fDivinis® Bar à Vins è lieto di proporvi “A Cena Con…”
Giovedì 21/11/2013
Elisabetta Foradori Strudel Vegetariani
Nosiola Fontanasanta 2011 Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN) Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Nosiola ~ 12° ~ Euro 30,00
Risotto ai Funghi Porcini
Teroldego Foradori 2010 Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN) Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 18,50
Lasagnette di Grano Saraceno, Verze e Formaggio
Teroldego Vigneto Morei 2011 Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN) Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 12,5° ~ Euro 30,00
Zucca in Saor
Teroldego Vigneto Sgarzon 2011 Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN) Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 12,5° ~ Euro 30,00
Formaggio Vezzena d’Alpeggio
Teroldego Granato 2009 Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN) Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 50,00
Esclusivamente in occasione della serata a chi desidera acquistare i vini per l’asporto, riserviamo uno sconto del 10%. Le nostre iniziative sono dirette a favorire un consumo moderato e consapevole del vino. Qualità e non quantità.
Foradori 1901 — fondazione dell’azienda agricola 1929 — Vittorio Foradori acquista l’azienda 1960 — Roberto Foradori inizia la sua attività. Prima produzione di ‘Foradori’ 1976 — Gabriella Casna Foradori gestisce l’azienda dopo la scomparsa del marito 1984 — Elisabetta termina gli studi alla scuola enologica di San Michele all’Adige e affronta la sua prima vendemmia. 1985 — inizio delle selezioni massali sulla varietà Teroldego, che porteranno alla registrazione di quindici diversi cloni. 1986 — prima produzione di ‘Granato’ 1987 — prima produzione di ‘Morei’ e ‘Sgarzon’ (prodotti fino al 1999) 2000 — inizio progetto ‘viti da seme’ sulla varietà Teroldego 2002 — conversione alla agricoltura biodinamica 2007 — l’azienda entra nel gruppo VinNatur 2009 — certificazione Demeter. L’azienda si unisce al gruppo Renaissance des AOC. Prima produzione di ‘Nosiola Fontanasanta’. Riprende la produzione di ‘Morei’ e ‘Sgarzon’ 2010 — prima produzione di ‘Manzoni Bianco Fontanasanta’. Elisabetta fonda assieme a 10 vignaioli trentini il consorzio ‘i Dolomitici’ Foradori è, oggi, un’azienda in cammino. Dopo dieci anni d’uso dei preparati biodinamici in vigna e di attenzioni quotidiane in cantina iniziamo a percepire il valore del nostro lavoro. La conoscenza e la consapevolezza dei cicli naturali si sono perfezionate durante lunghi anni di apprendimento: ogni stagione ci porta cose nuove, ogni giorno insegna e ci fa capire. Abbiamo imparato a metterci in ascolto per cogliere le sottili differenze esistenti in natura e a preservare la sincerità del carattere dell’uva nell’espressione del suo luogo d’origine. La nostra gestualità agricola si eleva così a creatività: abbiamo il compito e il privilegio di alzarci ogni mattino e di essere liberi di lavorare assecondando il messaggio che la terra ci vuole dare in quel momento. Lavoriamo fra le montagne coltivando il Teroldego nei suoli alluvionali del Campo Rotaliano, la Nosiola e il Manzoni Bianco sulle colline argilloso-calcaree di Cognola. Raccogliamo le uve di 26 ettari di vigna - l’80% a Teroldego, il 15% a Manzoni Bianco e il 5% a Nosiola - per produrre in media 160.000 bottiglie ogni anno: 90.000 di Foradori, 20.000 di Granato, 20.000 di Fontanasanta Manzoni Bianco, 8.000 di Fontanasanta Nosiola e 10.000 per ciascuno dei vecchi vigneti di Teroldego Sgarzon e Morei. Disposti tra Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, i sistemi montuosi che compongono le Dolomiti, Patrimonio dell’Umanità, descrivono un paesaggio di straordinaria bellezza. Un ambiente unico, dove l’eccezionale contesto naturale si fonde completamente con la storia degli uomini che hanno attraversato e vissuto queste montagne, e con quella di chi continua a farlo. Un territorio di passaggio, porta tra il Mediterraneo e l’Europa continentale, ma anche luogo ammaliante, che da millenni ha condotto le comunità umane ad insediarsi nelle valli, protette dall’abbraccio delle vette e costantemente stimolate dalla spinta vitale della loro vertiginosa verticalità. Sviluppatasi soprattutto in area trentina e altoatesina, anche l’antica cultura della vite e del vino prende quindi delle sfumature uniche, riflessi di uomini e montagne, cangianti come la luce che vi batte nelle varie ore del giorno, nelle diverse stagioni. Una viticoltura principalmente legata alla ritualità in epoca etrusca, che si è espansa gradualmente nel corso dei secoli, trasformandosi assieme alle abitudini di consumo ma rimanendo a lungo in secondo piano all’interno delle economie locali. È attorno al X secolo che comincia a svilupparsi una produzione vinicola di qualità - supportata dalla Chiesa e dal commercio con l’Europa centrale - e a disegnarsi la rivalità mai risolta tra l'area trentina e quella altoatesina: vini apprezzati nelle corti e narrati dai viaggiatori, espressioni straordinarie di genti e territori. Il suolo e i suoi sassi, i forti sbalzi termici tra il giorno e la notte, le brezze che puntuali soffiano dai laghi e dalle valli, il calore imprigionato e rilasciato dalle pareti rocciose: sono solamente alcuni dei fattori che descrivono un potenziale incredibile, un'identità profonda e definita, che dalle radici può passare ai grappoli d’uva, al vino. Al confine tra Trentino e Alto Adige, il Campo Rotaliano è la pianura alluvionale formata dal torrente Noce prima dell’affluenza nell’Adige: un triangolo di quattrocento ettari, circondato da possenti pareti rocciose. Nodo di comunicazione fondamentale in epoca romana, il territorio del Mezo (da medium, pianura) è stato da sempre zona di transito di merci e viaggiatori, ma anche punto di contatto tra culture e genti profondamente diverse tra loro, vivo della pulsante ricchezza che solo la varietà del confronto può determinare. Il Noce ne ha disegnato la geografia, portando
a valle rocce diverse dalle tante montagne che sfiora, e dividendo naturalmente la piana in due aree distinte, con i rispettivi castelli e i borghi sottostanti: due ville, i cui governi si sono susseguiti sotto l’influenza del Principato vescovile di Trento e dei Conti del Tirolo, e divenute poi le attuali Mezzolombardo e Mezzocorona. Nonostante le frequenti e devastanti piene del torrente, il valore di queste terre per la viticoltura era ben noto già nel Medioevo: un terreno sciolto e magro, con una straordinaria capacità di drenaggio delle precipitazioni; così simile a quello dei pendii, ma allo stesso tempo protetto dalle montagne, che mitigano l’ambiente con la loro azione di riverbero del calore solare. Nel 1231 un documento attesta l’eccellenza dei vigneti dell’area di Mezzolombardo, mentre nel Cinquecento si parla finalmente del Teroldego, una produzione che si è consolidata nel corso dei secoli, divenendo elemento centrale nella definizione del paesaggio, dell’economia e della società stessa della Piana Rotaliana, espressione pura del territorio. Per arrivare alla morfologia attuale è necessario però attendere metà Ottocento, quando l’alveo del Noce viene regimentato e deviato a Sud e la zona finalmente liberata dalla minaccia delle alluvioni. La terra, poca e preziosa, si rivela allora nella sua complessità, cambiando totalmente natura a seconda della distanza dall’antico letto del fiume: una risorsa dal potenziale incredibile, che è necessario conoscere realmente per poterne tradurre nel vino le caratteristiche profonde. La collina a Est di Trento rappresenta un contesto estremamente particolare, dove il paesaggio agricolo si mescola a quello boschivo e alle residenze, in un delicato equilibrio tra spazio antropizzato e naturale. La villa Fontanasanta, il cui nome deriverebbe dal rio Salùga (da ‘Santa aga’, acqua santa) che vi scorre accanto, domina la città circondata da bosco e vigneti, mentre alle sue spalle, ben esposta a sud, una piccola valle sale fino alla spianata di Martignano. Riserva di caccia da metà Cinquecento, nel 1815 la tenuta diviene sede della splendida villa in stile impero costruita per volere del Conte Simone Consolati, Console nella Trento del Principe Vescovo Thun e appartenente ad una famiglia che nel corso dei secoli ha avuto un ruolo centrale nella vita politica della città. Il punto di rottura arriva con il primo conflitto mondiale, un momento estremamente drammatico per la zona, posta esattamente sul confine: la popolazione viene evacuata a forza, e tutto il territorio subisce pesanti devastazioni. Fontanasanta, profondamente danneggiata, viene però riscattata dal marito di Annunziata Consolati, Carl Von Lutterotti, che fa piantare frutteti e vigneti, definendo così le basi dell’odierno assetto agricolo della proprietà. Oggi il vociare delle feste ottocentesche lascia spazio al silenzio, protagonista assoluto, mosso solamente dai rumori del bosco, onnipresente nell’abbracciare i vigneti, e dall’acqua che scorre in piccoli ruscelli. La terra, rossa di argilla e bianca di calcare, torna finalmente ad essere produttiva: suolo ideale per Incrocio Manzoni e Nosiola, assieme al contesto ambientale unico diventa terreno perfetto per due vitigni dalle radici così profondamente legate a questo territorio e alla sua storia. Lavorare con la natura affina la capacità di sentire, rende partecipi lo spirito e le abitudini del contadino, porta alla comprensione profonda dei processi vitali. Alla dimensione più concreta del fare si affianca una dimensione diversa che si allontana dall’aspetto materialistico e si arricchisce di una dimensione più spirituale. Scopriamo allora una natura diversa fatta di macrocosmi e microcosmi, pulsante di vita ed espressione di molteplicità mai banale. È questa la natura che invita a porsi in ascolto e a considerare ogni gesto agricolo non come fine a se stesso ma partecipe di un ciclo completo. Un paesaggio agrario ricco di diversità è un grande valore che va protetto, curato, raccontato e ricostruito. E così abbiamo piantato siepi attorno alle vigne e vecchie varietà di frutta, cercato di reintrodurre animali, curato il manto erboso dell’interfilare seminando molte erbe diverse. Si sono moltiplicate le farfalle, gli insetti e gli uccelli. Pur vivendo in un’area ad agricoltura intensiva come il Trentino la natura ha reagito e quasi ringraziato. Abbiamo iniziato ad usare i preparati biodinamici nel 2002, dopo un lungo tempo di riflessione e di confronto con il nostro operare nel passato. L’agricoltura biodinamica è un intervento agronomico “solare”: ogni pratica in campagna tende a portare le forze del sole nei processi vitali del terreno e della pianta. Il sistema planetario è un vero e proprio essere vivente, in cui le sfere di azione dei singoli pianeti compenetrano la luce solare che inonda la terra. L’uso dei preparati biodinamici catalizza queste forze. Non ci siamo allontanati dallo spirito moderno della conoscenza e della ricerca, ma abbiamo cercato di riportare l’uomo con la sua spiritualità dentro la scienza, considerando non solo l’aspetto materialistico della natura ma affrontando la comprensione profonda dei processi vitali. L’uomo moderno ha dimenticato che è attorno all’agricoltura che gravitano quasi tutte le attività umane. Fra le foglie delle nostre vigne sono tornati i nidi di merli, tordi, fringuelli; e poi, a primavera, farfalle, api e molti insetti. Abbiamo ripreso a curare il prato nell’interfilare, a piantare siepi e, da
poco, ad introdurre gli animali in azienda. A Fontanasanta sono stati riattivati stalle e pollai; usiamo il letame per l’allestimento del cumulo. Il lavorare in un organismo agricolo a ciclo chiuso, cioè autosufficiente, è il nostro obiettivo futuro. Le componenti umana/sociale, vegetale, animale e minerale hanno un ruolo sinergico e di pari peso nella nostra realtà. I preparati biodinamici agiscono “dinamicamente”, non quantitativamente: ne usiamo quantità piccolissime alle quali corrisponde un apporto di sostanza quasi nullo. Attraverso il loro uso, dopo averli dinamizzati in acqua, portiamo al suolo e alla pianta le informazioni che attivano i processi di vita e dunque la fertilità. Quando emulsioniamo la preparazione biodinamica con un movimento circolare, la forza centrifuga fa salire il liquido sulle pareti del recipiente mentre la forza centripeta scava un imbuto al centro del vortice. Cambiando la direzione, tutto si inverte. La dinamizzazione genera dunque un movimento ed una forma, assieme all’ossigenazione, indispensabile alla moltiplicazione della vita. La formazione delle superfici gioca un ruolo importante nella misura in cui queste rinchiudono il prodotto da dinamizzare: il ribaltamento di queste superfici, conseguenza del cambiamento delle direzioni, porta la “memoria” del prodotto nell’acqua. Nei gesti che accompagnano l’allestimento dei preparati, la loro conservazione, dinamizzazione e distribuzione, abbiamo ritrovato cadenze e ritmi che avevamo dimenticato. L’attività agricola ritorna ad essere vicina all’uomo. Riusciamo così a camminare nelle nostre vigne osservandole con occhi diversi. Ogni pratica agricola è conseguenza di un’informazione che la pianta ci trasmette. Assaggiamo il vino e ne riusciamo a percepire l’essenza e l’energia. Guardiamo le immagini delle cristallizzazioni sensibili del Teroldego, della Nosiola o del Manzoni Bianco nella loro evoluzione nel tempo e vediamo l’astratto delle nostre sensazioni che si materializza in sempre più fitti e fini cristalli. Non ci sono numeri o dati ma semplicemente percezioni: è così che ci sembra di essere parte del ciclo naturale, di poter unire la nostra conoscenza alla comprensione intuitiva della natura, di far parte dei suoi ritmi. Ci siamo finalmente messi in ascolto ed abbiamo capito. Da ormai venticinque anni mi dedico al Teroldego, quasi una mezza vita spesa a cercare di far esprimere attraverso questa varietà la terra che la custodisce. Nei primi tempi, da giovane diplomata all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, ascoltavo poco la mia terra, occupata com’ero dalla sopravvivenza dell’Azienda. Lavoravo già molto sulla biodiversità del vitigno, attraverso le continue selezioni massali e più tardi con viti da seme, ma il mio percorso somigliava a quello di molti altri viticoltori: la formazione prevalentemente tecnica mi portava a considerare i gesti agricoli come azioni ripetitive e meccaniche, che avevano come fine ultimo la produzione di un’uva apparentemente sana e di un vino similmente ineccepibile. Verso la fine degli anni Novanta molte cose stavano cambiando e una sensazione di incompletezza e di precarietà iniziava ad accompagnare le mie giornate: una percezione profonda e rigeneratrice, che mi portava a sentire la mancanza dell’anima nei vini che allora producevo. Se ripenso a quei momenti sono invasa da un sentimento di gratitudine: è attraverso quelle sensazioni che ho potuto ritrovare me stessa e il senso del mio operare in agricoltura. Non è facile il percorso a ritroso verso Madre terra. Recuperare la capacità di muoversi all’interno dei cicli naturali; riavvicinarsi ad un più intimo contatto con la terra; rimuovere preconcetti e sfatare paure: lavorare con la natura - e non contro di essa - impegna in un cammino appassionante e complesso, che rende partecipi lo spirito e le abitudini del contadino, modificandone la sensibilità e affinando la capacità di ascoltare. Oggi sento di aver ridato onore e creatività ai miei atti agricoli. Lavoro cercando di ottenere frutti e vini che siano l’espressione autentica della mia terra, la stessa che lascerò sana e viva ai miei quattro figli perché siano orgogliosi di poter scegliere se essere contadini. Quando una viticoltura sana permette alla pianta di esprimersi nella sua interezza, il frutto che ne deriva sarà espressione di autenticità. La qualità del vino che produciamo si manifesta nella vitalità del prodotto. Il preservare le forze di vita del frutto originario durante il passaggio di trasformazione uva — vino, restituisce al vino e a chi lo beve la percezione del suo luogo di origine, entra in sintonia con il cibo, fa nascere una bevanda digeribile che dona senso di benessere. Non ricorriamo ad interventi correttivi in cantina: nulla viene aggiunto, tutto viene accompagnato cercando di mettersi in ascolto. Il vino mantiene spontaneità espressiva e trasmette la personalità di una materia prima intensa e viva. Ci sembra così di portare dentro un bicchiere la fragranza dei fiori dei pascoli dolomitici, la mineralità delle rocce che circondano le vigne, la chiarezza dei cieli di montagna, l’indole del popolo che abita le valli alpine. È nostro compito trasferire tutto il carattere della terra trentina dentro ogni nostra bottiglia.
Vinifichiamo le uve in recipienti diversi, e negli stessi affiniamo poi il vino. Il legno di acacia e rovere dei tini e delle botti è materiale vivo: molto partecipe ai processi di trasformazione, lascia qualche sua traccia e accompagna il vino nel tempo sostenendolo. La terracotta della tinajas dona all’uva la libertà completa di esprimersi e al vino la possibilità di ricollegarsi con la terra. Questi contenitori sono fortemente energetici: la loro forma ampia e allungata avvolge ed accoglie; l’argilla che li compone ha la proprietà di mettere in contatto le forze del cosmo con quelle terrestri. I contenitori in cemento aiutano per la loro inerzia termica; anche l’acciaio ha un suo ruolo nella nostra cantina e rimane a testimoniare il nostro percorso negli anni. Usiamo solo lieviti indigeni e non controlliamo le temperature in fermentazione. Non aggiungiamo solfiti al vino se non dopo il primo travaso - che normalmente avviene dopo sei-otto mesi dalla svinatura per arrivare ad avere non più di 30-50 mg/l di anidride solforosa in bottiglia. Teroldego, Nosiola e Manzoni bianco vengono imbottigliati senza essere filtrati. Il nostro lavoro si misura con il tempo, con i ritmi della natura, con l’aspettare che la vite cresca, invecchi, dia frutti, con l’evoluzione lenta del vino nel silenzio e nel buio della cantina, con il suo cambiare dentro la bottiglia prima e dentro il bicchiere poi. La spontaneità espressiva di un vino carico di vita permette una sua continua trasformazione, un rivelarsi in tutta la sua essenza. È un vino che non ci lascia mai. Quando aprirete una nostra bottiglia fate si che abbia la temperatura di cantina, versate il vino in bicchieri ampi e seguitelo nel tempo: vi accompagnerà con versatilità, condividendo la personalità di un’intensa materia prima che accoglie la varietà del cibo che avrete nel piatto. Un vino ricco di forze vitali nasce da un atto di amore verso la natura, e come tale non potrà che avvolgervi e sorprendervi. FONTANASANTA NOSIOLA La Nosiola è un antico vitigno trentino, diffuso un tempo su tutto il territorio, e la cui coltivazione si è ora ristretta alla Valle dei Laghi e alle Colline di Trento e Pressano. È una varietà che si esprime con forza solo nell’equilibrio della vigna che cresce su terreni poveri, dando vita a dei vini di grande delicatezza e longevità. La Nosiola è stata sempre vinificata sulle bucce in passato. La possibilità di avere delle uve “vive”, ricche di energia derivata dalla pratica della biodinamica in vigna, e la straordinaria forza energetica dell’anfora, hanno reso possibile una vinificazione “antica”. L’anfora (tinaja di Villarobledo, Spagna), con la sua forma e la porosità dell’argilla che la compone, permette una lunga permanenza del vino a contatto con le bucce: ecco che tutta l’espressione della Nosiola si rivela lentamente e con una dinamica che richiede pazienza e tempo. Va bevuta a tavola dopo una lunga aereazione e a temperatura di almeno 15 gradi. Informazioni tratte dal Sito Ufficiale dell’Azienda