, vengono fatte delle discussioni, si affrontano gli argomenti, partendo sempre dall’esperienza pratica vissuta da qualcuno quella giornata, in modo tale che si arriva al generale e partendo dal particolare, dall’ipoglicemia che quel giovane ha avuto in quel giorno e quindi svisceriamo perché l’ha avuto, quale è stato l’errore nell’adeguamento insulinico e alimentare, e così via. Un questionario di valutazioni, delle conoscenze viene somministrato ovviamente per cercare di capire se siamo riusciti a insegnare qualcosa. È evidente che il momento dell’autocontrollo è momento fondamentale, esso deve essere fatto in tutti i momenti possibili, non vissuto masochisticamente come il modo di pungersi il dito, ma proprio come una volontà precisa di capire per non sbagliare. Vedete, un momento di autocontrollo ancora più particolare, e quando parlo di autocontrollo non mi riferisco solo all’autocontrollo glicemico, ma di tutte quelle componenti che influiscono sulla glicemia. Qui vedete un paziente che controlla e spegne il suo microinfusore in previsione di una seduta di esercizio fisico in acqua.
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Il programma educativo prevede nozioni sulla fisiopatologia dello sforzo muscolare, sull’adattamento dell’insulina, dell’apporto alimentare, siti d’iniezione, timing e, in particolare, c’è tutto un nuovo filone di valutazione per quanto riguarda i pazienti che usano analoga lispro perché cambia la cinetica e quindi cambia il timing desiderato, desiderabile per l’esercizio fisico. Scelta del tipo di attività in rapporto a eventuali iniziali complicanze. I vantaggi sono quelli dell’apprendimento facilitato, della sdrammatizzazione del nostro rapporto, diciamo, pur non rinunciando al ruolo di medico e quindi al ruolo di diabetologo; noi cerchiamo di empatizzare il nostro rapporto e quindi, in qualche modo, di averne dei vantaggi nella disponibilità al colloquio e alla collaborazione che avviene successivamente nella vita quotidiana. Ancora vantaggi: rilievo immediato dei progressi raggiunti (questi pazienti in quarta giornata spesso riducono del 40% la dose d’insulina); possibilità di approfondire argomenti raramente trattati, per esempio scelta della calzature; programmi di allenamento e così via; alimentazione specifica in preparazione di una gara. Possibili ricadute pratiche: migliore qualità della vita sicuramente; migliore sicurezza di sé; probabilmente anche migliore compenso e una accettazione attiva del diabete può essere la conseguenza di tutto questo stile di vita che fa sentire molto meno un malato cronico il nostro diabetico. E queste sono una serie di nozioni “un po’ prendi e porta a casa” che potremo rivedere, a voi tutti note. Per esempio non fare attività quando la glicemia è molto alta, ma possiamo discutere di questo. Alcuni aspetti pratici di tipo organizzativo. Che cosa facciamo proprio materialmente per organizzare, oltre che far organizzare questi corsi di sport? Vi presento l’ANIAD. Per chi non la conoscesse è l’associazione nazionale italiana atleti diabetici, fa parte dell’International Diabetes Athletics Association e riunisce i diabetici sportivi, atleti in gergo anglosassone, sportivi in generale e medici diabetologi che sono interessati alla materia. Molti preparatori sportivi anche sono interessati. Questo è il nostro presidente, Paula Harper, diabetica insulino-dipendente di Phoenix, Arizona, che è una sportiva di lunga data. E questa è letteratura che si fa sull’argomento di tipo educativo. Probabilmente non molti la conoscono, ma esiste una rivista americana, una spagnola “Sport y vida”, una di lingua francese “Le défi”, la sfida, poi tedesca, inglese e questa nostra che si chiama “Sport e Diabete”, questo bollettino che faticosamente ogni 4 mesi cerco di inviare ai diabetici e ai diabetologi interessati all’argomento. Una delle nostre finalità è quella di insegnare come si fa una seduta di attività fisica e questo è importante che voi lo trasferiate ai vostri pazienti. Una corretta seduta per un diabetico deve prevedere 2 minuti per un check della glicemia, 5 minuti per una fase di riscaldamento, la sessione di esercizio vera e propria, e poi una fase defatigante, importante in cui si riduce l’intensità, un fase facoltativa di stretch e un controllo della glicemia ancora due minuti. Ancora tre diapositive e ho concluso e queste sono importanti. Per darvi un messaggio e far sì che voi lo trasferiate ai vostri pazienti: non tutte le attività sono uguali sul piano metabolico e quindi sul piano dell’effetto che ci si aspetta in termini di glicemia. Quelle anaerobiche a-lattacide, quelle di brevissima durata e di grande intensità utilizzano sostanze energetiche diverse dal glucosio, hanno un dispendio energetico di poche decine di calorie, quindi non hanno alcun effetto sulla glicemia e hanno un forte impatto sul sistema cardiovascolare. Quindi sono attività che non sono utili. Quelle invece anaerobiche lattacide, quelle di durata media, utilizzano principalmente glicogeno e quindi danno rischio di ipoglicemia, sono poco
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ecologiche perché producono scorie come l’acido lattico e hanno anche un certo impatto sul sistema cardiovascolare. Ma allora qual è l’attività che noi dobbiamo raccomandare in termini anche di educazione, di messaggio educativo? Le attività aeorobiche a-lattacide, cioè quelle di durata e non di potenza: le corse, lo sci, la marcia, il ciclismo, di scarsa intensità e di lunga durata. Qui la fonte energetica principale è il glucosio e solo tardivamente viene utilizzato glicogeno. Il dispendio energetico è di centinaia di calorie, l’effetto sulla glicemia è una riduzione progressiva e prevedibile, quindi ideale per il diabetico e vi è poi tutta una serie di effetti positivi che sono legati al metabolismo lipidico, alla fitness, alla migliore attività recettoriale dell’insulina. Quindi l’attività fisica prolungata, effettuata al di sotto della soglia anaerobica individuale predeterminata, effettuata in condizioni di controllo metabolico, sembra essere quella che meglio si adatta alla condizione di diabetico. E, cosa non trascurabile, essa può essere proseguita fino a 40-50 anni e più: questo è importante in una prevenzione a lungo termine delle complicanze macrovascolari del diabetico. Questa è la partenza della maratonina, qui stiamo proprio a Maratona, qui c’è il fuoco sacro di Atene, appunto nell’ultimo congresso IDAA, ci sono dei diabetici e alcuni diabetologi. La conclusione è questa. L’esercizio fisico intrapreso consapevolmente, costringe all’autocontrollo, se non lo vuoi pagare sulla tua salute, educa alla continua autovalutazione dell’apporto energetico, abitua il paziente a escogitare soluzioni terapeutiche in rapporto al mutevole fabbisogno insulinico, quindi è una palestra per l’autogestione e lo allena a una disciplina di vita. C’è una immagine finale, vi ho detto che non avrei parlato dei diabetici di tipo 2, questa è una donna anziana, obesa che si rifiutava ostinatamente di fare anche qualche centinaio di metri, e John Day vi ha parlato di coinvolgimento anche dei familiari, adduceva motivi “vado in ipoglicemia”, una volta andando a messa andò in ipo “non vedo bene, urto contro tanti ostacoli”; l’ultima diapositiva vi mostra uno strumento che si può anche brevettare “bastone per camminata di anziana diabetica”che porta un alloggiamento per una bottiglina con coca-cola e un piccolo clacson per farsi largo nella strada!
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DIABETE E GRAVIDANZA Annunziata Lapolla Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Cattedra di Malattie del Metabolismo, Università di Padova
La gravidanza è un momento molto particolare per la donna, durante questo periodo essa infatti attraversa una serie di fasi emotive che vanno dall’accettazione della gravidanza, all’attaccamento al feto, all’identificazione del feto come individuo, cui segue poi l’adattamento al ruolo materno. Molte donne, manifestano anche insicurezza su questo nuovo ruolo richiesto e questo si verifica in modo più accentuato nelle donne affette da patologie croniche quali il diabete, perché in esse c’è anche la paura che il proprio stato di salute possa in qualche modo incidere sull’andamento della gravidanza e sul feto. Le donne affette da diabete in gravidanza possono essere suddivise in due categorie: quelle con diabete preesistente alla gravidanza (diabete di tipo 1, diabete di tipo 2 e ridotta tolleranza ai carboidrati) e quelle in cui il diabete diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza (diabete gestazionale e ridotta tolleranza ai carboidrati durante la gravidanza). Nonostante l’introduzione della terapia insulinica e il miglioramento del follow-up materno e fetale abbiano ridotto drasticamente, negli ultimi quarant’anni, la Tabella I morbilità e la mortalità materna e fetale, rimangono tuttavia alcuni problemi Problemi attuali importanti legati alla gravidanza nelle pazienti con diabete di tipo 1 e 2, quali del diabete un’elevata incidenza di anomalie congenite nei neonati di madre diabetica, e in gravidanza la gestione della cosiddetta “gravida difficile”, cioè quella che si presenta a gravidanza già avanzata e che non è colNonostante i successi ottenuti nella gestione della diabetica gravida laborante (tab. I). D’altra parte, anche il restano alcuni problemi: diabete gestazionale, condizione di al• alta incidenza di anomalie congenite nei neonati terata tolleranza ai carboidrati che viene • “gestione” della diabetica con complicanze severe diagnosticata per la prima volta durante la • “gestione” della gravida “difficile”, che si presenta tardi per gravidanza, è ancora correlata a una partorire e/o non è collaborante elevata frequenza di morbidità materna (preclampsia, ipertensione, taglio cesareo) e fetale (macrosomia, ipoglicemia, ipocalcemia, sindrome da distress respiratorio, iperbilirubinemia) oltre che a una elevata incidenza di complicanze a distanza nella madre (diabete, ridotta tolleranza ai carboidrati) e nel nato (obesità, alterazioni della tolleranza ai carboidrati). È quindi di notevole importanza agire in queste pazienti con un corretto approccio educativo e uno stretto follow-up clinico.
Diabete pregravidico Possiamo dividere le donne con diabete pregravidico in 2 gruppi: quelle che pianificano la gravidanza, che sono soprattutto le donne con diabete di tipo 1, e quelle che non pianificano la gravidanza, che nella maggior parte dei casi sono donne con diabete di tipo 2. Nel primo caso deve essere fatta una valutazione basale preconcepimento che deve
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comprendere la valutazione delle condizioni fisiche della paziente, del controllo metabolico, del tipo e grado delle complicanze croniche del diabete, e una valutazione ostetrica. Si deve poi verificare quali siano le conoscenze che la donna e il partner hanno nei confronti sia del diabete e delle sue complicanze che della gravidanza; queste valutazioni sono indispensabili per effettuare una corretta programmazione del concepimento. L’“obiettivo preconcepimento” che il nostro team si prefigge di ottenere, attraverso un approccio educativo costante e sistematico, sono: la donna deve sapere che la gravidanza deve essere programmata, che deve concepire in buon controllo metabolico, che il concepimento in cattivo controllo metabolico aumenta il rischio di malformazioni per il feto, e che perciò, se non fosse in buon controllo metabolico, è momento più opportuno, infine nel caso sia affetta da diabete di tipo 2 deve smettere gli antidiabetici orali e fare terapia insulinica. La donna diabetica naturalmente deve sapere anche che è importante seguire, durante la gravidanza, un’alimentazione corretta e condurre una vita tranquilla e che, se la gravidanza viene programmata e seguita costantemente nel tempo, sarà possibile avere un parto normale e allattare come tutte le altre donne. La donna diabetica deve sapere anche prima di intraprendere una gravidanza quali sono i rischi per suo figlio di diventare diabetico e che è importante valutare l’eventuale presenza di complicanze croniche del diabete. Anche se si tratta di donne già diabetiche che dovrebbero già saper monitorare il proprio diabete, dobbiamo in ogni caso accertarci che lo sappiano fare in modo “consapevole”, che sappiano autoiniettarsi correttamente l’insulina, correggere le eventuali ipoglicemie e mettere in pratica corretti comportamenti alimentari. In questo contesto, è fondamentale, da parte dei componenti del team, un atteggiamento disponibile e sereno per ottenere la collaborazione della paziente e poterla convincere che può avere comunque una gravidanza normale. Il team diabetologico deve aiutare la donna ad affrontare la gravidanza con la maggiore serenità possibile e deve farle capire che non è sola e che in ogni caso vi è la disponibilità del team ad aiutarla a risolvere i problemi che di volta in volta possono intervenire. Purtroppo non tutte le donne affette da diabete si presentano per programmare una gravidanza, capita infatti ancora frequentemente di dovere seguire donne che sono già in gravidanza e sono soprattutto donne con diabete di tipo 2. In questo caso devono essere valutati al più presto il controllo metabolico della donna, il tipo e il grado delle complicanze croniche eventualmente presenti, le conoscenze e il grado di accettazione del diabete e della gravidanza in corso, se vi è stata una eventuale programmazione della gravidanza o se il concepimento è stato casuale. È importante anche valutare quali sono le conoscenze del partner nei confronti del diabete e della gravidanza. Gli obiettivi a breve termine che dobbiamo ottenere in queste pazienti sono il raggiungimento di un buon controllo metabolico, la correlazione degli eventuali comportamenti errati in termini di automonitoraggio, di autoiniezione, e prevenzione delle crisi ipoglicemiche. Nello stesso momento, è giusto che la donna sappia che vi sono dei rischi per lei e per il feto, rischi collegati al diabete e alle eventuali complicanze da cui è affetta e, se la donna decide di portare a termine la gravidanza, tutto questo deve essere ottenuto in modo tale che la gravidanza comunque sia vissuta serenamente.
Diabete gravidico La terza tipologia di paziente che dobbiamo seguire e monitorare, è quella costituita dalle donne con diabete gestazionale. In questo caso siamo di fronte a donne sane
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che vengono inviate al Servizio Diabetologico per eseguire accertamenti diagnostici nei confronti del diabete e, nella nostra esperienza, la maggior parte di queste donne sono inviate dai Consultori Familiari. Tali donne di solito hanno eseguito un minicarico di glucosio risultato positivo e devono essere sottoposte alla curva da carico orale di glucosio; le loro conoscenze del diabete perciò sono scarse. Gli obiettivi educativi che in questo caso perseguiamo devono essere rivolti innanzitutto a far prendere coscienza alla donna di questa sua nuova condizione. Deve poi sapere quali sono i parametri da controllare e quali sono gli obiettivi metabolici da raggiungere; deve sapere che la normoglicemia riduce il rischio di complicanze sia per lei che per il feto e che per ottenere questo è importante seguire un piano alimentare corretto. Deve, infine, essere informata che nonostante tutto, potrebbe aver bisogno della terapia insulinica nel corso della gravidanza. Anche in questo caso la donna deve essere a conoscenza di quali sono i fattori di rischio legati al diabete gestazionale e di come li può modificare; deve sapere inoltre che spesso questo tipo di diabete scompare dopo il parto, ma che c’è un rischio elevato per lei negli anni successivi alla gravidanza di avere un diabete o alterazioni della tolleranza ai carboidrati e che per questo motivo è indispensabile che dopo la gravidanza esegua dei controlli periodici per la valutazione, appunto, della tolleranza ai carboidrati. Alla donna bisogna inoltre insegnare a fare l’automonitoraggio, a seguire un corretto schema di alimentazione, ed eventualmente a iniettarsi l’insulina. Il team educativo deve assolutamente tenere presente che ha di fronte una donna che sta affrontando una gravidanza associata a una complicanza totalmente a lei sconosciuta, per tale motivo deve aiutarla a superare i suoi negativi stati d’animo. E per questo è indispensabile che la donna sappia che in qualsiasi momento si può rivolgere al team, cioè all’insieme di quelle persone che si devono occupare di lei durante tutto il corso della gravidanza. Infatti, da quanto su esposto, emerge chiaramente che l’approccio alla donna diabetica gravida non può esser fatto solo dal diabetologo, ma che è indispensabile il coinvolgimento di un team multidisciplinare. Questo team dovrebbe essere costituito da un diabetologo, un ginecologo, un infermiere esperto, una ostetrica, una dietista. Questo sarebbe sicuramente il team ideale: il nostro team è formato da due diabetologi, tre infermieri esperti e da una dietista. Quel che mi preme sottolineare è che, affinché l’approccio educativo possa essere efficace nei confronti della gravida, i comportamenti del team devono avere un uguale rispetto delle abilità e delle conoscenze, devono essere tutti in grado di soddisfare i bisogni della paziente, devono avere spirito collaborativo, devono avere la possibilità di interagire l’uno con l’altro in modo che alla donna, e questo è importantissimo, vengano date informazioni uniformi che la aiutino a condurre la gravidanza il più serenamente possibile. L’approccio educativo del team deve essere volto ad affrontare tutti gli aspetti relativi alla gestione della paziente, a capire quale è il grado di accettazione della malattia e di cooperazione della stessa (tab. II). Per raggiungere tali obiettivi devono essere coordinati e prestabiliti una serie di incontri tra i componenti del team in modo da definire obiettivi comuni. Alla paziente deve essere assicurata una disponibilità extra in modo che essa possa rivolgersi tranquillamente al team in caso sopravvenissero dubbi e/o problemi particolari. Questo approccio educativo e di follow-up, risulta di notevole importanza se vogliamo risolvere almeno in parte alcuni problemi ancora collegati alla gravidanza come precedentemente discusso. A tal proposito, in un recente articolo pubblicato su Diabetes Care (21, 1998), Holing e coll. hanno valutato, retrospettivamente,
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l’outcome di 90 gravidanze con diabete di tipo 1 e hanno riscontrato che solo il 39% delle gravidanze erano programmate. Tra i fattori più importanti che contribuiscono a tale elevata frequenza di gravidanze non programmate sono emerse le svantaggiose condizioni economiche, il cattivo rapporto con l’équipe multidisciplinare di cura, la scarsa educazione nei confronti del diabete, delle complicanze e della gravidanza, lo scarso supporto del partner, il desiderio elevato di realizzarsi diventando madri. Perciò la maggior parte delle donne che non avevano programmato la gravidanza, in realtà sapevano che per ottenerla era indispensabile un buon controllo metabolico, ma avevano sottovalutato il problema e soprattutto perché non avevano instaurato un buon rapporto con le persone che le seguivano; esse riferivano infatti di aver avuto quasi la sensazione che queste persone sconsigliassero loro la gravidanza ”a priori”. Se le pazienti invece si rendono conto di poter condividere il loro problema anche con il team diabetologico affrontano meglio la gravidanza; sicuramente se i componenti del team sono in grado di interagire sia tra loro sia con la donna i risultati saranno efficaci.
Per ottenere un ottimale approccio educativo del team ci deve essere: • uguale rispetto delle abilità e delle conoscenze • uguale grado di capacità di soddisfare i bisogni delle pazienti • collaborazione, interazione e comunicazione tra tutti i componenti del team • uniformità di informazioni alla gravida
Tabella II Approccio educativo
Ringraziamenti Ringrazio i componenti del mio team di approccio educativo alle gravide: Dott.ssa Maria Grazia Dal Frà - Infermieri Professionali: Rosanna Toniato, Federica Capovilla, Antonella Bortoletto - Dietiste: Antonella Barison, Paola Barison.
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IL PESO DELLE TECNOLOGIE INFORMATICHE IN AMBITO EDUCATIVO Giacomo Vespasiani Diabetologia, San Benedetto del Tronto
L’informatica non è di per sé una scienza che risolve i problemi, è una scienza che può aiutare alla soluzione di alcuni problemi ma, purtroppo, o per fortuna, è una scienza che mette lo zampino in tutte le varie branche dello scibile. L’informatica si applica in tantissimi campi tra cui la Sanità; nell’ambito della Sanità si può applicare alla medicina interna, ai laboratori e... alla diabetologia. All’interno della diabetologia si può interessare di ciascuna branca - dalla dietetica, al piede e così via - senza però essere in grado di risolvere completamente ciascuno di questi aspetti specialistici, ma potendo essere utile in ciascuna di queste. Il successo di un intervento informatico, qualunque esso sia, si misura soltanto con un parametro: la diffusione. Cioè quante persone usano quel sistema (quando parliamo di Windows conosciamo tutti di cosa si parla). Non ci sono parametri di bellezza, di utilità... la diffusione è l’unica. Soltanto se si riesce a diffondere vuol dire che quella cosa che si è fatta era utile, che serviva, era necessaria. Se una cosa è utile, ma non raggiunge un livello di diffusione vuol dire che in fondo non era poi così utile o che non era realizzato, o assistito bene. Fatta questa premessa, è importante capire perché ancora oggi, nel mondo della diabetologia, e nel mondo dell’educazione in modo particolare l’informatica non ha raggiunto una diffusione consistente; quali sono le possibili ragioni che giustificano questa difficoltà nella diffusione? Spesso gli informatici alle nostre richieste ci rispondono: “Si può far tutto, riusciamo a risolvere qualsiasi problema, basta prendere questa tecnologia e applicarla”. Nel dire ciò non si rendono conto che l’utilizzazione di tecnologie avanzate (il riconoscimento vocale, l’analisi delle immagini, rete di PC...) con i pochi e vecchi computer che abbiamo in ospedale, non sono applicabili nella pratica. Questo è un primo errore che viene fatto in genere da chi programma e dagli ingegneri che si interessano dell’argomento. Ma anche noi medici commettiamo un altro errore che è quello di illuderci che l’informatica ci possa risolvere completamente un problema clinico organizzativo. Questo, oltre che essere inutile, perché non è così, è dannoso in quanto dopo che noi abbiamo maturato questa convinzione, e con tanto entusiasmo andiamo ad affrontare un problema tramite un software che è bello, è simpatico, si presenta bene, spesso ci accorgiamo che le nostre aspettative sono mal riposte e quindi dalla fase di entusiasmo si passa alla fase di disillusione e quindi all’abbandono. Vediamo ora quali sono i vantaggi che nel campo dell’educazione si possono ottenere dall’informatica. ▲ L’attrazione per la novità e la presentazione grafica. Se voi mettete un ragazzino di fronte a un computer, solo per il fatto che si tratta di è un computer, lui è attratto. E se noi vogliamo far passare un messaggio, la buona disposizione dell’utente può essere molto utile. ▲ La presentazione grafica è altrettanto importante, non dimentichiamo però che questo è come incontrare una bellissima donna per strada che senz’altro è un’ottima presentazione ma poi è molto importante anche parlarci.
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▲ La ripetibilità nel tempo. Nell’ambito dell’educazione noi sappiamo, per esperienza comune, che le prime due, tre volte che si ripetono dei corsi educativi vengono sempre molto bene. Ma poi a causa della ripetitività, passati alcuni mesi, il nostro messaggio si impoverisce nei contenuti. Il tipo di informazione che noi diamo è la metà di quello che noi abbiamo dato all’inizio, se non lo riaggiorniamo o non lo riattiviamo. Ebbene, questo problema nell’informatica non c’è nel senso che è ripetibile, è standard, può essere ripetuto nel tempo. ▲ Il livello informativo noto. Se noi utilizziamo un sistema informativo di qualsiasi tipo possiamo giudicarlo sufficiente, insufficiente, ma anche in questo caso si è nelle condizioni di poterle integrare in maniera ottimale. ▲ L’assenza dell’emozione da esaminatore. Pensate a un questionario informatizzato. Una cosa è fare un colloquio con una persona e avere lo stress dell’esaminatore e un’altra cosa è trovarsi davanti a un computer e avere il tempo di ragionare e di dare le risposte. ▲ Fa risparmiare il tempo dell’operatore sanitario. Questo è un punto che bisogna chiarire molto bene. Il tempo che l’operatore risparmia è quello di ripetere le cose standard. Questo non vuol dire che l’operatore non ci deve essere, ma che solo una parte della sua attività può essere demandata a questo “stupido” e “ripetitivo” computer. Accanto a questi vantaggi, però, ci sono degli svantaggi. ▲ Paura del computer. Quando ho detto “attrazione”forse ho dimenticato di dire che forse questa attrazione arriva fino a 25 anni, 30 anni; se noi parliamo a persone al di sopra di questa età, forse la possibilità che ci sia un’incapacità, una repulsione nei confronti del computer, è elevata, e questa repulsione così diffusa taglia di netto la maggior parte degli utilizzatori nel campo dell’informatica e dell’educazione. ▲ La rigidità dell’informazione. Abbiamo detto che l’informazione derivante da un programma è nota, è altrettanto vero che i programmi, nonostante siano elastici, siano completi, sono estremamente rigidi: se manca un’informazione all’interno di un software non ce la mette nessuno. Non ce la mette nessuno perché per fare un programma ci vogliono mesi, anni e una volta che è stato fatto, una modifica significa altro tempo a livello di mesi e anni, anche se la modifica è piccola. Esiste dunque una rigidità dell’informazione nonostante che il programma sia completo ed elastico. ▲ Insufficienza quale mezzo di terapia educativa. Non possiamo demandare tutta l’educazione all’informatica. Ma sapere di non sapere è già un vantaggio, il rischio maggiore è che l’informatica diventi un alibi educativo. Ovvero io metto a disposizione un bel computer, quattro computer, un proiettore, quello che vogliamo, e dico che faccio ‘educazione. Questo è veramente pericolosissimo perché barricarsi dietro a un mezzo informatico per dire “io faccio l’educazione”è assolutamente falso e inaccettabile. ▲ Rapporto 1 computer - 1 paziente. Nei nostri centri di diabetologia i computer si contano sulla punta delle dita di una mano, quando siamo fortunati. I pazienti sono tanti. Se noi pensiamo a un questionario informatizzato - davanti a un computer un paziente - ci rendiamo conto che praticamente è impossibile farlo. Vediamo ora quali sono state le ultime esperienze informatiche a cui ho avuto la fortuna di poter collaborare nella realizzazione e sperimentazione. ▲ I giochi tematici per bambini. I bambini sono attratti dai videogiochi. Allora, qual è il modo migliore per educare un bambino? Sfruttare questa attrazione e trasformarla in un’opportunità. Sono stati fatti in passato dei giochi educativi utili (Capitan Novolet e altri software disponibili negli Stati Uniti). Con il mio gruppo abbiamo potuto sperimentare e contribuire a realizzare un gioco
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sull’alimentazione che ha lo scopo di insegnare la composizione degli alimenti (Dietisk). Si tratta di un gioco tipo“Tetris”basato sul concetto di impilare il nome dell’alimento presentato sulla colonna giusta indicante la sua componente nutrizionale caratterizzante ( proteine, glicidi, lipidi, fibre e alcol e oligosaccaridi). In questo modo gli alimenti vengono presentati casualmente, c’è un punteggio, ci sono dei suoni, dei rumori, si fanno dei punti. Il gioco diventa sempre più veloce e difficile mettendo alla prova le conoscenza sull’argomento e presentando il punteggio totalizzato.
I questionari informatizzati Tutti noi conosciamo, ricordiamo un software di sei, sette anni fa, che era proprio un questionario dove c’erano delle domande, ma anche i primi approcci educativi erano questi: una domanda, risposte multiple, il paziente cliccava su una delle risposte, se la risposta era giusta si passava alla domanda successiva, se la risposta era sbagliata si tornava a una spiegazione che permettesse di migliorare l’informazione. Questo sistema tagliava fuori tutti i diabetici con età al di sopra dei 30 anni, diciamo l’80% dei nostri diabetici. Nonostante tutto ancora oggi i questionari cartacei sono ancora utilizzati per valutare le conoscenze del diabetico. È però a tutti noto quanto sia indaginoso e lungo rielaborare i questionari stessi, tanto indaginoso che nella pratica clinica non vengono utilizzati. Per questa ragione si è realizzato un programma di lettura automatica dei questionari cartacei. Su gentile concessione del Prof. Erle e della Dott.ssa Corradin, abbiamo preso il questionario da loro realizzato e lo abbiamo stampato “tipo schedina del totocalcio” dove per rispondere basta annerire nelle apposite aree. Questo sistema che vantaggio ha? Il paziente ha a disposizione il mezzo cartaceo, che è quello che normalmente utilizza, e quindi quella quantità di pazienti che avevamo eliminato per l’informatizzazione la riprendiamo perché gli diamo un mezzo familiare (la carta). Però, informatizziamo la lettura. Questo foglio viene messo su uno scanner e in questo modo facciamo leggere automaticamente decine e decine, di questionari al computer. Vengono quindi prodotte risposte nelle quali si legge se ci sono risposte giuste o sbagliate. Per le risposte giuste il programma da una risposta di conferma, mentre, se ci sono risposte sbagliate, dice: “Guarda che hai sbagliato è questo l’argomento che devi ristudiare”. Ovviamente questo non basta ma serve per attivare con l’utente un colloquio specifico. Il sistema può anche essere utilizzato per fare un follow-up nel tempo. Il paziente questa volta avrà totalizzato 50 punti sul questionario della dieta, 100 punti su quella dell’ipoglicemia, 20 punti sul piede: la prossima volta gli faccio rifare il questionario, vedrò se il mio intervento educativo ha aumentato le conoscenze sul piede o no e quindi l’educazione potrebbe essere quantizzata un po’ come la glicemia, come il peso, come l’emoglobina glicosilata. Il corso interattivo: noi tutti abbiamo esperienza di videocassette educative, di libri educativi. Esiste un CD (compact disk) realizzato dall’ADA che comprende una serie di corsi, di lezioni magistrali, di lezioni su un argomento, di esercitazioni. È un corso interattivo che nasce simile a quello che si era detto del questionario, del rapporto 1:1, domanda e risposta, se giusta si va avanti, altrimenti si torna indietro, ma realizzato in maniera molto più avanzata e multimediale.. I più moderni approcci dal punto di vista informatico sono i siti Internet informativi. Il sito Internet informativo è altrettanto importante, un vantaggio che tutti quanti
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possono accedere a un unico computer e questo serve a standardizzare le informazioni. Per il forum di discussione su Internet, ovvero la discussione, si lancia un argomento su Internet e si discute sull’argomento. Questa metodica ha una crescente applicazione ma una diffusione ancora non elevata. In conclusione, la interpretazione informatica dei bisogni in campo educativo è un argomento di grande interesse e sviluppo. Ancora oggi poche sono le applicazioni in reale utilizzazione e per questa ragione è necessario compiere in questo specifico settore un grande sforzo informatico e sanitario.
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FORMAZIONE DEGLI OPERATORI IN DIABETOLOGIA: ESPERIENZA PRATICA IN UN ISTITUTO DI RIABILITAZIONE GERIATRICA Emanuela Orsi Istituto Geriatrico P. Redaelli, Vimodrone, Milano
L’incidenza del diabete mellito nel soggetto anziano è piuttosto rilevante e, tanto nella fase post-acuta che in corso di malattie intercorrenti, è molto frequente il rilievo di una tendenza verso lo scompenso glicemico. Tra i diversi fattori che di conseguenza devono essere considerati, la dieta è sicuramente uno molto importante. È pertanto fondamentale che il personale sanitario, che prende in carico il paziente per la riabilitazione, sia in grado di monitorare e gestire questo parametro. Unitamente alla collaborazione con una dietista, sono stati analizzati i bisogni e i problemi degli operatori dei reparti, nell’ottimizzare questo compito. Tra i bisogni emergevano le frequenti richieste di modifica del menù per i degenti diabetici mentre, tra i problemi, rilevati con interviste al personale ed assistendo alla distribuzione dei pasti, emergevano una mancanza d’informazione corretta (es.: il paziente diabetico, anche quando normopeso, deve mangiare solo cibi sconditi), “false credenze“ (es.: l’unica frutta consentita è la mela renetta) e una porzionatura delle pietanze assolutamente soggettiva. È stato quindi organizzato un corso di formazione dove gli obiettivi generali erano: • sensibilizzare il personale sull’importanza dell’alimentazione nel diabete mellito, • fornire una corretta informazione su nutrienti e “dieta per diabetici”, • effettuare una corretta porzionatura del cibo durante la dispensa, gli obiettivi specifici erano: • informare correttamente su: - patologia diabetica - nutrienti - razioni di scambio • addestrare correttamente a: - distribuire le pietanze (cosa?) - razionalizzare le porzioni (quanto?) Il target era rappresentato dagli operatori dei reparti (infermieri professionali e ausiliari socio-assistenziali) e dagli operatori della cucina. Il mandato dalla Direzione era di formare 100 operatori: dato che il personale interessato era di circa 300 unità, con un meccanismo a cascata, organizzando degli incontri di reparto, si contava di far arrivare i messaggi fondamentali a tutti. La progettazione del corso elaborata dalla dietologa e dalla dietista, prevedeva 10 incontri di 2 ore ciascuno e la realizzazione prevedeva: • questionario distribuito all’inizio del corso, per valutare il livello di conoscenze; tempo di compilazione 15 minuti; • lezione teorica: svolta dalla dietista o dalla dietologa, con proiezione di lucidi; argomenti trattati: i nutrienti, il contenuto calorico, il concetto di porzione, la dieta del diabetico; durata 15 minuti; • parte interattiva: condotta dalla dietista con l’ausilio della lavagna a fogli mobili:
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veniva chiesto ai partecipanti di stilare una lista di alimenti contenenti prevalentemente alcuni nutrienti piuttosto che altri. Lo scopo era di far emergere il concetto di razione di scambio e allenare i partecipanti a individuare gli alimenti sostituibili fra loro; la creazione della lista inoltre, rappresentava già una produzione del gruppo; tempo 45 minuti; • esercitazioni pratiche: coordinate dalla dietista con la supervisione della dietologa e la collaborazione del personale della cucina, che forniva alimenti cotti e crudi. Gli obiettivi erano di arrivare a una porzionatura razionale, e non più soggettiva, delle pietanze, garantita anche dall’utilizzo di strumentazione idonea, nonché creare le razioni di scambio. Ai partecipanti, suddivisi in piccoli gruppi di 3 persone, veniva consegnato un esercizio scritto, insieme al materiale per la distribuzione (mestoli graduati, stoviglie, bilance): tempo 45 minuti. La verifica del corso viene fatta in differenti momenti: • immediatamente con la realizzazione della lista di scambio degli alimenti; • periodicamente valutando la compilazione dei diari alimentari nei reparti per la stima dell’introduzione calorica e nutrizionale dei pazienti; inoltre, è stata prevista una supervisione da parte della dietista durante la dispensa, insieme al personale, utilizzando le bilance per confermare nel tempo la correttezza delle grammature; • dopo 6 mesi, infine, è prevista la compilazione dello stesso questionario proposto all’inizio del corso. A distanza di un anno, sarà programmato un incontro di rinforzo e in futuro saranno ripetute diverse edizioni dello stesso corso per tutti gli altri operatori, in quanto è diventato parte della formazione permanente dell’Istituto.
BIBLIOGRAFIA European Association for the Study of Diabetes: DESG Teaching Letters, 1997 Erle G, Corradin H: Il diabete e l’educazione. Casa Editrice Ambrosiana, 1997 Orsi E, Musacchio N: Nutrizione clinica e terapia dietetica. McGraw-Hill, 1996 Day LL, Assal JP: Educazione al paziente diabetico. In: Il diabete mellito: Trattato internazionale. Ed. Mediserve, 1994
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GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Valutazione degli interventi educativi
Tavola Rotonda S. Squatrito (Catania) G. Monesi (Rovigo) E. Guastamacchia (Bari) A. Piaggesi (Pisa) H. Corradin (Vicenza) A. Corsi (Genova) M. Trento (Torino) E. Benaduce (Torino) non pervenuto
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LA VALUTAZIONE DEI PROCESSI EDUCATIVI Sebastiano Squatrito Istituto di Medicina Interna e di Malattie Endocrine e del Metabolismo, Università di Catania
Tutto quello che è collegato alla“valutazione”è spesso contornato da un certo mistero e da una certa diffidenza legata alla nostra difficoltà di “metterci in discussione”. Io credo invece che bisogna rivedere queste posizioni e considerare la valutazione semplicemente per quello che è: il controllo di obiettivi che noi stessi abbiamo precedentemente fissati. Considerata in questi termini la valutazione diventa un problema facile da gestire e, se vengono adottate delle tecniche corrette e vengono rispettati certi criteri, sarà più Spirale dell’educazione obiettiva e più affidabile. La valutazione costituisce una tappa essenziale di qualunque processo eduDefinizione degli obiettivi educativi cativo (fig. 1). Stilare un programma educativo senza predisporre una valutazione di tutte le sue tappe, ha molte probabilità di fallimento. Attuazione della valutazione
Figura 1
Pianificazione di un sistema di valutazione
Obiettivi generali della valutazione Preparazione e Prima di scegliere uno strumento di misura attuazione del programma è necessario sapere che cosa vogliamo misurare. Gli obiettivi generali di una valutazione sono: – verificare l’acquisizione di competenze – controllare la qualità dei programmi e l’efficacia degli insegnamenti – informare i docenti sulla qualità del loro insegnamento. Stabiliti questi obiettivi generali, possiamo definire cosa vogliamo valutare (i discenti, i programmi, i docenti) e in funzione di che cosa. Quest’ultimo rappresenta il punto centrale dei processi di valutazione. Sulla base di quanto detto precedentemente, la valutazione deve essere attuata in funzione degli obiettivi educativi. Risulta evidente pertanto che la definizione di questi “obiettivi educativi”rappresenta una tappa essenziale di un processo di valutazione.
Definizione degli obiettivi educativi L’educazione è un processo continuo il cui scopo essenziale è quello di facilitare modifiche stabili del comportamento che sono il risultato di tre momenti fondamentali: – sapere – saper fare – saper essere
IN FUNZIONE DI CHE COSA VALUTARE GLI OBIETTIVI EDUCATIVI • Sapere - Memorizzazione di conoscenze - Interpretazione di dati - Soluzione di problemi • Saper fare - Acquisizione di gesti e attitudini • Saper essere - Modifica di abitudini comportamentali
Tabella I
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Le modificazioni del comportamento che ci si sforza di ottenere costituiscono gli obiettivi educativi (tab. I). Vorrei sottolineare che “il sapere”non consiste solo nell’acquisizione di conoscenze, ma anche nella capacità di integrarle tra di loro e utilizzarle in un processo di sintesi che porti a una risposta adeguta ai diversi problemi. Il “saper fare” rappresenta invece la capacità di acquisire gesti e attitudini relativi a obiettivi essenziali, pertinenti e realistici. Se questi due obiettivi primari (sapere e saper fare) saranno raggiunti, si potrà arrivare alla modifica delle abitudini comportamentali.
Come valutare Ciasun metodo di valutazione presenta dei vantaggi e degli inconvenienti a seconda del tipo di obiettivo che si vuole verificare, e il contesto nel quale si effettua il controllo. Bisogna comunque disporre di strumenti di misura che rispondano a certe qualità affinché i risultati siano significativi. Caratteristiche principali di uno strumento di misura devono essere: - validità: grado di precisione con la quale uno strumento misura quello che vogliamo misurare - affidabilità: costanza con la quale uno strumento misura una determinata variabile - obiettività: grado di concordanza tra i giudizi espressi da esaminatori indipendenti e competenti su ciò che costituisce una risposta corretta - praticabilità: tempo necessario per la costruzione della prova, la somministrazione e la valutazione dei risultati
Ambiti della valutazione Uno strumento di misura deve essere scelto in funzione degli obiettivi e dell’ambito da misurare (conoscenze, gesti, attitudini, programmi): Conoscenze Livello 1 memorizzazione comprensione Livello 2 interpretazione di dati Livello 3 soluzione di problemi Gesti Livello 1 imitazione Livello 2 padronanza Livello 3 automatismo Attitudini Livello 1 imitazione Livello 2 risposta Livello 3 interiorizzazione L’ambito che più frequentemente viene sottoposto a valutazione è quello delle conoscenze, anche se non è certamente il più importante. In questo campo si possono valutare diversi livelli: 1. prove che valutano la memorizzazione - quiz a scelta multipla - DRAB (domande a risposta aperta breve) 2. prove che valutano la capacità di interpretare i dati - presentazione di dati clinici con successiva formulazione di domande con quiz a scelta multipla 3. prove che valutano la capacità di risolvere problemi - problemi a soluzione sequenziale.
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Strumenti di valutazione Dato il breve tempo a disposizione non potrò parlare di tutti gli strumenti di valutazione, ma mi soffermerò su quelli più frequentemente utilizzati. Tra le prove di valutazione delle conoscenze le più usate sono i quiz a scelta multipla Questi metodi presentano dei vantaggi e degli svantaggi. Vantaggi: - verificare un gran numero di conoscenze - esplorare la capacità di memorizzazione, comprensione e sintesi - obiettività nella correzione - automazione della correzione Svantaggi - rischio di verificare dettagli insignificanti - difficoltà nella costruzione Nella preparazione di questi quiz questi aspetti vengono spesso sottovalutati e per questo non si attribuisce ad essi la giusta valenza. Possono essere: - a scelta libera - a scelta semplice - associativi - di tipo causa-effetto Per quel che riguarda la valutazione del “saper fare”e delle attitudini, il metodo più utilizzato e più rispondente alla verifica di tale obiettivo è quello delle “griglie di valutazione” o “check list”. Questi strumenti consentono di verificare tutte le componenti di un’azione. Più complesso è il problema della valutazione delle attitudini, del “saper essere” perché questa passa attraverso l’osservazione di comportamenti che si assumono quale espressione del modo di essere: - puntualità, assiduità - interesse - grado di motivazione - senso di responsabilità - capacità di relazione
Valutazione dell’insegnamento Infine, l’ultimo, ma non meno importante aspetto della valutazione, riguarda la valutazione dell’insegnamento, cioè il giudizio che i discenti esprimono sul nostro modo di insegnare. A questo proposito vorrei citare l’affermazione di Cochran (pedagogo americano) che dice: “un insegnamento deve sempre essere ritenuto inefficace fino a verifica del contrario”. La valutazione dell’insegnamento da parte dei discenti deve rappresentare uno degli obiettivi primari di ogni processo valutativo. Ha lo scopo di: - controllare l’efficacia dell’insegnamento - informare i docenti sulla qualità del loro insegnamento al fine di poterlo migliorare. Si attua attraverso: - l’analisi dei risultati delle prove di valutazione - per identificare insufficienze nelle conoscenze e nel comportamento dei discenti - per evidenziare errori legati alla formazione che hanno ricevuto - l’uso di “questionari di opinione”
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Attenzione va posta nella formulazione di questi questionari. Essi devono: - contenere l’aspetto che si vuole valutare - formulare le domande in positivo - contenere un numero di domande limitato - essere anonimi - essere somministrati a un campione adeguato. Concludo con l’affermazione di Miller (pedagogo americano) che ci fa capire quale deve essere l’importanza da attribuire alla valutazione: “modificare un programma educativo e le tecniche di insegnamento senza cambiare il sistema di valutazione con ogni probabilità non servirà a nulla”. Cambiare il sistema di valutazione senza modificare il programma di insegnamento ha una ripercussione maggiore sulla natura e la qualità dell’apprendimento che modificare il programma senza modificare la valutazione.
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L’AMBIENTE EDUCATIVO Gabriella Monesi Unità Operativa di Diabetologia e Malattie Metaboliche, Ospedale di Rovigo
“L’educazione terapeutica deve permettere al paziente diabetico di acquisire e mantenere le capacità che gli consentono di realizzare una gestione ottimale della propria vita con la malattia”(1). Una medicina che si propone ciò ha fatto propria la distinzione che esiste tra patologia acuta e patologia cronica, con i modelli culturali e assistenziali sottesi. Infatti nella patologia acuta l’approccio è tutto in mano al medico che ordina, gestisce, decide e conclude l’atto medico; e la malattia è acuta, visibile, esterna, con un rapporto medico-paziente di gratitudine, con un’identità medica chiara, e una preparazione biotecnologica. Nella patologia cronica, spesso la malattia è silente o nascosta, magari presente da tempo, con il medico che deve portare il paziente a contare su di sé, a prendere decisioni autonome e coerenti ogni giorno per la gestione della propria malattia, e instaura una relazione medico-paziente impostata non sul livello della “gratitudine” ma su una relazione “adulto-adulto”, con una attività psico-pedagogica oltre che tecnica. In questo ambito ha motivo e ruolo l’intervento educativo, che diventa terapeutico. L’intervento educativo deve avvenire in un ambiente educativo che sia in sintonia con l’educazione terapeutica, la contenga e la faciliti. In tale situazione ha senso perciò parlare di “ambiente educativo” che deve essere ricercato, creato e verificato all’interno di un Servizio di Diabetologia. Non è possibile quindi pensare che l’attività educativo-terapeutica sia quella confinata o esaustiva dei vari gruppi educativi (per bambini, gravide, insulinodipendenti, obesi e piedi) o con il singolo nel momento acuto dell’esordio della malattia, e non sia invece un’esigenza, una prassi che entra di diritto e permea il modello assistenziale del paziente diabetico e che quindi è sottesa all’organizzazione del Servizio, all’allocazione delle risorse, alla distribuzione dei tempi assistenziali, al quotidiano rapporto operatore-paziente. Il messaggio educativo infatti non è semplicemente “persuasivo” per la sua forma, ma per un complesso processo di presentazione e di decodifica. Secondo Bettelheim infatti, il successo di ogni attività umana è facilitato da un ambiente particolare (2). Ambiente fisico e terapeutico, intendendo con ciò tutto l’insieme di conoscenze, convinzioni, sentimenti, azioni, organizzazione, distribuzione dei tempi e attori coinvolti. L’ambiente è quindi il chi dice, cosa, a chi, con che effetto. Ecco che per creare e mantenere un ambiente educativo nel percorso diagnosticoterapeutico al Servizio di Diabetologia è fondamentale rispondere a queste domande. “Il chi dice” individua l’autorevolezza della fonte che propone l’educazione terapeutica. Non può essere che il medico cura e l’infermiere educa; o che solo un medico dell’équipe o solo un infermiere educano. Ma tutto il team di cura deve essere coinvolto, attraverso tutti gli operatori e i ruoli presenti, con un rinforzo continuo del messaggio e il reciproco accreditamento della fonte. In modo tale che il messaggio percepito sia univoco e rinforzato dalla coralità degli operatori.
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“Il che cosa”è il contenuto del messaggio complessivo che viene dato al Servizio, con l’inserimento dell’intervento educativo tra le priorità del Servizio, e questa impostazione permea il rapporto con il paziente e non è residuale o marginale rispetto ai messaggi terapeutici proposti. Il messaggio è importante sia per le cose dette, ma anche per ciò che non diciamo. Se noi pensiamo al percorso di un nostro paziente al Servizio (tempi dedicati e procedure), e ai contenuti dei messaggi che riceve, emerge che l’ambiente è orientato in senso prevalentemente “metabolico”. In tale situazione è difficile fare transitare, ad esempio, il messaggio che “il piede è un problema del diabetico” e non solo la glicemia, e che al piede va posta la stessa attenzione o un’attenzione prioritaria in presenza di alcune situazioni cliniche. E tale problema ha cittadinanza specifica al Servizio. Ciò ha una funzione sia di rinforzo rispetto alle proposte educative, che di riferimento per il paziente e la famiglia. “A chi?” Il messaggio educativo va portato al paziente tenendo presente anche la famiglia. Infatti essa può proiettare attitudini sanitarie sia positive che negative sui suoi membri in caso di insorgenza di una malattia. Se la famiglia, o membri significativi di essa, ritengono che la malattia è passibile di un trattamento in grado di determinare un miglioramento, essa stimolerà il membro malato della famiglia, in maniera tale da influenzare il comportamento sanitario. È la somma di tutte le interazioni familiari che può condizionare il comportamento sanitario del membro diabetico della famiglia. Al contrario, se il trattamento viene PROGETTO VERIFICA ritenuto inefficace secondo il modello culturale-sanitario familiare, l’effetto sul Identifico destinatari e caratteristiche paziente sarà negativo, indipendenteIdentifico i bisogni dell’utente mente dalla realtà dei fatti in tema di terapia (3). Stabilisco le finalità educative La più frequente influenza familiare negativa nei confronti del diabetico, e Formulo gli obiettivi specifici anche quella più correlabile, è rappresentata dalla scarsa informazione saniIndividuo le taria. risorse Quindi è determinante il coinvolgimento della famiglia oltre che del paziente. I Programmo dettagliatamente percorsi presso il Servizio debbono contenuti e metodi considerare tempi e risorse dedicati a ciò: al contatto con la famiglia: all’accoglienza dei membri della famiglia; ai contenuti dei Pianifico le tecniche messaggi; ai tempi dedicati; allo spazio per di valutazione accoglierli; agli operatori messi a disposizione; all’organizzazione di gruppi educativi per i familiari. Realizzo l’intervento di Questo “interlocutore” diventa strategico educazione alla salute per creare e sostenere l’ambiente educativo. Verifico i risultati “Con che effetto”: è la verifica del feedback. Nello schema di comunicazione unidirezionale o lineare, emittente → ricevente, si ha una semplice trasmissione di messaggio. Il ricevente ascolta, cerca di capire il Tabella I messaggio ricevuto, lo decodifica e fa la traduzione del messaggio. Anche in questa semplice lettura, la circostanza in cui viene ricevuto il messaggio e
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Tabella II il contesto in cui si colloca, interagiscono col messaggio e influenzano la scelta dei codici che verranno impiegati per decodificarlo. Quindi l’ambiente nel quale viene posto il INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi messaggio educativo ne influenza la lettura e l’adesione. VERIFICA DELL’INTERVENTO Va anche in tale ambito sottolineata la necessità di una continuità educativa e una INDICATORI coerenza educativa interna, per gli effetti che tale situazione può avere sul paziente. DI PROCESSO DI ESITO Dobbiamo considerare come emittente sia l’operatore sanitario che “l’ambiente” dal Conoscenze Grado di lesione quale nasce tale messaggio. Ispezione piede Percentuale di recidive Ma la valutazione dell’effetto comprende Cura delle unghie Numero e tipo di amputazioni Cura igiene dei piedi anche la verifica del messaggio di ritorno, →R. Trattamento ipercheratosi il feedback E← Utilizzo fonti di calore L’attenzione a ciò ci permetterà sia di Uso scarpe e calze idonee valutare l’effetto del messaggio, sia di riorganizzare la nostra proposta educativa. Ed in questo l’emittente e il ricevente si turnano nel rispettivo ruolo, e ciò trasforma una comunicazione in una relazione sociale e crea l’ambiente educativo, per il riverbero di comunicazioni e discussioni interne che ciò sollecita. Ambiente contenitore e suggeritore di questa relazione. L’ambiente “educativo” va quindi ricercato e identificato nella sua specificità all’interno e parallelo a ogni progetto educativo. In tale senso la classica procedura (tab. I) utilizzata per programmare e verificare l’intervento educativo (4) va applicata anche per “rivisitare”e programmare “l’ambiente”educativo. Dovremo elaborare degli indicatori di risultato da porre a verifica del nostro ambiente educativo, indicatori sia di esito che di processo. Scendendo più al dettaglio, un esempio di tale modo di procedere può essere applicato per gli interventi educativi per la prevenzione delle lesioni del piede diabetico. Da una parte imposteremo la verifica dell’intervento educativo, distinguendo tra indicatori di processo e di esito. Tabella III Negli indicatori di esito e di processo dell’intervento educativo, riteniamo che siano questi i selezionabili (tab. II). Così come imposteremo la verifica INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi dell’ambiente educativo utilizzando propri indicatori di processo e di esito VERIFICA AMBIENTE EDUCATIVO (tab. III). Essi ci permettono di avere una INDICATORI valutazione di come si svolge e viene percepito il “percorso” assistenziale del DI PROCESSO DI ESITO nostro paziente all’interno del Servizio. In particolare nella valutazione di esito Chi dice Pazienti elegibili (a rischio) sarà utile verificare se noi conosciamo Che cosa Pazienti invitati quanti e quali pazienti del nostro A chi Pazienti partecipanti Con che effetto (il feedback) Familiari presenti (corso e Servizio sono effettivamente a rischio verifica) per lesioni ai piedi; quanti ne abbiamo Percentuale di ricadute invitati ai corsi educativi; quanti hanno Grado lesione accettato l’invito sia al corso che alle Amputazioni verifiche successive (dopo sei mesi,
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dopo un anno e dopo due); la percentuale delle ricadute di questi pazienti; delle recidive di lesioni e il grado di lesione e le amputazioni; oltre che il numero dei familiari che avevano partecipato a questi incontri. Infatti se è molto discordante il numero di diabetici presenti, rispetto a quelli invitati, e quelli invitati rispetto a quelli elegibili per evidenti fattori di rischio, ciò pone un grosso interrogativo sul “chi dice, cosa, a chi”, sulla credibilità del percorso terapeutico che proponiamo al nostro Servizio, pone la necessità di rivedere il messaggio educativo che il nostro ambiente propone. La stessa procedura di ricerca di indicatori specifici dell’ambiente educativo, qui proposta per l’intervento educativo per la prevenzione delle lesioni ai piedi, va fatta in parallelo per ogni gruppo educazionale che organizziamo. Accanto agli indicatori di esito dell’intervento educativo per i diabetici insulinodipendenti, o per i ragazzi, o i gruppi educazionali sull’alimentazione nei diabetici obesi, o per i gruppi dei diabetici insulino-trattati, vanno posti gli indicatori per la verifica dell’ambiente educativo. E saranno anche qui indicatori di processo e di esito. Ciò trasformerà veramente il nostro modello assistenziale per il malato cronico dove l’ambiente concorre all’educazione terapeutica, che assume così i connotati delineati dall’OMS: “L’educazione terapeutica del paziente deve permettere al paziente di acquisire e mantenere le capacità che gli consentono di realizzare una gestione della propria vita con la malattia. L’educazione terapeutica del paziente è pertanto un processo continuo, integrato nell’assistenza sanitaria. Essa è centrata sul paziente; include la consapevolezza strutturata, l’informazione, l’apprendimento dell’autogestione della cura e il sostegno psicosociale riguardanti la malattia, il trattamento prescritto, l’assistenza, l’ospedale e gli altri ambienti assistenziali, le informazioni riguardanti le organizzazioni coinvolte nella cura, il comportamento in caso di salute e di malattia. Essa è finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie a comprendere la malattia e il suo trattamento, a cooperare con gli operatori sanitari, a vivere una vita sana e a mantenere o migliorare la loro qualità di vita”(1).
BIBLIOGRAFIA 1. Report of a Who Working on Therapeutic Patiente Education: Continuing education programmes for healtheare proveders in the field of prevention of chronic disease. WhoEuro, Copenhagen, 1998 2. Bettelheim B: Psichiatria non oppressiva. Feltrinelli ed, 1976 3. Braga G: La comunicazione verbale. Angeli, Milano, 1985, p. 67 4. Eweles L, Simnett I: Educazione alla salute: una metodologia operativa. Milano Sorbona ed, 1990
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INFLUENZA DEI CORSI DI EDUCAZIONE SANITARIA SU ALCUNI ASPETTI PSICOLOGICI (ANSIA E DEPRESSIONE) DI PAZIENTI DIABETICI Edoardo Guastamacchia Istituto di Clinica Medica, Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Università di Bari
Risposta esatta %
Gli aspetti psicologici che si accompagnano al diabete mellito tipo 1 e tipo 2 sono stati oggetto di numerosi studi, sia in passato che recentemente. Comprendiamo tutti quale sia l’importanza da parte del diabetologo di avere una conoscenza in questo campo per i rapporti che egli ha con il paziente diabetico che a sua volta instaura dei rapporti complessi con la malattia, con il medico stesso e con l'ambiente familiare e sociale. Al contrario, rari, pochissimi dati noi abbiamo relativamente a una verifica degli aspetti psicologici dopo un corso di educazione sanitaria. In un lavoro del 1997 (Psychological and metabolic improvement after an outpatient teaching program for functional intensified insulin therapy (FIT) di Langewitz W, Wossner B, Iseli J, Berger W pubblicato su Diabetes Research and Clinical Practice), per esempio, uno dei pochi lavori che ho trovato sull’argomento, si sottolinea come dopo un corso di educazione mirante a migliorare la capacità di autogestione dei pazienti diabetici, per quanto riguarda l’insulino-terapia intensiva funzionale, ci fosse un miglioramento sia metabolico sia degli aspetti emotivi quali l’ansia e la depressione; miglioramenti significativi, a dispetto anche di una qualità della vita piuttosto sacrificata. Proprio per la rarità dei dati, ho rispolverato uno studio fatto da noi tempo fa e pubblicato sul Giornale Italiano di Diabetologia che esaminava 40 soggetti diabetici di tipo 1 di cui 25 maschi e 15 femmine di età media di 19,1±4,1 anni e con una durata media di malattia di 5,7±5,2 anni. A questi pazienti furono somministrati sia dei questionari a scelta multipla (per una valutazione nozionistica) sia delle scale di autovalutazione dell’ansia e della depressione di Zung. I risultati furono piuttosto interessanti. Nel 60% di questi pazienti, infatti, l’apprendimento risultò 100 P< 0,0001 soddisfacente per la maggior parte degli argomenti trattati (teoria, pratica iper80 glicemia, attività fisica, terapia, igiene del corpo); significativo fu il miglioramento 60 delle nozioni sulla ipoglicemia, sull’alimentazione e igiene dietetica (figg. 1 e 40 2). Per l’aspetto emotivo si evidenziarono dei livelli medi di ansia e depressione di 20 base superiori alla norma (rispettivamente 43,2±10,1% e di 47±12,2%). 0 A un’analisi più approfondita dei dati risultò una suddivisione del campione in
Figura 1 Percentuali di risposte esatte, prima e dopo il corso, di tutti i pazienti esaminati
prima dopo
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Alimentazione
Igiene
Terapia
Attività fisica
Iperglicemia
Pratica
Teoria
Risposta esatta %
Ipoglicemia
quattro categorie (tab. I). La prima categoria comprendeva 24 pazienti che presentavano un significativo miglioramento delle Significatività n.s. n.s. acquisizioni nozionistiche, associato a una * * * * * * 100 significativa riduzione dell’ansia e della depressione. Dai colloqui avuti in seguito da 80 una psicologa con i pazienti di questa 60 categoria emerse che essi attribuivano la riduzione dei livelli d’ansia e di depressione 40 al fatto che con il miglioramento delle loro 20 conoscenze potevano meglio gestire la propria malattia evitando o ritardando 0 l’insorgenza delle temute complicanze. prima dopo * P< 0,0001 Inoltre, a detta dei pazienti, la partecipazione al corso in piccoli gruppi, permettendo uno scambio di informazioni tra i partecipanti e il confronto di esperienze e Figura 2 situazioni simili, ha svolto un ruolo non trascurabile nel migliorare le condizioni Percentuali di emotive dopo il corso. I pazienti appartenenti al II sottogruppo hanno affermato che risposte esatte, prima l’aver trattato argomenti relativi alle complicanze della malattia ha influenzato e dopo il corso, relative ai singoli negativamente i 2 aspetti emotivi; essi si sono dichiarati molto preoccupati per le loro argomenti trattati condizioni di salute future e hanno, durante il colloquio, espresso considerazioni pessimistiche al riguardo. Alla III categoria appartengono quei soggetti che hanno presentato una contraddittorietà dei risultati, la cui probabile spiegazione può essere fornita dai colloqui; infatti a questo sottogruppo appartengono soggetti che hanno focalizzato la loro attenzione sull’uso dei microinfusori idealizzandone le possibilità terapeutiche e ottenendo, quindi, un beneficio psicologico ma uno scarso apprendimento nozionistico, conseguenza dell’insufficiente attenzione prestata agli altri argomenti trattati. Infine i livelli immodificati di ansia e depressione rilevati nell’ultimo sottogruppo potrebbero essere riferiti a delle preesistenti strutture di personalità, scarsamente sensibili al messaggio educativo: i pazienti appartenenti a questa categoria hanno presentato dei livelli medi basali elevati di ansia e depressione, rispettivamente di 51±3,7% e di 57±4,5%. Da quando detto si evidenzia che una critica e obiettiva revisione delle modalità e dei contenuti dell’informazione mediante una verifica nozionistica e psicologica sempre più accurata, è indispensabile per rivedere i programmi ed approfondire aspetti e risultati poco chiari, adattando l’inGruppi Numero Età Numero risposte corrette S.A.S. S.D.S. segnamento alle necessità indiviprima dopo prima dopo prima dopo duali dei pazienti. 1 24 17,5±5,5 319* 552* 43,4±10 x 37,6±6,2 48,8±12,6 x 41,2±11 * Discrete modifica2 6 18,9±4,5 87** * 129** 48,1±11,4 xx 66,2±26,5 50,5±7,7 xx 54,3±2,6 zioni nell’accet3 5 20,5±2,9 58*** n.s. 72*** 33,5±8,5 xxx 30,1±1,8 34,9±8,8 xxx 31,2±3,5 tazione della ma4 5 19,5±3,7 60*** 54,8±4,5 n.s. 54,8±4,5 * 112*** 51±3,7 n.s. 51±3,7 lattia possono es*Su un numero totale di 576 domande; **Su un numero totale di 144 domande; ***Su un numero totale di 120 sere ottenute andomande; x p=0,0001; xx p = 0,01; xxx p=0,031; * p<0,0001 che mediante interventi di tipo pedagogico, possiTabella I bilità questa non realizzabile se si tratta di influenzare aspetti strutturali delle Riassuntiva dei personalità per loro natura scarsamente suscettibili a interventi a carattere educativo. risultati ottenuti nei Concluderei con un messaggio a tutti di tenere nel futuro più presente la psiche quattro sottogruppi perché ci preoccupiamo del corpo, ritenendo forse la psiche poco importante. Invece, vorrei riportare la nostra attenzione su questo aspetto perché sappiamo bene quanto la psiche possa, nel bene e nel male, influenzare il corpo. Argomenti:
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LA VALUTAZIONE DEGLI EDUCATORI Alberto Piaggesi UO di Malattie del Metabolismo e Diabetologia, Azienda Ospedaliera Pisana
Il problema della valutazione degli educatori è uno degli aspetti più complessi dell’intera materia dell’educazione per i pazienti diabetici. La qualità e l’efficacia degli interventi educativi rivolti ai pazienti dipende infatti in modo diretto dal livello di formazione degli educatori, che a sua volta comprende aspetti cognitivi, aspetti prassici, aspetti metodologici e aspetti emotivocomportamentali. Negli Stati Uniti già da tempo sono stati fissati degli standard per definire i requisiti minimi degli interventi educativi, e la American Diabetes Association (ADA) ha recentemente rivisto questi standard, che sono stati pubblicati nell’edizione per il 1999 delle “Clinical Practice Recommendations”(1, 2). Secondo quanto si può leggere al punto 10.1, le caratteristiche di un educatore, perché possa essere definito tale, sono: essere un operatore sanitario professionista, e aver cumulato almeno 16 ore di educazione che comprenda una combinazione di diabete, principi educativi e strategie comportamentali (tab. I). Tale definizione non entra nel merito di che cosa debba conoscere o saper fare l’educatore, né del come tali competenze gli siano state trasmesse, e risponde più a Tabella I esigenze certificative che non scientifiche. Standard dell’ADA circa i requisiti di un In Europa non vi sono attualmente standard paragonabili, né probabilmente ve ne educatore sul saranno, poiché la filosofia è diversa: piuttosto che stabilire pragmaticamente un diabete livello minimo, la tendenza è piuttosto quella di indiviudare i criteri di valutazione che possano verificare la capacità e l’efficacia sia degli interventi educativi sia Standard 10.1: Program instructors are health care professional degli educatori (3). In Italia il Gruppo with a valid license, registration, or certification and Italiano di Studio per l’Educazione sul who are Certified Diabetes Educators or have Diabete (GISED), ha negli anni passati completed at least 16 h of approved continuing costituito il punto di riferimento culturale education that includes a combination of diabetes, in campo diabetologico sull’educazione e educational principles and behavioural strategies. ha prodotto, nel corso degli anni, una serie di strumenti anche di valutazione, che riflettevano il mutare delle posizioni culturali riguardo il ruolo dell’educatore. Tali strumenti possono essere classificati come strumenti cognitivi, strumenti prassici e strumenti pedagogici (tab. II). Nei primi anni ’80 fu messo a punto un questionario, successivamente validato su una vasta popolazione, che investigava gli aspetti cognitivi dell’educazione, e rappresentò il primo strumento utilizzabile sia per i pazienti che per gli educatori, Tabella II cui si affiancava ovviamente la verifica diretta. Gli strumenti per la valutazione Successivamente, soprattutto in relazione agli interventi formativi strutturali effettuati sia sulle équipe diabetologiche, che su gruppi di infermieri professionali diabetologici e non, furono elaborati Strumenti cognitivi Questionari, verifica cognitiva diretta strumenti volti a verificare gli aspetti Strumenti prassici Checklist valutativa, simulazione prassici del processo educativo, quelli cioè Strumenti pedagogici Metaplan, Role-Playing, Griglie relativi all’acquisizione di competenze
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precise, quali il saper fare uno stick per la glicemia, il saper correttamente miscelare e somministrare l’insulina e saper trattare una crisi ipoglicemica (4). Nella tabella III è riportata a titolo esemplificativo una “checklist” che si riferisce alla valutazione della sequenza di operazioni necessarie all’esecuzione di uno stick per la glicemia; una operazione complessa è stata scomposta in una sequenza di operazioni semplici, e solo l’esecuzione completa di tutte le operazioni nella sequenza corretta, viene considerata come risultato soddisfacente. Applicando questa checklist, la percentuale di infermieri che eseguiva correttamente uno stick, in un campione da noi studiato, era del 33% contro il 74% che nello stesso campione rispondeva correttamente a tutte le domande su questo argomento (5). Fin qui la valutazione degli educatori seguiva il modello cosiddetto “curriculare”, presupponeva cioè che l’educazione dei pazienti consistesse meramente nella trasmissione di nozioni e competenze tecniche dal docente al discente, e quindi che fosse sufficiente verificare che il *Solo la prima volta che lo strumento viene adoperato durante la giornata docente possedesse le nozioni e le competenze per valutarne la validità. Tabella III Negli anni ’90 si è invece progressivamente fatta strada la consapevolezza che Checklist valutativa l’educazione è un processo interattivo con un pesante portato emotivo che di fatto per l’esecuzione di condiziona anche le altre componenti, e che non può non essere preso in uno stick per considerazione quando si valuti l’educatore (6). la glicemia Lo strumento valutativo probabilmente più idoneo a questo scopo è costituito da una griglia che tenga conto di tutti gli Parla, interrompe Dialoga con i pazienti Ascolta i pazienti aspetti pedagogico-comportamentali che i pazienti entrano in gioco nel rapporto educativo: la Usa sussidi didattici Fa usare i sussidi Elabora i sussidi con relazione verbale, l’uso del materiale didattici ai pazienti la collaborazione didattico, il modello comportamentale, dei pazienti l’emotività (tab. IV). Impone modelli Concorda modelli Fa discutere i Applicando l’osservazione guidata da comportamentali comportamentali pazienti sui loro questa griglia a un intervento educativo è ai pazienti con i pazienti comportamenti possibile costruire una curva di ciascun Non dà spazio alla Tollera l’emotività Accoglie la emotività parametro, a esempio nel tempo, nel corso emotività dei pazienti dei pazienti dei pazienti dello svolgimento dell’intervento stesso, oppure dare una valutazione mirata sulla Tabella IV persona dell’educatore, attribuendo un punteggio complessivo, che tenga conto dei Griglia per l’analisi diversi parametri. degli aspetti pedaProbabilmente, man mano che il dibattito scientifico proporrà sempre nuovi e più gogico-comportamentali del processo differenziati aspetti dell’educazione all’attenzione degli spcialisti, nuovi strumenti educativo valutativi verranno impiegati per la valutazione degli educatori. Questa lista ha la funzione di verificare l’esatta sequenza di operazioni necessarie per eseguire correttamente uno stick per la glicemia. 1. Predisporre i materiali necessari: - Confezione di sticks - Reflettometro (o contasecondi) - Pungidito - Cotone con disinfettante - Cotone asciutto 2. Verificare la data di scadenza degli sticks 3. Verificare l’efficienza e la pulizia del reflettometro 4. Effettuare le procedure di calibrazione del reflettometro* 5. Disinfettare il polpastrello 6. Lasciar evaporare il disinfettante 7. Pungere la faccia laterale del polpastrello 8. Ottenere una grossa goccia di sangue 9. Coprire completamente con la goccia spessa l’area reattiva 10. Far partire il contasecondi 11. Prepararsi ad asciugare 12. Asciugare completamente la goccia esattamente dopo 60 secondi 13. Eliminare eventuali residui dall’area reattiva 14. Inserire completamente la striscia nella fessura del reflettometro 15. Leggere il risultato 16. Estrarre la striscia e verificare visualmente sulla scala colorimetrica 17. Registrare il risultato sulla cartella del paziente con l’ora 18. Eliminare il materiale usato 19. Chiudere la confezione degli sticks 20. Spegnere il reflettometro
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BIBLIOGRAFIA 1. Mitchell Funnell M, Haas LB: National Standard for Diabetes Self-Management Education Program. Diabetes Care 18, 100-114, 1995 2. American Diabetes Association (ADA): Clinical Practice Recommendations 1999. National standards for diabetes self-management education programs and ADA review criteria. Diabetes Care 22 (suppl 1), S111-S114, 1999 3. American Association of Diabetes Educators (AADE): Diabetes Education: a core curriculum for health professional. 3ed printing, AADE, 1992 4. Piaggesi A, Bini L. Castro Lòpez E, Giampietro O, Schipani E, Navalesi R: Knowledge on diabetes and performance among health professional in non-diabetological department. Acta Diabetol 30, 25-28, 1993 5. Piaggesi A, Schipani E, Ceraudo AM, Baccetti F, Campi F, Navalesi R: Diabetologic inservice education for health professionals from non-diabetological departments. Acta Diabetologica 33 (4), 277-283, 1996 6. Lawrance PA, Dowe MC, Perry EK, Strong S, Samsa GP: Accuracy of nurses in performing capillary blood glucose monitoring. Diabetes Care 12, 298-301, 1989
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VALUTAZIONE DELLA METODOLOGIA DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI Herta Corradin Docente di Sociologia, Diploma Universitario per Infermiere, Università di Padova
Davanti al compito che mi è stato assegnato, mi sono subito chiesta: valutazione di metodologie già applicate? di nuove metodologie? Non esiste pressoché letteratura sull’argomento specifico tranne la Guida Pedagogica del Guilbert (OMS) e la rivista Pedagogica Medica. Anche nell’attività didattica non si è ancora teorizzato il processo di valutazione di metodologie e metodi. È il caso, ad esempio, dei diplomi universitari. La coppia Erle, è noto infatti che nel campo dell’educazione sanitaria lavoriamo insieme, ha fatto un percorso di riflessione, di ricerca e di confronto per una conferma sui dati di esperienza. Per noi educazione significa formazione, anche per il malato e familiari, come abbiamo sostenuto fin dal nostro primo libro “Educazione sanitaria col diabetico”, 1986, all’ultimo “Il diabete e l’educazione” - Metodologia e obiettivi”, 1997. La valutazione è parte integrante della progettazione considerata come l’insieme di tutti i momenti che concorrono al processo formativo. La valutazione va considerata. – nei termini dell’ex ante, come analisi dei bisogni e dei fattori di rischio, come definizione degli obiettivi con la scelta di quelli prioritari, come analisi delle risorse dei vincoli, della fattibilità dell’intervento, come contributo alla scelta dei contenuti, del metodo, come definizione dei criteri di accettabilità dei risultati; – nei termini dell’in itinere, che consente la riconsiderazione delle scelte progettuali dimostrando così come gli ambiti del processo formativo – progettazione e valutazione – siano fortemente interconnessi, sia sul piano teorico che su quello empirico: – nei termini dell’ex post, come attenzione ai risultati conclusivi, allo scopo essenzialmente di verificare l’efficacia delle strategie dell’intervento alla fine dell’attività, ma anche a distanza di tempo per avere una percezione migliore dei risultati attraverso un’analisi dei loro impatti (a livello educativo, organizzativo, economico, eccetera). La valutazione rinvia costantemente alla progettazione e viceversa; entrambe fanno riferimento ai contesti di azione, agli obiettivi, alle decisioni, alle azioni che realizzano l’intervento e ai risultati.
I problemi di metodo della progettazione e della valutazione È importante ed è necessario ridefinire i due ambiti metodologici: la progettazione e la valutazione, che svolgono funzioni insopprimibili, per liberarle dai vincoli delle visioni iper-razionali e tecnocratiche proprie di molti approcci moderni. La progettazione – non dettata da formule rigide da applicare comunque – va vista come un processo di azione orientato al cambiamento, basato sull’apprendimento che coinvolge tutti i partecipanti. Serve una metodologia flessibile, orientata da criteri non deterministici.
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Anche per la valutazione è poco praticabile una cultura burocratica centrata sul ragionamento obiettivo-risultato, su tecniche che siano fondate solo sulla misurazione quantitativa degli scarti tra risultati e obiettivi, dato che gli effetti di un intervento formativo tendono a produrre risultati non riducibili agli obiettivi predeterminati. Oggi, in maniera realistica ed efficace, si tende a considerare la valutazione come un processo di ricerca per ricostruire induttivamente dagli effetti dell’intervento il sistema di relazioni che gli attori implicati hanno creato, così da comprendere tutta la ricchezza dei risultati.
Che cosa significa allora valutare? Una pluralità di significati che ci aiutano ad ampliare la nostra prospettiva di ragionamento. ▲ Criticare, giudicare - Formulare giudizi; presuppone l’esistenza di criteri condivisi ampiamente, di un’autorità indiscussa del giudicante; esige una legittimazione. ▲ Misurare - Accertare da parte degli educatori l’apprendimento di conoscenze e stabilirne il grado attraverso l’attribuzione di punteggi; analizzare gli scarti – determinati in maniera quantitativa – tra gli obiettivi di un intervento e i suoi risultati. Le tecniche utilizzate comunemente non riescono a cogliere le dinamiche del processo. ▲ Controllare - Verificare e accertare costantemente sulle fasi del processo per tenerlo sotto osservazione e assicurarne la regolarità. C’è una concezione del controllo che è legata al metodo sperimentale classico, fondato sulla precisione, la constatazione obiettiva e la misurazione statistica e c’è una visione meno rigida del controllo da parte delle scienze sociali (ad esempio la psicologia sociale e lo studio degli atteggiamenti). Col metodo classico, il soggetto controllato viene considerato come separato da chi osserva e controlla; per le scienze sociali, invece, i due soggetti non sono scindibili perché entrambi implicati nel processo. Ma un’analisi valutativa non deve essere partecipante e implicante la relazione formatore-paziente? Pare allora necessario interpretare il controllo in modo da recuperare la dimensione processuale e la relazione tra i partecipanti. Osservare, ascoltare e interpretare con un riorientamento del corso d’azione. Il controllo diventa così opportunità importante di apprendimento. Con l’elaborazione dei dati acquisiti dal controllo si può fare l’analisi del funzionamento della formazione per produrre conoscenze di tipo diagnostico in grado di cogliere problemi e criticità del processo. È importante giungere alla formulazione di problemi. ▲ Interpretare - Valutare come porre il problema del significato di ciò che si fa e quindi comprendere l’intervento in tutte le sfumature possibili, così che la valutazione diventa il momento chiave dell’azione, l’essenza stessa. Non può essere allora identificata con un bilancio di comportamenti, di riuscite, di fallimenti. È una prospettiva delle scienze sociali contemporanee che puntano all’analisi delle dimensioni qualitative che caratterizzano le dinamiche dei processi educativi. Le parti dell’intervento si capiscono solo alla luce del tutto, ma il tutto è compreso solo in base alle parti. L’interpretazione, proprio come esperienza basata sulla comunicazione e sulla relazione, non è riducibile a metodiche di tipo oggettivistico. Non postula una polarità radicale tra soggetto conoscente e soggetto conosciuto. È pertanto una prospettiva che arricchisce e amplia i significati della valutazione che è un processo non definibile secondo schemi precostituiti. L’azione valutativa ha un carattere di pratica trasformativa e il processo formativo ha un carattere di globalità circolarità.
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La valutazione come ricerca La valutazione come processo di analisi per cogliere, attraverso un procedimento induttivo di ricerca, le strategie, i comportamenti e l’intreccio delle relazioni tra gli attori implicati nel processo, diventa uno strumento di apprendimento e di cambiamento nella misura in cui favorisce l’arricchimento cognitivo ed esperienziale che consegue alla riflessione critica sul processo da parte degli attori implicati e favorisce la scoperta delle innovazioni che si producono. C’è un passaggio a logiche di tipo qualitativo così da arrivare a comprendere processo e risultati. Una particolare prospettiva di ricerca è l’analisi qualitativa. La sociologia della salute considera la persona nel suo mondo di vita quotidiano che è fatto di percezione, di bisogni, di affetti, di sentimenti, di relazioni familiari e sociali, e pone l’interazione, lo scambio comunicativo nelle sue molteplici manifestazioni come oggetto specifico dell’analisi qualitativa. La comprensione dell’intervento educativo passa prioritariamente per l’analisi dei comportamenti e considera l’intervento in una prospettiva olistica in cui partecipanti, azioni e contesti relazionali, sono assunti come un tutto che è maggiore della somma delle sue parti.
La valutazione sul piano operativo Per passare ora al piano operativo, mi pare opportuno riferirmi a un modello di progettazione e valutazione che ritengo ancora valido. È un modello dal percorso passo-passo, flessibile, per cui si può modificare quello che si fa e mettere in moto un meccanismo che permette di far meglio e di sapere quando c’è bisogno di farlo. È il modello del sociologo della comunicazione Braga, che ho descritto nel libro “Sociologia della salute e metodologia dell’educazione sanitaria”, 1990, centrato sui ruoli di osservazione, decisione, azione e controllo. Rappresenta una prospettiva metodologica in cui l’attenzione valutativa si sposta sul controllo costante del processo d’azione e l’azione formativa può essere considerata alla stregua di un sistema – cioè un insieme di parti interconnesse che interagiscono in modo organizzato – sulle cui modalità di funzionamento è possibile intervenire attraverso il controllo per correggere indirizzi e comportamenti in funzione di scopi predeterminati. Molti modelli valutativi correnti hanno fatto e fanno riferimento a questo modello con successo. Rispetto ai modelli basati sulla valutazione obiettivi e risultati, il modello “comunicazione-azione”, come lo chiama Braga,“formativo-adattativo” come lo chiamano altri, sposta l’accento dal risultato al controllo del processo e la valutazione diventa un dispositivo per gestire il programma. Peraltro se andiamo a vedere e a constatare nell’esperienza, come sia vissuta oggi la valutazione, quale concezione se ne abbia, constatiamo un cambiamento nel processo valutativo dovuto a un passaggio lento e culturale da criteri di misurazione a criteri di comprensione. Lo si avverte anche nei luoghi della formazione. Un esempio: ho voluto fare una prova con un gruppo di 80 studenti del terzo corso del diploma universitario per infermieri nell’ultima ora di lezione di questo semestre. Abbiamo lavorato sulla ricerca di valutazione del metodo dell’intervento educativo, ne è scaturita una griglia di domande che hanno confermato la stretta interconnessione tra i due ambiti metodologici – progettazione e valutazione – e per la valutazione il riferimento al processo di formazione e agli esiti.
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Considerazioni conclusive
A mio avviso è importante arrivare presto a una concezione più moderna della valutazione per non vivere una dicotomia. Infatti si sono avuti progressi notevoli a livello di progettazione anche per la diffusione sul territorio nazionale di iniziative di formazione centrate sui nuovi approcci terapeutici al paziente cronico, con la relazione di aiuto e il Counseling, che stanno portando gli operatori verso le nuove frontiere dell’empowerment, l’aiuto alla persona ad acquisire capacità di autocontrollo e autogestione con la consapevolezza che può prendere in carico se stessa. Occorre dilatare i confini della valutazione anche attraverso la ricerca. Non siamo macchine ma operatori pensanti, capaci di creare anche nuovi modelli organizzativi e metodologici; il paziente non può più essere escluso dalla valutazione e dal processo di crescita culturale.
BIBLIOGRAFIA Berger G: Mais qu’est qui nous prend à évaluer? Pour 55, 1977 Braga G: Prospettive cibernetiche in sociologia. Rassegna Italiana di Sociologia 4, 1972 Castagna M: Progettare la formazione. Angeli, Milano, 1991 Chesne B: Le vocabulaire de l’évaluation. Pour 55, 1977 Contessa G: La Formazione. Città Studi, Milano, 1993 Corradin Erle H: Metodologia dell’educazione sanitaria e sociologia della salute. CEA, Milano, 1990 Demetrio D: Micropedagogia. La Nuova Italia, Firenze, 1992 Erle G: Corradin H., Il diabete e l’educazione. Metodologia e obiettivi. CEA, Milano, 1997. Lipari D: Progettazione e valutazione nei processi formativi. Edizioni Lavoro, Roma, 1995. Negrotti M: Cibernetica dei sistemi sociali. Angeli, Milano, 1983
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LA VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI INTENSIVI Andrea Corsi, Enrico Torre Dipartimento di Medicina Recupero e Rieducazione Funzionale, UO Malattie Metaboliche e Diabetologia, Ospedale La Colletta, Arenzano
La finalità di questa breve esposizione è di portare alla discussione dei presenti alcune considerazioni che sono scaturite nel tentativo di valutare, nella filosofia della verifica e revisione di qualità, un’attività peculiare che conduciamo. Si tratta dell’effettuazione di corsi residenziali che di per sé, certo, non sono una novità, se non che nel nostro caso sono rivolti a pazienti affetti da diabete di tipo 1 adulti. L’obiettivo è quello comune a tutti gli interventi educativi: migliorare le capacità di autogestione della malattia, e quindi migliorare il compenso metabolico, nella speranza di ridurre le complicanze. Gli obiettivi didattici specifici erano stati stabiliti in base alle deficienze conoscitive che i singoli operatori avevano rilevato nei colloqui con i pazienti. Alla fine del corso i partecipanti avrebbero dovuto sapere: indicare gli alimenti equivalenti in contenuto glicemico per la programmazione dei pasti, individuare il tipo e la quantità degli alimenti da assumere in corso di esercizio fisico, modificare l’apporto insulinico in corso di malattia febbrile. La metodologia didattica era quella ben nota “interattiva”, “centrata sul discente”, secondo il modello di Guilbert. Il metodo di insegnamento prevedeva: lezioni verticali su: contenuto in nutrienti dei cibi e distribuzione dei carboidrati; lavori in piccoli gruppi al “Metaplan”su: “lista di scambio” degli alimenti contenenti carboidrati, compenso dell’attività fisica, modificazione della dieta in corso di malattie intercorrenti, correzione dell’ipoglicemia; lavori in piccoli gruppi con discussione collegiale su situazioni di frequente riscontro nella vita quotidiana: “a cena al ristorante”,“la partita di tennis”, “la gita al mare”; discussione guidata delle scelte operate dal menu del ristorante. La verifica dell’insegnamento è stata effettuata somministrando il questionario del GISED validato da Erle, che costituisce ancora l’unico strumento validato in italiano a nostra disposizione. La verifica dell’efficacia del corso sull’assetto metabolico è stata effettuata confrontando il valore di emoglobina glicata, misurata prima e sei mesi dopo il corso, e il numero di ipoglicemie lievi e severe, rilevate nella settimana precedente l’ultima visita prima del corso e nella settimana precedente la visita a sei mesi dal corso. Dopo l’intervento i risultati sono stati positivi, come era ampiamente prevedibile. Se analizziamo infatti la letteratura sui risultati degli interventi educativi, sono rare le testimonianze di inefficacia sugli “outcome”metabolici. Semmai si può riscontrare una mancanza di correlazione tra livello di conoscenza e miglioramento dei parametri di compenso, ma questi risultano quasi sempre migliorati. Ciò può trovare spiegazione sia nel ben noto effetto che la sola “osservazione di coorte” determina nel migliorare i parametri di osservazione, sia nell’efficacia che hanno altri fattori diversi dalla semplice conoscenza. Questi sono individuabili nella motivazione
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particolare che i partecipanti a un gruppo possiedono, nel maggior supporto psicologico che il team offre nel corso di un intervento educativo, nello sviluppo di dinamiche di gruppo e di qualche sorta di auto aiuto nel gruppo. Sorge quindi legittimo il dubbio se sia effettivamente utile valutare la conoscenza diabetologica dei pazienti e vi sono autori convinti che sia preferibile indagare invece le capacità di modifica dei comportamenti. Appare di sicuro più consono alla finalità di ogni intervento educativo che il paziente migliori le proprie capacità di “coping”e di “problem solving” piuttosto che acquisisca nozioni sulla malattia. Se si considera poi il tempo che si impiega nella somministrazione e nella correzione dei questionari, si può certamente ritenere che la valutazione della conoscenza, almeno con gli strumenti fin qui adoprati, non sia un mezzo adeguato alla valutazione routinaria della qualità dei nostri interventi. Va peraltro rilevato che anche per la valutazione delle capacità di “coping” e di “problem solving” non ci risultano disponibili strumenti validati. La scelta dei parametri di valutazione dell’andamento metabolico vede come indicatore “obbligatorio” il valore di HbA1c, risultando questo l’indicatore critico dell’evoluzione delle complicanze. Il numero degli episodi ipoglicemici, che rappresenta un indice di stabilità glicemica, costituisce pure un parametro essenziale. Altrettanto importanti, ai fini della prevenzione delle complicanze, risultano i fattori di rischio per la macroangiopatia, lipidi ematici, pressione arteriosa e BMI che nei nostri interventi non abbiamo valutato, essendo i relativi valori sempre nell’ambito della norma in tutti i partecipanti i quali, va ricordato, erano tutti di età inferiore a quaranta anni. Più incerti sono in letteratura i risultati sul compenso metabolico a lungo termine, con diverse testimonianze di insuccessi. Ciò è dovuto alla difficoltà di mantenere la motivazione a mettere in pratica le proprie conoscenze e le proprie capacità a lungo nel tempo. Le divergenze che si riscontrano possono essere attribuibili a differenti approcci psicologici da parte del team diabetologico. Incontestabili sono invece i risultati se si valutano “end-points” che riguardano le complicanze acute (chetoacidosi, amputazioni) o i ricoveri, dove l’aspetto educativo-istruttivo è preminente rispetto a quello educativo-motivazionale. Si potrebbe quindi concludere che non sia corretto valutare un intervento educativo intensivo sulla base degli outcome clinici, il cui raggiungimento richiede sempre un lungo e difficile processo di trasformazione delle conoscenze in comportamenti, e che si debba invece semplicemente valutarlo sulla base del raggiungimento degli obiettivi didattici. D’altro canto è evidente come sarebbe esagerato aspettarsi da un programma educativo intensivo un cambiamento nelle capacità, negli atteggiamenti e nella motivazione che possono invece solamente svilupparsi come parte integrante dell’interazione continua tra operatori diabetologici e paziente. Possibile semmai, anche se non estremamente probabile, è che un intervento educativo intensivo possa contribuire al miglioramento dei parametri di benessere psicologico attraverso il quale si potrebbe avviare un miglioramento nell’autogestione. È tuttavia aperta la discussione se sia il benessere psicologico a migliorare l’autogestione o se le migliorate capacità di autogestione conducano ad un miglior benessere psicologico. È comunque diffusa l’impressione che ci sia un’associazione tra educazione, migliore autogestione e migliore atteggiamento psicologico, che sono indipendenti dai miglioramenti dei parametri di controllo metabolico. Va comunque sottolineato come sia importante non porsi delle aspettative esagerate da un intervento per definizione “intensivo”, in un campo così complesso che riguarda la qualità della vita. La stessa modifica dei comportamenti, che spesso viene indagata attraverso la valutazione dell’adeguatezza dell’esecuzione dell’autocontrollo glicemico e della regolarità della dotazione del tesserino
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identificativo di malattia o altro ancora, è difficilmente attribuibile all’effetto di un intervento generalmente limitato nel tempo. Alcune considerazioni poi sono doverose riguardo alla “strutturazione” dell’intervento. Se questo, come nel nostro caso, viene effettuato nel corso della usuale attività assistenziale, la valutazione verrà fatta confrontando i parametri prescelti, prima e dopo l’intervento educativo. Non sarà costituito cioè un“gruppo di controllo” e il disegno dello “studio” sarà del tipo “one group, pretest-posttest”. L’errore sistematico in cui si può incorrere è che i risultati che osserveremo possano essere modificati da altri tipi di intervento cui sia sottoposto il nostro campione. Per esempio azioni più generali di educazione sanitaria, svolti nell’area di nostra competenza, potrebbero migliorare le conoscenze dei nostri pazienti. Personalmente ritengo queste eventualità poco probabili, ma in teoria non è facile escluderne l’effetto, specialmente se la valutazione avviene a lungo termine. È ovvio invece che l’errore non c’è se si indirizza la valutazione non sugli outcome clinici ma su quelli didattici, come dicevamo prima. Questo errore infine sarebbe escluso se si strutturasse un intervento con un gruppo di controllo. Ma anche in questo caso si rilevano problemi importanti. Per prima cosa emerge la maggior difficoltà organizzativa che poco si adatta all’attività clinica dei servizi diabetologici, in secondo luogo si impone una considerazione etica che non consentirebbe, nella maggior parte dei casi, di escludere una quota di pazienti da un intervento ritenuto strettamente pertinente alla pratica assistenziale. Ma la domanda cruciale è se ancora esiste la necessità di dimostrare che un intervento educativo sia efficace dal punto di vista assistenziale. Perché se, come sembrano dimostrare la maggior parte dei lavori e recenti metanalisi, gli interventi educativi sono nel complesso “efficaci”, si può evitare di impostare studi complessi, lontani dalla pratica clinica e indirizzare la nostra valutazione alla qualità del nostro operato. In altri termini, ancora, valutare l’intervento intensivo dal punto di vista dell’efficacia didattica misurando soprattutto le capacità di “coping”e “problem solving”dei pazienti.
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VALUTAZIONE DEGLI INTERVENTI EDUCATIVI. LE CONDOTTE DI RIFERIMENTO Marina Trento, Pietro Passera, Marco Tomalino, Massimo Porta Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Torino
La ricerca e la messa a punto di un intervento educativo richiede di assumere criticamente o di costruire ex novo gli strumenti per accertare le capacità, le abilità, le performance dei soggetti studiati (1, 2). Si tratta di riuscire a stabilire criteri e modalità in grado di analizzare e rappresentare le condotte (3) dei soggetti medesimi, relativamente al processo di apprendimento considerato. Sul piano della programmazione si tratta di assumere quadri di riferimento (4) concettuali e operativi, ampi e flessibili, capaci di prendere in considerazione il soggetto nella sua totalità (4, 5). Nonostante ciò nell’ambito dell’educazione sanitaria, nei confronti della persona diabetica vengono ancora proposti interventi basati sulla convinzione, più o meno dichiarata, che basti far conoscere ai pazienti gli effetti negativi del loro comportamento sulla salute, a breve o a lungo termine, per indurli a modificarlo e che basti somministrare questionari o test per capire se si sta operando bene (6). Questi tipi di interventi si basano su una teoria ingenua del funzionamento della psiche del soggetto, la quale presuppone che le persone si comportino in termini di costi e benefici, e siano perciò facilmente disponibili al cambiamento. Ed è davvero stupefacente quanto denaro e quanti sforzi siano stati spesi partendo da una concezione così cognitivamente errata. Tra l’altro occorre ricordare che, per un fenomeno di “consonanza cognitiva”, le persone tendono a ignorare le informazioni e le conoscenze che sono contrastanti con le loro azioni quando si rendono conto che è per loro emotivamente e socialmente difficile cambiarle (6). A questo proposito vorrei riportare alcune delle espressioni che spesso mi rivolgono le persone diabetiche che afferiscono all’ambulatorio: “ma... perché devo fare le visite, i controlli... non sento niente, sto bene”, espressioni di questo tipo possono scoraggiare e solo se gli operatori sanitari sono pronti a comprendere le difficoltà che esistono nelle proposte di cambiamento è possibile che qualcosa accada e che il soggetto possa cambiare (7). In realtà promuovere il cambiamento di una condotta (8, 9) implica una modificazione profonda. Cruciale in tale modificazione è il significato che la persona attribuisce alle proprie condotte e azioni (10). Attribuire e modificare un significato a qualcosa implica, da parte del soggetto, la messa in gioco di processi: cognitivi, affettivi e sociali. Cognitivi, perché cambia il modo di considerare la condotta, la conoscenza relativa alla condotta e al suo uso; affettivi, perché si devono mutare abitudini consolidate e antiche; sociali, perché la trasformazione, il cambiamento non avviene in solitudine, ma in un contesto sociale. Dobbiamo renderci conto che curarsi bene con il diabete richiede modifiche di comportamenti, l’acquisizione di nuove abitudini e l’abbandono di abitudini antiche. Per la maggior parte delle persone non è facile: significa aggiustare il proprio quadro di riferimento (4, 5) in relazione a obiettivi di vita, rapporto con il cibo, tradizioni, norme e credenze assai radicate sulla salute. A questo proposito dobbiamo ricordare che molte condotte che sono, su base scientifica, valutate
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negative per la salute immediata o futura dell’individuo, rivestono al contrario un valore positivo per la persona che le mette in atto e per il gruppo sociale di appartenenza. Il significato positivo attribuito a una condotta nociva per la salute è uno degli aspetti più importanti da modificare in un progetto di educazione alla salute e questo deve essere preso in considerazione affinché il progetto possa funzionare (11). Negli ultimi anni queste posizioni e orientamenti sono entrati nella programmazione di alcuni interventi educativi nei confronti della persona diabetica (12). Nel tempo, infatti si è delineata l’esigenza di individuare processi educativi, integrati al processo terapeutico (13), capaci di sensibilizzare l’individuo sulla sua condizione così da permettergli di comprendere la malattia (14-15), conoscerla e agire sulle diverse situazioni, individuare i problemi e trovare le proprie soluzioni, relativamente al contesto in cui vive ed opera; si è cercato di trovare soluzioni diverse per valutare tali cambiamenti. Sulla base di queste conoscenze e orientamenti in questi anni è stato condotto uno studio, clinico, randomizzato e controllato su “Educazione terapeutica per gruppi nel follow-up di pazienti con diabete non insulino-dipendente e non insulino-trattati” (16) presso il nostro Ambulatorio. Si voleva verificare se interventi educativi strutturati e programmati svolti su piccoli gruppi (17) (10 soggetti/casi) potessero favorire l’abbandono di condotte antiche ed errate e promuovere l’acquisizione di nuove condotte più adeguate e corrette rispetto alle precedenti, e se ciò potesse migliorare i livelli di salute dei soggetti stessi. Un gruppo di controllo continuò le visite convenzionali con il tradizionale rapporto medico/paziente e con interventi educativi individuali minimi. Nella messa a punto dell’intervento educativo è stata prevista una osservazione (18) iniziale che ha permesso di conoscere le condotte attuate dai pazienti a cui l’intervento era rivolto: che cosa le persone fanno in concreto, vale a dire quali condotte sono realmente messe in atto e quali abitudini e conoscenze sono del soggetto. Questa iniziale raccolta di informazioni ha costituito la diagnosi educativa (19), successivamente è stata formulata la programmazione della relazione terapeutica: conoscendo i reali bisogni del paziente potevamo ipotizzare e realizzare l’intervento educativo, centrando l’intero processo su colui che apprende e sulle sue caratteristiche: che cosa insegnare, a chi, come e con quali tempi. Altro momento cruciale dell’intervento è stata la valutazione: che cosa valutare, come e quando. Si trattava di riuscire a pensare e costruire o individuare strumenti e modalità capaci di misurare e di descrivere processi in atto, come i pazienti cambiavano e acquisivano condotte nuove, salvaguardandone la dinamica e il significato originale (9). L’ipotesi di lavoro prevedeva che se il soggetto diabetico sa come comportarsi, ossia è in grado di mutare abitudini errate nel corso della giornata, in termini di alimentazione e valutazione del proprio stato di salute, ciò può tradursi in un miglioramento obiettivamente misurabile dei suoi: – controllo metabolico, – comportamenti igienico-alimentari, – acquisizione di nuove condotte e miglioramento dello stato di benessere psicofisico. Obiettivi dell’intervento educativo erano quelli di fornire ai pazienti gli strumenti per migliorare le abitudini alimentari e l’autogestione della propria malattia, così da essere in grado di affrontare la realtà quotidiana senza precludersi nulla a causa del diabete. Le variabili esaminate, all’inizio e alla fine dello studio sono state: – HbA1c, peso, glicemia a digiuno, – le conoscenze specifiche (questionario GISED),
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– la qualità di vita (questionario DQOL), – le condotte nei confronti della malattia (Condotte di Riferimento - CdR - versione 1.0). Per quanto riguarda i questionari GISED (20) e Qualità di Vita (DQOL) (21-22), questi erano già stati validati e utilizzati nel corso di altri studi, in ogni caso venne calcolata la coerenza interna (omogeneità) applicando il Coefficiente Alpha di Cronbach (23), cioè il grado di accordo delle risposte alle domande relative a una stessa dimensione, che diede esito positivo: GISED (38 items) - Totale dei pazienti 1ª somministrazione alpha 0,88 - 2ª somministrazione alpha 0,88 Il GISED (20) questionario per la valutazione delle conoscenze, dei comportamenti e degli atteggiamenti del soggetto diabetico non insulino-dipendente, aveva subito delle modifiche per questo specifico studio. Originalmente era stato ritenuto ricco di termini tecnici che potevano diventare di non chiara e facile comprensione per il paziente. Le modifiche apportate avevano l’obiettivo di semplificarne la lettura e la somministrazione. Anche in questo caso l’omogeneità del questionario originale è stata mantenuta. DQOL (39 items) - Totale dei pazienti 1ª somministrazione alpha 0,70 - 2ª somministrazione alpha 0,82 Il questionario era stato sviluppato per la misurazione della qualità di vita nei pazienti diabetici di tipo 1 e utilizzato nel DCCT (24). Si tratta di un questionario autosomministrato, costituito da quattro test parziali (soddisfazione, impatto, preoccupazioni generali, preoccupazioni legate al diabete), per un totale di 46 domande, a ciascuna delle quali il paziente deve rispondere utilizzando una scala Likert a 5 punti. Tradotto e validato in italiano per tipi 1 era stata successivamente dimostrata la sua applicabilità e affidabilità anche per i tipi 2 (21). Nello specifico erano state modificate alcune domande, mentre altre: paura di sposarsi e non trovare lavoro, erano state omesse del tutto. Ciò nonostante, il Coefficiente Alpha è rimasto lo stesso della validazione originale svolta per lo studio DCCT (22). Condotte di Riferimento (CdR 1ª versione - 16 items) Totale dei pazienti 1ª somministrazione alpha 0,71 - 2ª somministrazione alpha 0,70 Il questionario Condotte di Riferimento era stato costruito appositamente per questo studio. In questo caso l’équipe non era interessata al soggetto come a colui che “sapeva fare delle cose”o a colui che “sapeva essere”, si voleva piuttosto, essere in grado di capire e verificare se il soggetto aveva compreso ciò che gli stava accadendo e se le sue condotte, psichiche e conoscitive, fossero pertinenti alla situazione che stava vivendo. Nell’elaborazione dell’intervento si era creata la necessità di stabilire criteri (1, 2) in grado di rilevare le condotte conoscitive relative al processo di apprendimento (25, 26) considerato e verificare come queste si trasformassero in un nuovo stile di vita. Per evidenziare e rappresentare le capacità, abilità e performance del soggetto era necessario servirsi di dispositivi di analisi pluridimensionali, capaci di cogliere i diversi aspetti della persona; inoltre i criteri dovevano essere espliciti, controllati e controllabili. Da queste esigenze e posizioni nacque e prese forma il questionario “Condotte di Riferimento”. Per Condotte di Riferimento (CdR) si intende la capacità di un soggetto di agire su una situazione, individuare il problema e trovare la propria soluzione, relativamente al contesto o alla situazione in cui si trova a operare. Le condotte possono essere intese come atteggiamento, ossia come una disposizione mentale di fronte a un determinato problema. Il termine condotta, infatti, non può essere usato come sinonimo di comportamento. Mentre
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quest’ultimo fa riferimento all’insieme delle azioni e reazioni abituali ma automatiche di un organismo all’ambiente, la condotta fa riferimento a un atteggiamento interiore da cui quelle azioni e reazioni discendono. Ad esempio, una paziente diabetica ci disse una volta di sottoporsi spontaneamente all’esame annuale del fondo dell’occhio, perché “La diabete mangia la vista”. Quella signora, contestualmente al proprio sistema di riferimento, aveva acquisito le motivazioni e la condotta corretta per la prevenzione della cecità. Se, al contrario, il suo comportamento non fosse dettato da un convincimento interiore, ma solamente dall’imitazione di modelli esterni o dal seguire passivamente un’informazione, basterebbe un evento negativo qualsiasi (consiglio del vicino, attesa eccessiva in ambulatorio, personale sanitario indisponente) per arrestare il processo positivo. Le domande individuate per il questionario, proposte con la formula di “cosa farebbe se...”, implicano che il soggetto abbia attivato condotte psichiche e conoscitive e, contestualmente, risposte pertinenti al sistema di riferimento, al contesto, all’ambiente che potrà essere di volta in volta diverso, ma in cui vive. La valutazione dei risultati ci permise di osservare che all’inizio dello studio il questionario CdR correlava con: GISED r=0,67, p<0,001 Scolarità r=0,42, p<0,001 BMI r=-0,27, p<0,01 Età r=-0,20, p<0,05 mentre il GISED correlava con: Scolarità r=0,55, p<0,001 BMI r=-0,23, p<0,05 In seguito all’intervento educativo, al termine dell’anno, erano migliorati, nei soggetti che avevano seguito sessioni educative continue e strutturate, ma non nei controlli, gli score nei questionari CdR e GISED (p<0,001 per entrambi) e l’emoglobina glicata era migliorata nei casi rispetto ai controlli (p<0,05). Da sottolineare che le modificazioni delle Condotte di Riferimento nei pazienti seguiti nei gruppi correlavano con l’entità del calo dell’HbA1c (r=-0,31, p<0,005). Nei pazienti seguiti in gruppi di educazione lo score finale delle CdR non correlava più con la scolarità, suggerendo che l’intervento fosse riuscito a supplire alla carenza iniziale. Da sottolineare che il 15% dei pazienti era analfabeta e che il 30% aveva solo studi elementari. Questi dati preliminari e questo primo anno di studio hanno permesso di rilevare che setting educativi in grado di favorire l’apprendimento permettono di migliorare i livelli di salute dei pazienti. Così come si è puntuali nell’identificare condizioni favorevoli l’apprendimento, altresì è importante individuare strumenti capaci di misurare i molteplici aspetti del paziente, le variazioni inerenti l’acquisizione di condotte di salute più adeguate.
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