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4. Med-diet o Mad-diet?
Seguire la dieta mediterranea oggi, in piena crisi economica, è un impegno da pazzi. Tanto che la Med-diet si potrebbe ribattezzare Mad-diet (da mad, pazzo). Con quello che costano frutta e verdura, si potrebbe comprare una quota azionaria da Capitan Findus in persona. La crisi economica oggi è senza dubbio il nemico numero uno della dieta mediterranea e della buona salute. Forse la crisi ha più responsabilità di quanto non abbiano comunicatori inetti con relative campagne di salute assolutamente fallimentari. Magari ha anche più colpa della televisione, storica avversaria della buona tavola. O semplicemente il tracollo finanziario ha solo rincarato la dose, unendosi di buon grado all’armata programmata per annientare quello che di buono abbiamo, chissà. Fatto sta che la Med-diet è in forte, fortissimo pericolo. Gli agguati giungono da ogni dove, bisogna stare in guardia. Ma se non si cambia registro, sarà molto dura. Così la ricerca si è rimboccata le maniche, mettendosi sulle tracce della dieta perduta. Qualcuno ha provato a dare la colpa ai portafogli sempre più vuoti. “Vuoi vedere che per mangiare bene devo fare un mutuo?” si sono chiesti alcuni zelanti ricercatori canadesi. E via a fare i conti nelle tasche della gente, senza però trovare granché. Stando ai dati dello studio,1 essere al passo con il trend alimentare mediterraneo non è ancora un salasso per le persone che, se solo volessero, riuscirebbero a mettere una bella assicurazione sulla propria salute con lo stesso budget e un pizzico di buona volontà in più. Ma non tutti sono d’accordo su questo punto. Il dissenso arriva dalla Spagna,2
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dove un gruppo di ricercatori sostiene che una più alta adesione alla dieta mediterranea comporta un aumento di spesa di circa un paio di euro al giorno per persona. Conti alla mano, l’aggravio per una famiglia di “salutisti” di 4 persone si aggira sui 2mila euro all’anno, una cifra affatto trascurabile. Non è una questione di pochi spiccioli nemmeno secondo uno studio pubblicato un paio di anni fa sul British Medical Journal (BMJ), una delle riviste scientifiche più prestigiose al mondo, anche perché molto aderente alla vita reale, che parla di aumenti stellari nel giro degli ultimi 3-4 anni.3 Stando a quanto sostiene lo studio, infatti, la questione dei prezzi è assolutamente determinante al punto tale da diventare un vero e proprio spartiacque in materia di salute pubblica. Qui, però, non si tratta di riabilitare la saggia usanza dei salvadanai o fare un buco in più alla cintura; la posta in gioco vale molto di più, diciamo quanto la nostra salute. Che, al momento, è davvero a rischio: dall’indagine del BMJ viene fuori che nel periodo compreso tra gennaio 2006 e luglio 2008 i prezzi al consumo, globalmente, hanno subito un’impennata del 75% mettendo a serio rischio di sottonutrizione 75 milioni di persone in più in tutto il mondo. Lo tsunami del mercato mondiale non risparmia nulla, travolgendo impietosamente tutti quei prodotti che per alcuni valgono la sopravvivenza. Ad esempio, il riso, che per molti è la principale, se non l’unica, fonte di sostentamento, negli ultimi cinque anni è aumentato del 189%. Ma non è necessario guardare ai Paesi più debilitati per rendersi conto degli effetti della crisi sui prezzi e sui consumi, perché ce li abbiamo praticamente sotto casa. In Inghilterra, per esempio, i prezzi di pane, latte e verdura, che senza ombra di dubbio rientrano tra i beni di prima necessità, hanno progressivamente raggiunto costi impensabili e per alcuni assolutamente inaccessibili (figura 4.1).3 Tuttavia anche la più terribile delle onde anomale lascia in piedi qualcosa, tanto per mantenere viva la memoria della distruzione. Quella dei prezzi si mostra particolarmente indulgente con i prodotti ad alta densità energetica, ossia ipercalorici, che accusano meno la batosta. Si tratta di alimenti non esattamente salutari (dentro si può trovare di tutto, dai grassi trans a coloranti, additivi e conservanti), anche per via della grande quantità di energia che forniscono, spesso a scapito del valore nutrizionale, per lo più scarso o comunque insufficiente. Però hanno il pregio di
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Figura 4.1 | Tendenze dei prezzi al dettaglio di alcuni articoli alimentari nel Regno Unito (2002-2008)
Percentuale del cambiamento (indice=1)
1,5
1,4
1,3
1,2
Relativamente più costoso 1,1
1,0
Relativamente più accessibile 0,9 2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Anno Pane
Latte fresco
Verdure
Dolci e biscotti
Indice dei prezzi al consumo
Soft drinks
Carne
Da: Lock et al., 2009.3
costare poco e tutto sommato riescono anche a garantire un certo senso di pienezza. E allora, in tempi di crisi, con il portafoglio che langue e bocche da sfamare, nonostante la crescita demografica praticamente a quota zero, cosa dice il “Manuale del buon occidentale” in visita al supermercato? L’imperativo è risparmiare e se questo significa ingerire cibo di dubbia composizione e provenienza ma a buon mercato, allora ben venga la politica del “si salvi chi può”. L’Italia non è certo immune da questo fenomeno. I dati del progetto Moli-sani (www.moli-sani.org), condotto in Molise su una popolazione di 25 mila persone, indicano che, anche in una regione relativamente omogenea da tanti punti di vista, l’adesione al modello mediterraneo se-
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gue un gradiente strettamente economico. In pratica, la tavola sana possono permettersela solo quelli con un reddito medio-alto.4 Le conseguenze della crisi sono tuttavia devastanti a tutti i livelli, nei Paesi a basso reddito così come in quelli industrializzati, anche se gli effetti sono diversi a seconda delle zone del mondo in cui scatena la sua ira. Nei Paesi in via di sviluppo l’aumento incontrollato dei prezzi rischia di rispedire anzitempo al Creatore circa 100 milioni di persone (75 milioni le aveva già “sistemate” nel 2007) tra Asia, America Latina, Nord Africa e Africa Sub-sahariana che, causa malnutrizione, si giocheranno seriamente la pelle, visto che campano in media con 1 euro e 40 centesimi al giorno. Il destino degli stati a reddito medio è appeso a un filo. Lì le cose però si fanno più complicate perché è difficile fare previsioni affidabili e molto dipende dall’equilibrio tra produzione interna e importazioni. Nel mondo benestante – almeno finora – si assiste al curioso quanto prevedibile fenomeno cui accennavamo prima: la gente riduce i consumi, tagliando soprattutto sul cibo, e la caccia alla qualità di un tempo viene brutalmente sostituita con quella al miglior offerente. La differenza con cui la crisi colpisce i due poli economici però c’è, anzi ce ne sono due: 1. il primo polo, quello a basso reddito, subisce ulteriormente il contraccolpo della crisi, ma non può farci granché, perché poco dipende dalle sue azioni e tutto dalle regole del mercato; 2. il secondo sceglie di adattare il proprio stile di vita alla crisi, anche se non di buon grado, pur di non dare fondo alle proprie finanze. È vero, tuttavia, che entrambi avranno vita breve o comunque lontana anni-luce dalla salubre longevità che tutti desideriamo. Solo che in Africa moriranno per mancanza di cibo, in America e in Europa perché ne hanno troppo e soprattutto di pessima qualità. Nell’Occidente un tempo florido e opulento, l’attenzione si sta spostando pericolosamente su prodotti ipercalorici che sembrano resistere agli attacchi della crisi, come dimostra uno studio pubblicato sul Journal of American Dietetic Association,5 confermato da un’altra ricerca più recente in cui si evidenzia anche che le uniche roccaforti della dieta a bassa densità energetica sono le donne con un alto reddito.6 Il resto, potremmo dedurre, è già condannato all’inferno. Ma come dar torto, in fondo,
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a questi dannati dell’alimentazione? Se un appetitoso yogurt-gelato al gusto di frutta (notare la differenza tra prodotti a base di frutta e quelli che invece ne ricordano vagamente il sapore) con tanto di colorati bottoncini caramellosi in cima costa poco più di un euro (ammettiamolo, è buono), perché devono spendere il doppio, se non il triplo, per un frullato di frutta fresca senza zucchero né conservanti, tra l’altro difficile da reperire? E così, mentre molti cercano di sfuggire alla fame, per fast-food e soft drinks arriva un’inaspettata rinascita che ha fatto registrare incassi da record, come testimoniano i toni trionfalistici con cui una famosa azienda americana – sbarcata ormai in molti nostri lidi una volta immacolati – annuncia i brillanti risultati raggiunti,7 facendo sapere al mondo di aver conquistato la fiducia di oltre 58 milioni di clienti in più solo nell’anno 2008. La somma di “costo + tempo + pigrizia” genera l’equazione che sta condannando la dieta mediterranea a sparire, segnando l’inizio di una nuova era (s)regolata dall’istinto autodistruttivo del Western World e della sua Western Diet. In fin dei conti stiamo tutti agendo come la dissennata cicala della famosa favola di La Fontaine. Arraffiamo tutto il possibile, senza preoccuparci del lungo inverno alle porte. È vero che la crisi offusca anche le qualità intellettive, ma bisogna pur progettare a lungo termine, se non si vuole fare la fine della cicala. Non tutti, mentre agguantano l’ennesimo esemplare di cibo in scatola o i precotti in super offerta, stanno esattamente pensando al loro futuro, ma piuttosto solo a dare un po’ di respiro al proprio salario. Un comportamento che di sicuro premierà la contabilità di fine mese, ma che col tempo presenterà un conto molto salato alla salute, facendosi restituire la somma con tutti gli interessi. Sì, perché anche ammalarsi costa, non solo al sistema sanitario. I farmaci, le visite mediche, i controlli dagli specialisti pesano più di quanto siamo riusciti a risparmiare in anni di cibo spazzatura, con l’aggravante fisica e psicologica che lo stato di malattia inevitabilmente comporta. E allora: ne vale la pena? Forse no. Ma sicuramente vale la pena soffermarsi brevemente su quello che il junk food fa alla nostra salute. Perché tutti ne parlano, ma nessuno ha la forza e il coraggio di relegarlo nel posto che gli è più congeniale: la spazzatura, appunto.
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Bibliografia 1. Goulet J, Lamarche B, Lemieux S. A nutritional intervention promoting a Mediterranean food pattern does not affect total daily dietary cost in North American women in free-living conditions. J Nutr 2008; 138: 54-9. 2. Schröder H, Marrugat J, Covas MI. High monetary costs of dietary patterns associated with lower body mass index: a population-based study. Int J Obes (Lond) 2006; 30: 1574-9. 3. Lock K, Stuckler D, Charlesworth K, McKee M. Potential causes and health effects of rising global food prices. BMJ 2009; 339: b2403. 4. Bonaccio M, Bonanni A, Di Castelnuovo A, et al., on behalf of the MOLI-SANI Project Investigators. Mediterranean diet in a time of crisis: lower income, lower adherence. Abstracts to the First Seminar ‘‘Responsible drinking within the Mediterranean diet and Italian lifestyle’’. June 10–11, 2011, Pontignano, Italy. Eur J Nutr 2011; 50: 497. 5. Monsivais P, Drewnowski A. The rising cost of low-energy-density foods. J Am Diet Assoc 2007; 107: 2071-6. 6. Monsivais P, Drewnowski A. Lower-energy-density diets are associated with higher monetary costs per kilocalorie and are consumed by women of higher socioeconomic status. J Am Diet Assoc 2009; 109: 814-22. 7. Financial Press Release. McDonald’s delivers another year of strong results in 2008. Disponibile online all’indirizzo http://www.reuters.com/article/2009/01/26/ idUS93597+26-Jan-2009+PRN20090126.
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